Tu sei il re dei Giudei? Storia di un profeta ebreo di nome Gesù


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Tu sei il re dei Giudei? Storia di un profeta ebreo di nome Gesù

Giorgio ]ossa

Carocci editore

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Frecce

Giorgio Jossa

Tu sei il re dei Giudei? Storia di un profeta ebreo di nome Gesù

Carocci editore

@, Frecce

A Stefano, Emanuela, Roberta, Andrea e Francesca la proposta di una domanda inquietante

1' edizione, gennaio 2.014

© copyright 2.014 by Carocci editore S.p.A., Roma

Finito di stampare nel gennaio 2.014 da Eurolit, Roma ISBN 978-88-430-7107-4

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 2.2. aprile 1941, n. 6n) Siamo su Internet: http:/ /www.carocci.it

Indice

Premessa

9

Introduzione. È veramente impossibile scrivere una storia di Gesù?

13

Un Gesù storico o un Gesù fuori dal tempo?/ Le fonti e i criteri per una ricerca storica su Gesù / La cornice geografica e cronologica della vicenda di Gesù

I.

La Palestina al tempo di Gesù

37

2.

Gesù aderisce al movimento di Giovanni Battista

55

3.

Gesù annuncia la venuta imminente del regno di Dio

67

4.

Gesù compie "opere straordinarie"

83

5-

Gesù prende posizione nei confronti della legge mosaica

97

6.

Gesù manifesta la sua pretesa messianica

113

7.

Gesù assume la morte nella sua missione

12.7

8.

Gesù è condannato a morte

141

Conclusione. Un profilo storico essenziale di Gesù

159

Appendice. Sul Gesù storico di J. P. Meier

165

Note

179

Bibliografia

2.43

Indice dei nomi

2.47

Premessa

L'idea di scrivere una storia di Gesù è nata da un impulso un po' improvviso, che credo si trovi indicato chiaramente nell'introduzione che segue. Avevo finito da pochi mesi La condanna de/Messia, un lavoro nel quale avevo preso posizione su alcuni problemi storici della ricerca su Gesù, in particolare sul contesto messianico in cui si svolge la sua vicenda umana e sull'ambiente galilaico nel quale ha luogo prevalentemente la sua predicazione. Per molti decenni, in quella che era allora definita la "nuova ricerca" sul Gesù storico, l'interesse per questi problemi era quasi scomparso. Dominata dall'esigenza di evidenziare l'assoluta originalità della figura di Gesù, quella ricerca, che era condotta esclusivamente da teologi, non prestava alcuna attenzione al contesto storico della sua azione e predicazione, che veniva presentato, quando lo era, in maniera estremamente rapida, sulla base di alcuni luoghi comuni impostisi negli studi precedenti (l'attesa messianica come l'elemento centrale della fede giudaica, i farisei come il gruppo assolutamente dominante nel giudaismo del tempo, gli zeloti come il movimento unitario di liberazione dal dominio dei Romani, la Galilea come regione religiosamente poco ortodossa e politicamente sempre inquieta). La ricerca contemporanea, quella che convenzionalmente si chiama la terza ricerca sul Gesù storico, fortemente stimolata dalle nuove scoperte letterarie e archeologiche e motivata da un preciso interesse storiografico, ha ripreso invece con rinnovato vigore l'indagine su quei problemi. Ma curiosamente, salvo poche eccezioni, sia sull'esistenza di un'attesa messianica al tempo di Gesù sia sul carattere culturale e politico della Galilea, ha ripreso anche i luoghi comuni della ricerca precedente, mostrando nella maggior parte dei casi la natura superficiale e spesso anche strumentale del suo ricorso al contesto storico. La condanna del Messia era perciò interamente dedicato alla discussione di quei problemi, nell'intento di fornire una più corretta cornice storica al tentativo di ricostruire la predicazione di Gesù.

IO

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Ma, finito di scrivere quel libro, mi si è presentata quasi inevitabilmente una nuova domanda. La ricerca contemporanea, anche qui con poche eccezioni, per quanto motivata (almeno così dice) da interessi non teologici ma squisitamente storiografici, continua anche a ripetere che, se l' insegnamento di Gesù, utilizzando in particolare la cosiddetta fonte Q, è nelle sue linee essenziali ricostruibile, lo sviluppo della sua vicenda storica, nonostante il carattere apparentemente biografico del racconto di Marco che dovrebbe esserne la fonte principale, ci sfugge invece completamente. W. Wrede e K. L. Schmidt hanno dimostrato infatti che l'esposizione storica di Marco è non soltanto enormemente lacunosa, ma anche quasi del tutto artificiale. Il Gesù storico di questa ricerca non è presentato perciò quasi mai nello svolgersi concreto della sua vicenda umana e con l'intento di costruire un'immagine unitaria della sua figura, cercando di cogliere i nessi che legano i vari momenti e i vari aspetti della sua azione, ma è considerato in relazione ai singoli temi della sua predicazione: il regno, i miracoli, la legge, il tempio, senza che alcuno sviluppo possa cogliersi non solo in questa predicazione ma nella sua stessa vicenda storica, e senza che tra questi temi e quegli aspetti si riesca a individuare un nesso reale. Non è quindi veramente un Gesù storico, ma un Gesù fuori dal tempo, e infine inevitabilmente un Gesù ideologico. Lo studio del contesto storico del!' azione di Gesù e l'analisi dei dati storici dei vangeli condotti nei libri precedenti avevano maturato però in me la convinzione che la presentazione della vicenda di Gesù offerta dai vangeli, e in particolare dal Vangelo di Marco, non fosse così poco attendibile come affermava la maggior parte degli studiosi. L'impulso di cui ho parlato prima è consistito quindi nel verificare, sia pure in maniera soltanto embrionale, se almeno uno schizzo della vicenda di Gesù - un abbozzo quindi della sua storia, che indicasse i momenti, e le eventuali svolte, essenziali di questa storia e cercasse i fili che legano i vari aspetti della sua azione potesse essere tentato. E in poco più di tre mesi ne è venuto fuori il Gesu. Storia di un uomo: un piccolo libro che io stesso ritenevo tutt'altro che esauriente, e quindi chiaramente provvisorio, ma che l'editore ha ritenuto valesse comunque la pena di pubblicare. Una volta pubblicato, la buona - e almeno in parte inaspettata - accoglienza del libro, unita a questo suo carattere di evidente provvisorietà, mi ha spinto tuttavia ad approfondire il problema e a tentare di fornire una conferma più solida di quella mia convinzione. Ho ripreso quindi in maniera più completa ed esauriente tutti i principali problemi posti dalla

PREMESSA

II

nostra documentazione. Ho sottolineato con forza molto maggiore la dimensione apocalittica della predicazione di Gesù, che nel libro precedente non avevo messo sufficientemente in evidenza. Dando spazio ulteriore all'ipotesi di uno sviluppo del pensiero di Gesù, ho riconosciuto possibile che agli inizi della sua azione e predicazione l'avvento del regno di Dio per Gesù non soltanto fosse imminente, ma avesse carattere terreno, non "trascendente". E ho suggerito un'ipotesi sull'uso dell'espressione "figlio dell'uomo" da parte di Gesù che, per quanto ovviamente discutibile, mi sembra meriti di essere presa in considerazione. Ho dato inoltre più spazio (soprattutto nell'introduzione e nella conclusione) alle riflessioni di metodo sulla natura della ricerca sul Gesù storico (e sulle origini quindi del cristianesimo). E nel far questo mi sono maggiormente confrontato con le opinioni di altri studiosi, anche di discipline diverse'. Pur insistendo ancor più che nel libro precedente sulla necessità che siano soprattutto gli storici (egli storici forniti di solida preparazione antichistica) a scrivere sul Gesù storico, perché senza un'adeguata sensibilità storica la figura di Gesù non può non restare fuori dal tempo e apparire fatalmente ideologica, ho cercato infatti di dialogare più spesso anche con esegeti e teologi (soprattutto della "nuova ricerca"). Perché non credo che ci si possa accostare veramente al Gesù storico senza una altrettanto adeguata attenzione all'esegesi e alla teologia. Ma ho cercato anche di accogliere i suggerimenti più stimolanti e convincenti che vengono dagli studiosi di antropologia culturale, in quanto costituiscono il necessario correttivo a una ricerca sul Gesù storico troppo caratterizzata in senso teologico perché troppo esclusivamente focalizzata sulla sua predicazione. E in breve tempo il libro non soltanto ha raggiunto un'ampiezza due volte maggiore, ma è venuto articolandosi in una forma parzialmente diversa, che mi sembra decisamente più solida e convincente. Se la struttura del libro è rimasta infatti invariata, la presentazione della vicenda di Gesù è mutata invece in maniera così significativa da costituire sostanzialmente un altro libro. Ed è questa nuova presentazione più ampia e motivata che, con un titolo e un sottotitolo maggiormente espressivi della più forte storicizzazione del discorso, sottopongo adesso all'attenzione dei lettori 1 • Napoli, luglio

2013

Introduzione

È veramente impossibile scrivere una storia di Gesù?

Si può ricostruire la vicenda storica di Gesù di Nazaret? È possibile quindi scrivere una storia di Gesù? Non una vita di Gesù, che anche A. Harnack, il più grande esponente della teologia liberale del XIX secolo, riteneva impossibile (Vita Christi scribi nequit), per l'evidente mancanza, sottolineata già prima di lui da M. Kahler' e ribadita con più forza in seguito da R. Bultmann', di fonti di carattere realmente biografico (i vangeli hanno natura dogmatica, non storica); ma una storia, e più esattamente anzi un rapido schizzo storico, sul tipo di quello famoso che fece a suo tempo H. J. Holtzmann', della sua breve vicenda pubblica (nascita e infanzia sono infatti escluse da questo schizzo) nei suoi sviluppi essenziali? In genere anche questo viene ritenuto impossibile dagli studiosi, per una ragione molto semplice e apparentemente indiscutibile: la povertà estrema, e più ancora la natura particolare, delle nostre fonti al riguardo. È vero infatti che conosciamo abbastanza bene le condizioni politiche e religiose della Palestina al tempo di Gesù. Alle opere dello storico ebreo Flavio Giuseppe, che restano il documento essenziale per la conoscenza del periodo, si sono aggiunti nel secolo scorso i manoscritti di Qumran, che hanno consentito di ridurre notevolmente la povertà di fonti della storia di Israele per il tempo cosiddetto intertestamentario. E la valorizzazione degli apocrifi dell'Antico Testamento, fino ad alcuni decenni fa assai poco utilizzati a tal fine dagli studiosi, ha contribuito ad accrescere ulteriormente questa conoscenza, che le notevoli scoperte archeologiche dell'ultimo secolo, a Gerusalemme come in Galilea, hanno reso ancora più ricca. Ma sono le fonti su Gesù, tutte di carattere letterario e tutte in sostanza di provenienza cristiana (quelle giudaiche e pagane, e cioè in particolare Flavio Giuseppe 4 e Cornelio Tacito\ non offrono quasi nessuna notizia utile), che creano problemi. La tradizione evangelica canonica, non soltanto quella tutta particolare di Giovanni, ma anche quella sinottica di

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Marco, Luca e Matteo, convinta della natura divina, non condizionata quindi dalle circostanze storiche, di Gesù e determinata da interessi teologici, non storici, né tanto meno biografici, se riporta con sostanziale fedeltà (soprattutto attraverso la cosiddetta fonte Q) l'insegnamento di Gesù, non consente invece di disegnare le coordinate temporali e spaziali necessarie per fare della vicenda di Gesù una esposizione storica. W. Wrede e K. L. Schmidt hanno distrutto per sempre questa possibilità, che la scuola di storia della redazione di H. Conzelmann e W. Marxsen, rivalutando il ruolo di autori, e non soltanto di redattori, degli evangelisti, e il carattere quindi schiettamente letterario della loro opera, avrebbe escluso addirittura per principio. Wrede ha mostrato che per gli elementi essenziali della sua esposizione il racconto di Marco, su cui si basavano le ricostruzioni di Holtzmann e dei teologi liberali del XIX secolo, non poggia su una effettiva conoscenza della vicenda storica di Gesù da parte dell'evangelista, ma ha carattere squisitamente dogmatico 6 • Schmidt ha aggiunto che la cornice cronologica e geografica del suo racconto è quasi sempre puramente artificiale. Solo per gli ultimi giorni a Gerusalemme si può tentare sulla base di Marco e degli altri vangeli canonici un minimo di ricostruzione storica7• E scrivendo dal punto di vista di una storia della redazione, Marxsen è arrivato ad affermare che nel Vangelo di Marco anche i dati geografici hanno soltanto un significato teologico. Marco scrive sì un "vangelo galilaico", ma la Galilea ha in lui una funzione non storica, bensì anzitutto teologica 8• Gli avversari di Gesù, farisei, scribi e sommi sacerdoti, che costituiscono il contesto storico più immediato della sua azione e predicazione, e dovrebbero fornire quindi l'aiuto principale per la comprensione della sua vicenda, sono presentati in particolare nei vangeli canonici in maniera così negativa da apparire a volte quasi caricaturale. Sono tipi letterari, che incarnano una precisa verità teologica, ma è semplicemente impensabile che la loro immagine corrisponda alla realtà storica. E i vangeli apocrifi (quelli di Tommaso e di Pietro soprattutto, che possediamo il primo per intero, il secondo in maniera consistente, ma anche i pochi passi trasmessi dai padri della chiesa e i rari frammenti di papiro superstiti dei vangeli cosiddetti giudeocristiani, degli ebioniti, dei Nazareni e degli Ebrei) non offrono quasi nessuna notizia utile per una ricostruzione storica. Benché alcuni studiosi ritengano di poter ritrovare in questi vangeli tradizioni e informazioni storicamente attendibili, la maggior parte è convinta che ci sia ben poco in essi da utilizzare a questo scopo. La figura di Gesù è dunque una figura senza tempo. E la ricerca sul Gesù

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storico, anche l'attuale cosiddetta "terza ricerca" che si presenta come squisitamente storica, non teologica, non ritiene infatti quasi mai di poter fare la storia di Gesù. Con l'eccezione di pochi autori di provenienza nordamericana, che ancora ritengono di poter parlare di una vita di Gesù (J. D. Crossan, M. J. Borg, P. Fredriksen), questa ricerca si limita a presentare i vari aspetti della sua personalità (così fanno per esempio G. Theissen e G. Barbaglio: il Gesù carismatico, il Gesù profeta, il Gesù guaritore, il Gesù poeta, il Gesù maestro, il Gesù fondatore di un culto, il Gesù martire) o le sue prese di posizione nei confronti dei diversi elementi della religiosità del tempo (così fanno per esempio E. P. Sanders e J. P. Meier: Gesù e il regno, Gesù e i miracoli, Gesù e la legge, Gesù e il tempio), senza alcuna preoccupazione di inserire quegli aspetti e queste prese di posizione nello sviluppo storico della sua azione e predicazione (e rinunciando quindi anche a darne una interpretazione non frammentaria, ma unitaria, che leghi i vari aspetti e le diverse prese di posizione tra loro )9 • J. P. Meier e J. D. G. Dunn si preoccupano anzi di escludere esplicitamente questa possibilità' 0 • Anche a voler accogliere l'ipotesi delle due fonti (il Vangelo di Marco e la fonte dei detti Q) per la soluzione della questione sinottica o a voler attribuire valore storico ad alcuni vangeli apocrifi (soprattutto il Vangelo di Tommaso), come è oggi opinione prevalente tra gli studiosi, o a voler riconoscere maggiore attendibilità storica alla memoria collettiva dei discepoli, come suggeriscono lo stesso Dunn e R. Bauckham, i testi in nostro possesso si presentano con una dimensione narrativa così povera e frammentaria e con un carattere teologico così evidente che sembra proprio impossibile, anche partendo da quelle fonti, e anche soltanto nei suoi sviluppi essenziali, scrivere una storia di Gesù.

Un Gesù storico o un Gesù fuori dal tempo? Ma una domanda sembra imporsi in maniera abbastanza naturale, almeno a chi sia storico, e non esegeta e teologo, di professione: la giusta diffidenza nei confronti delle operazioni esegetiche delle Vite di Gesu della teologia liberale del XIX secolo ( tutte fondate sul Vangelo di Marco) impedisce veramente qualunque tentativo di ricostruire la storia di Gesù? O accanto alla giusta consapevolezza delle difficoltà poste dai testi (anche Marco e Q) a un tentativo del genere non c'è paradossalmente in questa posizione (paradossalmente, data l'impostazione volutamente storiografica, non

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teologica, della ricerca attuale) un'ultima resistenza a inserire totalmente Gesù nella storia, e un residuo quindi inconsapevole di impostazione dogmatica? Non si rischia infatti in questo modo di continuare a dare l'impressione che Gesù sia un personaggio al di fuori, e al di sopra, del tempo, come volevano in fondo i due grandi storici della teologia liberale J. Wellhausen e A. Harnack e come hanno sostanzialmente ripetuto tutti i migliori studiosi della cosiddetta nuova, o seconda, ricerca?" Non si mostra insomma una sostanziale carenza di senso storico? E non si fa ancora una volta un discorso di carattere teologico? Di nessun altro personaggio storico (e Gesù fìno a prova contraria lo è) si rinuncerebbe in effetti apriori a ripercorrere la storia' E ci sono in realtà vari motivi per tentare di farlo. Anzitutto perché, nonostante la mancanza di ordine del racconto di Marco che già nell'antichità fu rilevata dal vescovo di Gerapoli Papia'i, ci sono nel suo vangelo dei punti di svolta così evidenti e significativi (il distacco di Gesù da Giovanni Battista, la scelta della Galilea per la predicazione, il successo dei miracoli e i contrasti con i farisei, la decisione di salire a Gerusalemme, l'accenno alla eventualità della morte, il riferimento alla venuta del Figlio dell'uomo, il processo e la condanna a morte) che è impossibile per lo storico non chiedersi se essi siano stati semplicemente costruiti dal loro autore o abbiano invece un reale fondamento nella vicenda stessa di Gesù così come l'aveva conservata e trasmessa la memoria della comunità (non dimentichiamo che, se si ammette, come io credo si debba fare, l'esistenza, dietro il testo di Marco, da 14,1 a 16,8, di un racconto più antico della passione, un primo abbozzo di storia di quella vicenda Marco lo aveva già dinanzi a sé; e può aver costituito il nucleo iniziale dal quale egli è partito per il suo racconto). E poi perché la mancanza di ordine del vangelo (come anche, ma con maggiore difficoltà, quella di Q) può essere in alcuni casi (quello stesso, vedremo, del Figlio dell'uomo) spiegata, e quindi anche corretta, dallo studioso' 4 • Sappiamo infatti dalla scuola di storia delle forme di K. L. Schmidt, M. Oibelius e R. Bultmann (che non è affatto così "naufragata" come da troppe parti oggi si sostiene!) che molti detti di Gesù (per esempio Mc. 2,27 e 7,15) sono stati trasmessi inizialmente da soli e vanno quindi interpretati indipendentemente dal loro contesto attuale; come sappiamo che quando ha scritto il suo vangelo Marco aveva già davanti a sé tutta una serie di fonti e tradizioni: non solo, come ho detto, un breve racconto della passione, ma anche probabilmente alcune raccolte di controversie e un libretto di miracoli. E queste fonti e tradizioni (per esempio Mc. 2,1-3,6) 2



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possono aver condizionato Marco con il loro carattere e le loro formulazioni e possono soprattutto avergli impedito di mantenere coerentemente l'ordine storico originario che lo studioso può tentare invece di ricostruire. Ma soprattutto: non è questo orientamento prevalente degli studi contemporanei in contraddizione con le premesse metodologiche dell' attuale ricerca storica su Gesù, tutta protesa a ricostruire la figura del Gesù ebreo, pienamente inserito nel contesto giudaico dell'epoca? Quando gli autori di quelle che si è convenuto di chiamare un po' frettolosamente la prima e la seconda ricerca sul Gesù storico (come ci ricorda insistentemaite M. Pesce, ricerche sul Gesù storico esistevano già prima di H. S. Reimarus) sottolineavano lo scarso legame, o addirittura il radicale contrasto, di Gesù con la tradizione giudaica, questa non era infatti se non l'inevitabile conseguenza dei loro presupposti metodologici. Quando per esempio Wellhausen e Harnack, dopo aver riconosciuto, da grandi storici quali erano, il legame della predicazione di Gesù con quella tradizione, aggiungevano contraddittoriamente che a uno sguardo più attento quel legame appariva però insignificante (per Wellhausen, come è noto, «Gesù non era un cristiano ma un giudeo». E tuttavia egli fu «un miracolo divino nel suo tempo e nel suo ambiente» e «si può ritenere il non giudaico, l'umano, più caratteristico in lui del giudaico»' 1; per Harnack è ovvio che «non si può comprendere la predicazione di Gesù[ ... ] se non la si considera nell'insieme delle dottrine giudaiche del suo tempo». E tuttavia «la predicazione di Gesù ci porterà subito, in pochi ampi passaggi, ad un'altezza da cui la sua connessione con il giudaismo appare ormai trascurabile, e dove la più parte dei fili che lo legano alla "storia del suo tempo" divengono privi di importanza»' 6 ), la contraddizione era facilmente spiegabile. Nasceva dall'esigenza teologica di quegli autori, in evidente contrasto con la loro sensibilità storica, di attribuire a Gesù una totale originalità nei confronti di un giudaismo ritenuto ormai privo di qualunque forza creativa. Una originalità che doveva essere cercata in ciò che la predicazione di Gesù aveva di "eternamente valido", e cioè negli aspetti morali, "umani" del suo insegnamento, non in ciò che appariva "storicamente condizionato", e cioè nei riferimenti dogmatici al giudaismo del tempo (il messianismo e l'escatologia)' 7• E quando gli studiosi di scuola bulcmanniana, cucci esegeti e teologi, non storici, affermavano che il Gesù più autentico era quello che si allontanava e si contrapponeva al giudaismo del tempo, e che per riconoscerlo bisognava perciò nell'esame delle fonti fare affidamento soprattutto sul

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criterio cosiddetto di dissomiglianza (o di discontinuità), che ammette l'autenticità dei detti di Gesù solo se privi di qualunque parallelo nel giudaismo del tempo, anche questo nasceva soltanto dalla esigenza teologica di affermare con ancora più forza l'originalità di Gesù, che li portava a dare del giudaismo una valutazione interamente negativa e a servirsi della scoria solo per confermare questa convinzione. La predicazione di Gesù, interamente fondata sull'idea della misericordia puramente gratuita di Dio nei confronti dell'uomo, era per loro la più netta antitesi della pretesa giudaica (farisaica) di affermazione di sé implicita nel valore salvifico attribuito alla osservanza della legge. E dunque è già con Gesù che nasce quella nuova forma religiosa che sarebbe diventato il cristianesimo. O, detto diversamente - e come avrebbe intitolato pochi anni più tardi un suo piccolo e fortunato libro il grande esegeta inglese C. H. Dodd - è senza alcun dubbio Gesù il fondatore del cristianesimo'H. Ma se Gesù è un giudeo, e non può essere realmente compreso se non all'interno della tradizione giudaica, come giustamente afferma la ricerca attuale, allora i rapporti che ha avuto con gli ambienti giudaici del tempo e gli eventi stessi da cui è segnata la sua vicenda non possono non avere esercitato una diretta, e decisiva, influenza su di lui. Il Gesù che inizia la sua attività pubblica come discepolo e collaboratore del movimento penitenziale di Giovanni Battista nel deserto meridionale della Giudea non può essere semplicemente lo stesso Gesù che più tardi annuncia ai pescatori e ai contadini della Galilea la venuta imminente del regno di Dio. Il successo straordinario delle guarigioni dei malati e degli esorcismi dei demoni, in cui a Gesù appariva sconfitto il potere di Satana, non può d'altra parte non averlo fatto riflettere ulteriormente sul senso della sua missione e sul ruolo stesso della sua persona. E se Gesù è rimasto fino all'ultimo un giudeo praticante, che frequentava la sinagoga e il tempio, la critica degli scribi e dei farisei per quello che ad essi appariva un suo comportamento poco rigoroso nei confronti della osservanza della legge mosaica non può non averlo spinto a chiarire il suo pensiero sul valore della legge. Così come l'ostilità crescente delle autorità giudaiche di Gerusalemme nei suoi confronti non può non averlo spinto a prese di posizione diverse e assai più dure di quel che aveva fatto in Galilea; e non può non averlo messo di fronte al problema della inevitabilità di una morte violenta e della necessità quindi di dare una spiegazione a questa morte ali' interno della sua missione. So bene che questo è un modo oggi abbastanza inusuale di presentare la vicenda di Gesù; e può apparire come una semplice ripresa di quel

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"movimento della vita di Gesù" (come lo chiamava Kahler) del XIX secolo che fu già inesorabilmente stroncato da A. Schweitzer. Non sono molti, a dire il vero, gli studiosi che approverebbero la "svolta" di K. Berger che riprendendo sostanzialmente le affermazioni citate sopra di M. Kahler e di R. Bultmann (ma oggi piuttosto diJ. Ratzinger' 9 ) sulla impossibilità di raggiungere la figura storica di Gesù al di là dei vangeli canonici, e quindi sull'arbitrarietà di ogni tentativo del genere - propone nuovamente di rinunciare alle sottigliezze della ricerca storico-critica sulla figura di Gesù per accogliere come storicamente autentiche soltanto le interpretazioni che ne .hanno dato i vangeli 2°. Come non sono molti, credo, a condividere la posizione di J. D. G. Dunn che, convinto che la fede dei discepoli non nacque soltanto dopo la pasqua ma esisteva già prima della morte di Gesù, e che solo attraverso questa fede dei discepoli si possa veramente risalire a Gesù, ritiene che non ci sia alcun Gesù storico dietro il Cristo dei vangeli; perché non c'è nessun Gesù che non sia anche un Cristo della fede2'. Ben pochi però ammetterebbero la possibilità di schizzare addirittura una storia di Gesù che cerchi di fornire una immagine complessiva convincente della sua vicenda. E tuttavia, se la ricerca del Gesù storico è riconosciuta come legittima e non del tutto arbitraria, una più decisa storicizzazione della figura di Gesù, che senza confondere impropriamente storia, teologia e letteratura (presentando magari come storica una indagine che resta invece teologica e letteraria) cerchi di ricostruirne la vicenda storica, si impone; e non si può impedire allo storico di cercare di comprendere in questo modo quella vicenda,,. La sua ricostruzione appare anzi oggi allo storico uno dei compiti essenziali, e più urgenti, della ricerca ai fini di una migliore comprensione non soltanto della figura di Gesù, ma anche delle origini cristiane, e del problema quindi oggi veramente decisivo, sul piano storico come sul piano teologico, della nascita del cristianesimo e della sua fedeltà a colui che esso ritiene il suo fondatore. Come è avvenuto che Gesù da "ebreo" sia diventato "cristiano" può dirlo infatti nel modo migliore proprio la sua vicenda storica. Non sono cioè soltanto, o tanto, le prese di posizione complessive di Gesù (spesso nei vangeli canonici non univoche, anzi apparentemente contraddittorie) nei confronti dei diversi aspetti della spiritualità giudaica (l'attesa del regno, l'osservanza della legge, il culto del tempio), ma è proprio il concreto svolgimento della sua vicenda storica con i suoi rilevanti sviluppi e cambiamenti che appare particolarmente significativo per quella comprensione. I vangeli canonici, anche se non possono essere considerati biografie in

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senso stretto, perché poco attenti agli elementi propriamente storici 1 ' , ma sono senza dubbio opere schiettamente teologiche, i cui racconti devono essere letti in maniera radicalmente diversa dai racconti storici 4, non sono del resto del tutto privi di interesse per l'aspetto strettamente biografico della storia di Gesù 11 • E nonostante Wrede, Schmidt e Marxsen, il più antico di questi vangeli, il Vangelo di Marco, non sembra avere un carattere dogmatico (e letterario) così accentuato come quelli successivi di Luca (che contiene comunque anch'esso indicazioni storiche di un certo valore), e soprattutto di Matteo e di Giovanni (che pure fornisce alcune informazioni storiche preziose). In maniera opportuna si è ricordato recentemente che i dati storici fondamentali di questo Vangelo di Marco sono riconosciuti attendibili da tutti gli studiosi e costituiscono infatti la base per ogni presentazione della figura di Gesù 16 • Forse è ancora possibile allora formulare qualche ipotesi sullo sviluppo della vicenda di Gesù che non appaia manifestamente infondata 1 7• 1

Le fonti e i criteri per una ricerca storica su Gesù Tutto, o quasi, dipende dalla valutazione che diamo del Vangelo di Marco come esposizione storica della vicenda di Gesù. La fonte Q che con grandissima probabilità si ipotizza dietro i vangeli di Luca e di Matteo, e di Gesù può essere considerata «il testimone più antico» (J. M. Robinson), se ci tramanda il più ampio e attendibile materiale sulla predicazione di Gesù 1 \ non offre infatti, come è noto, nessuna ricostruzione della sua vicenda storica; e ancora meno lo fa il Vangelo di Tommaso. E i vangeli di Luca e di Giovanni contengono sì riflessioni e informazioni preziose, ma non consentono una ricomposizione del quadro storico generale; anche le correzioni che Luca apporta a Marco, alle quali vari studiosi attribuiscono notevole valore storico, dipendono in realtà più spesso da una sua idea della verosimiglianza storica che non da informazioni particolari che egli possiederebbe. Riconosciuto il Vangelo di Marco come quello più antico, che per primo, intorno all'anno 70 (circa quarant'anni dopo la morte di Gesù), ha tentato una ricostruzione storica della vicenda di Gesù che è servita da modello agli altri due sinottici Luca e Matteo, è ad esso che ci si deve necessariamente rivolgere per quella ricostruzione. Era questa ovviamente l'opinione di Holtzmann: è dalla esatta valutazione del Vangelo

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di Marco che «dipende tutto il resto» 19 • Ma anche Wrede era di questo parere: « Se questa tesi [che Marco è alla base degli altri due sinottici] è corretta, e se il quarto vangelo deve restare fuori discussione in quanto esposizione decisamente tardiva, ricade quasi esclusivamente su Marco l'intero peso della responsabilità per tutti i problemi attinenti al vero e proprio racconto su Gesù, in particolare allo svolgimento e all'evoluzione della sua vita» 10• Come va valutata dunque l'attendibilità storica del Vangelo di Marco? Wrede affermava che «gli studi odierni sui vangeli partono quasi tutti dal presupposto che Marco, nello stendere il suo racconto storico, abbia avuto presenti in maniera approssimativamente chiara, anche se non senza lacune, le situazioni reali della vita di Gesù»; ma «quest'ottica e questo procedimento devono essere considerati in linea di principio sbagliati. Bisogna dire apertamente: Marco non ha piu alcuna visione reale della vita storica di Gesu» 1'. In lui la trama dell'esposizione, così com'è, nasce solo quando alle poche indicazioni storiche di carattere generale si aggiungono i più forti elementi di carattere dogmatico 11 • E Wrede concludeva: «Sono questi elementi, e non quelli storici in se stessi, quelli effettivamente dominanti e determinanti, all'interno della narrazione di Marco. Sono essi a conferirgli la sua fisionomia caratteristica. Su di essi si incentra naturalmente l' interesse, ad essi si orienta il pensiero dello scrittore. Perciò resta assodato che in quanto esposizione d'assieme il vangelo non offre più alcuna prospettiva storica sulla vita reale di Gesù. Soltanto residui sbiaditi ne sopravvivono assorbiti in una concezione di fede sovrastorica. In questo senso il Vangelo di Marco appartiene alla storia del dogma» n. È veramente così? È veramente il Vangelo di Marco, come i racconti biblici in genere, una fonte così diversa da tutte le altre fonti storiche in nostro possesso da non poter essere presa in nessun modo in considerazione per una ricostruzione della vicenda di Gesù? O, nonostante il fondamento che queste osservazioni indubbiamente hanno (e che le successive scuole della storia delle forme e soprattutto della storia della redazione avrebbero ampiamente confermato), dal testo di Marco (e con l'aiuto comunque degli altri testi, la fonte Q e i vangeli di Luca e di Giovanni in particolare) è ancora possibile ricavare informazioni attendibili su quelli che sono stati il carattere, lo svolgimento e l'evoluzione della vicenda storica di Gesù? Una reazione molto forte alle opinioni di Wrede e della storia della redazione c'è già stata in effetti negli anni settanta del secolo scorso. E a rap-

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presentarla nel modo migliore è probabilmente (con J. Roloff) R. Pesch. Nel suo grande commentario al Vangelo di Marco scriveva infatti l'autore: Negli studi sulla storia della redazione condotti negli ultimi venti anni si è notevolmente sopravvalutato il lavoro letterario compiuto dall'evangelista Marco, e si è corrispondentemente sottovalutato il suo legame con la preesistente tradizione di Gesù. Diversamente da Matteo e Luca, che poterono partire dalla composizione globale di Marco e rielaborarla con intenti letterari, l'opera di Marco si basa sulla tradizione orale o sulla sua trascrizione in testi singoli e raccolte non letterarie e su complessi letterari, come la storia della passione,._

Sul carattere letterario (e teologico), e quindi anche sul valore storico, del Vangelo di Marco concludeva perciò Pesch con questo giudizio: Il profilo letterario di Marco nel suo genere «non letterario" (come il suo valore teologico) si mostra soprattutto nella disposizione del materiale in forma di "rappresentazione storica~ predeterminata in parte dalla tradizione dei racconti di Gesù, in particolare dalla storia premarciana della passione e dalle raccolte premarciane [... ]. e perciò praticamente obbligata, ma che riceve anche un'impronta specifica dall'ordinamento teologico-tematico ali' interno del grande quadro dell'azione svolta da Gesù dalla sua comparsa alla sua morte".

È un giudizio ben diverso da quello di Wrede e degli storici della redazione, che portava il suo autore a definire l'evangelista un «redattore conservatore» e che - liberato dall'ipotesi stravagante di una storia premarciana della passione scritta già negli anni 30 e che sarebbe andata addirittura per Pesch dalla confessione di Pietro fino alla fine del vangelo, quindi da 8,27 a 16,8 - probabilmente appare oggi meno urtante di quanto fosse allora. Si può anzi dire che nella valutazione dell'attendibilità storica del Vangelo di Marco per quanto riguarda la vicenda di Gesù oggi in fondo si è più vicini a Pesch che non a Wrede e agli storici della redazione. Sugli aspetti essenziali di questa vicenda c'è infatti, come ho detto, un accordo sostanziale tra gli studiosi. Nessuno dubita seriamente che Gesù sia stato battezzato da Giovanni nel fiume Giordano, abbia annunciato in Galilea la venuta imminente del regno di Dio, abbia frequentato soprattutto ambienti marginali della società giudaica del tempo, abbia compiuto guarigioni ed esorcismi numerosi, abbia discusso l'interpretazione della legge mosaica, sia venuto a Gerusalemme in occasione di una pasqua, abbia compiuto un gesto provocatorio nel tempio, abbia consumato un'ul-

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cima cena con i discepoli e sia stato condannato a morte da Ponzio Pilato. Può variare, e varia ampiamente, l'interpretazione di questi avvenimenti. Ma sulla loro sostanziale attendibilità ci sono pochi dubbi. Lo stesso Wrede, che assumo qui come esempio di una lettura particolarmente acuta e critica del Vangelo di Marco, non aveva del resto difficoltà ad ammetterlo: Gesù si è presentato in pubblico in qualità di maestro, anzitutto e principalmente in Galilea. Egli è circondato da un gruppo di discepoli, si sposta con loro e li istruisce. Tra di essi alcuni sono particolarmente fidati. A volce si unisce ai discepoli una folla più numerosa. Gesù parla volentieri in parabole. All'insegnamento si affianca l'attività taumaturgica. Questa fa scalpore ed egli viene assalito dalla gente. In particolare, ha a che fare con persone possedute dal demonio. Nei suoi incontri con il popolo non disdegna di entrare in contatto con pubblicani e peccatori. Nei confronti della legge assume un atteggiamento più libero. Si imbatte nell'ostilità dei farisei e dell'autorità giudaica, che lo spiano e cercano di coglierlo in fallo. Finalmente ci riescono, dopo che egli ha raggiunto non solo il territorio della Giudea ma la stessa Gerusalemme. Affronta la passione e viene condannato a morte, con la complicità dell'autorità romana 16 •

Questi avvenimenti erano, evidentemente, il patrimonio comune della memoria storica dei discepoli, che Marco aveva ricevuto dalla tradizione precedente. Per questo, senza che ciò significhi naturalmente la certezza della loro attendibilità storica, e ancor meno un'adesione ingenua alla loro interpretazione tradizionale, ma del tutto consapevole del carattere provocatorio dell'iniziativa, ho ritenuto di poter indicare già nei titoli dei vari capitoli i passi del Vangelo di Marco che ricordano nella maniera più incisiva quegli aspetti e quegli avvenimenti. Contro ogni forma di scetticismo radicale, su di essi si può fare a mio parere un sostanziale affidamento 37• Il problema più delicato è tuttavia se questi avvenimenti possano essere ordinati e spiegati in modo tale da trovare un filo storico che in qualche modo li leghi più strettamente l'uno all'altro, nel tentativo di stendere un abbozzo (perché solo di un abbozzo ovviamente può trattarsi) di vicenda storica. Qui vi sono infatti due problemi che vanno tenuti accuratamente distinti. Il primo è se il Vangelo di Marco, riconosciuto ormai - sotto la spinta appunto della scuola di storia della redazione di H. Conzelmann e W. Marxsen e contro la scuola di storia delle forme di K. L. Schmidt, M. Dibelius e R. Bultmann (e dello stesso Pesch) - come un'opera non soltanto dogmatica ma letteraria, scritta quindi con consapevoli, evidenti, intenti letterari, riveli una precisa struttura compositiva; se questa struttura

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sia grosso modo quella individuata dalla teologia liberale di uno svolgersi del racconto con una progressiva esplicitazione del carattere messianico di Gesù (ricordiamo infatti che secondo Holtzmann «lo stesso ritmo con cui procede la parte esteriore della narrazione guida anche l' interiore evoluzione e il progressivo manifestarsi dell'idea messianica» i8); e se soprattutto questa struttura del racconto corrisponda in maniera sostanzialmente fedele, come pensavano i teologi liberali, alla vicenda storica di Gesù. Wrede ha contestato radicalmente, e con molto fondamento, questa impostazione, sia per le contraddizioni che riteneva di cogliere nel racconto di Marco (ma Wrede non conosceva ancora la storia delle forme e non teneva conto della dipendenza di Marco da fonti, due elementi che avrebbero potuto aiutarlo a riconoscere la struttura del Vangelo di Marco), sia soprattutto per il passaggio metodologicamente scorretto dall'esposizione narrativa di Marco al corso storico degli avvenimenti (la mancata attenzione, oggi invece assolutamente dominante, al momento squisitamente redazionale, e quindi letterario, del lavoro di Marco). E oggi, se alcuni ancora condividono questa impostazione, molti altri la contestano. Ma, riconosciuto come dato indiscutibile che Marco ha non soltanto un carattere teologicoi 9 , ma anche un carattere letterario, c'è un secondo, e diverso, problema, che per il mio scopo è più rilevante di questo: che Marco presenti oppure no questo tipo particolare di struttura compositiva (e io credo che il suo vangelo indubbiamente la presenti), e che questa eventuale struttura corrisponda oppure no allo sviluppo reale degli eventi (e questo è già un punto molto più discutibile), è possibile dal suo racconto ricostruire una sequenza credibile di avvenimenti e un'evoluzione attendibile quindi della vicenda di Gesù, tali da fornircene un quadro complessivo? Non si tratta cioè di chiedersi se l'eventuale struttura del Vangelo di Marco rispecchi fedelmente lo sviluppo degli eventi; se sia legittimo quindi passare immediatamente, come faceva Holtzmann, dal racconto di Marco alla successione degli avvenimenti. È evidente, infatti, che Marco non soltanto ha fatto una sua scelta degli episodi da raccontare ma ha anche dato una sua interpretazione, e un suo ordine, a quegli avvenimenti. Si tratta invece di chiedersi se, riconosciuto che Marco ha intenti teologici e letterari, e quale che sia la precisa struttura compositiva del vangelo (e con l'ausilio ovviamente delle altre fonti), è possibile tracciare in maniera attendibile una successione di eventi, e una evoluzione quindi della vicenda di Gesù, che consentano di ricostruirne, almeno negli elementi essenziali, il quadro complessivo. Una evoluzione che potrebbe anche aiutare a com-

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prendere meglio ceree contraddizioni della tradizione evangelica, e di ogni singolo autore, su Gesù e il suo insegnamento (sul carattere per esempio del regno di Dio: futuro o presence, imminente o lontano, terreno o celeste?) che oggi si spiegano soltanto o con la incomprensione dei discepoli, legati, si dice, a una concezione tutta materiale delle promesse di Dio al suo popolo, o con l'attività redazionale, e con la diversa interpretazione quindi della tradizione, da parte degli evangelisti; e a collocare e valutare eventualmente in maniera diversa ( ma non con l'arbitrio con cui lo faceva nella sua famosa Vita di Gesu O. Holczmann all'inizio del secolo scorso!) episodi della vita di Gesù, come il battesimo nel Giordano da parte di Giovanni, gli annunci del!' imminenza dell'avvento del regno, la promessa della partecipazione dei discepoli al giudizio su Israele e i riferimenti alla venuta futura del Figlio dell'uomo, che solo per i suoi scopi kerygmatici e la dipendenza da fonti precedenti la tradizione evangelica non solcanco ha interpretato in chiave esplicitamente messianica e trascendente, ma ha anche collocato in un determinato contesto cronologico e geografico. Ed è questo precisamente che io vorrei fare in questo saggio, ben consapevole naturalmente che ciò che lo storico può fare è soltanto formulare una ragionevole ipotesi. Ma su quali basi formulare questa ipotesi? Ci sono qui due elementi sui quali è assolutamente necessario prendere subito posizione. Il primo elemento è costituito dai criteri di autenticità che vengono adoperati nella ricerca su Gesù. In base a quali criteri possiamo affermare che determinaci elementi del racconto di Marco e di Q sono storici e non (solcanco) letterari e dogmatici? E in base a quali criteri (che non siano quelli psicologici così spesso adoperati dai teologi liberali e così duramente contestati da Wrede) possiamo completare (ed eventualmente correggere) il loro racconto? Un rapido sguardo alle finalità e ai presupposti metodologici dei ere momenti più caratterizzanti della ricerca storica su Gesù (convenzionalmente, anche se in maniera del tutto imprecisa, indicati come prima, nuova e terza ricerca) è in proposito estremamente istruttivo. E mostra chiaramente l'insufficienza dei criteri da ognuno di essi preferibilmente adoperaci. La prima ricerca (storico-critica) sulla vita di Gesù, quella della cosiddetta scuola liberale del XIX secolo, aveva un intento preciso: mettere da parte il Gesù del dogma e della predicazione ecclesiastica per raggiungere la figura reale, autentica, del Gesù storico. Nessuno lo ha detto con maggiore chiarezza di H. J. Holczmann.

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Si tratta semplicemente di chiederci se sia ancora possibile tracciare la figura storica di colui al quale il cristianesimo non solo fa risalire il suo nome e la sua esistenza, ma della cui persona ha fatto alcresì il centro della sua peculiare concezione religiosa, e se sia possibile ottenere ciò in un modo che risponda sufficientemente alle esigenze della più progredita scienza storico-critica; inolcre, se sia possibile ricavare, con l'impiego del solo legittimo mezzo di una consapevole critica storica, ciò che questo fondatore della nostra religione fu realmente, ossia l'immagine autentica e fedele della sua essenza; oppure se dobbiamo una volca per tutte rinunziare al raggiungimento di un tale traguardo• 0



Il presupposto della ricerca liberale su Gesù era infatti la contrapposizione dello storico (definito "reale", "autentico") al dogmatico, artificiosamente costruito dalla tradizione. Il criterio fondamentale da seguire per recuperare la figura storica di Gesù era perciò molto semplice: tutto ciò che nei vangeli canonici appariva espressione di una concezione dogmatica non poteva appartenere ali' autentica realtà storica di Gesù ma era frutto della riflessione dell'evangelista. E andava di conseguenza eliminato. Ma è un presupposto del tutto infondato, che nasceva esclusivamente dal desiderio degli storici liberali di dar vita a una figura di Gesù che non fosse quella dogmatica della predicazione ecclesiastica, ma si adattasse invece alla sensibilità religiosa contemporanea. E il presupposto conduceva inevitabilmente a conclusioni inaccettabili. Poiché infatti quella sensibilità, ispirata prevalentemente da Goethe e Kant, si orientava a una forma di religione puramente etica, in base a questo presupposto gli aspetti profetico-escatologici della predicazione di Gesù, considerati dogmatici, venivano eliminati o radicalmente reinterpretati. "Eternamente valido", perché semplicemente umano, era infatti il suo insegnamento morale, non la sua predicazione escatologica, "storicamente condizionata" dal giudaismo contemporaneo. Ricordiamo nuovamente Wellhausen e Harnack: Gesù «non ha nulla in realtà di un entusiasta estatico, e neppure di un profeta» 4 '; egli «non parlò mai in atteggiamento estatico, e il tono eccitato, profetico, si trova raramente in lui» 41 • Gesù è stato invece un grande maestro di sapienza, che ha insegnato la più alta moralità. L'uso da parte di Gesù delle categorie giudaiche di Messia, Figlio dell'uomo e Figlio di Dio non ha perciò valore dogmatico ed escatologico, ma ha il solo scopo di indicare il rapporto del tutto particolare che egli ha col Padre. Ma storico e dogmatico, etico ed escatologico, sono veramente così incompatibili nella figura di Gesù? E una figura di Gesù privata di ogni

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elemento dogmatico ed escatologico corrisponde veramente alla realtà storica? O la predicazione di Gesù, come avrebbe affermato di lì a poco con la massima forza A. Schweitzer contro la teologia liberale, conteneva fin dal principio elementi dogmatici ed escatologici? Ciò che nei vangeli è dogmatico deve necessariamente non essere storico, come sosteneva Wrede a proposito in particolare del cosiddetto segreto messianico? O dietro un'affermazione dogmatica può esserci anche un fatto storico, come sembra appunto il caso del segreto messianico di Marco? La "nuova ricerca" sul Gesù storico, quella sostanzialmente della scuola di R. Bultmann, aveva un intento ancora più esplicito di quello della scuola liberale. Costituita, a differenza di quella, interamente da teologi, non da storici, voleva soprattutto valorizzare la grandezza e l'originalità, il carattere unico, della predicazione di Gesù. Offriva perciò un quadro assolutamente negativo della spiritualità giudaica al tempo di Gesù. Tale spiritualità si identificava sostanzialmente per la nuova ricerca con l'orientamento farisaico. E l'orientamento farisaico consisteva essenzialmente in una riaffermazione rigorosa e formale del valore della legge, mediante il cui adempimento l'uomo si assicurava, con le sue sole forze, la salvezza. Di fronte a questa presunzione umana, che asserviva di fatto l'uomo alle norme della legge, Gesù avrebbe affermato invece la gratuità assoluta, e interamente liberante, della salvezza, intesa come dono di Dio all'uomo indipendentemente dalla osservanza della legge 4 l. Di conseguenza tutto ciò che nella predicazione di Gesù appariva in contrasto con la spiritualità farisaica, così come appunto si credeva che essa fosse (e con gli atteggiamenti, aggiungiamo, della chiesa successiva, che nelle rigidità di quella spiritualità sarebbe spesso nuovamente ricaduta), era considerato autentico. Il criterio principe di autenticità delle parole di Gesù era perciò quello di dissomiglianza o di discontinuità. Solo ciò che nella predicazione di Gesù appare in contrasto con gli orientamenti del giudaismo contemporaneo e della chiesa successiva, non potendo essere attribuito a quel giudaismo e a questa chiesa, è certamente autentico. Ma è facile capire che siamo qui in presenza di un pregiudizio confessionale che, inteso il fariseismo, e quindi in genere il giudaismo, in questo modo quasi caricaturale, suppone a priori la rottura di Gesù col giudaismo, non di un criterio storico, che questa rottura si preoccupi di trovare eventualmente nelle fonti. La prova del resto che determinati detti e fatti di Gesù non abbiano alcun parallelo nel giudaismo a lui contemporaneo è estremamente difficile a darsi, se non addirittura impossibile.

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Non conosciamo il giudaismo in maniera così completa da poter fare mai con sicurezza un'affermazione simile. E un Gesù così costruito può essere forse affascinante sul piano teologico, per l'originalità che egli mostra nei confronti del giudaismo del tempo, ma, privo com'è di ogni rapporto col contesto nel quale ha agito, non ha alcuna consistenza storica. La ricerca attuale sul Gesù storico, che vuole essere una ricerca squisitamente storica, ha perciò capovolto completamente questo orientamento. Per essa Gesù è veramente, interamente ebreo e solo a partire dal giudaismo può essere veramente, interamente compreso. Non quello che in Gesù si discosta dalla tradizione giudaica, ma quello che appare in lui legato a quella tradizione è con ogni probabilità autentico ed è perciò realmente caratterizzante della sua figura. Il criterio principe per stabilire l 'autenticità di detti e fatti di Gesù non può essere quindi quello di discontinuità, che valorizza esclusivamente ciò che in lui è originale. Il criterio di discontinuità o, come anche si dice da qualcuno, di differenza va sostituito con quello della plausibilità, o della verosimiglianza, che valorizza invece la coerenza del suo atteggiamento col contesto storico nel quale ha vissuto. Ascoltiamo G. Theissen, che ne è il principale sostenitore: Mentre il criterio della differenza esige una non-derivabilità delle tradizioni di Gesù dal giudaismo, cosa che non può mai essere provata in maniera rigorosa, il criterio della plausibilità rispetto al contesto esige soltanto la prova dell'esistenza di nessi positivi fra la tradizione di Gesù e il contesto giudaico[ ... ]. In essa si esige il contrario di ciò che richiedeva il precedente criterio della differenza: quello che non può essere "derivato" dal giudaismo del tempo, verosimilmente non è storico. In altre parole: Gesù può aver detto e fatto soltanto quello che un carismatico giudeo del sec. I avrebbe potuto dire e fare ...

Può sembrare un semplice criterio di buon senso. E apparire perciò molto convincente. Ma in realtà questo criterio ha la stessa, e forse anzi una maggiore, unilateralità del precedente. Come possiamo essere sicuri che un determinato detto o fatto di Gesù non abbia alcun riscontro nel contesto giudaico del tempo? E affermare quindi che è inverosimile? Non conosciamo così bene il giudaismo del tempo da poterlo dire mai con sicurezza. E d'altra parte, perché Gesù non avrebbe potuto fare affermazioni che non hanno alcun parallelo nel giudaismo del tempo ?~ 1 Era dunque privo di qualunque originalità? E una tale originalità l'avrebbe invece posseduta la comunità successiva dei discepoli, ritenuta tuttavia anch'essa dalla ri-

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cerca attuale per lungo tempo interamente giudaica? La verosimiglianza può avere un certo valore come conferma di una fonte esistente. Ma se già completare la documentazione in nostro possesso facendo ricorso a "ciò che potrebbe essere accaduto" può andar bene per un romanzo storico, non per una ricerca storica, sostituire una documentazione esistente, per quanto discutibile, e bisognosa quindi di verifica, essa appaia, con un'idea di plausibilità o verosimiglianza costruita ipoteticamente dallo studioso non è certamente un buon criterio storico. Non esiste in realtà un criterio privilegiato per garantire l'autenticità di parole e fatti di Gesù 46 • È l'insieme di criteri convergenti (oltre la loro discontinuità col contesto giudaico del tempo e l'imbarazzo della comunità nei loro confronti, vanno tenute presenti soprattutto la molteplice attestazione delle fonti e la loro coerenza con il resto della predicazione) che suggerisce alla sensibilità dello storico la scelta per o contro l'autenticità. Ed è con questa convinzione che mi muovo in questo saggio.

La cornice geografica e cronologica della vicenda di Gesù Il secondo elemento che viene in considerazione, e per molti aspetti, ai fini di una ricostruzione storica della vicenda di Gesù, l'elemento decisivo, è il quadro geografico e cronologico complessivo del Vangelo di Marco. Ha un valore la sua presentazione della storia di Gesù come una vicenda che si è svolta quasi interamente in Galilea, e per un tempo certamente molto breve, o ha ragione il Vangelo di Giovanni a collocare gran parte della sua azione e predicazione a Gerusalemme e a farla durare abbastanza più a lungo? Nella prima e nella seconda ricerca era dato semplicemente per scontato quello che per primi F. C. Baur e D. F. Strauss avevano affermato con gran forza: e cioè che il valore storico dei vangeli sinottici fosse di gran lunga superiore a quello di Giovanni. Oggi però, nella terza ricerca, non è più così. Non soltanto si è allargata la documentazione da prendere in considerazione dai vangeli canonici ai vangeli apocrifi, di Tommaso e di Pietro soprattutto 47, ma anche tra i vangeli canonici non si accetta più quella che è stata polemicamente definita la "tirannia del Gesù sinottico" 48 • In particolare vari autori ritengono che il quadro geografico e cronologico del

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Vangelo di Giovanni sia più attendibile di quello del Vangelo di Marco. E la ragione più frequentemente addotta per questa convinzione è appunto quella appena ricordata di una sua maggiore plausibilità storica 4 9• Questa scelta del quadro geografico e cronologico della vicenda di Gesù non è, come potrebbe quasi sempre sembrare leggendo gli studi su Gesù, un aspetto secondario, poco rilevante, e quindi trascurabile, della indagine sul Gesù storico; ha al contrario una importanza decisiva ai fini della ricostruzione della sua vicenda. Nella ricerca del passato questa importanza era scarsamente avvertita, e ciò ancora una volta si spiega perfettamente con i suoi presupposti teologici. Cercando soprattutto il Gesù diverso, anzi in contrasto, con la spiritualità giudaica del tempo, interessava ben poco ad essa collocare con precisione la sua predicazione nel contesto storico. Quella predicazione aveva un valore eterno, non condizionato da fattori storici, e si poneva perciò in qualche modo fuori dal tempo. È strano invece che la ricerca attuale, così attenta a inserire Gesù nel giudaismo dell'epoca, non sempre avverta l'importanza di questa collocazione più precisa della sua azione nel contesto storico. Eppure bastano due elementi assolutamente centrali della vicenda di Gesù, e strettamente legati tra loro, a mostrarla con evidenza: il rapporto avuto da Gesù con i farisei e le ragioni della sua condanna a morte. Ricordiamo però anzitutto come e perché è cambiato il quadro generale nel quale si inserisce la valutazione di questi due elementi. La ricerca passata riteneva che la vicenda di Gesù si fosse svolta quasi interamente in Galilea; che in Galilea Gesù si fosse scontrato con i farisei; e che questo scontro avesse come oggetto l'osservanza della legge mosaica. In questo quadro, che è sostanzialmente il quadro del Vangelo di Marco, gli ultimi giorni a Gerusalemme non avrebbero costituito una svolta, ma soltanto il culmine di un conflitto già scoppiato in Galilea, e sarebbe stato questo conflitto, di cui l'azione di Gesù nel tempio avrebbe costituito soltanto l'ultimo episodio, a portarlo alla morte 10 • Per la verità l'interpretazione politica della vicenda di Gesù di H. S. Reimarus e S. G. F. Brandon già aveva sostenuto invece che l'ingresso in Gerusalemme e la cacciata dei mercanti dal tempio avrebbero costituito una svolta decisiva nell'azione di Gesù e la vera ragione della sua condanna a morte. Ma il carattere decisamente unilaterale e troppo radicale di questa interpretazione, suggestiva forse sul piano storico ma filologicamente assai debole, le aveva impedito di imporsi all'attenzione degli studiosi 1'. Oggi invece la maggioranza degli studiosi ritiene che Gesù non abbia criticato affatto la legge mosaica e

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che non sia entrato perciò in radicale contrasto con i farisei. I motivi del conflitto con le autorità giudaiche (essenzialmente i sommi sacerdoti), e quindi della condanna a morte (da parte comunque di Pilato), andrebbero perciò cercati realmente negli episodi degli ultimi giorni di Gerusalemme: l'ingresso messianico nella città santa e l'azione provocatoria nel tempio. Ma è chiaro allora che il quadro geografico e cronologico della vicenda di Gesù (la sua presenza in particolare a Gerusalemme prima dell'ultimo e fatale viaggio) diventa fondamentale per comprendere il suo rapporto con i farisei e la sua condanna a morte. Secondo tutti e quattro i vangeli canonici gli avversari principali di Gesù durante la sua predicazione sono stati infatti i farisei. Il ruolo di questi ultimi è naturalmente diverso da vangelo a vangelo. La maggior parte degli studiosi è convinta per esempio che il Vangelo di Luca abbia nei loro confronti un atteggiamento meno severo degli altri. In tutti e quattro i vangeli sono comunque i farisei gli avversari principali di Gesù. Ma la valutazione precisa di questo dato dei vangeli dipende fortemente da due considerazioni preliminari. La prima, divenuta un punto centrale dell'attuale ricerca storica su Gesù, è: i farisei costituivano realmente, come dicono i vangeli, il gruppo religioso dominante del giudaismo del tempo, e il quadro offerto dai vangeli è quindi sostanzialmente credibile, oppure questo quadro è pesantemente condizionato dal contesto storico nel quale gli evangelisti scrivevano, che è quello della nascita del movimento rabbinico, erede di quello farisaico? In parole più chiare: il ruolo così rilevante dei farisei nella predicazione di Gesù è un dato storico attendibile o sono stati soltanto i vangeli a proiettare nella vicenda di Gesù una presenza farisaica che corrisponde soltanto alla situazione conflittuale in cui si trovavano gli evangelisti? Il problema, come è chiaro, è di enorme importanza, perché da esso dipende non soltanto la valutazione del contrasto di Gesù con i farisei, ma anche quella della posizione di Gesù nei confronti della legge. Sono principalmente i farisei, in quanto assertori di un'osservanza precisa e rigorosa della legge (!'"acribia" di cui parla costantemente Giuseppe al loro riguardo), a criticare Gesù nei vangeli per il suo comportamento nei suoi confronti. Se quindi un contrasto di Gesù con i farisei in realtà non c'è stato, anche la critica di Gesù alla legge ne viene messa in discussione. Ma c'è anche una seconda considerazione da fare per valutare quel contrasto: qualunque sia la sua entità, dove è realmente attendibile una significativa presenza farisaica e ipotizzabile eventualmente il contrasto? C'erano farisei in Galilea, come vuole Marco, o i farisei erano presenti

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quasi esclusivamente a Gerusalemme? E di conseguenza: quale quadro geografico e cronologico appare più credibile in rapporto a questo problema: quello di Marco o quello di Giovanni? Recentemente è stato in particolare J. P. Meier a porre il problema (prima di lui erano stati soprattutto M. Smith, J. Neusner ed E. P. Sanders) e ad affermare che il quadro di Giovanni appare più plausibile, perché di una forte presenza dei farisei si può parlare soltanto per Gerusalemme ed è perciò solo a Gerusalemme che Gesù avrebbe potuto scontrarsi con tale intensità con i farisei. Se Marco li colloca invece in Galilea, ciò dipende soltanto dal suo artificiale schema teologico, secondo cui Gesù ha predicato quasi interamente in Galilea e solo nell'ultima settimana della sua vita è stato a Gerusalemme 11 • In realtà la posizione di Meier è abbastanza singolare, e piuttosto contraddittoria. Da un lato infatti egli, come la maggioranza degli autori della ricerca attuale, pur insistendo fortemente sulla figura di Gesù come interprete della legge (il Gesù halakico a cui nel quarto volume della sua opera fa costante riferimento), tende a minimizzare la mancata osservanza della legge da parte di Gesù, e di conseguenza lo scontro di Gesù con i farisei, ritenendo non credibili molti motivi di quello scontro (la critica delle norme di purità e le guarigioni in giorno di sabato in particolare). Dall'altro ritiene più plausibile la presentazione del Vangelo di Giovanni che fa salire Gesù più volte a Gerusalemme proprio perché questo spiegherebbe meglio il suo contrasto con loro. Resta vero comunque che l'accettazione dell'uno o dell'altro quadro evangelico è molto rilevante ai fini di una valutazione del rapporto di Gesù con i farisei, e quindi della sua posizione nei confronti della legge. Se i farisei in Galilea erano scarsamente presenti, i contrasti di Gesù con loro, e il mancato rispetto stesso della legge di cui a detta dei vangeli egli da loro viene accusato, o non ci sono proprio stati, o hanno avuto luogo a Gerusalemme. Il secondo elemento riguarda invece la condanna a morte di Gesù, ed è strettamente connesso con questo. Secondo tutti e quattro i vangeli canonici la condanna di Gesù scaturisce da un concorso di iniziative del sinedrio giudaico e del governatore romano. Anche qui naturalmente le presentazioni dei vangeli sono diverse l'una dall'altra. Il Vangelo di Giovanni dà indubbiamente più peso alla presenza romana di quanto facciano invece i sinottici. Sono comunque le autorità giudaiche e romane che conducono Gesù alla morte. E con tutto il loro peso queste autorità sono presenti soltanto a Gerusalemme. L'aristocrazia sacerdotale giudaica esercita la sua influenza soprattutto in città, e in particolare nel tempio, e il

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prefetto romano (che risiede a Cesarea Marittima) governa sulla Giudea (e la Samaria), non sulla Galilea. Che cosa dunque ha spinto le autorità giudaiche e romane di Gerusalemme a condannare Gesù a morte? Nella ricerca passata il problema non era molto avvertito perché a condurre Gesù alla morte si pensava fosse stata anzitutto la sua presa di posizione nei confronti della legge mosaica, e quindi il suo contrasto con i farisei, ritenuti largamente presenti in Galilea e rappresentati a Gerusalemme, anche nel sinedrio, dagli scribi. Ma oggi, come ho detto, questo contrasto con i farisei viene fortemente ridimensionato e a condurre Gesù a morte si ritiene siano stati i sommi sacerdoti (per la provocazione di Gesù nel tempio), e soprattutto Ponzio Pilato (per la pretesa regale di Gesù). Ma allora si pone necessariamente il problema della conoscenza che queste autorità, e in particolare Pilato, potevano avere della persona di Gesù e del carattere della sua predicazione. A sollevare questo problema, che anche Meier comunque mostra di avvertire quando insiste sulle folle entusiaste che dai loro palazzi Caifa e Pilato vedevano al seguito di Gesù nelle sue visite a Gerusalemme, è stata in tempi recenti soprattutto P. Fredriksen. Per lei la condanna di Gesù, e il fatto che soltanto Gesù venga condannato, e non i suoi discepoli, si spiegano col timore di Pilato di un'interpretazione politica dei Giudei di un annuncio del regno di Dio da parte di Gesù che era invece del tutto pacifico, e in particolare con l'agitazione popolare scaturita dalla manifestazione messianica della folla in occasione del suo ingresso in Gerusalemme. Fin qui Gesù non aveva avanzato alcuna pretesa messianica. È soltanto al momento dell'ultima venuta a Gerusalemme che, non da Gesù stesso o dai suoi discepoli, ma dalle folle dei pellegrini, viene sollevato il problema della sua pretesa alla regalità. Ma allora ci si deve necessariamente chiedere come facesse Pilato a sapere del reale contenuto della predicazione di Gesù e a preoccuparsi di questa manifestazione della gente nei suoi confronti. E secondo Fredriksen è la presentazione di Giovanni, che fa salire Gesù più volte a Gerusalemme, che spiega questa conoscenza e appare perciò più credibile 13. Anche in questo caso l'argomentazione di Fredriksen a me appare molto debole. È infatti proprio l'episodio dell'ingresso in Gerusalemme, che pure non è stato certamente così trionfale come affermano i vangeli, a spiegare nella maniera migliore la conoscenza, del resto assai superficiale, di Gesù da parte di Pilato. E sono stati i sommi sacerdoti, o comunque il sinedrio, a informare il governatore romano della sua pretesa regale. Se Gesù non aveva mai prima avanzato pretese messianiche,

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non si capisce bene d'altra parte quale importanza dovrebbe avere una sua precedente conoscenza da parte di Pilato. Resta comunque il fatto che il problema di una maggiore presenza di Gesù a Gerusalemme non è senza importanza nella valutazione delle circostanze della sua condanna a morte. Il motivo stesso della condanna ne risulta anzi necessariamente condizionato. È stata realmente la pretesa messianica (o eventualmente l'episodio del tempio) a portare a morte Gesù? Qual è allora il quadro geografico e cronologico della vicenda di Gesù che dobbiamo preferire nel tentativo di ricostruire la sua storia? È impossibile naturalmente dirlo con sicurezza, ma io credo che quello di Marco sia decisamente più attendibile di quello di Giovanni (e non per nulla è stato nel complesso fatto proprio, e ritenuto quindi valido, sia da Luca che da Matteo). Ci sono vari motivi infatti per preferirlo. Cominciamo anzitutto col ripetere che la plausibilità storica di un fatto (qui la salita periodica di Gesù a Gerusalemme per celebrarvi le feste, ma anche il timore da parte di Pilato di una rivolta antiromana dei seguaci di Gesù) non può essere un criterio per affermarne da sola l'autenticità. La plausibilità (o la verosimiglianza) può valere nei confronti di una documentazione esistente, come conferma della sua attendibilità, ma non può ovviare alla mancanza di documentazione (o addirittura, come pure è stato recentemente sostenuto da W. Stegemann, essere assunta come principio metodologico al posto della documentazione esistente). E di frequenti visite di Gesù a Gerusalemme prima del viaggio che lo ha portato alla morte (come di un timore di Pilato che la predicazione di Gesù provocasse tumulti politici) non abbiamo in realtà una vera testimonianza. L'indicazione delle diverse feste cui avrebbe partecipato Gesù da parte del Vangelo di Giovanni non ha infatti nessuna consistenza storica. È determinata chiaramente dall'esigenza letteraria e teologica di far agire e predicare Gesù nel contesto storico ritenuto dall'autore più adatto, ma non indica nessun reale sviluppo della sua azione e predicazione 14 • Fa parte con ogni probabilità del suo intento di sottolineare il carattere straordinario degli eventi di Gesù e del tentativo di dare un significato nuovo alle ricorrenze religiose ebraiche. Basta del resto leggere i primi due episodi del suo vangelo (la testimonianza del Battista e la chiamata dei discepoli) per vedere che Giovanni non ha alcun interesse per lo sviluppo cronologico della vicenda di Gesù. Ma anche a voler prendere in considerazione la plausibilità storica, pure questo criterio gioca in realtà a favore più di Marco che di Giovanni. Per quanto possa essere influenzato da ragioni teologiche, nella sua semplice

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linearità lo schema di Marco, secondo cui solo alla fine della sua vita Gesù sale a Gerusalemme per la pasqua, mostra infatti una credibilità molto maggiore di quello, terribilmente confuso e contraddittorio, e certamente più influenzato da ragioni teologiche, di Giovanni, col suo Gesù che sale e scende continuamente da Gerusalemme per partecipare alle feste (cosa, ricordiamolo, tutt'altro che agevole per un galileo). Anche il colorito galilaico che quasi tutti gli studiosi riconoscono alla fonte Q suona del resto come una conferma sostanziale del quadro di Marco, in quanto rivela a mio parere il luogo di origine non, come a volte si sostiene, della raccolta della fonte, ma degli episodi da essa raccontati 1S. Quando ricorda l'attività svolta da Gesù a Nazaret, Cafarnao, Corazin e Betsaida, Q ambienta infatti implicitamente in Galilea la maggior parte dell'azione di Gesù. E come contesto più specifico della sua predicazione, mentre nomina i farisei e le sinagoghe (cioè le assemblee del sabato), che non mancavano certamente in Galilea, non accenna mai ai sadducei e al tempio, che si trovavano invece soltanto a Gerusalemme. Contiene anzi un passo (Le. 13,34-35/Mt. 23,37-39) che sembra escludere la presenza di Gesù a Gerusalemme prima del viaggio che lo ha portato alla morte 16 • Se Gesù fosse stato più volte a Gerusalemme diventerebbe anche assai difficile spiegare perché soltanto l'ultima volta (ma per Giovanni in realtà, ancora più singolarmente, la prima) avrebbe provocato un incidente nel tempio e sarebbe stato arrestato dalle autorità giudaiche. Avrebbe mutato improvvisamente atteggiamento nei confronti del culto e del tempio? E il sinedrio avrebbe così scoperto quanto la sua predicazione potesse essere pericolosa sul piano politico? E infine se, come vedremo, Gesù è stato per un certo periodo discepolo e collaboratore di Giovanni Battista, e il Battista ha cominciato a predicare nel 28, e probabilmente nella seconda metà del 28, non rimane del resto molto tempo per un ministero autonomo di Gesù e per quelle visite a Gerusalemme che sembra supporre il Vangelo di Giovanni. Si insiste sul carattere artificiale dello schema geografico e cronologico di Marco, che sarebbe non meno evidente di quello di Giovanni e toglierebbe qualunque attendibilità storica alla sua presentazione. Ma, per quanto indubbiamente influenzato da ragioni dogmatiche, e quindi largamente artificiale, lo schema di Marco non è né così obbligato né così arbitrario come troppo spesso si afferma. Egli fa porre per esempio con molta precisione non in Galilea, ma a Gerusalemme, sia la questione del tributo a Cesare (che per la presenza degli Erodiani avrebbe ben potuto essere tentato di collocare invece in Galilea, come fanno purtroppo alcuni

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studiosi moderni) sia la domanda dei sadducei sulla risurrezione. E questo corrisponde certamente alla realtà storica perché solo a Gerusalemme in pratica si poneva la questione del tributo ed esistevano i sadducei. Qualunque valore voglia attribuirsi alla qualifica di "interprete di Pietro" data a Marco da Papia, e si ritenga oppure no il racconto del suo vangelo fondato sui ricordi di Pietro 17, non è vero quindi che «Marco non ha più alcuna visione reale della vita storica di Gesù». In realtà la conosce meglio di molti autori moderni. E non si vede per quale motivo Marco, che fa uscire più volte Gesù dalla Galilea, per farlo andare nella Decapoli (5,1; 7,31) e nei territori di Tiro e Sidone ( 7,2.4.31 ), di Cesarea di Filippo (8,2.7) e di Giudea e Perea (10,1), non avrebbe dovuto inserire in quello schema anche le eventuali visite di Gesù a Gerusalemme. Nelle sue linee generali possiamo perciò a mio parere utilizzare anche il quadro cronologico e geografico di Marco per ricostruire lo sviluppo della vicenda di Gesù. Ed essere abbastanza sicuri che il ministero di Gesù ha avuto una durata molto breve (diciamo all'incirca di un anno); che, con le eccezioni accennate sopra, si è svolto prevalentemente in Galilea; e si è concluso tragicamente con l'ultima settimana a Gerusalemme.

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La Palestina al tempo di Gesù

Una delle ragioni più forti dell'attuale ripresa vigorosa della ricerca sul Gesù storico è certamente la convinzione, oggi ampiamente diffusa tra gli studiosi, che conosciamo abbastanza bene, e molto meglio comunque del passato, le condizioni politiche e religiose della Palestina al tempo di Gesù. Con le sensazionali scoperte del secolo scorso e la rivalutazione di testi prima poco conosciuti o scarsamente considerati, possediamo infatti un buon numero di fonti letterarie che ci permettono di ricostruirle: giudaiche anzitutto (le opere di Flavio Giuseppe, i manoscritti di Qumran, i cosiddetti apocrifi dell'Antico Testamento e la più tarda letteratura rabbinica); ma poi anche cristiane (soprattutto i quattro vangeli canonici e gli Atti degli Apostoli); e pagane (la Geografia di Strabone e le Storie di Tacito). E l'archeologia ha fornito nell'ultimo secolo sia per la Galilea che per Gerusalemme una messe notevolissima di dati che arricchiscono ulteriormente quelli dei testi letterari. Vediamo quindi molto rapidamente quali erano queste condizioni politiche e religiose della Palestina nelle quali si è svolta la vicenda di Gesù. Dal punto di vista politico-amministrativo la Palestina era divisa in tre parti principali. Dopo la scomparsa definitiva della dinastia asmonea, succeduta alla famiglia gloriosa dei Maccabei, e la conquista del paese da parte dei Romani per opera del generale Pompeo nel 63 a.C.; e dopo il lungo periodo di governo del re idumeo Erode il Grande, sostenuto apertamente da Roma, alla morte di Erode nel 4 a.C., occasione di gravi rivolte (e dell'apparizione di numerosi pretendenti regali) in Giudea, Perea e Galilea, I' imperatore Augusto, in base all'ultimo testamento del re, ne aveva ripartito infatti i territori tra i figli: le regioni principali del centro-sud, la Giudea, la Samaria e l' Idumea, erano state assegnate al primogenito Archelao, non più però col titolo di re, ma con quello minore di etnarca, la Galilea a nord e la Perea ad est ad Antipa e le regioni del nord-est (Batanea, Auranitide,

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Gaulanitide e Traconitide) a Filippo, entrambi col titolo di tetrarca. Nel 6 d.C. la popolazione della Giudea si era però ribellata ad Archelao e Augusto, venendo incontro a una richiesta proveniente dagli stessi Giudei, che evidentemente ritenevano in gran parte preferibile il dominio diretto dei Romani a quello della famiglia di Erode, aveva ridotto la Giudea e la Samaria a provincia di Roma, retta da un prefetto. Mentre dunque le alcre regioni della Palestina, e in particolare la Galilea, continuavano a godere di una relativa autonomia sotto i sovrani erodiani, al tempo di Gesù la Giudea e la Samaria si trovavano sotto il dominio diretto dei Romani'. È in queste regioni, e a Gerusalemme in modo particolare, che si sente quindi tutto il peso dell'occupazione romana. Anche se il governatore romano non risiede a Gerusalemme ma a Cesarea Marittima', luogo più gradito ai Romani per il suo carattere ridente, e molco più accogliente di Gerusalemme, è qui, nella fortezza Antonia, al lato nord-ovest del tempio, che staziona infatti in maniera permanente una coorte (crm:ipa) romana di alcune centinaia di uomini al comando di un tribuno (xl.Àiapxoç). E il governatore stesso non manca di venire a Gerusalemme in occasione soprattutto delle grandi feste religiose (la pasqua in particolare) che richiamano in città folle immense, spesso protagoniste di tumulci e sommosse. Questa circostanza è naturalmente assai importante per valutare correttamente la vicenda di Gesù, anche se nella ricerca su Gesù non viene in genere sottolineata a sufficienza. Gesù era nato e cresciuto a Nazaret, in Galilea: era quindi suddito di Antipa. Dopo un periodo non sappiamo quanto lungo, ma presumibilmente abbastanza breve, di collaborazione con Giovanni Battista nella regione giudaica, tornò in Galilea e qui, come ho detto, svolse la gran parte della sua azione e predicazione. Solo al termine della sua vita andò di nuovo in Giudea, a Gerusalemme. Questo significa che Gesù non ha vissuto direttamente l'esperienza del potere romano. Molto probabilmente non ha avuto anzi alcun rapporto con le autorità romane fino agli ultimi giorni della sua vita (e le autorità romane sapevano ben poco della sua attività). Non c'è motivo infatti di pensare che il centurione di Cafarnao di Le. 7,1-10/Mt. 8,5-13, benché riceva la qualifica di ÉKmovrapxTJç dalla fonte Q, sia un ufficiale romano. Può essere benissimo un ufficiale di Antipa (non è un caso che nel racconto parallelo di Gv. 4,46-54 venga definito due volte pacrl.ÀtK6ç, «funzionario del re»). Il problema politico dell'occupazione romana non rientra quindi, se non in maniera indiretta, nella predicazione di Gesù. Dirò tra un momento qualcosa sui suoi possibili rapporti con i movimenti di liberazione della

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Palestina, in particolare con quello fondato da Giuda il Galileo. Si insiste spesso infatti sulla sua provenienza dalla Galilea per dire che egli avrebbe vissuto in un contesto politicamente molto inquieto, soprattutto nei confronti di Roma. E per proporre un'interpretazione schiettamente politica del suo annuncio della venuta imminente del regno di Dio. Per ora mi limito a ricordare che l'unico accenno di Gesù al problema dell'occupazione romana è contenuto nel famoso episodio del tributo a Cesare, avvenuto certamente non in Galilea, ma a Gerusalemme negli ultimi giorni della sua vita. La diversità tra le regioni, quelle in particolare nelle quali Gesù ha agito e predicato, e cioè la Galilea e la Giudea (in sostanza Gerusalemme), ha importanza però non soltanto dal punto di vista strettamente politicoamministrativo, ma anche da quello politico-culturale. Il cuore di tutta la vita religiosa e politica del paese è infatti Gerusalemme. Qui ci sono il tempio e il sinedrio, i due centri del potere economico, politico e religioso. Qui, nel tempio magnificamente ricostruito da Erode il Grande, si svolgono quindi le solenni cerimonie delle feste religiose, con tutta la magnificenza delle grandi liturgie sacrificali e la partecipazione di folle immense provenienti da ogni parte del paese. E qui è forte naturalmente la presenza, e l'autorità, dei sommi sacerdoti e dei capi dei farisei, che da Gerusalemme, soprattutto mediante il governo del sinedrio, cercano di controllare la vita religiosa delle altre regioni, in particolare della Galilea. Di questi aspetti della vita religiosa e politica la Galilea risente in misura notevolmente minore. La sua religiosità, come possiamo conoscerla in particolare da una fonte troppo poco considerata dagli esegeti neotestamentari (S. Freyne è una notevole eccezione), la Vita di Flavio Giuseppe3, e come è stata ampiamente confermata dalle recenti scoperte archeologiche (piscine rituali, recipienti di pietra, sepolture fuori città), non appare nel complesso troppo diversa da quella della Giudea, così come soprattutto cercano di imporla i farisei, con la loro particolare attenzione alla osservanza del sabato e delle norme di purità. L'immagine infatti di una Galilea "pagana", di cui parlavano così spesso gli studi meno recenti, si è rivelata un vero e proprio mito 4 • I Galilei erano pienamente giudei. Ma la lontananza dal tempio, presso cui pure i Galilei cercano di andare nelle grandi feste di pellegrinaggio, sviluppa una spiritualità più legata alla sinagoga, e quindi più alla preghiera e alla lettura della Scrittura che non al culto sacrificale. E nonostante troppo spesso si affermi il contrario, la scarsa presenza di autorità religiose (i sommi sacerdoti e i capi dei farisei) e politiche (governatore e

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militari romani) consente nel complesso, soprattutto nei villaggi, una più tranquilla vita quotidiana, meno segnata da conflitti e tensioni. La maggiore o minore presenza di Gesù in Galilea e a Gerusalemme, la collocazione dei diversi episodi della sua vita in un contesto geografico più preciso, come anche l'ipotesi di un eventuale mutamento della sua predicazione nel passaggio dalla Galilea a Gerusalemme, anche in contrasto eventualmente con la presentazione che ne offre Marco, non sono quindi né senza alcun fondamento né senza alcuna importanza, anche se non vengono quasi mai prese in considerazione dagli studiosi (coerentemente con la loro convinzione che sia impossibile nella vicenda di Gesù fornire precisazioni geografiche e cogliere qualunque sviluppo, Meier e Dunn per esempio raramente indicano se in un determinato episodio Gesù si trovi realmente in Galilea o a Gerusalemme, o se una determinata affermazione Gesù l'abbia fatta realmente nel primo periodo galilaico o più tardi a Gerusalemme, come presupposto dal racconto di Marco). Non soltanto il problema specifico dell'occupazione romana, ma più in generale il conflitto col potere politico, rappresentato dal governatore romano e dal sinedrio giudaico, è diventato mortale per Gesù soltanto negli ultimi giorni della sua vita a Gerusalemme. E gli stessi contrasti religiosi con le autorità giudaiche non possono non essersi fortemente acuiti nella sua presenza a Gerusalemme. Se il problema dell'osservanza della legge si era posto per Gesù già in Galilea, nelle discussioni con scribi e farisei, solo qui si è posto invece quello del culto del tempio, col contrasto aperto con i sommi sacerdoti. E solo per gli ultimi giorni a Gerusalemme si può parlare quindi di un conflitto mortale con le autorità giudaiche. È impossibile perciò che le diverse situazioni della vicenda di Gesù non abbiano determinato cambiamenti nella sua stessa predicazione. La vicenda di Gesù deve essere considerata però anche nel suo contesto sociale, che non appare meno ricco di contrasti di quello politico. Qui infatti le divisioni del mondo giudaico erano altrettanto grandi, anche se è solo in tempi relativamente recenti che alcuni studiosi (H. Kreissig5. G. Theissen 6 , S. Freyne7, R. A. Horsley 8, A. J. Saldarini 9 ) hanno dato ad esse il risalto necessario ai fini di una migliore comprensione della vicenda di Gesù. C'era anzitutto in Palestina, come in tutte le regioni del mondo antico, una forte divisione di classi sociali. Al governo del paese si trova una ristretta aristocrazia 1°, formata principalmente da grossi commercianti e proprietari terrieri, legata quasi sempre alla famiglia erodiana, ma aperta anche, in varia misura, alla cultura greca e al potere romano. Di questa

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aristocrazia fanno parte anzitutto i rappresentanti delle più potenti famiglie sacerdotali, cioè i sommi sacerdoti (gli àpxu:pdç) dei vangeli canonici e di Flavio Giuseppe, detentori in particolare del sommo sacerdozio, la più alta carica religiosa del paese (all'epoca di Gesù nelle mani della casa di Anna o Anano), e delle altre cariche sacerdotali; e i capi delle più ricche e potenti famiglie patrizie locali, cioè gli "anziani" (i 1tpEcrPim:pot) dei vangeli, che corrispondono con ogni probabilità ai "notabili" (i 8uvaroi), o "i capi della città" (oi tfiç 1t6Àf:wç 1tpGnot) di Giuseppe. Ma dai tempi almeno della regina asmonea Alessandra ( 76-67 a.C.) a questa aristocrazia appartengono anche, per la loro influenza religiosa, i più autorevoli farisei (quelli che Giuseppe chiama i 1tpfurot tfuv lj,apmaiwv ), cioè i più eminenti dottori della legge, le maggiori autorità spirituali del paese, che con termine sicuramente improprio i vangeli canonici definiscono abitualmente gli "scribi" (i ypaµµardç). Giuseppe ricorda infatti più di una volta come, in momenti particolarmente difficili della vita del paese, si riunissero con i notabili i sommi sacerdoti e i primi dei farisei". Così come in relazione ali' atteggiamento troppo libero che Gesù assume nei confronti della legge i vangeli fanno più volte riferimento all'intervento autorevole degli scribi. E questa aristocrazia costituisce in particolare il sinedrio, la massima autorità di governo della Giudea, del quale, a detta dei vangeli, fanno parte appunto i sommi sacerdoti, gli anziani e gli scribi, e che, nonostante col dominio di Erode e dei Romani abbia perduto molto del suo potere politico, da Gerusalemme cerca, come ho detto, di controllare tutta la vita del paese. Di fronte a questa ristretta aristocrazia, la cui presenza si sente ovviamente in modo particolare a Gerusalemme, ci sono anzitutto, anch'essi non molto numerosi, i ceti medi della nazione, quelli che con categorie sociologiche prese da G. Lenski vengono a volte definiti, per esempio da A. J. Saldarini, gli addetti ai servizi e la classe sacerdotale (di cui fanno parte il grosso dei farisei e dei sacerdoti), legati in vario modo alla classe dominante; ma c'è soprattutto la grande maggioranza del "popolo della terra", in Galilea fatta prevalentemente di piccoli artigiani e contadini, molto poco influenzata dalla cultura greca e senza alcun potere politico ed economico, spesso anzi sulla soglia di una vera e propria povertà, che la spinge a volte ad abbandonare il paese di origine in cerca di una vita diversa. Una maggioranza del popolo che, anche se spesso disprezzata dalle autorità religiose in quanto poco osservante della legge, è caratterizzata da una religiosità semplice e tradizionale, a detta di Giuseppe diffidente assai spesso anche del potere religioso, soprattutto di quello dei sommi sacer-

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doti, ma sostanzialmente rispettosa delle autorità spirituali, farisaiche in particolare. È l'ambiente in cui si svolge, soprattutto in Galilea, la maggior parte del!' attività di Gesù. E vedremo che questa sua scelta ha notevole importanza per comprendere sia la natura del suo insegnamento sia le ragioni della sua condanna. Per quanto, come ho detto, è soltanto nella ricerca più recente che si è particolarmente insistito su questo aspetto della vicenda di Gesù, appaiono oggi infatti indiscutibili sia la sua evidente estraneità, e anzi diffidenza, nei confronti del potere politico ed economico sia la forte dimensione sociale della sua azione e predicazione (l'annuncio in particolare dell'avvento del regno di Dio, con le sue ovvie implicazioni non soltanto religiose). E indiscutibili appaiono quindi i motivi di carattere politico-sociale che lo hanno portato alla condanna a morte. Qui però c'è un'ultima, significativa, divisione da ricordare, non soltanto per quanto riguarda la Giudea ma anche per quanto riguarda la Galilea: quella tra città e campagna. Le città, Gerusalemme soprattutto, in Giudea, ma anche Sepphoris e Tiberiade in Galilea, le due successive capitali della regione, per quanto abitate ancora in larghissima maggioranza da Giudei, sono più aperte agli influssi della cultura greca. E assai più forte è soprattutto in esse la presenza del potere politico: il sinedrio giudaico e le forze romane a Gerusalemme, gli Erodiani a Sepphoris e a Tiberiade. La disposizione degli abitanti, almeno per quanto riguarda le città della Galilea, ne risente ampiamente, con un atteggiamento in genere più aperto alla cultura greca e soprattutto più favorevole ai governanti locali e stranieri (nella guerra giudaica del 66 Sepphoris, a detta di Giuseppe, si schiererà apertamente con Roma, e anche Tiberiade conserverà un atteggiamento nel complesso moderato), ma anche con tensioni ignote alla vita dei villaggi (soprattutto a Tiberiade Giuseppe ricorda nella sua autobiografia la presenza di più partiti politici in aperto conflitto tra loro). Nei villaggi della Galilea, invece, non manca certamente un vivace sentimento di ostilità nei confronti della cultura greca e del potere politico, sia erodiano che romano. Nella guerra giudaica saranno soprattutto gli abitanti dei villaggi, quelli che Giuseppe nella Vita chiama propriamente i "Galilei", a combattere contro le città ellenistiche, i governanti locali e le forze romane. E non è raro che questo sentimento di ostilità si traduca in veri e propri atti di brigantaggio. La vita dei villaggi, come ho detto, è tuttavia nel complesso più tranquilla. Non conosce le tensioni continue di una città come Tiberiade. Nella stessa guerra giudaica racconta Giuseppe che la grande maggioranza dei "Galilei" non condivideva gli atteggiamenti radicali dei ì..ncm1i. Vive-

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va anzi nella paura costante di questi "briganti" (Vita 206) Sono, anche questi, elementi assai importanti per la valutazione della vicenda di Gesù. La sua azione e predicazione, secondo la tradizione sinottica, non soltanto si è svolta infatti quasi interamente in Galilea, ma in Galilea ha escluso programmaticamente le città di Sepphoris e Tiberiade per svolgersi soltanto tra gli artigiani, i pescatori e i contadini dei villaggi della regione; mantiene quindi una decisa distanza dalla vita cittadina e dai suoi problemi politici ed economici'\ Ma quello che maggiormente ci interessa è ovviamente l'aspetto più schiettamente religioso del mondo giudaico. Quali erano i principali orientamenti del giudaismo del tempo e quali rapporti ha avuto Gesù con essi? Vi accenno molto rapidamente, utilizzando con varie modifiche le pagine che ho dedicato a questa descrizione nel mio libro Il cristianesimo 11



ha tradito Gesit? In tutte e due le sue opere principali, la Guerra giudaica (2,117 ss.), pubblicata tra il 75 e il 79, e le Antichita giudaiche (18,1 ss.), pubblicate nel 93 o 94, e proprio dopo aver parlato della divisione della Palestina operata da Augusto alla morte di Erode il Grande, nel periodo quindi che ci interessa direttamente, lo storico ebreo Flavio Giuseppe si ferma a descrivere quelle che egli, con linguaggio squisitamente greco (perché è al mondo di cultura greca che egli principalmente si rivolge), chiama le diverse "scuole filosofiche" (aipÉcmç, qnÀocroq,im) del giudaismo del tempo e che, in maniera sicuramente impropria, fino a non molto tempo fa gli studiosi usavano definire le diverse "sette giudaiche" (come infatti non sono scuole filosofiche, mancando di un'adeguata formazione di "filosofia", così egualmente non sono sette religiose, non essendoci ancora un giudaismo "normativo"). Individua tre orientamenti religiosi principali: quello dei sadducei, quello dei farisei e quello degli esseni. E a questi tre orientamenti aggiunge, come una "quarta scuola", il movimento di liberazione dal dominio di Roma fondato nel 6 d.C. da un certo Giuda il Galileo. Non c'è alcun dubbio che, se l'immagine di farisei e scribi fornita dai vangeli canonici è chiaramente di parte, anche Giuseppe semplifica enormemente una realtà giudaica che era invece molto più complessa. Oggi, dopo la scoperta dei manoscritti di Qumran e la rivalutazione degli apocrifi dell'Antico Testamento, si è infatti ben consapevoli del fatto che il giudaismo era allora una realtà estremamente ricca e varia, fatta di correnti e movimenti ben più numerosi dei quattro che egli descrive. Ed è proprio la consapevolezza della pluralità e vitalità di quelli che alcuni studiosi vorrebbero definire

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addirittura i diversi giudaismi del tempo (ma c'è chi, come E. P. Sanders, ritenendo che la maggioranza del popolo non appartenesse a nessun orientamento in particolare, insiste al contrario a parlare di un common judaism o di un mainstream Judaism) che ha portato a valutare in maniera molto diversa dal passato la figura e la predicazione di Gesù, un tempo accostata, o contrapposta, quasi esclusivamente a "zeloti" e farisei. Senza dimenticare inoltre che molto più del passato si è oggi consapevoli del fatto che il "giudaismo" ( termine praticamente inesistente al tempo di Gesù, quando c'erano soltanto i Giudei) costituiva una realtà non soltanto religiosa, ma etnica' 4 • Possiamo tuttavia partire dalla descrizione di Giuseppe, perché individua indubbiamente gli orientamenti principali.Dell'importanza dei sadducei, e soprattutto dei farisei, parlano infatti ampiamente anche i testi neotestamentari, vangeli e Atti degli Apostoli, che confermano come essi fossero i gruppi che, attraverso l'interpretazione e la pratica della legge in particolare, costituivano in qualche modo il giudaismo "ufficiale': e cioè il sistema religioso dominante. Di quella degli esseni ci rendiamo oggi conto direttamente dai manoscritti di Qumran, ritenuti dalla grande maggioranza degli studiosi opera di un loro ramo particolarmente significativo. E delle iniziative del movimento di Giuda il Galileo e dei suoi successori Giuseppe rende ripetute testimonianze in entrambe le sue opere maggiori. Dei sadducei ( Guerra 2.,164-166; Antichita 18,16-17) sappiamo molto poco. Costituiscono certamente la parte più conservatrice e aristocratica (ma anche decisamente minoritaria) del giudaismo del tempo. Espressione prevalentemente della classe sacerdotale più elevata e detentori quasi sempre delle più alte cariche sacerdotali, in particolare quella di sommo sacerdote capo del sinedrio, essi sono legati soprattutto al tempio di Gerusalemme e alle forme tradizionali della religione giudaica così come sono codificate nella legge scritta di Mosè (i cinque libri del Pentateuco). Diffidano invece degli sviluppi più recenti della religiosità introdotti dalla tradizione e difesi prevalentemente dai farisei (non accettano per esempio l'idea della risurrezione dei morti). E collusi come quasi sempre sono con i sovrani erodiani e col governo romano di occupazione, sono ostili ad ogni forma di insurrezione politica e di manifestazione messianica. Tutti questi elementi fanno sì che, secondo Giuseppe, nonostante il riconoscimento della loro autorità, in quanto espressione prevalente del sacerdozio, hanno scarso seguito nel popolo. I farisei (Guerra 2.,162.-163; Antichita 18,12.-15), diversamente dall'immagine che ne forniscono i vangeli canonici, costituiscono invece non

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soltanto «la prima scuola» (Guerra 2,162: TT]V 1tpci:rrr1v a'ipEcrtv), e cioè la scuola più numerosa e autorevole, ma la parte più viva del giudaismo del tempo. E i loro maestri (i dottori della legge, nei vangeli gli scribi) sono più dei sacerdoti le vere guide spirituali del popolo. Giuseppe, che nonostante in Vita 12 affermi di aver vissuto «seguendo le regole della scuola dei farisei», pure non sembra avere particolare simpatia per loro, li ricorda costantemente per la loro precisione (àKpiPEta) nell'interpretazione e nel rispetto della legge mosaica. E in effetti lo scopo del fariseismo è quello di spingere tutti i Giudei all'osservanza rigorosa della legge (in particolare per quanto riguarda l'assunzione del cibo, il pagamento delle decime e l'osservanza del sabato), estendendo anche ai laici alcune regole fin qui richieste soltanto per i sacerdoti (l'osservanza in particolare delle norme di purità previste dal Levitico e dal Deuteronomio). La legge è però interpretata e attualizzata dai maestri farisei alla luce delle nuove esigenze del tempo, dando vita in tal modo a una tradizione orale che si colloca in maniera sempre più autorevole accanto alla legge scritta e che finirà col fondare il principio rabbinico della doppia legge, una duplice norma cioè di riferimento per la vita religiosa. Sostanzialmente leali ai sovrani erodiani e al governo romano, e quindi anch'essi poco inclini ad appoggiare rivoluzioni politiche e movimenti messianici (tuttavia, secondo Antichita 18,4 un fariseo di nome Saddok ha collaborato con Giuda il Galileo a fondare il movimento antiromano della quarta scuola), i farisei richiedono comunque al potere locale e straniero il rispetto rigoroso delle tradizioni giudaiche. E sono pronti a combattere strenuamente per la loro difesa (a «morire per la legge», come ricorda più volte Giuseppe, secondo lo spirito della rivolta maccabaica). Anche per questo motivo, oltre che per il loro rigore nell'osservanza della legge, godono quindi, assai più dei sadducei, della considerazione e del rispetto del popolo (Antichita 18,15: «Con queste loro convinzioni hanno grande influenza presso il popolo»). Gli esseni ( Guerra 2,II9-161; Antichita 18,18-22), che oggi conosciamo non solo dalle notizie di Giuseppe, ma direttamente dai manoscritti di Qumran - ritenuti, come ho detto, da quasi tutti gli studiosi espressione di un loro ramo particolarmente significativo - costituiscono il solo gruppo giudaico cui può legittimamente applicarsi la definizione abusata di setta. Nati con ogni probabilità da una scissione ali' interno della classe sacerdotale, polemicamente separati quindi dal tempio e dal sacerdozio di Gerusalemme, considerati illegittimi (gli esseni non partecipano infatti ai loro sacrifici), essi (ma in realtà solo questo loro ramo principale, perché

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gruppi di esseni sono presenti anche nelle città) vivono infatti sulle sponde del Mar Morto in una comunità di tipo monastico guidata da sacerdoti che si considera il resto santo di Israele in attesa della fine imminente dei tempi (e della liberazione quindi dal potere straniero). L'ordinamento di questa comunità, che conosciamo in maniera precisa dai testi di Qumran dedicati a descriverlo, prevede regole rigide di ammissione al gruppo, rispetto assoluto della legge mosaica, osservanza rigorosa di norme di purità, comunione totale dei beni, continue pratiche ascetiche e lettura costante della Scrittura. La "quarta scuola" infine ( Guerra 2.,118; Antichita 18,2.3-2.5), fondata da Giuda il Galileo (nativo in realtà di Gamala nella Gaulanitide) nel 6 d.C., al momento cioè della riduzione della Giudea a provincia romana da parte dell'imperatore Augusto, è un movimento insieme religioso e politico Giuseppe oscilla nelle sue due opere tra l'affermazione duramente polemica che esso «non aveva nulla in comune con gli altri» ( Guerra 2.,118) e l'affermazione assai più attendibile che, tolto l'anelito appassionato alla libertà, i seguaci di Giuda «per tutto il resto vanno d'accordo con la dottrina dei farisei» (Antichita 18,2.3); e mentre definisce abitualmente i sicari successori di Giuda ÀTicrtai, briganti, deve ammettere tuttavia che i loro capi, Giuda e Menahem, erano in realtà croqncrtai, dottori della legge - che da una interpretazione radicale del primo comandamento (Jahvè è l'unico signore di Israele) deduce l'impossibilità per i Giudei di accettare sovrani ("padroni" dice in realtà Giuda) stranieri e la necessità quindi di opporsi al dominio romano e di combattere ogni forma di collaborazionismo politico, rifiutandosi in particolare di pagare il tributo a Cesare' 1• Erroneamente'6 essa è stata per lungo tempo identificata tout court col movimento di liberazione della Palestina, a sua volta definito genericamente movimento zelota (gli zeloti sono invece un gruppo particolare di ribelli della rivolta giudaica del 66, espressione prevalentemente della classe sacerdotale; successori, ben più radicali però, di Giuda sono soltanto i cosiddetti sicari, al tempo della guerra capeggiati dai suoi nipoti Menahem ed Eleazaro). Il suo rifiuto di accettare il censimento della popolazione giudaica e il pagamento del tributo a Cesare, conseguenti alla riduzione della Giudea a provincia romana e ritenuti incompatibili con l'appartenenza del popolo esclusivamente a Jahvè, ha dato comunque origine a una serie di rivolte contro i Romani e di lotte fratricide in Palestina che culmineranno nella guerra del 66 e nel tragico episodio della fortezza di Masada. Ha mai appartenuto Gesù a qualcuno di questi gruppi? O era com un-

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que vicino a qualcuno di essi? Ai sadducei nessuno lo pensa. L'origine prevalentemente sacerdotale (mentre Gesù era laico), il legame privilegiato col tempio (che Gesù non sembra aver frequentato molto, e al quale anzi non ha risparmiato critiche), la provenienza quasi sempre aristocratica (mentre Gesù viveva soprattutto tra il "popolo della terra"), il carattere fortemente conservatore, l'atteggiamento sostanzialmente filoerodiano e filoromano e l'ostilità a ogni forma di messianismo (che urtano chiaramente contro l'orientamento apocalittico e messianico di Gesù) sono tutti elementi che fanno dei sadducei il gruppo più distante dalle persone di Gesù e dei suoi discepoli. Non a caso, secondo i vangeli, il processo e la condanna a morte di Gesù saranno opera soprattutto dei sommi sacerdoti, con ogni probabilità in maggioranza sadducei, e secondo gli Atti degli Apostoli gli scontri dei discepoli di Gesù dopo la sua morte avverranno egualmente con le autorità sacerdotali, presumibilmente sadducee. Il sadduceismo costituisce quanto di più lontano possa immaginarsi dal movimento di Gesù. Ma anche al gruppo degli esseni di Qumran si può escludere con certezza che Gesù abbia potuto appartenere o essere vicino, benché spesso lo si sia voluto sostenere. Ci sono, è vero, alcuni elementi che possono accostare questi esseni a Gesù e che hanno fatto realmente pensare a qualche studioso che Gesù abbia fatto parte del loro gruppo o almeno ne sia stato influenzato: l'importanza particolare della preghiera, il grande rigore morale, la scelta della povertà e quella del celibato, l'attesa messianica e l'orientamento apocalittico, l'amore speciale per la Scrittura. Ma altri elementi, più significativi di questi perché più caratteristici del gruppo in particolare, differenziano nettamente gli esseni di Qumran da Gesù: il legalismo esasperato che pone sopra ogni cosa l'osservanza meticolosa e formale della legge (che è molto lontano dalla libertà manifestata da Gesù nei confronti di alcune norme della legge); l'ossessione per la purità che porta gli esseni a moltiplicare le pratiche rituali e a evitare ogni rapporto con persone ritenute impure (mentre Gesù non sembra avere avuto alcun particolare scrupolo nei confronti delle norme di purità); il carattere fortemente ascetico che li spinge alla separazione dal mondo e all'esclusione delle donne dalla comunità (così in contrasto con l'abitudine di Gesù di vivere tra la gente e senza affatto evitare le donne); la chiusura "nazionalistica" che porta gli esseni al rifiuto e alla condanna dei pagani (nei confronti dei quali Gesù non mostra alcuna ostilità e ai quali sembra anzi aver promesso la salvezza futura). Se per Giovanni Battista si può anche pensare a qualche affinità, ed eventualmente anche a qualche rapporto, con

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gli esseni, lo stesso non può dirsi per Gesù, il cui spirito non ha nulla di ascetico e di settario e i cui discepoli non costituiscono infatti in alcun modo una setta di asceti. E non a caso del resto i vangeli non nominano mai gli esseni e distinguono nettamente l'atteggiamento di Gesù da quello di Giovanni. Un discorso diverso deve farsi per la "quarta scuola" e i farisei. Da H. S. Reimarus' 7 a S. G. F. Brandon' 8, a R. A. Horsley' 9 e a P. Fredriksenw, e in una certa misura oggi anche con E. P. Sandersi•, una interpretazione politica della predicazione di Gesù, o almeno l'idea di una sua condivisione degli ideali escatologici e nazionali di Giuda il Galileo, sono state più volte sostenute e tornano periodicamente a farsi sentiren. È naturalmente la condanna di Gesù come re dei Giudei da parte del governatore romano Ponzio Pilato che costringe inevitabilmente a interrogarsi sul carattere politico della sua azione e predicazione. E ci tornerò quindi in seguito, a proposito dell'aspetto politico del suo annuncio del regno di Dio. Ma è anche l'origine galilaica di Gesù che spinge spesso in questa direzione. Come ho già ricordato sopra, fino a pochi anni fa la tradizione degli studi ha considerato infatti la Galilea una regione sul piano politico perennemente inquieta e sempre pronta alla ribellione. E il fatto che Giuda, ritenuto il fondatore del movimento zelota nel suo complesso, fosse di origine galilaica, ha spinto spesso a ritenere che in qualche modo Gesù abbia dovuto sentirne l'influenza ii. In realtà si tratta di due convinzioni prive di qualunque fondamento'+. La Galilea non è affatto più turbolenta della Giudea sul piano politico. Come è del tutto falsa l'immagine di una Galilea pagana, così infatti è falsa anche l'immagine di una Galilea rivoluzionaria. In tutto il periodo che va dal 4 a.C., anno della morte di Erode il Grande, al 66 d.C., anno dello scoppio della guerra giudaica contro Roma, è riportato nelle fonti un solo episodio di rivolta che riguardi direttamente la Galilea: l'assalto alla reggia di Sepphoris nel 4 a.C. da parte di Giuda figlio di Ezechia ( Guerra 2,56; Antichita 17,271), che non c'è motivo di identificare con Giuda il Galileo. E dal 6 d.C., anno della riduzione della Giudea a provincia romana, non c'è comunque in quelle fonti nessun episodio di ribellione che riguardi la Galilea. Sono al contrario la Giudea, e Gerusalemme in particolare (in occasione soprattutto delle grandi festività religiose), i focolai maggiori di rivolte contro i Romani. Il fatto che Giuda fosse di origine galilaica significa d'altra parte ben poco. Poiché il censimento e il tributo imposti dai Romani contro cui egli protestava riguardavano non la Galilea, governata

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da Antipa, ma la Giudea, in quanto provincia romana, è pressoché certo che sia stata la Giudea, non la Galilea, il teatro principale della sua protesta. Cosa che il passo sopra citato di Guerra 2,u8, col suo riferimento a un'azione svolta da Giuda «sotto di lui» (cioè il prefetto della Giudea) e contro «gli abitanti» (della provincia della Giudea), conferma in maniera evidente. In realtà non abbiamo nessun elemento per accostare in maniera significativa la predicazione di Gesù al movimento di Giuda, che nei vangeli non è mai ricordato. Le conclusioni che spesso sono state tratte dai soprannomi degli apostoli (Simone zelota, Giuda Iscariota, Pietro figlio di Giona, Giacomo e Giovanni figli del tuono) non hanno alcun valore. E checché ne pensino Brandon e Horsley, la risposta di Gesù alla domanda di farisei ed Erodiani sulla liceità del tributo a Cesare costituisce una decisa presa di distanza dalle idee di Giuda. Il riferimento a Giuda il Galileo e ai suoi successori spinge tuttavia a ricordare anche altri personaggi menzionati da Giuseppe nelle sue due opere maggiori, che hanno combattuto per la libertà di Israele. Nel 4 a.C., alla morte di Erode il Grande, scoppiarono infatti in tutta la Palestina (Galilea, Perea e Giudea) una serie di rivolte contro il dominio erodiano e romano, i cui capi, Giuda, Simone e Atronge, a detta di Giuseppe, aspiravano addirittura a farsi re e raccolsero un grande numero di seguaci'5• E nel racconto della guerra giudaica contro Roma del 66 d.C., Giuseppe ricorda in particolare due leader: Menahem, di cui una tarda tradizione rabbinica sembra accennare addirittura alla pretesa messianica' 6 , e Simone bar Giara, che, fatto prigioniero dai Romani, sarà esposto come il capo principale della rivolta nel trionfo imperiale. Si tratta tuttavia di movimenti non soltanto messianici, ma schiettamente politici e militari, contro i quali infatti si mossero immediatamente i Romani, e ai quali chiaramente Gesù non può essere minimamente accostato. Vanno piuttosto ricordati altri due personaggi che apparvero, secondo Giuseppe, il primo sotto il procuratore Cuspio Fado (44-46), il secondo sotto Antonio Felice (52-58): Teuda e l'Egiziano (Antichita 20,97-98; 169-172.), non a caso menzionati anche dagli Atti degli Apostoli (5,36; 2.1,38), perché la loro ispirazione è più schiettamente religiosa e la loro affinità con Gesù indubbiamente maggiore. Pur promettendo anch'essi la fine del dominio dei Romani, si presentano infatti non come pretendenti regali al comando di eserciti, come i precedenti, ma come profeti (per Giuseppe ciarlatani) che promettono di compiere miracoli come quelli dell'esodo (il passaggio del fiume Giordano e la caduca delle mura di Ge-

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rico) e di realizzare così le attese messianiche di Israele. Il successo notevole della loro predicazione, in grado evidentemente di mettere in serio pericolo l'equilibrio politico della regione, fece sì comunque che, diversamente da quanto era avvenuto in precedenza col movimento di Gesù, anche contro di loro intervenissero i Romani che spensero immediatamente ogni potenziale rivolta. Ed è difficile vedere anche nella loro azione una reale affinità con la predicazione di Gesù. Li ricorderò comunque in seguito, in relazione soprattutto alle ipotesi di E. P. Sanders, che non a caso proprio a loro fa un particolare riferimento per un eventuale accostamento all'azione di Gesù. Il vero problema è in realtà quello dei farisei. Prima e seconda ricerca su Gesù, come ho già detto, non avevano infatti dubbi. I farisei costituivano per loro il gruppo dominante del giudaismo del tempo, coloro che, ritenendosi tutori fedeli della legge mosaica, ne ispiravano e controllavano la religiosità, sia a Gerusalemme che in Galilea. E sono stati il suo scontro con i farisei sul problema dell'osservanza della legge mosaica, e in particolare la sua critica alle norme di purità e le sue trasgressioni del sabato, che hanno portato a morte Gesù. Ma la ricerca attuale non è di questo avviso. Per essa il fariseismo non ha affatto quella connotazione negativa che, basandosi essenzialmente sui vangeli canonici, gli attribuivano la prima e la seconda ricerca. E comunque il giudaismo del tempo di Gesù non può essere identificato col fariseismo. In esso convivevano gli orientamenti più diversi e i farisei non avevano maggiore autorità di altri. Il potere era ancora in gran parte nelle mani dei sacerdoti, che controllavano il paese con la loro autorità su quello che del potere era il luogo centrale, cioè, più ancora della legge, il tempio. D'altra parte il nucleo essenziale del fariseismo, come del sadduceismo, era certamente a Gerusalemme, non nella Galilea. E non vi è ragione di supporre che nella sua predicazione in Galilea Gesù abbia preso una posizione critica contro la legge mosaica. È difficile perciò ammettere con i vangeli che ci sia stato uno scontro violento di Gesù con i farisei e che sia stato proprio lo scontro con i farisei a provocare la sua morte. Per molti aspetti si può al contrario sostenere che la spiritualità di Gesù fosse assai vicina a quella farisaica (se non addirittura che Gesù fosse un fariseo). L'assenza dei farisei dai racconti della passione dei vangeli sinottici conferma del resto che essi non hanno avuto alcun ruolo nella condanna di Gesù. I veri responsabili di questa condanna sono in realtà i sommi sacerdoti e il governatore romano. E l'elemento decisivo dello scontro è costituito

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dall'azione provocatoria di Gesù nel tempio, accompagnata da parole di minaccia della sua distruzione. Il problema richiederebbe una lunga discussione, che è impossibile fare in questa sede. Basti dire perciò che io non credo che si possa aderire, se non in minima parte, a queste opinioni. Che il fariseismo costituisse l'orientamento spirituale dominante del giudaismo al tempo di Gesù, e che assai più del sacerdozio avesse quindi una presa particolare sul popolo, non lo suggeriscono soltanto i vangeli canonici, ma lo afferma esplicitamente, sia pure con qualche esagerazione, Giuseppe, che non solo lo definisce «la prima scuola» ( Guerra 2,162), ma dei farisei in particolare scrive: «Con queste loro convinzioni hanno grande influenza presso il popolo, e tutto il culto divino, per quanto attiene sia alle preghiere sia ai sacrifici, si svolge secondo le loro indicazioni. Tanta stima viene loro testimoniata dalle città per il loro praticare sempre il meglio riguardo al modo di vita e alla dottrina» 27 (si noti in particolare il riferimento esplicito al culto, dove ci si aspetterebbe una influenza soprattutto dei sacerdoti, e quindi dei sadducei). E che l'autorità dei farisei giungesse fino alla Galilea (come affermano chiaramente i vangeli canonici) non lo conferma soltanto di nuovo Giuseppe, quando narra per esempio che dell'ambasceria di quattro persone inviata dal governo di Gerusalemme per togliergli il comando della Galilea nella guerra giudaica contro Roma facevano parte ben tre farisei 8, ma lo suggeriscono in maniera evidente la lontananza del tempio, nel quale possiamo pensare che avessero influenza soprattutto i sacerdoti, e quindi i sadducei, e la presenza invece delle sinagoghe, nelle quali, non essendovi culto sacrificale, era probabilmente la spiritualità farisaica ad avere maggior peso. Che Gesù d'altra parte col suo atteggiamento nei confronti della legge mosaica non abbia suscitato le critiche dei farisei e che sia stato invece l'episodio del tempio a provocare la reazione decisiva dei sommi sacerdoti è ancora meno credibile. L'ipotesi oggi molto diffusa che il conflitto tra Gesù e i farisei sul tema della legge sia in gran parte il prodotto della polemica scoppiata dopo il 70 tra i discepoli di Gesù e il nascente giudaismo rabbinico, erede legittimo di quello farisaico, ha scarso fondamento. Il giudaismo rabbinico ha affermato molto lentamente la propria autorità sul popolo di Israele e non è semplicemente l'erede del fariseismo. Rappresenta piuttosto un tentativo di ridurre a unità le diverse correnti del mondo giudaico. E il Vangelo di Marco è sorto comunque già intorno al 70, prima quindi di qualunque affermazione del giudaismo rabbinico. Il 2

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conflitto di Gesù con i farisei di cui parla Marco non è perciò la proiezione al tempo di Gesù di una polemica degli evangelisti con i saggi di Jamnia. Con ogni probabilità l'importanza dei farisei nel mondo giudaico era più grande al tempo di Gesù che non dopo il 70. E le controversie sulla osservanza della legge di Mc. 2,1-3,6 sono un pezzo di tradizione che ha le sue radici nella vicenda stessa di Gesù. Il comportamento di Gesù nei confronti della legge mosaica è indubbiamente difficile da definirsi con chiarezza ma, come dirò in seguito, ha suscitato certamente riserve e critiche da parte dei farisei. I vangeli (e prima di loro già la fonte Q che è dietro Luca e Matteo, con la sua polemica contro Israele) hanno probabilmente accentuato l'entità del conflitto, ma non lo hanno sicuramente inventato. Mentre per l'episodio del tempio, come pure accennerò in seguito, si tratta di un gesto simbolico di Gesù che assai difficilmente può aver provocato una reazione così violenta da parte dei sacerdoti da condurlo a morte. L' assenza dei farisei dai racconti della passione dei vangeli sinottici, contraddetta comunque dal Vangelo di Giovanni, significa d'altra parte ben poco, poiché in quei racconti sono presenti continuamente, in quanto membri del sinedrio, gli scribi, che per i vangeli sono sostanzialmente, o quanto meno prevalentemente, i capi dei farisei" 9 • Anche i sadducei non compaiono infatti nelle storie della passione dei sinottici, ma vi sono ben presenti in quanto prevalentemente sadducei sono i sommi sacerdoti. Il mondo giudaico, come ho detto, non si esauriva però in questi soli orientamenti. A parte il fatto che, come indica in maniera chiara già il numero non particolarmente elevato dei loro membri fornito da Giuseppe ( 6.000 per i farisei, 4.000 per gli esseni), con ogni probabilità la maggioranza della popolazione giudaica non aderiva a nessuno di questi orientamenti, accanto ad essi, e spesso in conflitto con essi (con l'aristocrazia del tempio in particolare), c'erano movimenti messianici, correnti apocalittiche e gruppi penitenziali di vario genere. E, come subito vedremo parlando del suo annuncio del regno di Dio e della sua pretesa messianica, proprio a questi è più vicino Gesù. Anche se è difficile stabilire con certezza da dove l'avesse assorbita, la forma della religiosità popolare che egli maggiormente condivideva non era tanto infatti quella farisaica (come dai tempi di A. Geiger tendono prevalentemente a sostenere gli studiosi ebrei), né si nutriva d'altra parte soltanto dei salmi e dei profeti (come fino alla svolta dell'escatologia conseguente avevano quasi sempre sostenuto gli studiosi cristiani), ma subiva certamente la forte influenza delle correnti apocalittiche e dei movimenti messianici. I due secoli a cavallo della nostra

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era costituiscono infatti proprio il periodo della massima espansione della spiritualità apocalittica e dell'attesa messianica. L'aspettativa messianica classica, e più diffusa nel popolo, che dopo l'esilio aveva conosciuto un periodo di progressivo indebolimento, si esprime per esempio nel I secolo a.C. nei Salmi di Salomone, un testo ritenuto tradizionalmente di ispirazione farisaica, ma in realtà espressione piuttosto delle speranze popolari di carattere apocalittico: qui si manifesta in tutta la sua forza l'attesa di quel discendente della famiglia di David (per la prima volta definito esplicitamente figlio di David), che avrebbe dovuto restituire al popolo giudaico libertà, pace e giustizia, di cui parlano così spesso i vangeli in riferimento a GesÙ 30 • E anche se i loro leader aspirano alla regalità, ma non sembrano essere pretendenti messianici, o rivelano soltanto un carattere profetico, movimenti messianici possono essere ritenuti sia quelli di Giuda, Simone e Atronge apparsi, secondo Giuseppe, nelle varie regioni della Palestina alla morte di Erode il Grande, nel 4 a.C., sia quelli più tardi di Teuda e dell'Egiziano ricordati anche dagli Atti degli Apostoli. Concezione tipicamente apocalittica, e non veterotestamentaria, è inoltre quella della storia come teatro della lotta tra Dio e Satana3' con la conseguente attesa di un regno di Dio che ponga fine all'attuale potere del demonio; concezione continuamente presente infatti nei testi di Qumran, ma che vedremo del tutto caratteristica della predicazione di Gesù 3". E una corrente apocalittica particolarmente significativa si esprime per esempio nei libri di Daniele e di Enoch: qui compare tra l'altro quella figura celeste del Figlio dell'uomo che costituisce oggi il problema più dibattuto della predicazione di Gesù, e della sua pretesa messianica, e del quale dovrò quindi parlare più avanti. Sappiamo inoltre dalle fonti della comparsa in quel periodo di vari movimenti penitenziali che esercitavano un influsso notevole sulla gente. Purtroppo li conosciamo poco. Giuseppe ricorda nella sua autobiografia che da giovane frequentò un asceta di nome Banno (Vita 11-12.), ma non presta loro particolare attenzione e si limita, come ho detto, a ricordare le quattro scuole dei sadducei, dei farisei, degli esseni e dei seguaci di Giuda il Galileo. E le fonti cristiane in proposito (Giustino, Egesippo, Epifanio), che ricordano in particolare l'esistenza di numerosi gruppi battisti, sono troppo tarde e imprecise per essere prese in considerazione. Ma su uno di questi movimenti penitenziali siamo abbastanza informati, ed è proprio quello che ha sicuramente influenzato Gesù.

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Gesù aderisce al movimento di Giovanni Battista E avvenne in quei giorni che Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni Mc.1,9

Dopo queste cose Gesù andò con i suoi discepoli nella regione della Giudea e là si tratteneva con loro e battezzava

Gv. 3,H

Nel l8 d.C., e secondo il sincronismo molto attendibile offerto da Luca nel suo vangelo (3,1-l: «Nell'anno quindicesimo dell'impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell' lturea e della Traconitide, e Lisania tetrarca dell 'Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa ») probabilmente nella seconda metà di quell'anno, apparve nel deserto della Giudea una singolare figura di asceta e di profeta, secondo Le. 3,l di origine sacerdotale, della tribù quindi di Levi: Giovanni, da quello che appariva come l'elemento più caratterizzante della sua predicazione presto detto il Battista (Mc. 1,4: « Vi fu Giovanni che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati»; Antichita 18,117: «Era Giovanni un uomo retto, il quale invitava i Giudei a praticare la virtù, la reciproca giustizia e la pietà verso Dio, e quindi ad accostarsi al battesimo»). Sul contenuto e sul carattere della sua predicazione possediamo due tipi di testimonianze molto diverse tra loro, ma che in qualche modo si completano a vicenda. In un'interpretazione schiettamente teologica, che in Giovanni vede non il fondatore di un autonomo movimento di rinnovamento ma il precursore di Gesù, l'Elia tornato sulla terra che annuncia la venuta del Messia - secondo la profezia, opportunamente modificata dalla prima alla seconda persona, passando cioè dal riferimento a Dio a quello al Messia, di Mal. 3,1: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me» (Mc. I,l: «davanti a te»), e 3,l3: «Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore» -, ce ne parlano tutti e quattro i vangeli canonici, e in Luca e in Matteo più

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precisamente la fonte Q Ma in termini assolutamente neutrali, anche se privi, come sempre nella sua opera, della più caratteristica componente di ispirazione profetico-messianica, e quindi fortemente moraleggianti, che non conoscono alcun rapporto tra Giovanni e Gesù, lo ricorda anche Giuseppe nelle Antichità giudaiche ( 18,116-119 ). Con queste due testimonianze possiamo avere un'idea abbastanza precisa della sua predicazione. Giovanni aveva dato vita nel deserto della Giudea (secondo I' interpretazione, da intendersi in senso lato, di Mt. 3,1), presso il fiume Giordano (più esattamente però al di là del Giordano, nel territorio della Perea), a un movimento di rinnovamento a carattere penitenziale. Il suo messaggio cçmsisteva in un richiamo pressante del popolo al riconoscimento dei propri peccati, e quindi al pentimento e ali' adozione di uno stile di vita rigoroso, in vista del giudizio imminente di Dio («il giorno grande e terribile del Signore» di Malachia). E al pentimento doveva accompagnarsi un rito particolare di purificazione: il penitente era invitato non a compiere gli abituali sacrifici nel tempio di Gerusalemme (ed è chiaro quindi che Giovanni, pur essendo di stirpe sacerdotale, riteneva del tutto insufficienti questi sacrifici) ma a sottoporsi a un lavacro battesimale nel Giordano, come segno particolare, e perciò unico, del!' avvenuta conversione. Giuseppe in realtà presenta in maniera abbastanza scolorita la predicazione di Giovanni: per lui, come ho detto, il Battista si limitava a invitare i Giudei alla pietà verso Dio e alla giustizia reciproca; e « il battesimo sarebbe stato accetto a Dio non per ottenere il perdono dei peccati ma per la purificazione del corpo, in quanto l'anima era già stata purificata dall'esercizio della giustizia» (Antichità 18,117). L'autore sembra dunque suggerire che la predicazione di Giovanni si limitasse al richiamo a una più rigorosa vita morale basata sul rispetto assoluto della legge. Nessun accenno esplicito fa invece Giuseppe all'elemento propriamente escatologicoapocalittico della predicazione di Giovanni: l'imminenza del giudizio divino, e l'urgenza quindi del pentimento in vista di questo giudizio. E il battesimo appare nelle sue parole come segno dell'avvenuta conversione e mezzo di purificazione del corpo, senza alcuna particolare efficacia per il perdono dei peccati. Ma la fonte Q riassume invece in questo modo la predicazione di Giovanni: « Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: "Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all'ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione e non crediate di poter dire dentro di voi: Abbiamo Abramo per padre! Perché io vi dico

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che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco"» (Mt. 3,7-10/ Le. 3,7-9 ). Nello stile e con la veemenza dei profeti di sciagura e degli scritti apocalittici Giovanni annunciava dunque l'approssimarsi minaccioso del giudizio divino. E invitava i sadducei e i farisei, rappresentanti tipici del sistema religioso dominante, a non considerarsi giusti per il solo fatto di appartenere al popolo eletto, ma a cambiare radicalmente vita, facendosi battezzare. Il battesimo d'altra parte, non a caso definito "battesimo di conversione", a differenza di quello che dice Giuseppe era secondo Marco (1,4), e come confermano i vangeli di Luca e dei Nazareni, non soltanto «per la purificazione del corpo» ma proprio « per il perdono dei peccati» (eiç èiEcnv àµapnwv)'. Benché sia difficile dire quale fosse precisamente la sua efficacia, sembra dunque che avesse un qualche carattere specificamente "sacramentale" e fosse quindi ancor più in tensione con la prassi sacrificale del tempio. Il perdono dei peccati era legato al battesimo, non ai sacrifici. E il Vangelo di Marco e la fonte Q ricordano entrambi che nel messaggio di Giovanni c'era ancora un altro elemento, che Giuseppe tace del tutto: la venuta, come esecutore del giudizio di Dio, di un altro personaggio fornito rispetto a lui di maggiore autorità (Mc. 1,7: «Viene dopo di me colui che è più forte di me»); una venuta che la fonte Q fa descrivere a Giovanni in questi termini: «Io vi battezzo nell'acqua per la conversione; ma colui che viene (6 ÈpxoµEvoç) dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in spirito santo e fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile» (Mt. 3,u-12./Lc. 3,1617 ). Oltre a invitare al pentimento e al battesimo in vista del giudizio di Dio, Giovanni annunciava dunque la venuta imminente di un altro personaggio, più forte di lui: una figura che possiamo definire genericamente messianica, in quanto avrebbe adempiuto al compito specifico del Messia di dare inizio alla manifestazione della regalità di Dio, ma che si sarebbe presentata con un carattere messianico che non era il più tradizionale. Questo personaggio avrebbe aperto infatti la strada alla sovranità di Dio non tanto liberando Israele dal dominio straniero, e restituendogli quindi la sua sovranità, secondo quella che era la speranza più diffusa del popolo nella venuta del figlio vittorioso di David, ma dando inizio concreto al giudizio di Dio sul mondo intero, come insegnava soprattutto la tradizione apocalittica di Daniele e di Enoch.

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Il movimento di Giovanni aveva dunque un carattere veramente rivoluzionario. Si allontanava in maniera assai netta dalla religiosità ufficiale su due punti che per essa erano decisivi: il valore dei sacrifici e l'attesa del Messia. E la testimonianza di Giuseppe mostra in maniera evidente che riscosse un notevole successo. Ponendolo all'ombra del successivo ministero di Gesù i vangeli canonici danno l'impressione che la sua figura sia stata molto meno significativa di quella di Gesù. Egli non è in alcun modo il Messia, ma è solo il precursore del Messia: colui che ha il compito quindi di preparare soltanto la venuta vittoriosa del Messia. Da Marco a Giovanni si intensifica anzi in maniera evidente lo sforzo dei vangeli canonici di attenuare l'importanza del movimento del Battista, che come il Vangelo di Giovanni sembra suggerire in maniera particolarmente efficace anche dopo la morte del profeta dovette essere in forte concorrenza con quello di Gesù. Ma Giuseppe racconta invece che la sua influenza sul popolo era così grande che il sovrano della Galilea, Erode Antipa, di cui Giovanni era suddito, se ne preoccupò e, prima di doversene pentire, lo fece mettere a morte: Molti altri si univano a lui, perché gradivano moltissimo ascoltare le sue parole, e allora Erode, per timore che l'effetto della sua eloquenza spingesse quegli uomini alla sedizione - si aveva infatti l'impressione che quelli tutto avrebbero fatto se consigliati da lui - ritenne molto più salutare prevenirlo e farlo uccidere prima che da lui traesse origine una rivolta, piuttosto che, mutata la situazione, trovarsi in difficoltà tale da doversene pentire. Perciò, a causa di questo sospetto di Erode, Giovanni fu tratto in catene nella fortezza di Macheronte [... ]equi venne ucciso (Antichita 18,118-119).

Poiché Antipa non fece lo stesso più tardi nei confronti di Gesù, che provenendo dalla Galilea era anch'egli un suo suddito, è molto probabile che, oltre ad avere una connotazione più schiettamente sociale e politica, la predicazione di Giovanni abbia dato vita a un movimento più consistente di quello di Gesù. Tra coloro che vennero a farsi battezzare da Giovanni ci fu anche un uomo ancora giovane (in base ai dati, tuttavia assai vaghi, dei vangeli, la nascita in particolare avvenuta prima della morte di Erode nel 4 a.C., doveva avere poco più di trent'anni) proveniente dal villaggio di Nazaret in Galilea, di nome Gesù (Mc. 1,9: «E avvenne in quei giorni che Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni»), più

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esattamente, per distinguerlo da altri Gesù del tempo, Gesù figlio di Giuseppe ( Gv. 1,45; 6,42), Yehoshua ben Yosef. Non sappiamo quasi nulla di lui e della sua formazione precedente ( «gli anni oscuri di Gesù», come suona il titolo di un fortunato libro di R. Aron). Le pochissime notizie contenute nei racconti dell'infanzia di Luca e di Matteo hanno scarso valore storico, non soltanto perché sono state aggiunte più tardi a una tradizione su Gesù che, come mostra non solo Marco, ma anche Atti 1,22, cominciava in origine col battesimo di Giovanni (Luca afferma infatti che il dodicesimo apostolo in sostituzione di Giuda venne scelto tra coloro che erano stati con Gesù a partire dal battesimo di Giovanni), ma soprattutto perché sono determinate dall'intento squisitamente teologico di presentare Gesù come il Messia di Israele. È difficile in particolare pronunciarsi con assoluta sicurezza sulla nascita di Gesù a Betlemme e sulla sua origine davidica, affermate entrambe dalle storie dell'infanzia. Con ogni probabilità egli discendeva realmente dalla famiglia di David, dalla tribù quindi di Giuda. L'affermazione di Paolo su Gesù nella Lettera ai Romani (1,3b: «nato dal seme di David secondo la carne») e la notizia di Eusebio di Cesarea, presa dallo scrittore palestinese Egesippo, sulla ricerca da parte dell'imperatore romano Domiziano di personaggi davidici tra i parenti di Gesù\ col loro carattere di informazione storica, non di enunciato teologico (anche Paolo non dà a Gesù il titolo di Figlio di David, ma dice che egli è nato dal seme di David), sembrano infatti non lasciare dubbi. Forse si dovrebbe dare anzi più peso all'affermazione provocatoria di A. Schweitzer, secondo cui proprio l'origine davidica avrebbe contribuito a far ritenere a Gesù di essere il Messia 3• Ma quasi certamente Gesù era nato a Nazaret, non a Betlemme. La nascita a Betlemme risponde infatti chiaramente all'esigenza di mostrare in Gesù l'adempimento della profezia di Michea (5,1: «E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele»), ma non ha una base storica convincente. La spiegazione di Luca, che la pone in rapporto con un censimento ordinato da Augusto al tempo in cui era governatore di Siria Quirinio4, è notoriamente più che problematica. Il censimento della regione a noi noto per quegli anni, che difficilmente tra l'altro si è svolto con le modalità indicate da Luca (riguardava gli abitanti, non gli originari, del luogo), è quello effettuato da Quirinio nel 6 d.C., per la nuova provincia della Giudea. E questa data è inconciliabile con quella della nascita di Gesù, avvenuta sia per Luca che per Matteo prima della morte di Erode il

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Grande, prima quindi del 4 a.C. Al di fuori delle scorie dell'infanzia non soltanto non c'è nessun'altra affermazione della nascita di Gesù a Betlemme, ma vi sono numerosi riferimenti alla sua origine da Nazaret. E a Nazaret comunque, anche secondo i vangeli canonici, Gesù è cresciuto. Nazaret era un piccolo villaggio di poche centinaia di abitanti, quindi di nessuna importanza (in tutto l'Antico Testamento non è mai ricordato), distante però soltanto sei chilometri dalla città di Sepphoris, che era stata la capitale della tetrarchia di Antipa fino probabilmente al 18. Gesù era di origini contadine. Il padre aveva una bottega di falegname. La sua formazione religiosa, di cui i testi non dicono nulla (e che non autorizzano quindi a ricostruire con troppo ottimismo 1), ma che la sua predicazione successiva lascia in qualche modo intuire, sarà stata perciò quella che un normale ebreo osservante di origini modeste poteva ricevere, ogni giorno nella casa dei genitori e il sabato nella riunione del villaggio. La prima formazione di un ragazzo ebreo di ambiente contadino, con le conoscenze essenziali delle consuetudini e delle tradizioni del suo popolo, avveniva infatti nella famiglia e, anche se è assai difficile che a Nazaret ci fosse un edificio adibito a sinagoga, come sembrano affermare i vangeli sinottici (edifici del genere in Galilea dovevano essere allora rarissimi), molto probabilmente la piccola comunità si riuniva periodicamente per la lettura della Scrittura e la preghiera comune. A Nazaret quindi, nella casa dei genitori e nella riunione del sabato, Gesù ha assunto la sua fisionomia essenziale di ebreo osservante di origine popolare. Qui avrà acquisito anzitutto quella immagine di un Dio padre misericordioso che si china amorevolmente fin sulle più piccole delle sue creature che è tanta parte del messaggio delle sue parabole. E qui avrà preso in particolare quella consuetudine della preghiera frequente da solo, che secondo la testimonianza dei vangeli lo accompagnerà durante tutto il suo ministero e che richiederà anche ai suoi discepoli (Mt. 6,5-6). Ma qui avrà anche imparato quel rispetto sostanziale delle norme della legge e delle regole del culto che manterrà anche nella critica a una troppo angusta interpretazione farisaica. Qui avrà imparato a conoscere, come suggeriva E. Renan, la poesia religiosa dei salmi, che rispondeva in modo così particolare alla disposizione lirica del suo animo, e le visioni grandiose dei profeti (Isaia e Daniele soprattutto), che forniscono alimento alle sue speranze di un futuro radioso di Israele. E qui forse, se non proprio nella successiva consuetudine col Battista, avrà assorbito quella religiosità dei movimenti messianici e delle correnti apocalittiche che è tanta parte della spiritualità dell'epoca e che caratterizza indiscuti-

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bilmente la sua azione e predicazione. È possibile anche che, avendo più di trent'anni, già prima del battesimo abbia lasciato temporaneamente Nazaret e abbia avuto contatti con altri gruppi religiosi. Ma non ne abbiamo notizia ed è soltanto con il battesimo da parte di Giovanni che Gesù esce dall'oscurità per entrare nella storia6 • Non vi è alcun dubbio sulla storicità dell'avvenimento. Per gli evangelisti il battesimo di Gesù costituiva infatti un difficile problema che non si sarebbero mai creato da soli (è forse il caso più tipico in cui, per valutare l'autenticità di un episodio, gli esegeti applicano il cosiddetto criterio dell'imbarazzo). Da un lato sembrava significare che Gesù fosse, come tutti, bisognoso di penitenza, e quindi peccatore. Dall'altro poneva Gesù in una condizione di apparente inferiorità rispetto a Giovanni. È evidente infatti lo sforzo degli evangelisti di giustificare, e in qualche modo, per quanto riguarda il ruolo di Giovanni, anche di minimizzare, l'episodio, il cui protagonista diventa sempre più Gesù stesso. Si veda in particolare come lo presentano Matteo: «Allora Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui. Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: "Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?" Ma Gesù gli rispose: "Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia". Allora egli lo lasciò fare» (Mt. 4,13-15) 7 ; e Giovanni: «Il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: "Ecco l'agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: 'Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me'. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell'acqua, perché egli fosse manifestato a Israele"» (Gv. 1,29-31). E del resto l'episodio è raccontato da un numero così grande di fonti tra loro indipendenti, non soltanto canoniche ma anche apocrife (interessante è soprattutto il racconto assai diverso del Vangelo degli Ebrei, col suo riferimento a 1s. u,1-3, al riposo dello Spirito e alla regalità di Gesù 8), che è veramente impossibile dubitare della sua storicità. Era evidentemente un evento ben radicato nella tradizione, col quale si riteneva che avesse avuto il suo vero inizio la missione di Gesù. Come dobbiamo però interpretare la decisione di Gesù di andare a farsi battezzare da Giovanni e che cosa ha significato per lui l'episodio stesso del battesimo? I vangeli canonici non dicono nulla sul primo aspetto del problema e dal punto di vista storico non ha molto senso interrogarsi su di esso. La decisione di Gesù di farsi battezzare significa che egli riteneva di essere un peccatore bisognoso di penitenza? E che quindi egli si presenta

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in principio nella figura del penitente, come vuole P. W. Hollenbach? 9 È impossibile, e forse irrilevante, rispondere a questa domanda precisa.C'è una sola fonte che accenna al problema: il Vangelo dei Nazareni: «Ed ecco la madre del Signore e i suoi fratelli gli dicevano: "Giovanni Battista battezza per la remissione dei peccati, andiamo e facciamoci battezzare da lui". Ma egli disse loro: "In che cosa ho peccato perché debba andare e farmi battezzare da lui? A meno che questo stesso che ho detto sia ignoranza"» IO. Ma si tratta di un testo poco attendibile, che già cerca evidentemente di fornire una propria risposta al difficile problema. Quel che la decisione però certamente mostra è che a un certo punto della sua esistenza, probabilmente poco dopo i trent'anni, Gesù, che già aveva fatto la scelta di rimanere celibe ( una scelta di vita in Israele per quei tempi anomala, ma non del tutto eccezionale: celibe era presumibilmente Giovanni e celibi erano gli uomini di Qumran), ha ritenuto di lasciare la famiglia di origine per entrare a far parte di un movimento di rinnovamento. E ha scelto il movimento penitenziale di Giovanni perché riteneva evidentemente che tra i tanti orientamenti che esprimeva allora il giudaismo fosse il più convincente e impegnativo". Più importante è invece il secondo aspetto, il significato cioè che il battesimo di Giovanni ha avuto per Gesù. E non è facile conoscerlo. I vangeli sinottici considerano assolutamente decisivo e fondante l'episodio stesso del battesimo col quale Gesù ha accolto l'invito di Giovanni. Secondo loro, nel ricevere da Giovanni il battesimo nel Giordano Gesù ebbe infatti una rivelazione e una vocazione. « Uscendo dall'acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: "Tu sei il figlio mio, l'amato; in te ho posto il mio compiacimento"» (Mc. 1,10-u). La forma letteraria adoperata dagli evangelisti, leggermente diversa in Marco e nei sinottici successivi ( in Marco è apparentemente ancora un'esperienza del solo Gesù: è Gesù infatti che «vide squarciarsi i cieli», ed è a lui che si rivolge la voce; in Luca e Matteo è invece una vera e propria teofania: per Luca «il cielo si aprì», e in Matteo la voce si rivolge alla folla), è quella delle vocazioni della tradizione profetico-apocalittica. Ma il contenuto della rivelazione va molto al di là della chiamata di un profeta o di un veggente. Alla citazione di 1s. 42,1 ( «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio») Marco unisce quella di Sai. 2,7 ( «Egli mi ha detto: "Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato"»), un testo regale e messianico. Per lui dunque, e altrettanto chiaramente per i sinottici successivi, nel battesimo Gesù fece un'esperienza straordinaria:

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ricevette l'investitura a Messia. E infatti, una volta battezzato, Gesù comincia subito la sua missione messianica. Anche se l'inizio di un ministero pubblico autonomo è posto da Marco più tardi, al momento dell'arresto di Giovanni, non prima dunque probabilmente della prima metà del 29, nulla ci viene detto di quanto avvenne nel periodo tra il battesimo di Gesù e quell'arresto. Ma Gesù viene portato immediatamente nel deserto per esservi tentato da Satana. E questa, come mostra in maniera più esplicita il racconto così elaborato delle tentazioni della fonte Q (con il riferimento ai luoghi tradizionali della comparsa del Messia: il deserto, il tempio e il monte"; e la citazione di passi scelti con cura dalla Scrittura: Deut. 6,13; 6,16; 8,3), è già una preparazione alla sua azione messianica. Non c'è spazio quindi nel racconto per altri avvenimenti, ma tutto è contratto nei due soli momenti del battesimo (e tentazione) di Gesù e dell'arresto di Giovanni. Così il battesimo è realmente nei vangeli sinottici non soltanto l'inizio, ma il momento fondante della vicenda messianica di Gesù. Questo però è il racconto dei vangeli sinottici, che è chiaramente una interpretazione teologica, non un resoconto storico, dell'episodio del battesimo, come in genere della figura di Giovanni, considerato il "precursore" di Gesù. Ma, per quanto ancor più "teologico" dei sinottici, il Vangelo di Giovanni dà un'impressione diversa, e storicamente più convincente. Dopo il battesimo di Gesù, che non racconta in maniera esplicita, l'autore conosce un periodo di collaborazione tra Giovanni e Gesù. In contrasto apparente con i sinottici scrive infatti: «Dopo queste cose, Gesù andò con i suoi discepoli nella regione della Giudea e là si tratteneva con loro e battezzava. Anche Giovanni battezzava a Ennon, vicino a Salim, perché là c'era molta acqua; e la gente andava a farsi battezzare. Giovanni, infatti, non era ancora stato gettato in prigione» ( Gv. 3,22-24). Il battesimo di Gesù significa quindi per il quarto vangelo un'adesione più completa al movimento penitenziale del Battista, con la quale Gesù inizia un periodo di collaborazione con Giovanni. Gesù entra a far parte del gruppo stesso di Giovanni e per un certo tempo battezza insieme con lui: Giovanni in Samaria, Gesù in Giudea. La notizia è del tutto credibile. L'evangelista non avrebbe mai inventato un particolare che poneva di fatto Gesù in una condizione di inferiorità rispetto al Battista e non poteva non creare difficoltà al movimento dei seguaci di Gesù. E anche l'affermazione successiva di Gv. 4,1 che Gesù faceva discepoli e battezzava più di Giovanni, col commento (di carattere chiaramente redazionale; o forse addirittura una glossa?) di 4,2 che non

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era però Gesù stesso a battezzare, ma i suoi discepoli ( «Gesù venne a sapere che i farisei avevano sentito dire: "Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni", sebbene non fosse Gesù in persona a battezzare, ma i suoi discepoli»), mostra tutto l'imbarazzo che questa collaborazione di Gesù con Giovanni recava all'evangelista. Del resto, anche l'altra affermazione di Giovanni, secondo cui tra i primi seguaci di Gesù c'erano alcuni che erano stati precedentemente discepoli del Battista (1,35-37: «Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: "Ecco l'agnello di Dio". E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù»), appare indirettamente come una conferma di questa collaborazione. Quando Gesù ha cominciato il suo ministero particolare anche altri che erano stati con lui discepoli di Giovanni evidentemente lo hanno seguito. La notizia di questa collaborazione di Gesù con Giovanni è molto importante, per vari motivi. Anzitutto essa testimonia di una presenza di una certa durata di Gesù in Giudea. E questa presenza potrebbe essere la spiegazione più semplice sia di una certa conoscenza che di lui a quanto pare si aveva a Gerusalemme, sia di quei rapporti con abitanti della Giudea che Gesù mostra di avere al momento del suo ultimo soggiorno a Gerusalemme (Simone il lebbroso e la famiglia di Marta, Maria e Lazzaro a Betania, il proprietario della casa dove viene preparata in città la cena di pasqua). Come potrebbe essere la spiegazione di una eventuale conoscenza, e persino di quella influenza che in maniera per me molto discutibile vari autori vogliono vedere su di lui, della comunità di Qumran. Ma soprattutto, se questa collaborazione con Giovanni c'è stata, e Gesù per un certo tempo ha battezzato anche lui, dobbiamo necessariamente pensare che Gesù, sia stato o meno egli stesso un penitente, in questo periodo condividesse le idee di Giovanni. Predicasse anche lui un battesimo di penitenza in vista del giudizio divino e attendesse anche lui quel più forte che doveva battezzare in Spirito santo e fuoco. Più in generale la collaborazione col Battista da un lato dà fin dall'inizio alla spiritualità di Gesù quel carattere escatologico-apocalittico che conserverà a mio parere anche in seguito e che impedisce di vedere in lui quel semplice maestro di sapienza lontano da ogni fantasia apocalittica che vi vede una parte significativa della ricerca attuale'' (facendo spesso un discutibile ricorso alla raccolta di detti del Vangelo di Tommaso o ipotizzando eventualmente, con studiosi del calibro di H. Koester, J. S. Kloppenborg, P. Hoffmann e J. M. Robinson, un problematico strato pre-apocalittico nella fonte Q e magari un ancor più

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problematico successivo allontanamento di Gesù da Giovanni proprio su questo punto' 4 ); dall'altro indica che in questa fase del suo ministero la sua azione e predicazione non ha ancora alcun carattere messianico, ma resta quella di un profeta apocalittico. Il battesimo di Giovanni deve essere stata certamente per Gesù un'esperienza particolarmente forte, altrimenti la tradizione non ne avrebbe conservato la memoria in maniera così unanime e non avrebbe visto proprio in esso l'inizio della missione di Gesù. Ma, soprattutto se Gesù ha continuato a collaborare e a battezzare col Battista, come dice il quarto vangelo, difficilmente può aver costituito per lui quella vocazione messianica di cui parlano i vangeli sinottici (o quel conferimento della regalità cui sembra accennare il Vangelo degli Ebrei). Come scrivevo già più di dieci anni fa 15, se proprio vogliamo fare un'ipotesi sul contenuto di quella esperienza, allora, tra chi crede di poter scoprire nel racconto il ricordo storico della vocazione messianica di Gesù, da spiegare già nel senso del servo di Dio di lsaia'6, e chi invece vede in esso soltanto un documento della più antica cristologia palestinese, da interpretare nell'orizzonte del Figlio dell'uomo di Daniele' 7, è preferibile pensare all'esistenza del racconto originario (probabilmente di Gesù stesso) di una vocazione profetica, interpretato dopo la pasqua messianicamente (e con un'idea soprannaturale di Messia) dalla comunità palestinese, sulla base di Sai. 2.,7. Gesù non ha assunto immediatamente i caratteri, e non ha avanzato quindi subito le pretese, del Messia di Israele. Per un certo periodo deve aver condiviso la predicazione del Battista. Come Giovanni, si presentava anche lui come un profeta del tipo di Elia che veniva ad annunciare l'imminenza del giudizio divino e la prossima venuta del Messia. Questo periodo non è però durato a lungo. In quei « quaranta giorni nel deserto, tentato da Satana», di cui parla Mc. 1,13 da un punto di vista naturalmente anch'esso schiettamente teologico, non storico, e con un linguaggio squisitamente biblico, che uno stadio probabilmente più recente della fonte Q ha ricostruito e raccontato in maniera immaginosa con l'episodio delle tentazioni (Mt. 4,1-11/Le. 4,1-13), ma che corrispondono con ogni probabilità proprio al periodo della sua collaborazione col Battista, è maturata infatti in Gesù una scelta diversa.

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Gesù annuncia la venuta imminente del regno di Dio Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando la buona novella di Dio, e diceva: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino"

E gli scribi dei farisei, vedendo che mangiava con i pubblicani e i peccatori, dicevano ai suoi discepoli: "Perché mangia con i pubblicani e i peccatori?" Mc.1,16

Agli inizi del 2.9 il tetrarca Antipa, sovrano della Galilea e della Perea, temendo che la predicazione veemente di quel profeta provocasse lo scoppio di rivolte nella popolazione del suo territorio, e secondo Mc. 6,17-18 non sopportando anche le critiche che gli faceva per aver preso la moglie Erodiade al fratellastro Filippo (in realtà Erode), fece dunque arrestare il Battista e lo rinchiuse nella fortezza di Macheronte, presso il Mar Morto. Gesù lasciò allora la Giudea, che era stata fino a quel momento il luogo della sua azione e predicazione, e tornò in Galilea (Mc. 1,14) 1• Potrebbe sembrare un semplice cambiamento di luogo, dovuto alla necessità di portare il messaggio di Giovanni anche in altre regioni del paese. E se dovessimo seguire il Vangelo di Matteo, dovremmo in effetti pensare che Gesù continuò a predicare così come aveva fatto fin qui col Battista. Di Giovanni aveva scritto infatti Matteo (in maniera assai diversa da Marco e Luca) che «predicava nel deserto della Giudea dicendo: "Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!"» (Mt. 3,1-2.). E di Gesù afferma ora che, quando Giovanni fu arrestato, ritiratosi in Galilea, «cominciò a predicare e a dire: "Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!» (Mt. 4,17). Sembrerebbe cioè che la predicazione di Giovanni e quella di Gesù fossero perfettamente identiche. Che Gesù quindi anche in Galilea non abbia fatto altro che continuare il ministero iniziato col Battista. Ma se questo fosse stato il suo intento sarebbe assai strano che, all'arresto di Giovanni da parte di Antipa, Gesù abbia deciso di recarsi proprio nel territorio governato dal sovrano erodiano. Come sarebbe strano che, dopo aver arrestato Gio-

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vanni, Antipa non si sia preoccupato anche di questo suo discepolo, che ne continuava con successo l'opera E in realtà la predicazione di Gesù non fu più la stessa. Intanto il cambio di luogo non appare privo di significato. La Giudea, dove Gesù aveva predicato con Giovanni, era il cuore di Israele, il centro delle sue tradizioni. E Gerusalemme, la città santa capitale della Giudea, era la sede delle autorità religiose e politiche del paese. A Gerusalemme c' era soprattutto il tempio, a ricordare la presenza di Dio e la gloria di Israele; e la città era quindi il luogo del culto e del sacerdozio. Ma a Gerusalemme era anche particolarmente forte la presenza dei sadducei e dei farisei, i due gruppi che maggiormente contribuivano a definire e sostenere il sistema religioso del tempo. Ed è contro questo sistema religioso fondato sull'elezione di Israele e sul culto del tempio, e questi suoi rappresentanti, che come ho ricordato sopra si scagliava polemicamente ("razza di vipere!") la predicazione del Battista. Descrivendo l'azione di Giovanni, Matteo scrive infatti che molti farisei e sadducei venivano da Gerusalemme a farsi battezzare da lui (Mt. 3,5-7); e l'autore del quarto vangelo aggiunge che « i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo» ( Gv. 1,19 ). I due evangelisti più tardi, che sono anche quelli che meglio conoscono la realtà giudaica del tempo (Marco e Luca non sembrano conoscerla altrettanto bene), sanno infatti che una predicazione in Giudea, anche, e forse soprattutto, se indirizzata non soltanto alle élites spirituali ma a tutto il popolo, non poteva non suscitare l'attenzione particolare, e prima o poi la reazione, delle autorità religiose del paese. La venuta di Gesù in Galilea rispondeva a una strategia missionaria diversa. Significava anzitutto rinunciare al carattere sedentario della propria attività nel deserto per scegliere invece la condizione di perenne insicurezza e instabilità del profeta itinerante («il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo») che girava per le cittadine e i villaggi del paese predicando soprattutto all'aria aperta ma entrando anche spesso nelle case della gente 1. E significava poi scegliere come destinataria privilegiata della predicazione una regione marginale, lontana dal potere politico e religioso. Tanto più marginale, perché Gesù non si diresse ai centri più sviluppati della Galilea, come erano in particolare le due città di Sepphoris e Tiberiade, successive capitali della tetrarchia di Erode Antipa, ma elesse a suo quartier generale la zona del lago di Genezaret, popolata da pescatori e contadini. Ma era la predicazione stessa di Gesù che era cambiata. La presentazione del messaggio di Giovanni da parte di Matteo ricordata sopra si rivela 2



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infatti inattendibile. Dipende con ogni probabilità dal desiderio dell'evangelista di accentuare la continuità tra il Battista e Gesù. Secondo Marco in effetti, «dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando la buona novella di Dio, e diceva: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel vangelo"» (Mc. 1,14-15). Gesù dunque annunciava realmente l'avvento del regno di Dio, o dei cieli, come afferma Matteo. Ma secondo la fonte Q e lo stesso Marco la predicazione di Giovanni, come abbiamo visto, consisteva invece nell'annuncio non del regno, ma del giudizio, di Dio. Giovanni chiamava al pentimento e al battesimo in vista del «giorno grande e terribile del Signore». Perciò predicava in quel luogo classico di penitenza che è il deserto. All'arresto di Giovanni la predicazione di Gesù conobbe dunque una svolta. Se egli ancora chiedeva la conversione, il pentimento, come dicono entrambi gli evangelisti, lo faceva non più in vista dell'imminente giudizio di Dio, ma in vista dell'avvento del suo regno 4 • E a differenza di quanto da buoni teologi liberali pensavano Wellhausen e Harnack, ma come conferma tutto il resto della predicazione di Gesù, era questo avvento del regno, non la richiesta della conversione, l'elemento centrale del suo messaggio. Se la formulazione di Matteo, ponendo in primo piano l'esigenza del pentimento, può dare forse un'impressione diversa, in Marco l'accento è infatti tutto sul compimento del tempo e la vicinanza del regno 1• Il che non soltanto esigeva l'abbandono del deserto ma, come vedremo tra poco, comportava anche un forte cambiamento in tutta l'azione e predicazione di Gesù. L'annuncio dell'avvento imminente del regno come elemento centrale della predicazione di Gesù è evidentemente una convinzione e una interpretazione di Marco. Con i due versetti sopra citati egli ritiene di offrire una sintesi corretta di quella che era in questa fase la predicazione di Gesù. Ma a mostrare come la convinzione e interpretazione di Marco sia ben fondata, e che l'allontanamento da Giovanni non consista quindi, come vuole una parte della ricerca contemporanea,]. M. Robinson in particolare, nell'abbandono da parte di Gesù della prospettiva escatologico-apocalittica del Battista (ripresa poi nuovamente più tardi dai discepoli, nella redazione finale di Q) 6, non c'è soltanto la presenza del tema del regno, oltre che in Marco, nella gran parte delle fonti canoniche e apocrife ( Q prima di tutto, ma in maniera diversa anche Paolo, Luca, Matteo, Giovanni, il Vangelo di Tommaso, il Vangelo degli Ebrei); ma ci sono soprattutto alcuni degli elementi più incontestati della predicazione di Gesù in Galilea:

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l'annuncio delle beatitudini, che sono tutte promesse del regno di Dio ( in Le. 6,20/Mt. 5,3 le beatitudini cominciano proprio così: «Beati i poveri, perché vostro è il regno di Dio»); il messaggio delle parabole, che sono in gran parte similitudini del regno di Dio (la formula introduttiva delle parabole è normalmente: «Il regno di Dio è simile a»); e soprattutto le istruzioni impartite da Gesù ai discepoli al momento dell'invio in missione: «Predicate dicendo che il regno dei cieli è vicino» (Mt. 10,7 I Le. 10,9 ). In questa fase galilaica è veramente l'avvento imminente del regno di Dio il nocciolo della predicazione di Gesù. E questo indica un cambiamento rispetto a Giovanni. Non tutti gli studiosi per la verità sono d'accordo. Si ripresenta oggi di tanto in tanto la convinzione che Gesù sia rimasto sempre sostanzialmente fedele a Giovanni. Il giudizio estremamente positivo che secondo la fonte Q egli ha dato del Battista, « il più grande tra i nati da donna» (Le. 7,2.8/Mt. 11,11), spinge alcuni studiosi a vedere la missione di Gesù come prosecuzione sostanzialmente fedele di quella di Giovanni. E c'è chi, pur riconoscendo ovviamente le differenze tra loro, ritiene che Gesù non abbia soltanto conservato la prospettiva escatologica del Battista, il suo annuncio del giudizio imminente di Dio e la sua richiesta di pentimento, ma abbia anche continuato a battezzare come prima7• C'è probabilmente in questa posizione la resistenza ad ammettere un qualsiasi sviluppo e mutamento nel pensiero di Gesù 8 • Ma è molto difficile condividere questa convinzione. L'annuncio del regno e la minaccia del giudizio, anche se non si escludono a vicenda, perché in Giovanni al giudizio segue comunque il regno e in Gesù all'annuncio del regno si accompagna pur sempre l'esigenza della conversione (e la minaccia quindi del giudizio), sono due cose diverse e connotano in maniera diversa i loro autori. Giovanni appare nel deserto come un profeta che si colloca sulla scia dei profeti di sciagura veterotestamentari. La sua predicazione suona come un avvertimento a non farsi trovare impreparati all'imminente giudizio di un Dio che è visto anzitutto come giudice severo del suo popolo. Il giudizio terrà conto infatti delle opere compiute in seguito alla richiesta di pentimento (i «frutti degni della conversione» di cui parlano Luca e Matteo). Gesù appare in Galilea come un profeta che proclama la svolta salvifica attesa da Israele. La sua predicazione consiste prima di tutto, e soprattutto, nell'annuncio gioioso (l'evangelo, la "buona novella") della salvezza portata da un Dio che è padre misericordioso di ognuno. Gesù si rivolge infatti a Dio chiamandolo familiarmente abba, padre. E la salvezza

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non è per lui premio per le opere buone, ma dono gratuito di Dio (cfr. per esempio la parabola del figliol prodigo, oggi giustamente detta piuttosto del padre misericordioso, e quella degli operai dell'ultima ora). La salvezza, e con essa la remissione dei peccati, viene offerta a tutti, indipendentemente dai meriti di ciascuno. E chiede di essere accettata con fiducia, non di prepararsi rigorosamente ad essa. La prima risposta è infatti la fede, non la conversione. Luca ha colto perfettamente il cambiamento intervenuto nella missione di Gesù. Anche se ne ha conservato il giudizio lusinghiero sul Battista riportato dalla fonte Q (Le. 7,l8: «lo vi dico: fra i nati da donna non vi è alcuno più grande di Giovanni»), gli fa dire infatti con molta chiarezza: «La legge e i profeti fino a Giovanni; da allora è annunciato il regno di Dio» (Le. 16,16). Qualunque cosa volesse dire Matteo nel passo citato sopra, quello del regno è l'annuncio specifico, e nuovo, di Gesù. E il modo di vivere dei due profeti è infatti molto diverso. Vedremo tra un momento con maggiore attenzione quale era l'ambiente in cui si muoveva Gesù. Ricordiamo intanto che la sua predicazione non aveva il carattere ascetico e severo di quella di Giovanni, ma si presentava come un invito a vivere un tempo di gioia. Marco ha colto bene questo contrasto quando, in risposta alle critiche dei suoi avversari perché a differenza di quelli di Giovanni i suoi discepoli non digiunavano (Mc. l,18), fa affermare a Gesù: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze, mentre lo sposo è con loro?» (Mc. l,19). E in maniera ancora più efficace lo ha colto la fonte Q quando in risposta a quelle critiche fa dire a Gesù: «È venuto Giovanni Battista che non mangia pane e non beve vino, e dite: ha un demonio. È venuto il Figlio dell'uomo che mangia e beve; e dite: ecco un uomo mangione e beone» (Le. 7,33-34/ Mt. 11,18-19). Gesù (è lui per Qil Figlio dell'uomo) non è più soltanto un collaboratore di Giovanni. Il suo tempo è il tempo della misericordia, non della severità, di Dio, quindi della gioia, non del timore; della festa, non della penitenza (così anche Matteo nelle parabole del tesoro e della perla: l'avvento del regno è un'esperienza gioiosa che toglie valore a ogni altra cosa). Perciò Gesù non vive più nel deserto e non battezza più. La differenza tra la predicazione di Gesù e quella di Giovanni quindi c'è subito, ed è netta. Ma i due passi citati di Marco e Q non si limitano a sottolineare il carattere gioioso dell'annuncio di Gesù e l'atteggiamento personale che di conseguenza egli assume. Essi dicono qualcosa di più. Come ho già ricordato sopra, quando si è separato da Giovanni Battista, Gesù non ha soltanto lasciato la Giudea per la Galilea, ma ha scelto

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come quartiere generale della sua predicazione la zona intorno al lago di Tiberiade. La scelca aveva di nuovo un significato evidente. Il messaggio di Gesù, non a caso espresso prevalentemente nel linguaggio immaginoso e accessibile a tutti delle parabole 9, era rivolto alla gente più semplice della Galilea, i pescatori e i contadini della zona marginale e tranquilla del lago, non agli ambienti più benestanti e vicini al potere delle inquiete città galilaiche. Anche quando ricorda i viaggi di Gesù nella regione della Decapoli, verso Tiro (e Sidone; è possibile che a 7,24 anche Sidone venisse nominata) o Cesarea di Filippo, Marco tiene infatti a precisare che non si trattava delle città, ma del territorio (la xropa), dei confini (gli opta) e dei villaggi (le Kci:iµm) intorno alle città' 0 • In più di un'occasione Gesù ribadirà anzi non soltanto questa sua totale estraneità al mondo del potere e del denaro ma mostrerà anche la sua profonda diffidenza nei confronti di esso. Sul mondo del potere Marco ricorda infatti questa sua esortazione ai discepoli: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (10,41-44). E Le. 13,32 riporta un suo sferzante giudizio su Erode Antipa: «Andate a dire a quella volpe», che sembra indicarne soprattutto il carattere infido. Sui pericoli del denaro Marco ricorda d'alcra parte questo esplicito avvertimento di Gesù: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!» (10,23). E il discorso della montagna riporta queste sue significative esortazioni ai discepoli: «Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano [... ]. Perché, dov'è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore [... ]. Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'alcro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'alcro. Non potete servire Dio e mammona» (Mt. 6,19.21.24). Lo stile di vita di Gesù (che egli, come vedremo, richiede anche ai suoi discepoli) è improntato insomma a un radicalismo che non può essere in alcun modo attenuato: non ha proprio nulla né della prudenza "politica" nei confronti del potere né dell'accortezza "borghese" nei confronti del denaro. In verità, anche qui, facendo sempre uso del criterio di plausibilità storica, si è voluto recentemente sostenere da alcuni studiosi che Gesù debba necessariamente aver soggiornato a Sepphoris, la prima capitale della tetrarchia di Antipa, che distava solcanto sei chilometri da Nazaret. E da questo soggiorno a Sepphoris si sono volute dedurre importanti conse-

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guenze. Sepphoris, ricostruita magnificamente da Antipa dopo la distruzione da parte dei Romani del 4 a.C., non era soltanto sotto l'influenza diretta dei governanti erodiani, ma era anche una città fortemente ellenizzata. E a Sepphoris gli scavi archeologici hanno messo in luce i resti di un teatro greco fatto forse costruire proprio da Antipa. È stato facile dedurne che Gesù debba aver avuto una certa familiarità con la cultura greca e aver anche lavorato nella città erodiana, entrando in contatto con ambienti cittadini più benestanti e vicini al potere". Ma fare tutta questa costruzione sulla sola base del criterio di plausibilità storica è veramente arbitrario. La tradizione tace completamente su ciò. E per quanto riguarda comunque il ministero pubblico di Gesù i vangeli sinottici non nominano mai né Sepphoris né Tiberiade. Ma Gesù non si è limitato a questa scelta, ha fatto anche altro. Non ha avuto alcuna difficoltà a circondarsi non solo di uomini, ma anche di donne, che lo hanno seguito e aiutato nei suoi spostamenti, cosa certamente non abituale, e inevitabilmente oggetto di critiche, per un maestro ebreo del tempo. E a frequentare addirittura persone di dubbia moralità, quelle che i vangeli definiscono genericamente i pubblicani e i peccatori, cioè in sostanza i poco stimati, anzi assai malvisti, appaltatori delle imposte e tutti coloro che non osservavano rigorosamente la legge di Mosè (è questo con ogni probabilità il senso della definizione generica di peccatori'"). È arrivato anzi al punto di condividere addirittura con loro la tavola, con quello che significa per un giudeo il massimo della familiarità: quella commensalità che in Gesù non è soltanto uno degli aspetti più significativi del suo comportamento ma assurge a metafora preferita per indicare la vita futura nel regno di Dio''. E lo ha fatto non in maniera occasionale ed eccezionale, ma in maniera così naturale e abituale da suscitare la critica scandalizzata dei suoi avversari. «E gli scribi dei farisei, vedendo che mangiava con i pubblicani e i peccatori, dicevano ai suoi discepoli: "Perché mangia con i pubblicani e i peccatori?"» (Mc. 2,16). Non si tratta quindi di un semplice atteggiamento anticonformista, e neppure di una semplice mancata osservanza di norme legali da parte di Gesù, di quella sua interpretazione della legge che, come vedremo, se da un lato la rendeva più esigente e radicale, dall'altro però ne ridimensionava drasticamente alcune prescrizioni. Si tratta invece di un comportamento che voleva avere il carattere di segno profetico e che, come numerose parabole (soprattutto lucane: il fariseo e il pubblicano, gli invitati alla cena) confermano nella maniera più evidente, dobbiamo leggere in rapporto ali' annuncio del regno di Dio. Quel gesto

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promette ai commensali che nel regno di Dio non entreranno soltanto sadducei e farisei, le persone rispettabili che osservano rigorosamente la legge, ma anche pubblicani e peccatori, ai quali Dio nella sua misericordia concede il perdono. A sentire la fonte Q, nel regno di Dio non entreranno anzi soltanto Giudei, figli di Abramo, ma anche gentili (Le. 13,l8-29/Mt. 8,11-12: «Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio»). E l'affermazione (inaudita per un giudeo, quindi poco plausibile?) sembra proprio da attribuire a Gesù' 4 • Se è veramente a loro che il passo alludeva originariamente si potrebbe quindi pensare che Gesù abbia rivolto il suo annuncio anche ai gentili. Sul significato di questo detto (un'allusione all'idea tradizionale del pellegrinaggio escatologico dei popoli a Gerusalemme?) e soprattutto sulla sua portata per la predicazione stessa di Gesù in Galilea si possono avere però dei dubbi. Rivolto com'è alle autorità di Gerusalemme (ci sono loro infatti con ogni probabilità dietro il "voi" del testo di Luca, più originario di quello di Matteo, dove a essere esclusi dal banchetto escatologico sono invece, in chiara polemica col giudaismo del tempo di Q, o di quello dell'evangelista, "i figli del regno", quindi tutto Israele), il passo non si colloca dove lo hanno messo né Luca né Matteo, ma nell'ultimo periodo della vita di Gesù' 1• E parla di una partecipazione dei gentili alla salvezza che avverrà soltanto nel regno futuro di Dio. Ma l'iniziativa di rivolgersi fin d'ora ai pagani non sembra per la verità che Gesù l'abbia presa. Marco ricorda soltanto qualche caso isolato, che ha il sapore dell'eccezione. Anche a proposito della Decapoli, di Tiro e di Cesarea di Filippo parla infatti del territorio e dei villaggi circostanti, nei quali gli abitanti erano in maggioranza giudei. Gesù ha limitato la sua predicazione al popolo di Israele. Sarà soltanto la comunità dei discepoli che, interpretando in maniera conseguente le sue affermazioni sulla universalità della salvezza, farà il passo decisivo dell' apertura della missione ai gentili. Ma l'affermazione che la salvezza era rivolta a tutti i figli di Israele, che essa era anzi destinata in maniera privilegiata a coloro che in Israele erano socialmente e moralmente emarginati, «le pecore perdute della casa di Israele» (Mt. 10,6), Gesù l'ha fatta costantemente. E nella condivisione della tavola con i pubblicani e i peccatori quest'affermazione egli l'ha già vissuta nella vita di ogni giorno. Come tutti i segni profetici, anche que-

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sta condivisione della tavola non si limita infatti ad annunciare una realtà futura, ma la realizza concretamente. Nell'intenzione di Gesù lo stare a mensa con i pubblicani e i peccatori è un'anticipazione simbolica del banchetto messianico del regno di Dio, al quale tutti sono invitati, indipendentemente dal fatto di essere peccatori, e al quale partecipano tutti coloro che accolgono la sua parola. Gesù ha contestato in tal modo quell'idea della santità come separazione dei giusti dai peccatori in base ali' osservanza della legge che caratterizzava gran parte della spiritualità giudaica del tempo ed era il nocciolo stesso della spiritualità essena e farisaica. L'annuncio del regno è diverso dunque dalla minaccia del giudizio. È l'annuncio della salvezza per gli emarginati (o, che è sostanzialmente lo stesso, della beatitudine per i poveri), e un annuncio anzi che questa salvezza prefigura, e anticipa, nel comportamento concreto della condivisione della tavola con quelle categorie tipiche di emarginati che sono i pubblicani e i peccatori. Ma il problema è che cosa significava concretamente l'annuncio di questa salvezza nelle parole di Gesù, e che cosa quindi comprendevano coloro che sentivano Gesù parlare della venuta imminente del regno di Dio. Lo storico si trova infatti di fronte a tre episodi della vicenda di Gesù la cui sostanziale storicità è impossibile negare, ma che, per quanto gli esegeti quasi mai sembrino rendersene conto, appaiono molto difficili da conciliare: l'ingresso di Gesù in Gerusalemme, la questione del tributo a Cesare e la condanna a morte di Gesù. L'ingresso di Gesù in Gerusalemme, comunque lo si interpreti, è infatti un ingresso regale, che non può non avere implicazioni politiche. La risposta di Gesù alla domanda sul tributo contiene però il rifiuto di instaurare una teocrazia. Ammette infatti la legittimità del potere romano. Gesù viene tuttavia condannato a morte dal governatore Pilato in quanto pretende di farsi re dei Giudei, come reo quindi di crimen maiestatis. Non è facile armonizzare tra loro questi episodi. Torniamo quindi a formulare la nostra domanda: che cosa intendeva Gesù quando annunciava la venuta imminente del regno di Dio? Regno di Dio (un'espressione che non è comunque frequente nell'Antico Testamento, dove appare piuttosto il più concreto "Dio è re"; e che caratterizza quindi in maniera del tutto singolare la predicazione di Gesù) significa infatti un tempo e un luogo in cui Dio esercita pienamente la sua sovranità, il suo dominio; in cui è quindi Dio soltanto a regnare sul suo popolo, come non si stancano di affermare e di chiedere Isaia (24,23; B,22; 52,7) e i salmi (10,16; 47,3.8-9; 93,1-2; 97,1; 99,1); e come pregano insistentemente i Salmi di Salomone (17,1.3.46) e le Diciotto benedizioni

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(u: «Regna su di noi, tu, tu solo»). Quando Israele vivrà nella giustizia e nella pace, in un mondo anch'esso giusto e pacificato. Ma in che forma si afferma per Gesù questa regalità di Dio e in che modo realizza le attese tradizionali del popolo giudaico? E che cosa significa quindi il suo annuncio da parte di Gesù? Era l'annuncio del compimento tanto atteso della liberazione di Israele dal dominio straniero e della restaurazione quindi del regno (davidico)? Era cioè la ripresa dell'ideale teocratico di Giuda il Galileo che, come abbiamo visto sopra, in nome della signoria esclusiva di Jahvè sul popolo di Israele rifiutava qualunque governo straniero' 6 e si opponeva perciò al pagamento del tributo ai Romani? E avevano quindi ragione Reimarus e Brandon quando affermavano che sono i vangeli che hanno fatto di Gesù il redentore spirituale del mondo, ma Gesù si presentava invece come il liberatore politico di Israele, come prova inequivocabilmente la sua condanna a morte come re dei Giudei da parte del governatore romano Ponzio Pilato e come confermano episodi come l'ingresso regale in Gerusalemme e la cacciata dei mercanti dal tempio? Certamente no. Della condanna di Gesù da parte di Pilato e degli episodi dell' ingresso in Gerusalemme e della purificazione del tempio parlerò in seguito. E vedremo che hanno un motivo e un significato sicuramente diversi. Dico subito però che nella predicazione di Gesù in Galilea non soltanto manca qualunque elemento militare e violento, ma manca anche qualunque presa di posizione di carattere schiettamente politico. E non c'è nessun riferimento al dominio dei Romani. Già J. Weiss ha spiegato con grande chiarezza questo aspetto apparentemente paradossale dell'annuncio del regno (un concetto che non può non avere implicazioni politiche) da parte di Gesù. Riferendosi infatti al contenuto politico della speranza di Gesù per il futuro ha scritto: «Mi sembra semplicemente ovvio che tra i beni che il regno di Dio deve portare ci sia anche la liberazione dalla dominazione straniera. Essa accompagna necessariamente la realizzazione di quella condizione di comunione perfetta con Dio che Gesù annunciava. [... ] Ma Dio soltanto può recarla e lo farà». Il problema dell'occupazione straniera della Giudea è quindi sostanzialmente estraneo alla predicazione di Gesù: «la questione è interamente esclusa dalla sua missione e dal suo interesse»". La sua risposta alla questione del tributo a Cesare (Mc. 12,17: «Quel che è_di Cesare, datelo a Cesare, ma a Dio quel che è di Dio»), che pur nella totale estraneità, e nella evidente diffidenza, che Gesù mostra altrove (e forse anche qui) nei confronti delle autorità' 8, non contesta comunque il potere politico (come in maniera abbastanza paradossale vorrebbero S. G.

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F. Brandon' 9 e R. A. Horsley1°), ma gli riconosce invece una sua legittimità, sarà anzi, a Gerusalemme, un netto rifiuto della necessità di instaurare la teocrazia"'. Gesù non ha nulla in comune con Giuda il Galileon. Ma, esclusa una finalità immediatamente politica della sua azione e predicazione, non bisogna inserire comunque Gesù nella tradizione dell 'accesa della restaurazione escatologica del popolo di Israele? E non ha ragione quindi E. P. Sanders quando con numerosi altri studiosi vede in Gesù il profeta visionario di questa restaurazione nazionale che egli preannuncia con l'elezione dei dodici apostoli e la minaccia della distruzione del tempio, anche se la sua azione, Sanders lo ammette con cucci gli altri studiosi, non aveva alcun carattere militare o violento? La concezione di un Gesù che annuncia (e promuove) la restaurazione escatologica di Israele può apparire in effetti particolarmente convincente. Della minaccia della distruzione del tempio parlerò in seguito, e vedremo che non può essere utilizzata in questo senso. Ma c'è un elemento nella tradizione che sembra appoggiare realmente quella concezione. Ed è la scelta da parte di Gesù dei dodici (Mc. 3,14: «E ne scelse dodici perché stessero con lui»), che non sono soltanto coloro che lo hanno in effetti seguito per tutto il tempo della sua predicazione (e che, appunto per questo, secondo Gv. 15,26, possono dare testimonianza di lui e, secondo Atti 1,22, saranno testimoni della sua risurrezione), ma coloro ai quali, secondo la fonte Q, Gesù avrebbe anche fatto (per Macceo andando verso Gerusalemme, per Luca meno verosimilmente durante l'ultima cena) questa singolare promessa: «Voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell'uomo siederà sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele» (Mt. 19,28; Le. 22,28.306 ha invece: «Voi siete quelli che avete perseverato con me[ ... ]. E siederete in crono a giudicare le dodici tribù d'Israele»): una promessa dunque, con ogni probabilità storica"!, ai dodici di futura sovranità sulla nazione ("giudicare" può anche essere inteso qui nel senso pili ampio di "governare"; ma in tutti i casi è compito del sovrano), sul tipo di quelle che si incontrano nella letteratura apocaliccica, e in particolare enochica"4, che rende meno stridente la richiesta facca dai figli di Zebedeo durante il viaggio verso Gerusalemme di sedere accanto a Gesù nel suo regno (Mc. w,35-36: «Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: "Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ci chiederemo".[ ... ] "Concedici di sedere, nella tua gloria [Mt. 20,21: nel tuo regno], uno alla tua destra e uno alla tua sinistra"»). Come dobbiamo interpretare dunque la figura

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dei dodici e questa promessa che Gesù ha fatto loro? E anzitutto: è storica questa scelta dei dodici da parte di Gesù? Qui si pongono infatti due problemi che vanno tenuti accuratamente distinti. Il primo riguarda il successo, e quindi anche il seguito, occasionale che aveva Gesù nella sua predicazione. Il secondo è invece il problema dell'esistenza di un gruppo particolare di discepoli più intimi, all'interno del quale ci sono i dodici. Diciamo allora anzitutto che parlare continuamente di «grandi folle entusiaste» che seguivano Gesù, come fa J. P. Meier, è sicuramente esagerato. Le "folle" cui fanno riferimento gli evangelisti e i numeri che essi forniscono in alcune occasioni (per esempio nelle due moltiplicazioni dei pani: cinquemila e quattromila) non sono assolutamente credibili. Gli abitanti dei vari villaggi in cui si recava Gesù a volte non superavano neppure il migliaio. Non tutti certamente saranno andati ad ascoltarlo. E coloro che lo ascoltavano normalmente tornavano nelle loro famiglie. Ma io credo che anche il gruppo di coloro che hanno seguito costantemente Gesù (quelli che più propriamente possiamo definire discepoli) non deve essere stato molto numeroso. Difficilmente può accettarsi l'idea di una missione dei discepoli come quella dei settantadue (!) di Le. 10,1. E anche le donne di cui parlano Mc. 15,40-41 e Le. 8,2.-3 non è detto che fossero sempre con lui. Non erano molti in realtà quelli che seguivano costantemente Gesù nella sua predicazione. Anche per questo è molto difficile a mio parere parlare di un movimento di Gesù già durante la sua vita (e individuare magari proprio nell'esistenza di questo movimento la causa della morte di Gesù, come suggeriscono M. J. Borg e P. Fredriksen: le ragioni della condanna di Gesù sono religiose prima ancora che politiche; e a volere quella condanna è il sinedrio prima ancora di Pilato). Ma un gruppo di discepoli che lo ha seguito costantemente nel suo ministero itinerante comunque c'è stato. Secondo tutti e quattro i vangeli canonici tra questi Gesù ne ha scelti in particolare dodici. E a questi dodici secondo la fonte Q ha promesso la sovranità su Israele. Sono attendibili, e che cosa significano, dunque queste notizie? Nella prima, e soprattutto nella seconda, ricerca sul Gesù storico si esprimevano forti dubbi sulla storicità di questa scelta e di quella promessa ' 1• L'interpretazione teologica radicalmente individualistica e fortemente spiritualizzante della predicazione di Gesù, unita spesso a una evidente mancanza di senso storico, spingeva quegli studiosi a fare dei dodici una creazione della comunità primitiva che, scomparso Gesù, sarebbe presto ricaduta nei sogni "nazionalistici" del giudaismo del tempo. La ricerca at-

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tuale insiste invece con forza sulla storicità di questa scelta dei dodici. E ha perfettamente ragione. La scelta dei dodici da parte di Gesù è certamente storica. Storicamente corrisponde infatti molto più al contenuto dell'azione e predicazione di Gesù che non a quello della comunità primitiva. Il ruolo dei dodici, se ha un senso preciso all'interno dell'annuncio del regno di Dio, della ricomposizione quindi dell'intero Israele nella sua sovranità, da parte di Gesù, dopo la morte di Gesù si esaurisce invece rapidamente, di fronte alla proclamazione del Cristo risorto e all'apertura della missione ai gentili. Come la condivisione della tavola con i pubblicani e i peccatori e il futuro ingresso in Gerusalemme a cavallo di un asino, così la scelta dei dodici ha infatti un evidente carattere simbolico. I dodici sono i rappresentanti delle dodici tribù di Israele. La loro scelta, con quella straordinaria promessa, annuncia perciò, e prefigura fin d'ora, la ricomposizione del popolo di Israele nella sua totalità e sovranità. Ed è questa convinzione che ha condotto molti autori, in particolare E. P. Sanders, a riproporre l'idea della restaurazione escatologica di Israele e, unendola alla convinzione di una critica di Gesù al tempio, a riprendere addirittura le posizioni di Reimarus sul carattere della predicazione di Gesù e le ragioni della sua condanna 1 6• Ma di quale ricomposizione di Israele in realtà si tratta? È quella ricomposizione futura delle dodici tribù col ritorno dei dispersi dall'esilio promessa dai profeti (il Deutero e il Tritoisaia in particolare) e di cui si parla in molti testi della letteratura dell'epoca (i Salmi di Salomone e le Diciotto benedizioni soprattutto), che pure si accompagna alla liberazione di Israele dal dominio straniero per opera del Messia e al suo trionfo definitivo sui pagani? Non sembra proprio. Nei Salmi di Salomone e nelle Diciotto benedizioni si prega infatti per la vittoria sui nemici, la riunione dei dispersi e l'afflusso dei pagani a Sion. Per i Salmi di Salomone il Messia «raccoglierà un popolo santo, che governerà con giustizia, e giudicherà le tribù del popolo santificato dal Signore suo Dio. [... ] E li distribuirà nelle loro tribù nel paese; e nessun peregrino né straniero dimorerà più presso di loro. [... ] E avrà i popoli dei pagani per servirlo sotto il suo giogo [... ] e purificherà Gerusalemme[ ... ], sì che i pagani verranno dall'estremità della terra a vedere la sua gloria» (Salmi di Salomone 17,26.28.30.31). E le Diciotto benedizioni pregano Dio in questo modo: «Suona la grande tromba per la nostra liberazione e alza lo stendardo per raccogliere i nostri dispersi [... ] . Restaura i nostri giudici come in origine e i nostri consiglieri come in principio, e regna su di noi, tu, tu solo.[ ... ] Sii misericordioso, Signore

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Dio nostro [... ] verso la regalità della casa di David, tuo giusto Messia» (10; 11; 14). Ma nell'annuncio del regno da parte di Gesù non c'è nessuno di questi temi: né la liberazione dai Romani né il raduno dei dispersi né il trionfo sui pagani. Se un parallelo si vuole proprio cercare, lo si trova eventualmente nella contrapposizione dei due eoni (quello attuale sotto il dominio di Satana e quello futuro sotto la sovranità di Dio) della letteratura apocalittica, e in particolare in quei testi di Qumran nei quali si parla della battaglia escatologica contro il principe delle tenebre e della liberazione di Israele dal potere di Belial per opera di figure messianiche celesti come Michele e Melchisedek' 7• Come ho già accennato sopra, e come appare particolarmente chiaro nel modo in cui parla dei suoi miracoli, Gesù condivide infatti la concezione apocalittica della storia come teatro della lotta tra Dio e Satana. E come vedremo in seguito, la liberazione di Israele è per lui liberazione da Satana, non dai Romani. Ma anche questo parallelo con le visioni apocalittiche di Qumran è molto relativo. L'ideale degli uomini di Qumran, come quello di Giuda il Galileo, e anche quello dei Salmi di Salomone e delle Diciotto benedizioni, è pur sempre l'instaurazione, da parte del Messia, della teocrazia: la liberazione di Israele dal dominio straniero e la realizzazione di un regno terreno di Dio sul suo popolo che elimini qualunque influenza dei pagani. E col Date a Cesare Gesù, come ho detto, ha chiaramente rifiutato di schierarsi per l'instaurazione di questa teocrazia'H. Non c'è nella predicazione di Gesù alcun accenno alla vittoria sui nemici e al raduno dei dispersi, a cui i testi di Qumran fanno invece riferimento. E non si parla mai di una sottomissione dei pagani, ma nel regno futuro i pagani potranno addirittura sedere a mensa con Israele. Nella predicazione di Gesù non si può cogliere nessun riferimento di carattere "nazionalistico". Non soltanto quindi quello che può anche definirsi il passaggio di Israele dalla speranza profetica di carattere nazionale all'escatologia apocalittica di carattere universale> 9 , iniziato già col messaggio universalistico del Deutero e del Tritoisaia, è in lui totalmente compiuto. Ma Gesù va anche oltre. Vedremo infatti che la sua stessa pretesa messianica prenderà (progressivamente?) le distanze dall'attesa del sovrano davidico dei profeti e dei salmi, ancora presente a Qumran, per orientarsi a quella danielica ed enochica del Figlio dell'uomo. Il tono stesso della predicazione di Gesù, come notava a suo tempo Schweitzerl e deve ammettere anche Sanders è prevalentemente individualistico ed universalistico, non "nazionalistico" 1'. È vero senza dubbio che in tutta la prima parte della sua predicazione 0

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Gesù annuncia il regno, non se stesso. Il contenuto della predicazione è teologico, non cristologico. La persona di Gesù ancora scompare dietro l'annuncio del regno di Dio. E regno di Dio è essenzialmente regalità di Dio sul suo popolo, che tornerà ad esistere in futuro nella sua totalità e sovranità. Ma questo non significa che Gesù abbia condiviso i sogni di restaurazione nazionale del popolo di Israele. E anche più tardi, quando nella sua azione e predicazione la sua persona assumerà, come vedremo, un ruolo centrale, anche la pretesa messianica di Gesù non avrà in alcun modo carattere politico né egli assumerà mai l'aspetto del "viceré" di una nuova comunità nazionaleH. Nessun paragone è veramente possibile con i pretendenti regali che si sollevarono in Israele alla morte di Erode il Grande, e neppure con Teuda e l'Egiziano 14 • L'avvento del regno di Dio di cui parla Gesù comporta una trasformazione radicale del mondo, ma non consiste nella realizzazione di una nuova forma di comunità nazionale sotto la sua sovranità. Non si può tuttavia pensare che questa trasformazione radicale del mondo fosse in realtà il sogno, l'utopia, da parte di Gesù di una società radicalmente diversa, nella quale non esistessero più sopraffazione e ingiustizia, e abbiano quindi ragione quegli studiosi, come J. D. Crossan, R. A. Horsley, W. Stegemann e M. Pesce, che ritengono che Gesù propugnasse un nuovo ordine sociale a carattere egualitario, ispirato magari all'ideale del giubileo levitico? L'esegesi ecclesiastica tradizionale, soprattutto cattolica, di natura teologico-dogmatica, lo ha sempre escluso. E se si guarda all'azione e predicazione di Gesù come viene presentata nel suo complesso dai vangeli sinottici, senza alcuna attenzione a possibili sviluppi al suo interno, non è facile in effetti ammetterlo. La regalità di Dio su Israele sembra avere infatti in questi vangeli un carattere non soltanto escatologico ma "trascendente" 31 • Ha una natura universale, non nazionale. Secondo Le. 13,28-29/Mt. 8,11-12 anche i gentili «siederanno a mensa nel regno di Dio»; e «verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno». E ha una natura "celeste", non "terrena". Non soltanto infatti secondo lo stesso passo della fonte Q a mensa nel regno di Dio siederanno anche Abramo, Isacco e Giacobbe, ma secondo Mt. 19,28 il Figlio dell'uomo siederà sul trono della sua gloria, e i dodici giudicheranno le tribù di Israele, «alla rigenerazione (tv tft 1taÀtyyi;vi;oiçt)» 16 ; e secondo Mc. 12,25 i risorti dai morti « non prenderanno né moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli (Èv toiç oùpavoiç) ». Resta tuttavia aperto il problema di come siano da intendersi più precisamente questa "rigenerazione" del

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mondo e questa natura "celeste" del regno: un regno totalmente ultramondano o un mondo radicalmente rinnovato? E a che cosa quindi si riferisca la promessa ai discepoli che quando Gesù siederà sul trono saranno loro a giudicare le dodici tribù di Israele: al ruolo dei discepoli in un regno di Dio "trascendente" o in un regno terreno di Israele? Ma soprattutto si pone ancora una volta il problema se non si debba fare i conti con una qualche evoluzione del pensiero di Gesù. Il forte accento sociale dell'azione e predicazione di Gesù in Galilea (come appare evidente non soltanto nelle sue scelte di vita ma anche nelle beatitudini e nelle parabole) e le aspettative messianiche molto terrene suscitate nei discepoli e culminate negli episodi della richiesta dei figli di Zebedeo e del)' ingresso regale in Gerusalemme possono infatti far pensare che, pur dando alla sua missione una finalità essenzialmente religiosa, almeno ali' inizio della sua azione egli contasse su quella trasformazione radicale della società giudaica in senso egualitario a cui in modo diverso fanno riferimento Crossan, Horsley, Stegemann e Pesce. È troppo audace pensare che, come le idee della morte imminente e del Figlio dell'uomo, a cui accennerò in seguito, così la convinzione della trascendenza del regno sia venuta imponendosi gradualmente in maniera sempre più chiara alla mente di Gesù? Mc. 12,25 e Le. 13,28-29/Mt. 8,11-12 appartengono in effetti certamente all'ultimo periodo della vita di Gesù a Gerusalemme. Il carattere universale e celeste del regno potrebbe quindi essersi imposto soltanto più tardi alla sua mente, in seguito all'esito negativo della sua predicazione. In tal caso la versione di Q di Le. 22,30: «E siederete in trono a giudicare le dodici tribù d'Israele», priva com'è del riferimento sia al Figlio dell'uomo nella sua gloria sia alla rigenerazione del mondo, pur essendo inesatta nella sua collocazione durante l'ultima cena, potrebbe essere più autentica di quella di Mt. 19,28, che quel riferimento invece contiene. E potrebbe indicare l'attesa da parte di Gesù in questa fase della sua predicazione di un regno di Dio sulla terra in cui i dodici avrebbero condiviso la sua sovranitàl 7• Anche la richiesta dei figli di Zebedeo, che in Marco si riferisce alla gloria (del Figlio dell'uomo?), secondo Matteo (20,21) parlava invece del regno (davidico). E diventerebbero indubbiamente molto più comprensibili sia questo episodio della richiesta dei figli di Zebedeo sia soprattutto quello dell'ingresso regale di Gesù in Gerusalemme.

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Gesù compie "opere straordinarie" Guarì molti malati che erano alfecci da varie malattie e scacciò molti demoni

Mc. 1,34 In questo periodo visse Gesù, uomo saggio [ ... ]. Fu infatti artefice di opere straordinarie

Antichita 18,63

Il cambiamento intervenuto nella predicazione di Gesù con l'inizio di un ministero autonomo da quello del Battista si manifesta chiaramente in altri due aspetti della sua azione che la distinguono immediatamente da quella di Giovanni: il compimento di quelle che il testimonium di Giuseppe definisce 1tapétòol;a lpya ("opere straordinarie") e la presa di posizione nei confronti della legge mosaica ( «È stato detto [... ]. Ma io vi dico»). Due aspetti dell'azione di Gesù nei quali non a caso secondo il Vangelo di Marco si rivela subito in maniera particolare quella che esso definisce la sua "autorità" (tl;ouaia). In Mc. 1,22, dinanzi al suo insegnamento di sabato nella sinagoga tutti i presenti restano infatti stupiti perché «insegnava loro come uno che ha autorità (wç Èçouaiav lxwv) e non come gli scribi». E in Mc. 1,27, dopo la guarigione di un indemoniato, si chiedono meravigliati gli astanti: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità (Kar'tl;ouaiav)? Comanda persino agli spiriti impuri, e gli obbediscono». Venuto infatti in Galilea ad annunciare l'avvento imminente del regno di Dio, il prossimo verificarsi dunque di un intervento salvifico di Dio nei confronti del suo popolo, Gesù dà inizio a un'intensa attività taumaturgica: quelli che vengono comunemente definiti i suoi miracoli. Stando infatti a Marco, fin dal principio di questa nuova fase del suo ministero, «guarì molti malati[ ... ] e scacciò molti demoni» (1,34). E Giuseppe conferma: «In questo periodo visse Gesù, uomo saggio[ ... ]. Fu infatti artefice di opere straordinarie» (Antichita 18,63) 1• In Galilea Gesù non si presenta soltanto come il predicatore dell'avvento imminente del regno di Dio, ma accompagna questa sua predicazione con un'attività di guaritore e di esorcista. E anche questa attività taumaturgica lo distingue in maniera eviden-

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te da Giovanni, del quale, benché alcuni studiosi abbiano voluto ipotizzare il contrario, la tradizione non ricorda mai che abbia compiuto miracoli (in Gv. 5,41 affermano anzi quelli che vanno da Gesù che «Giovanni non ha compiuto nessun segno»). Non è necessario discutere a lungo, anzi discutere affatto, del carattere realmente "miracoloso" di queste azioni straordinarie di Gesù. Il problema della natura delle guarigioni e degli esorcismi, se essa sia cioè propriamente "miracolosa", e costituisca quindi una "prova" della realtà sovrumana di Gesù, non riguarda lo storico. La tradizione ecclesiastica ha visto a lungo nei miracoli di Gesù (come nelle profezie della Scrittura) un argomento decisivo della verità cristiana (e in realtà non lo sono). Ma allo storico interessa soltanto come essi erano considerati da coloro che ne erano beneficiari e testimoni e come li considerava soprattutto Gesù stesso. Nel mondo antico la possibilità del miracolo era infatti fuori discussione. E il miracolo era un'esperienza del tutto comune, non soltanto nell'ambiente giudaico, ma anche in quello pagano. Nella letteratura giudaica miracoli, benché con caratteri quasi sempre diversi da quelli di Gesù, che non possono essere trascurati dallo studioso, e benché il fare miracoli non sia in alcun modo caratteristico della figura del maestro, sono attribuiti a rabbini eminenti, come Honi il disegnatore di cerchi" o l:fanina ben Dosa (Berakot 5,5). In quella pagana ne compiono non soltanto santoni come il famoso Apollonia di Tianadi Flavio Filostrato 1 ma, a detta di storici rispettabili come Tacito (Storie 4,81) e Svetonio (Vespasiano 7,2-3), persino un imperatore come Vespasiano. Semplificando indubbiamente una realtà che è molto più complessa possiamo dire che per la mentalità antica, e in particolare per quella giudaica, il problema del miracolo consisteva principalmente nella provenienza dell'azione operata, e nella collocazione quindi del suo autore: dalla parte della potenza divina o da quella del potere demoniaco. E questa diversa provenienza e collocazione comportava evidentemente una diversa valutazione dell'azione operata e del suo autore: miracolo divino o azione diabolica (o eventualmente, soprattutto tra i Greci, magia); uomo di Dio o inviato del demonio (o magari mago e ciarlatano). È appunto quel che avviene secondo la tradizione evangelica con i miracoli di Gesù. Le opere straordinarie di cui parla Giuseppe, e che possiamo attribuire con maggior sicurezza a Gesù, sono per questa tradizione soprattutto guarigioni ed esorcismi ( i cosiddetti miracoli sulla natura, e cioè la tempesta sedata, il cammino sulle acque, la moltiplicazione dei pani, la pesca miracolosa, sono invece con ogni probabilità affermazioni

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teologiche o creazioni letterarie degli evangelisti). Gesù guariva malati e scacciava demoni. Per coloro che ne beneficiavano, che sono generalmente le persone più deboli ed emarginate della società giudaica, non potevano esserci dubbi: si trattava di opere miracolose di un uomo di Dio. La gente perciò accorreva quando sentiva che arrivava Gesù ed è questa probabilmente la ragione principale di una certa popolarità che il profeta di Nazaret raggiunse in Galilea. Per gli avversari, che secondo Marco sono soprattutto gli scribi e i farisei, si trattava invece di opere demoniache: «Gli scribi che erano scesi da Gerusalemme dicevano: "Costui è posseduto da Beelzebul e scaccia i demoni per mezzo del capo dei demoni"» (Mc. 3,2.2; cfr. Le. 11,15/Mt. 12,24). Non è in discussione quindi l'attività miracolosa di Gesù, che tutti riconoscono, bensì la sua provenienza, che viene ritenuta demoniaca. Ma l'aspetto più interessante è come considerava queste sue azioni Gesù stesso, il valore quindi che egli attribuiva ad esse. E i vangeli sinottici (ma in essi, in maniera significativa, soprattutto la più antica, e giudeocristiana, fonte Q), che pure vedono in Gesù un grande taumaturgo, artefice di opere straordinarie, già ne indicano anche un altro aspetto che il Vangelo di Giovanni poi svilupperà enormemente. Quei miracoli non sono soltanto opere potenti (&uvo.µEtç), manifestazioni quindi dell'autorità soprannaturale di Gesù, ma anche segni (miµEia): e non gli spettacolari segni celesti (à1tò roiì oùpavoiì), l'esibizione quindi, e la prova, del suo potere, che secondo Mc. 8,11-12 e Mt. 12,38-39/Le. 11,29 gli chiedono i farisei e Gesù si rifiuta di dare, bensì segni profetici, i quali rinviano a una realtà diversa e più profonda, ma in maniera enigmatica, che richiede una particolare comprensione. Per Gesù non c'è dubbio anzi, essi fanno capire, che è questo il significato più autentico dei miracoli. Oltre all'atteggiamento di generale riserva che Gesù mantiene abitualmente nei confronti delle richieste di miracolo, alle quali cede spesso solo per l'insistenza dei richiedenti, lo dimostrano due episodi della cui storicità non vi è motivo di dubitare (sono riportati entrambi dalla fonte Q), nei quali ci sono affermazioni di Gesù, relative nel primo alle guarigioni, nel secondo agli esorcismi, che la stragrande maggioranza degli studiosi ritiene autentiche nella sostanza 4 • Il primo è l'episodio della domanda del Battista a Gesù sulla sua reale identità di profeta. Quando Giovanni dal carcere di Macheronte dove lo aveva fatto rinchiudere Erode Antipa gli manda a chiedere: «Sei tu colui che viene (6 épxòµevoç) o dobbiamo aspettarne un altro?» (Mt. 11,3),

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Gesù risponde (secondo la versione di Q riportata da Matteo): «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona novella» (Mt. 11,4-5). L'episodio va compreso bene. Notiamo anzitutto che la domanda del Battista non è sorprendente, e quindi poco credibile, come potrebbe sembrare a prima vista (che cosa induce infatti Giovanni a porla?). Al contrario, si inserisce perfettamente nella sua predicazione come l'abbiamo ricordata sopra. Giovanni infatti, nell'annunciare l'imminenza del giudizio divino e la necessità quindi del pentimento e del battesimo, affermava anche che di lì a poco sarebbe apparso un personaggio (Mt. 3,11: 6 tpxoµEvoç, "colui che viene") più autorevole di lui che avrebbe battezzato non con l'acqua, ma con lo spirito e il fuoco: in forme quindi, e con mezzi, non materiali. Un personaggio evidentemente messianico, che avrebbe inaugurato in questo modo, e cioè appunto col giudizio (e non con la tradizionale vittoria sui nemici del sovrano davidico), il regno di Dio. Gesù stesso quindi con ogni probabilità aveva condiviso questa attesa. Ora però le vie dei due profeti si sono divise. L'annuncio del regno da parte di Gesù e il successo della sua predicazione hanno cambiato le cose. E quel suo antico discepolo da un lato appare al Battista in una luce diversa, che sembra fare proprio di lui un personaggio messianico, dall'altro porta però anche un messaggio diverso: non più la minaccia del giudizio e la richiesta di pentimento, mal' avvento del regno accompagnato da miracoli. Giovanni manda perciò a chiedere a Gesù se sia egli stesso quel più forte che entrambi attendevano: se dunque si debba riconoscere proprio in lui la figura di "colui che viene", cioè con ogni probabilità il Messial. Ma, come molto spesso avviene nel caso di Gesù, Gesù non risponde alla domanda con un semplice sì o con un semplice no. Gesù non dice: Sì, io sono il Messia, né d'altra parte nega di esserlo. Gesù elenca invece le guarigioni che egli compie e nel far questo riporta una celebre profezia di Isaia (un centone di passi vari, ma soprattutto 35,5-6: «Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto») che in queste guarigioni vedeva il segno della futura venuta del regno di Dio. Per Gesù le guarigioni che egli compie sono l'adempimento della profezia di Isaia e dunque il segno che il regno di Dio annunciato dal profeta è finalmente venuto. Consapevole probabilmente del carattere non univoco delle guarigioni, Luca anzi più ancora di Matteo si preoccupa di sottolineare

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questo aspetto. Per lui infatti Gesù, prima di rispondere, e dinanzi a tutti, opera precisamente le guarigioni preannunciate da Isaia perché sia chiaro che è proprio alle sue opere che faceva riferimento il passo del profeta: «In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. Poi diede loro questa risposta: "Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona novella"» (Le. 7,2.1-2.2.). La risposta di Gesù sposta quindi l'accento della domanda di Giovanni dal problema del Messia al problema del regno di Dio (i miracoli sono infatti segno dell'avvento del regno, non di quello del Messia)6. E pone a Giovanni quella che è in sostanza una controdomanda. Gesù non afferma di essere il Messia. Né lo nega. Afferma invece che ci sono tutti i segni che secondo la profezia accompagnano la venuta del regno di Dio. Sta a Giovanni concluderne che egli è il Messia; o meglio ancora, poiché i miracoli (come le profezie) non sono prove, ma segni, decidere se egli sia il Messia (e non sappiamo se Giovanni lo abbia fatto). L'altro episodio è quello in cui gli avversari di Gesù lo accusano di compiere i miracoli con l'aiuto del demonio. Essi affermano che «è per mezzo di Beelzebul, capo dei demoni, che egli scaccia i demoni» (Le. II,15/Mt. 12.,2.4). E Gesù replica: «Voi dite che io scaccio i demoni per mezzo di Beelzebul. Ma se io scaccio i demoni per mezzo di Beelzebul, i vostri figli per mezzo di chi li scacciano? Per questo saranno loro i vostri giudici. Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio» (Le. II,18-2.0/Mt. 12.,2.7-2.8). È il conflitto di cui dicevo sopra, tra chi interpreta gli esorcismi come opera divina e chi li interpreta invece come opera demoniaca. Per Gesù non c'è dubbio che gli esorcismi che egli compie avvengono per mano di Dio (come per i maghi di Es. 8,15 c'era «il dito di Dio» nella terza piaga d'Egitto), per i suoi avversari quelle azioni non derivano invece da una forza divina, ma traggono origine dal potere del demonio. Ma l'aspetto più interessante dell'episodio è la conseguenza (cioè il reale verificarsi dell'avvento del regno) che in maniera ancora più forte ed esplicita dell'episodio precedente Gesù trae dal fatto che gli esorcismi da lui compiuti sono opera di Dio (Le. u,2.0 ) 7 : una conseguenza, ripetiamolo, che proprio perché quegli eventi non hanno di per sé un carattere eccezionale e univoco non è in alcun modo insita nel semplice fatto del miracolo come allora veniva concepito (altrimenti anche quelli compiuti dai suoi

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avversari avrebbero lo stesso valore). E che conferma in maniera evidente il carattere "apocalittico" della concezione di Gesù. Se questo è vero, afferma Gesù, se i demoni quindi sono da me scacciati per opera di Dio, vuol dire che il regno di Dio è venuto a voi (lq,0am:v èq,' uµàç ~ Pacrw:ia -rof> 0rnu). C'è un nesso strettissimo tra la riuscita clamorosa dei suoi esorcismi e l' inizio del regno. Per Gesù infatti i miracoli che egli compiva « non erano fatti normali, bensì momenti di un dramma mitico: in essi si realizzava la trasformazione meravigliosa del mondo in pacrw:ia 0rnu» 8• E questo era vero soprattutto per gli esorcismi, nei quali diventava particolarmente evidente la sconfitta di Satana. Gesù opera quindi una lettura particolare di questa sua attività miracolosa, che vede in essa il compimento escatologico dell'attesa di Israele. I suoi esorcismi non sono soltanto le opere potenti di un grande taumaturgo, secondo quella che era l'opinione comune del tempo, ma i segni che l'avvento del regno si è ormai realmente verificato. Perciò, secondo Luca, quando ritornano i settantadue discepoli da lui inviati in missione e gli dicono che anche i demoni si sottomettevano a loro nel suo nome (Le. 10,17: «I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: "Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome"»), Gesù esclama esultante: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore» (Le. 10,18). Gesù afferma di avere avuto quella che con ogni probabilità è un'esperienza di carattere estatico 9 • Secondo questa esperienza la cacciata dei demoni significa concretamente che, benché non sia ancora scomparso (come dice R. Girard, Satana infatti è incatenato, ma dovrà ancora « scatenarsi»), Satana però è stato vinto. Il suo dominio è infranto ed è iniziato quello di Dio' Ma qui è possibile allora cogliere un altro aspetto, e forse un altro cambiamento, nelle affermazioni di Gesù. Giungendo in Galilea egli aveva annunciato che il regno di Dio era vicino (Mc. 1,15: ~yytKEV, si è avvicinato). Ora invece (e lo stesso vale anche per l'episodio precedente) afferma che il regno è venuto (Le. 11,2.0/Mt. 12.,2.8: fq,0acrev, è giunto). Qui c'è, come è noto, una discussione interminabile tra gli studiosi: tra chi ritiene che Gesù abbia parlato del regno di Dio come una realtà esclusivamente futura (con la radicalizzazione di questa posizione nella già ricordata "escatologia conseguente" di J. Weiss e A. Schweitzer) e chi, soprattutto nella "nuova ricerca" di ispirazione bultmanniana, ritiene invece che egli lo abbia visto come una realtà già attualmente presente (con la radicalizzazione di questa posizione nella "escatologia realizzata" di C. H. Dodd)". Ma io credo che la soluzione più corretta del problema sia un'altra, e consista nel 0



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vedere il regno di Dio, nell'annuncio di Gesù, come una realtà che è insieme futura e già presente. L'avvento definitivo (Mc. 9,1 dice: Èv ouvaµEt, «in potenza») del regno resta indubbiamente futuro. E perciò nel Padre nostro ai discepoli Gesù dice di pregare per esso. Ma nell'azione e predicazione di Gesù la venuta del regno è già misteriosamente anticipata. E perciò, come vedremo in seguito parlando della legge, ai discepoli egli chiede di vivere già nella sua presenza attuale. Che cosa però induce Gesù a fare quest'affermazione sulla presenza del regno? A me non sembra assurdo pensare che Le. 11,2.0/Mt. 12.,2.8 riveli come l'affermazione non soltanto della venuta futura, ma della presenza attuale, del regno nasca dall'evolversi stesso della vicenda di Gesù. Non voglio ricadere naturalmente nel tipico vizio liberale, aspramente denunciato da Wrede, di tentare di ricostruire lo sviluppo psicologico di Gesù, di quella che allora si definiva la sua "coscienza messianica". I vangeli non consentono un'operazione del genere, che non rientra del resto nei compiti dello storico. Credo però che non sia del tutto arbitrario affermare che dal successo strepitoso dei suoi miracoli Gesù trae la conseguenza che il regno di Dio non si è soltanto avvicinato, ma è addirittura iniziato. Se Satana è stato vinto, il regno infatti ha avuto inizio'". La trasformazione escatologica del mondo, di cui i miracoli di Gesù sono segno, non è più soltanto futura, e quindi attesa, ma già presente, e quindi concretamente anticipata'l. In tutti i casi, che Gesù abbia affermato che con la sua venuta il regno è già iniziato appare innegabile. Lo confermano in maniera evidente quelle che una volta, in una concezione erroneamente evolutiva del regno di Dio, erano considerate le "parabole della crescita" e poi, più correttamente, sono state invece ritenute le "parabole del contrasto" tra il carattere invisibile della presenza attuale del regno e quello grandioso della sua manifestazione futura (la parabola del seme che cresce da solo in Mc. 4,2.6-2.9; le parabole del granello di senape e del lievito in Le. 13,18-19/Mt. 13,31-32. e Le. 13,2.0-2.1/Mt. 13,33). La venuta "in potenza" del regno è certamente un evento del futuro, ma nell'azione e predicazione di Gesù questo evento è già realmente, anche se misteriosamente, "anticipato". Si pone allora il problema della cosiddetta attesa imminente del regno di Dio da parte di Gesù, oggetto anch'esso di discussioni continue tra gli studiosi (con implicazioni frequenti, e inevitabili, di carattere dogmatico): se Gesù abbia creduto cioè che l'avvento del regno nella sua pienezza fosse immediatamente vicino. Che la prossimità, l'imminenza sia nei vangeli sinottici un carattere essenziale della venuta del regno è infatti

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fuori discussione. L'annuncio di Gesù, come quello di Giovanni, presenta un'urgenza immediata. Di fronte ad esso non è consentita nessuna indecisione. Ma ciò significa che Gesù ha veramente creduto che questa venuta fosse vicina non soltanto sul piano esistenziale, ma anche sul piano temporale? Ci sono in effetti tre passi nei vangeli che lo fanno pensare: Mt. w,2.3, nell'ambito del discorso di invio dei discepoli in missione, dove Gesù dice: «Non avrete finito di percorrere le città di Israele prima che sia venuto il Figlio dell'uomo»; Mc. 9,1, dopo il primo annuncio della passione, dove Gesù afferma: «Vi sono alcuni tra i presenti che non gusteranno la morte prima di aver visto il regno di Dio venuto in potenza»; e Mc. 13,30, nell'ambito del cosiddetto discorso escatologico, dove Gesù dice: «Non passerà questa generazione prima che tutto questo sia accaduto». Non senza fondamento Dunn ha sostenuto anzi che non sono soltanto questi tre passi a suggerire che Gesù vedesse la fine come immediatamente vicina, ma «per la frequenza e la continuità dei motivi nella tradizione di Gesù è difficile non concludere che fin dagli inizi Gesù era ricordato per avere proclamato il regno come imminente e affatto vicino»' 4 • Naturalmente è impossibile in merito raggiungere una certezza. È possibile sia ritenere che i tre passi non siano da attribuire a Gesù, mariflettano il pensiero della comunità primitiva, alle prese col difficile problema di una fine promessa che non arrivava ( il cosiddetto ritardo della parusia), sia darne una interpretazione che, facendo leva soprattutto sul carattere particolare del linguaggio profetico, non implichi da parte di Gesù la precisa convinzione di un avvento imminente del regno di Dio nella sua pienezza (Mc. 9,1: «in potenza»). J. P. Meier è convinto per esempio che i tre passi non siano autentici, ma esprimano il bisogno della comunità dei discepoli di mantenere viva l'attesa di una fine imminente'S. E io stesso nei miei libri precedenti ho sostenuto che essi sono sì di Gesù, ma esprimono soltanto l'urgenza della decisione da prendere di fronte al suo annuncio, non la sua convinzione di una imminenza reale della fine' 6 • Non è infatti la difficoltà dogmatica (per i credenti) di ammettere che Gesù si sia ingannato' 7 (anche Paolo ha avuto una convinzione simile in rapporto a quella che è per lui «la venuta del Signore»: I Tess. 4,15), ma è da un lato il senso innegabile di indeterminatezza che, vista nel suo complesso, ha la predicazione di Gesù sulla venuta futura del regno di Dio, e dall'altro la presenza di affermazioni di Gesù che sembrano andare in senso contrario a un'attesa imminente (soprattutto Mc. 13,32.: «Quanto a

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quel giorno e all'ora nessuno li conosce, né gli angeli del cielo né il figlio, ma solo il Padre»), a spingere a interpretare in maniera diversa quei passi o addirittura a negargliene la paternità' 8• Tuttavia, una volta ammessa la possibilità di un'evoluzione del pensiero (o almeno delle affermazioni) di Gesù sull'avvento del regno, nulla impedisce di ritenere che tali passi esprimano realmente la posizione di Gesù in questa fase della sua predicazione e manifestino la sua convinzione che l'intervento decisivo di Dio nella storia di Israele fosse realmente prossimo. Pur senza indulgere troppo a osservazioni di carattere psicologico, non sembra arbitrario infatti pensare (e sembra anzi naturale pensare) che il successo strepitoso dei miracoli, nei quali Satana appariva ormai vinto, e l'affermazione conseguente che il regno di Dio avesse avuto già inizio, dovevano portare a ritenere che il suo avvento definitivo fosse veramente imminente' 9 • E, come dirò in seguito, la tensione tra le affermazioni di Gesù che vanno in questa direzione (naturalmente non possiamo dire né che Gesù le abbia fatte proprio laddove le collocano gli evangelisti né che le abbia fatte proprio in quella forma' 0 ) e quelle che sembrano invece andare in direzione opposta potrebbe risolversi ammettendo appunto un mutamento nel pensiero di Gesù (anche Paolo sembra avere avuto un cambiamento analogo). Il successo iniziale della sua azione e predicazione avrebbe convinto Gesù che l'avvento (probabilmente per lui terreno) del regno era realmente imminente. Ma gli sviluppi drammatici successivi della sua vicenda avrebbero scosso questa convinzione e gli avrebbero fatto invece ritenere quell'avvento (considerato ora celeste) più lontano". Ma qui a mio parere si pone, o comunque si comincia a porre, anche necessariamente il problema messianico: se Gesù abbia mai preteso cioè di essere il Messia atteso da Israele». È un problema assai difficile e terribilmente tormentato. Sono più di cento anni che si discute tra gli studiosi se Gesù abbia affermato di essere il Messia oppure no. E l'opinione oggi prevalente è che Gesù non lo abbia mai fatto. Sono molti gli studiosi che non ritengono infatti storica la confessione messianica di Pietro non soltanto nella forma ampliata in cui la riporta Matteo (16,16: «Rispose Simon Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente"»), ma anche in quella più semplice in cui la riporta Marco (8,29: «E Pietro rispondendo gli disse: "Tu sei il Cristo"»). E anche quelli che la ritengono storica pensano che la reazione di Gesù ad essa, come è riportata non da Matteo (16,17: «Beato te, Simone bar Giona, perché non la carne e il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli»), ma da Marco (nel testo del vangelo si

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tratta di 8,30: «E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno»; ma, secondo vari studiosi, originariamente si trattava addirittura di 8,33: «Ma egli disse: "Va' dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini"»), sia più un rifiuto che non un'accettazione di quella confessione. E gli altri passi in cui, sia in Matteo che in Marco, appaiono affermazioni sul Figlio di David o sul Figlio dell'uomo (dall'ingresso in Gerusalemme alla risposta di Gesù a Caifa) sono ritenuti ancora meno probanti, o perché non hanno questo significato o perché non sono autentici. Ma io credo che sia proprio la rilevanza teologica innegabile del tema messianico, le sue inevitabili ripercussioni sul problema della fedeltà del cristianesimo successivo al messaggio originario di Gesù (se Gesù in nessun modo ha avanzato pretese messianiche diventa infatti particolarmente difficile non soltanto spiegare, ma ancor più ritenere legittimo, il passaggio che avviene dopo la pasqua dall'annunciatore del regno al Messia annunciato, dal Gesù ebreo al Gesù "cristiano"), a complicare spesso inutilmente le cose, provocando contrapposizioni ingiustificate tra gli studiosi (o quanto meno tra gli storici) dove potrebbero non esserci affatto. E credo anche che troppo spesso si affronta il problema in termini errati. Sul piano storico, quando ci si limita alla ricerca di un'affermazione esplicita della messianità di Gesù da parte sua o dei suoi discepoli, come si è fatto abitualmente in tutti questi anni, e si continua ancora oggi spesso a fare, si imposta infatti a mio parere il problema in maniera sbagliata. La pretesa messianica di Gesù non può essere ridotta all'uso esplicito (da parte sua o dei suoi discepoli) del titolo di Messia o di Figlio di David (o eventualmente di Figlio del l'uomo), ma deve essere cercata nei vari aspetti della sua azione e predicazione e deve essere considerata tenendo conto dei diversi caratteri dell'attesa messianica giudaica. Nella tradizione giudaica il Messia, l'Unto (mai però definito così nell'Antico Testamento, dove l'unzione è prevista prevalentemente per il re di Israele e il sommo sacerdote) è colui che apre la strada a una venuta del regno di Dio che nella sua piena realtà resta interamente opera di Dio: il personaggio al quale Dio affida il compito di operare quella svolta decisiva dei tempi che segna l'inizio dell'epoca escatologica propriamente detta della sovranità di Dio. Questo personaggio nella concezione più diffusa, ma non unica, della tradizione giudaica (quella profetica in particolare) sarà un sovrano discendente dalla famiglia di David. E il suo primo compito, con cui opererà la svolta decisiva dei

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tempi, sarà quello di sconfiggere i nemici di Israele, liberandolo per sempre dal dominio dei pagani e instaurando un regno di pace e di giustizia. È l'attesa che, dopo un periodo di progressivo indebolimento a partire dall'esilio, è attestata di nuovo chiaramente nel I secolo a.C. nei manoscritti di Qumran 23 e nei cosiddetti Salmi di Salomone 24 e nel I secolo d.C. nella preghiera delle Diciotto benedizioni S. A questo tipo di attesa certamente Gesù, come ho già detto sopra, non ha dato né compimento né risposta. Gesù non accenna mai alla liberazione di Israele dal dominio romano. Non nutre alcun sentimento di ostilità nei confronti dei pagani. E alla stessa origine davidica del Messia non sembra aver dato alcuna importanza. Ma la speranza messianica è qualcosa di estremamente fluido e perennemente mutevole e non si esaurisce nell'attesa del sovrano davidico guerriero. Nella tradizione apocalittica altre funzioni (per esempio, in Giovanni Battista, il giudizio), e quindi altri personaggi (per esempio, nel libro di Enoch, il Figlio dell'uomo), possono aggiungersi al Figlio di Davide alla liberazione dallo straniero. Compito essenziale e ineliminabile del Messia (anch'esso tuttavia non necessario, perché esiste un'attesa del regno senza Messia) è infatti soltanto quello di compiere la svolta decisiva dei tempi e inaugurare l'epoca propriamente escatologica, aprendo la strada al regno di Dio. Il problema allora non è se Gesù si sia presentato come il sovrano davidico dell'attesa tradizionale (e neppure se si sia identificato veramente con la figura misteriosa del Figlio dell'uomo); ma se con la sua azione e predicazione abbia comunque potuto e voluto fornire alimento a una qualche ripresa della speranza messianica nell'avvento del regno e, pur non dando risposta a quella specifica attesa, abbia fatto egualmente sperare ai suoi discepoli di essere lui il personaggio messianico che apriva la strada al regno. Ora, da un lato, è difficile negare che Gesù abbia suscitato aspettative messianiche nei suoi discepoli. Se è certamente arbitrario attribuire a gran parte degli episodi evangelici (dal battesimo di Giovanni al pasto dei cinquemila alla purificazione del tempio) un carattere messianico, come fa per esempio J. D. G. Dunn 6, troppi indizi parlano però in questa direzione. La confessione di Pietro in particolare può aver ricevuto certamente da Marco una forte accentuazione, soprattutto collocandola al centro della sua esposizione della vicenda di Gesù, come una svolta epocale della sua missione che in realtà non c'è stata, ma con quel riferimento singolare alla lontana località di Cesarea di Filippo (8,2.7: 2

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« Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo») e il carattere ancora più singolare dell'episodio stesso (che nel testo di Marco si chiude senza alcun commento da parte di Gesù, ma col solito ordine di non dire nulla a nessuno) con ogni probabilità ha un fondamento storico. A un certo punto della sua predicazione i discepoli hanno cominciato realmente a sperare che Gesù fosse il Messia di Israele. L'ingresso di Gesù in Gerusalemme, per quanto, come dirò, meno trionfale certamente di quanto appaia dai vangeli, mostrerà d'altra parte con le acclamazioni dei discepoli al suo seguito che la speranza nella restaurazione del regno di David ad opera di una figura in qualche modo messianica era tra loro molto viva. Del resto è difficile pensare che i discepoli (anche se probabilmente tutti molto giovani e desiderosi quindi di cambiare vita) avessero abbandonato famiglia e lavoro senza coltivare in segreto, sia pure in forma confusa, quella speranza. Ma il problema più importante è se a questa speranza Gesù abbia fornito concretamente un fondamento. E quanto ho detto fin qui mostra di sì. Certamente Gesù non si è presentato come il Messia davidico che avrebbe liberato Israele dal dominio straniero. Il suo annuncio non ha proprio nulla di militare e guerresco. Ogni forma di violenza gli è del tutto estranea. Ma nella sua concezione (e forse anche in quella dei suoi discepoli) la guarigione dei malati e degli ossessi significava un'altra, e non meno importante, liberazione: quella dal demonio. E anche se in maniera diversa da quella indicata dalla tradizione, questa liberazione dava realmente inizio al regno di Dio. Abbiamo già visto come legge Gesù i suoi esorcismi: «Se io scaccio i demoni con il dito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio». La sconfitta di Satana che si realizza in quelle sue "opere straordinarie", a proposito della quale in un altro passo di Marco Gesù afferma anche che « nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega» (Mc. 3,2.7), segna per lui l'avvento del regno. Gesù, che quasi certamente apparteneva a una famiglia di discendenza davidica, compie realmente quella trasformazione della realtà di Israele che si aspettava dal Messia davidico. È questo con ogni probabilità già il senso più profondo di quella sua scelta dei dodici che prefigurava la ricomposizione finale del popolo di Israele nella sua totalità e nella sua sovranità. Ma è certamente per questo che Gesù potrà entrare in Gerusalemme a cavallo di un asino, come previsto dal profeta Zaccaria per il re messianico, e potrà rispondere affermativamente alla domanda del sommo sacerdote Caifa sulla sua pretesa messianica (i due passi che

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anche Wrede aveva difficoltà a inserire nella sua concezione del segreto messianico). Il riconoscimento di questa opera di Gesù può avvenire naturalmente soltanto nella fede. I due episodi citati sopra (la domanda del Battista e la polemica sugli esorcismi) sono assolutamente chiari. Come è richiesta da Gesù la fede nel suo annuncio della venuta imminente del regno di Dio e nel suo potere salvifico di compiere guarigioni, così è solo riconoscendo nella sua azione la presenza salvifica di Dio mediante la fede che i suoi testimoni possono riconoscere anche la sua natura di Messia. Perciò essa non viene affermata mai in maniera esplicita e autoritaria, ma sempre in maniera allusiva ed enigmatica, come una domanda provocatoria e paradossale27. Ma a un certo punto (che i vangeli sinottici fanno coincidere sostanzialmente con la sua decisione di salire a Gerusalemme) l'accento della predicazione di Gesù comincia realmente a spostarsi dall'annuncio della venuta imminente del regno di Dio all'affermazione della sua pretesa messianica (e, come vedremo in seguito, il riferimento al Figlio dell'uomo confermerà ulteriormente questo spostamento). Si afferma spesso che Gesù non ha attribuito a se stesso nessun ruolo di mediatore dell'avvento del regno, e quindi dell'azione salvifica, di Dio 28 • Ma è molto difficile condividere questa opinione. Anche chi, come D. Marguerat, tiene a ribadire che Gesù non è propriamente un pretendente messianico, perché «l'annuncio dell'irruzione del regno prende in lui il sopravvento su ogni forma di pretesa messianica», non può non concludere tuttavia che «Gesù si è compreso come colui che attraverso i suoi gesti e le sue parole instaura il regno di Dio nella storia. Era convinto che la posizione adottata di fronte a lui sarebbe stata un criterio decisivo per il giudizio del Figlio dell'uomo [... ]. Insomma, Gesù si è presentato come l'iniziatore della fine, come l'enunciatore di un'esortazione ultima; ha fatto capire, a chi voleva comprendere, che sarebbe stato l'interprete decisivo della fine dei tempi» 29 • Gesù non soltanto afferma infatti che le guarigioni dei malati e le cacciate dei demoni che egli compie sono il segno che il regno di Dio è venuto (e colui che compie quelle "opere straordinarie" che manifestano la presenza del regno chi altri è dunque se non il Messia?), ma afferma anche in particolare che è dalla presa di posizione nei confronti della sua persona che dipende la sorte definitiva di ognuno: «Chi si vergognerà di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui quando verrà nella gloria del Padre con gli angeli santi» (Mc. 8,38). Qui non

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c'è ancora l'affermazione esplicita della propria pretesa messianica (che ci sarà soltanto dinanzi al sinedrio giudaico), e neppure il rinvio inequivocabile a un testo messianico della Scrittura come nel l'ingresso in Gerusalemme, ma si esprime comunque una consapevolezza del carattere ultimo e decisivo della propria azione e predicazione da parte di Gesù (anche R. Bultmann parlava di una sua comprensione di sé come "fenomeno escatologico" e della presenza quindi nella sua azione e predicazione di una "cristologia implicita" 10 ) che, a prescindere del tutto dall'uso esplicito del titolo di Messia o di Figlio di David, non può essere definita altrimenti che messianica 1'.

5 Gesù prende posizione nei confronti della legge mosaica Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio

Mc.

10,11

È stato detto agli antichi: "Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i cuoi giuramenti". Ma io vi dico: non giurate affatto

Mt. 5,33-34 È stato detto: "Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico". Ma io vi dico: Amate i vostri nemici

Mt. 5,43-44 Il sabato è stato facto per l'uomo e non l'uomo per il sabato

Mc.2.,2.7

L'annuncio della venuta imminente del regno di Dio, che segna il distacco di Gesù dal movimento di Giovanni, e il compimento di opere miracolose, che rivela la presenza già operante con lui della sovranità di Dio, hanno però anche un'altra conseguenza: essi determinano in maniera decisiva l'atteggiamento che Gesù assume, e invita i suoi discepoli ad assumere, nei confronti della legge mosaica. La venuta imminente del regno di Dio, il prossimo affermarsi della sua signoria in maniera definitiva, e anzi la sua presenza misteriosa già adesso, nelle opere straordinarie che egli compie, comportano una considerazione particolare del valore delle prescrizioni legali. È infatti questa anticipazione misteriosa della presenza del regno nell'azione stessa di Gesù che determina la sua etica e la distingue da quella di Giovanni. Per la verità non sappiamo molto delle richieste morali che faceva il Battista ai suoi discepoli, quali fossero quindi quei « frutti degni della conversione» di cui parlano Le. 3,8/Mt. 3,8. Qualche indizio tuttavia lo possediamo. Nella descrizione un po' scolorita che dà Giuseppe di Giovanni egli era semplicemente «un uomo retto, il quale invitava i Giudei a praticare la virtù, la reciproca giustizia e la pietà verso Dio» (Antichita

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18,117). È, in termini che risentono dell'influenza ellenistica sullo stori-

co ebreo (col richiamo in particolare all'esercizio della virtù), l'immagine del giusto tipica della tradizione giudaica, col suo riferimento a Dio e alla legge. Ma su Giovanni Luca dice qualcosa di più. «Le folle lo interrogavano: "Che cosa dobbiamo fare?" Rispondeva loro: "Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto". Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: "Maestro, che cosa dobbiamo fare?" Ed egli disse loro: "Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato". Lo interrogavano anche alcuni soldati: "E noi, che cosa dobbiamo fare?" Rispose loro: "Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe"» (Le. 3,10-14). Il quadro sembra abbastanza chiaro. Quella di Giovanni era una morale particolarmente rigorosa, come lo era la sua ascesi. In vista del giudizio imminente di Dio, e a conferma dell'avvenuto pentimento, esigeva un rispetto assoluto della legge, anche nelle sue richieste più radicali come erano state richiamate più volte dai profeti. Ma, come Le. 16,16 fa affermare a Gesù stesso, «la legge e i profeti fino a Giovanni, da allora in poi è annunciato il regno di Dio e ognuno si sforza di entrarvi» (Mt. 11,12-13: «Dai giorni di Giovanni Battista fino ad ora il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono. Tutti i profeti e la legge infatti hanno profetato fino a Giovanni»). E l'annuncio del regno esige un'etica diversa dall'osservanza rigorosa della legge. Le richieste di Gesù ai suoi discepoli hanno infatti un altro tono rispetto a quelle di Giovanni'. Il riferimento, oltre al messaggio di alcune parabole, non può essere anzitutto che al discorso della montagna. Questo discorso è certamente una composizione di Matteo, che con ogni probabilità ha utilizzato a sua volta una forma particolare della fonte Q, che già aveva messo insieme pezzi di provenienza diversa. Ma non può esservi dubbio che la sostanza derivi proprio da Gesù stesso ed esprima la sua particolare concezione morale. Per il mio tema caratteristiche sono anzitutto le cosiddette antitesi: «Avete udito che è stato detto agli antichi[ ... ]. Ma io vi dico». Ricordiamone l'essenziale: «Avete udito che è stato detto agli antichi: "Non ucciderai" [... ]. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio [... ]. È stato anche detto: "Chi ripudia la propria moglie, le dia l'atto del ripudio". Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie[ ... ] la espone all'adulterio[ ... ]. Avete anche udito che è stato detto agli antichi: "Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti". Ma io vi dico: non giurate affatto[ ... ]. Avete udito che è stato

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detto: "Occhio per occhio e dente per dente". Ma io vi dico di non opporvi al malvagio[ ... ]. Avete udito che è stato detto: "Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico". Ma io vi dico: amate i vostri nemici» (Mt. 5,2.12.2..31-32..3 3-34.3 8-39.43-44 ).

Non tutte queste antitesi sono probabilmente da attribuire a Gesù. Nel comporre il discorso della montagna è probabile che Q e Matteo ne abbiano aggiunta qualcuna. Ma di nuovo non può esservi dubbio che nella loro sostanza almeno alcune (la proibizione del divorzio e quella del giuramento, il comando di amare i nemici) risalgano a Gesù stesso. Ed esprimano quindi lo spirito autentico delle sue esigenze morali. Qual è allora questo spirito? Guardando ad esse da un punto di vista non storico, ma teologico, focalizzato sulla contrapposizione, così cara a una certa tradizione protestante, tra la legge e il vangelo, queste antitesi, non a caso definite proprio così dagli studiosi, erano considerate dalla prima e ancor più dalla seconda ricerca come una prova inconfutabile della contrapposizione netta di Gesù alla legge mosaica, il segno quindi del contrasto irriducibile tra l'etica di Gesù e quella giudaica (e cioè farisaica). Gesù era colui che aveva superato in maniera definitiva la legge di Mosè. Si ricordino in particolare le affermazioni di R. Bultmann citate sopra sulla predicazione di Gesù come « una vigorosa protesta contro il legalismo giudaico» e quelle di E. Kasemann sulla rivendicazione da parte di Gesù di un'autorità superiore a quella di Mosè e della legge>. Oggi la ricerca è molto più cauta. Le "antitesi" (ma il termine stesso viene a volte messo in discussione) vengono lette non come una critica di Gesù, ritenuta poco credibile, e comunque non documentabile sulla base dei testi, alla legge mosaica ma come una sua interpretazione particolarmente rigorosa, quindi una sua radicalizzazione. Gesù non vuole contrapporsi alla legge mosaica, o addirittura, come pure a volte paradossalmente si diceva, "abrogarla" (Le. 16,16 riferito alla validita della legge). Vuole invece che la legge sia intesa in maniera più radicale e applicata in maniera più rigorosa. Non soltanto non si deve giurare il falso, ma non si deve giurare affatto. Non soltanto si deve amare il prossimo, ma si devono amare i nemici. E Mc. 10,11 ( «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio verso di lei») e Le. 16,18 ( «Chiunque ripudia la propria moglie t.: ne sposa un'altra, commette adulterio»), probabilmente più originari di Mt. 5,32., aggiungono: non soltanto non si deve commettere adulterio, ma non si deve neppure ripudiare la propria moglie. Questa posizione della ricerca attuale è sicuramente più giusta. Gesù

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non nega, e nemmeno mette in discussione, la validità della legge mosaica. Ne dà invece una interpretazione più rigorosa, più radicale. Ma anche a intenderle in questo modo non può esservi dubbio che le antitesi, come anche i passi di Marco e Luca ricordati sopra, esprimano un'esigenza morale che col suo radicalismo va molco al di là di quella che era l'interpretazione tradizionale della legge mosaica. Questa esigenza così radicale è stata sempre considerata un problema dagli studiosi. Da un lato è stata vista a volte come difficilmente componibile con l'annuncio della venuta imminente del regno di Dio. È sembrato difficile armonizzare l'attesa febbrile del regno da parte di Gesù con la sua enunciazione di norme morali per i seguaci: e dunque il Gesù profeta escatologico col Gesù maestro della legge. E si è ritenuto di dover scegliere tra le due immagini di Gesù, conservando l'una ed eliminando I' alcra. Dal!' altro si è insistito sul!' assurdità, e quindi sulla sostanziale impraticabilità, di queste norme. In nessun tipo di comunità, si dice, si potrebbe pensare di applicare rigorosamente regole del genere. Che dunque non possono avere alcun carattere prescrittivo. E così, più semplicemente, in nome di una considerazione "umanistica" di Gesù che elimini quanto di eccessivo e urtante c'è nella sua figura, alcune almeno di queste norme sono state considerate a volte non autentiche. Le proibizioni del divorzio e del giuramento sono infatti in contrasto radicale con ogni immagine "illuminata" e "moderna" di Gesù. È stato J. Weiss, seguito da A. Schweitzer, a indicare la strada per una soluzione convincente del problema. Se l'annuncio del regno di Dio da parte di Gesù ha carattere escatologico, perché parla di una venuta, e di una venuta imminente, del regno, anche l'etica non può non essere determinata dall'escatologia, non essere quindi "storicamente condizionata", e più esattamente "escatologicamente condizionata". Le richieste del discorso della montagna sono fatte in vista della venuta del regno di Dio; indicano le condizioni per entrarvi. L'etica di Gesù è un'etica per il regno di Dio. Weiss parlava più esattamente di un'etica del tempo che precede immediatamente l'avvento finale del regno, un'etica dunque "per un tempo di guerra'\ Schweitzer ne trasse l'ulteriore conseguenza che, passato il momento dell'attesa febbrile, anche questa etica sarebbe stata superata. E parlava perciò di un'etica "provvisoria", valida solcanto per il tempo della crisi 4. Ma i due autori si sono fermati a mezza strada. E hanno rinunciato così a riconoscere il valore delle indicazioni di Gesù per le comunità successive

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dei discepoli, e quindi per il tempo della chiesa. Essi guardavano infatti all'etica di Gesù solo nell'ottica di quella che si usa definire l'escatologia conseguente, all'interno cioè di questa loro convinzione di un'attesa febbrile dell'avvento del regno di Dio da parte di Gesù. E, considerando le affermazioni di Gesù sulla presenza attuale del regno come espressione di momenti eccezionali di "esalcazione pneumatica", si rifiutavano di riconoscere che per Gesù il regno non era soltanto immediatamente vicino, ma già misteriosamente presente. In realcà l'etica del discorso della montagna è proprio un'etica escatologica, ma di un'escatologia "anticipata". È l'etica infatti per i cittadini del regno di Dio, ma di un regno di Dio che non deve soltanto venire in un prossimo futuro, ma è già qui, nel!' azione e nella predicazione di Gesù. Il discorso della montagna (un "codice morale" di estrema radicalità che appare come la traduzione in chiave escatologica, e in termini più schiettamente religioso-personali, nella ricerca di un'autenticità totale, del!' ideale religioso-sociale del giubileo levitico, col suo superamento delle istituzioni legali) è la richiesta ai discepoli di una risposta incondizionata di fede all'offerta gratuita della salvezza da parte di Dio. È quindi proprio "il codice morale per la comunità del regno di Dio", ma di un regno di Dio che è già apparso sulla terra: quello che Paolo (Fil. 3,2.0) e l'A Diogneto (5,4) avrebbero espresso con la definizione dei cristiani come una "cittadinanza" (rroÀ.iri:uµa, rroÀ.ttEia), cioè appunto una comunità, celeste. Se Giovanni richiedeva ai suoi discepoli l'adempimento rigoroso della legge in vista del giudizio imminente di Dio, Gesù chiede ai suoi di vivere già ora, all'interno stesso del "mondo", l'etica del regno. Questa è l'etica non per il regno di Dio del tempo futuro, in vista della sua venuta imminente, ma del regno di Dio nel tempo presente, perché in maniera misteriosa ma reale il regno è già qui (Le. 11,2.0/Mt. 12.,2.8; Le. 17,2.0-2.1). Essa radicalizza le prescrizioni della legge mosaica sul ripudio, sul giuramento e sull'amore perché anticipa la presenza del regno di Dio a questo stesso mondo 1• Ma se da un lato questa etica del regno di Dio radicalizza la legge mosaica, dall'altro ne relativizza necessariamente talune prescrizioni (quelle che si definiscono in particolare di carattere "rituale", come il sabato e le regole alimentari). È qui il paradosso del comportamento di Gesù nei confronti della legge, che come non ha nulla di "umanistico" e di "moderno", così non ha però nulla di "legalistico" e di "ascetico". Ed è qui che si pone concretamente il problema del contrasto di Gesù con i farisei, tutori rigorosi dell'osservanza della legge (l'àKpi~Eta di cui parla al loro riguardo

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Giuseppe). Il problema è tuttavia oggetto attualmente di un acceso dibattito tra gli studiosi e le posizioni al riguardo sono molto diverse. Esso è strettamente legato a quella insistenza sul Gesù ebreo che caratterizza l' indagine attuale sul Gesù storico; e al problema quindi dell'atteggiamento che egli ha assunto in generale nei confronti delle istituzioni giudaiche del tempo. L'appartenenza di Gesù al mondo ebraico (la "giudaicità" di Gesù), il fatto cioè indiscutibile che egli non soltanto è ebreo, ma si muove interamente ali' interno delle tradizioni e delle consuetudini del suo popolo, significa che egli non ha preso alcuna posizione critica nei confronti di quelle istituzioni? E poiché quasi tutti gli studiosi affermano che nei confronti del tempio Gesù ha preso invece posizione, significa in particolare che, a differenza di quanto ritenevano la prima e la seconda ricerca, egli non ha mosso alcuna critica al modo con cui veniva osservata la legge mosaica? Dobbiamo pensare, con F. Vouga, che il problema della legge non appartiene affatto alla predicazione di Gesù, ma sia sorto soltanto nella successiva comunità dei discepoli, dal suo conflitto con l'etica farisaicorabbinica ?6 Oppure, con J. P. Meier, che pur essendo invece il Gesù storico proprio un "Gesù halak.ico", un Gesù cioè che discute continuamente con discepoli e avversari sulle norme della legge, questo però non significa che egli abbia fatto affermazioni di principio sulla legge mosaica come veniva osservata al suo tempo ?7 lo non lo credo. Le cinque controversie sulla legge di Mc. 2.,1-3,6 (o, secondo altri, le quattro di Mc. 2,15-3,6) sono, come ho detto sopra, e come ben vide la scuola di storia delle forme, una raccolta precedente a Marco che ha le sue radici nella vicenda stessa di Gesù. E rivelano tutta la tensione che si è creata in Galilea tra Gesù e i farisei. Non credo naturalmente che Gesù andasse in giro per la Galilea facendo affermazioni di principio sul valore della legge mosaica, come tendeva a dire la prima ricerca sulla vita di Gesù. Egli non è un sapiente che elabora dottrine generali e pronuncia giudizi astratti sulla vita morale. E non credo neppure che Gesù abbia mosso una critica radicale ad alcune norme almeno della legge mosaica, come tendeva ad affermare la seconda ricerca. Anche nelle sue prescrizioni di carattere rituale (il sabato e i sacrifici) la legge per lui va osservata, ed egli l'ha certamente osservata, perché resta l'espressione concreta della volontà di Dio. Nel corso della sua missione Gesù ha assunto però una serie di atteggiamenti pratici che hanno suscitato l'attenzione, e a volte la critica, della geme, e in particolare dei farisei, perché non apparivano abbastanza rigorosi nell'osservanza della legge. E ha dovuto necessariamen-

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te giustificarli. Quelle affermazioni di principio che i vangeli riportano, quando sono storiche, nascono cioè dalle osservazioni che gli fanno i suoi avversari per il suo comportamento. Gesù ha assunto atteggiamenti nei confronti dell'osservanza della legge mosaica che sono apparsi discutibili ai suoi avversari farisei. E alle loro critiche ha risposto con alcune dichiarazioni di principio che giustificavano il suo comportamento 8• Tra queste dichiarazioni non ci sono tuttavia a mio parere quelle in cui Gesù afferma di avere il potere di perdonare i peccati e di modificare la legge. Queste affermazioni si trovano infatti in quella raccolta di controversie di Mc. 2,1-3,6 che, se è chiaramente precedente (almeno da 2,15) al Vangelo di Marco, si rivela però altrettanto chiaramente come opera della comunità (probabilmente nella sua componente ellenistica). E i due passi di Mc. 2,10 ( «Il Figlio dell'uomo ha il potere (tçoucriav) di rimettere i peccati sulla terra») e 2,28 («Il Figlio dell'uomo è padrone (ciptoç) anche del sabato») non soltanto risultano fuori posto nello schema generale del Vangelo di Marco (essi anticipano infatti un'affermazione di sovranità che in questa forma esplicita sarà fatta anche nel vangelo soltanto più tardi), ma non possono nemmeno essere attribuiti a Gesù. Vi sono almeno due elementi che indicano chiaramente come essi siano creazioni della comunità. Da un lato l'identificazione esplicita di Gesù con un Figlio dell'uomo attualmente presence: un'identificazione che non appartiene alla predicazione di Gesù, nella quale, come vedremo, gli accenni probabilmente storici alla figura del Figlio dell'uomo parlano sempre della sua venuta futura, del Figlio dell'uomo quindi come personaggio escatologico, legato in particolare al giudizio finale, senza tuttavia identificarsi mai esplicitamente con lui. Dall'altro il fatto che a questo Figlio dell'uomo terreno, che per Marco è chiaramente Gesù, Gesù attribuisce in maniera "blasfema" (Mc. 2,7: « Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?») un potere sul peccato e sulla legge che egli non ha mai reclamato, ma nasce in realtà soltanto dalla convinzione che la comunità si è fatta dell'esaltazione di Gesù nella risurrezione, quando Gesù, secondo l'immagine del salmo 110 (che non a caso sarà Marco, a mio parere, ad aggiungere alla sua risposta originaria a Caifa di Mc. 14,62), si è «seduto alla destra del Padre» e ne ha ricevuto l'autorità (come Mt. 28,18 farà dire al risorto stesso nella sua apparizione in Galilea: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra»). È vero che in 1,22 e 27 Marco aveva detto che la gente si meravigliava proprio perché Gesù insegnava con autorità (tçoucria) e non come gli scribi, e il

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problema quindi del potere di Gesù si era effettivamente già posto. Ma qui si tratta di un potere che per gli Ebrei del tempo va al di là di qualunque possibile autorità terrena. Mc. 2,10 e 2,28 sono perciò creazioni della comunità che dopo la risurrezione non soltanto ha identificato il Gesù risorto con il Figlio dell'uomo, ma gli attribuisce il potere già sulla terra di rimettere i peccati e di modificare la legge. Ci sono tuttavia altre affermazioni che possiamo invece attribuire con notevole sicurezza a Gesù stesso. L'affermazione decisiva è indubbiamente quella di Mc. 2,27: «Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato», che stabilisce il principio generale della superiorità dell'uomo rispetto alla legge. Non è l'osservanza della legge a determinare la giustizia del comportamento dell'uomo, deve essere invece l'uomo a valutare se la legge sia concretamente giusta. Ma se questa affermazione è stata fatta realmente da Gesù, come quasi tutti gli studiosi ammettono, ne derivano conseguenze importanti. Anzitutto bisogna necessariamente dedurne che l'osservanza del sabato da parte di Gesù non era così rigorosa come pretendevano che fosse i farisei. Diventa cioè assai difficile sostenere con Meier che se le affermazioni di Gesù sul valore della legge possono essere storiche, non lo sono invece i racconti dei vangeli di sue infrazioni della norma del sabato. Con un'applicazione assai discutibile dell'argomento e silentio, poiché da nessun testo giudaico del tempo risulta che guarire di sabato fosse proibito dalla legge, Meier afferma infatti che tutti i racconti di guarigioni di sabato come sono contenuti nei vangeli non sono storici 9 • E con un'analisi puntigliosa del brano di Mc. 2,23-28, che ne mette giustamente in rilievo il forte carattere redazionale, sostiene che non è storico anche l'episodio della raccolta delle spighe da parte dei discepoli, nel quale Gesù fa quella sua affermazione sul valore del sabato' 0 • In effetti, non importa se sia storico il racconto di ogni singolo episodio da parte di Marco, ma se sono autentiche quelle parole di Gesù. Ma perché Gesù avrebbe fatto quell'affermazione sul sabato, che anche Meier ritiene autentica, se il suo comportamento di sabato non avesse suscitato le critiche dei farisei? Il problema più delicato è comunque un altro. Come dobbiamo valutare esattamente il comportamento e le affermazioni di Gesù? Il comportamento di Gesù riguardo alla legge, e le affermazioni di principio sul suo valore, rientrano semplicemente in quella varietà di posizioni che conosceva il giudaismo del tempo, nel quale potevano convivere senza grave scandalo i sadducei, i farisei e gli esseni? E gli stessi fautori di orientamenti

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apocalittici, come gli autori del libro di Enoch, certamente meno sensibili al problema della legge? Costituivano soltanto una diversa, e del tutto legittima, interpretazione della legge, o ne mettevano in qualche modo in questione lo stesso valore formale? E potevano apparire perciò agli occhi dei suoi avversari, che in Galilea sono soprattutto i farisei, come una deviazione inaccettabile da una tradizione consolidata? È questa la prima domanda da porsi. Alla quale però se ne accompagna immediatamente un' altra, di carattere strettamente metodologico. Se un'affermazione attribuita dalla tradizione evangelica a Gesù risulta priva di qualunque parallelo nel contesto giudaico del tempo, e rivela quindi un carattere del tutto eccezionale rispetto alle concezioni dominanti del suo tempo, dobbiamo per questo necessariamente negargliene la paternità? È il problema, al quale ho già accennato nell'introduzione, della validità del cosiddetto criterio di plausibilità storica che oggi va per la maggiore negli studi sulla figura di Gesù come conseguenza ritenuta inevitabile del!' affermazione della sua ebraicità. «Gesù non era un cristiano ma un giudeo». Questa affermazione famosa di J. Wellhausen è diventata lo slogan preferito della ricerca attuale sul Gesù storico. Ed è perfettamente giusto che sia così. Il riconoscimento del carattere giudaico della predicazione di Gesù, anche al di là della presentazione che ne fanno i vangeli canonici (e come doveva trovarsi probabilmente nei cosiddetti vangeli giudeo-cristiani), è condizione necessaria della sua comprensione. E non per contrapporre la predicazione di Gesù al giudaismo del suo tempo, come facevano in diversa misura la prima e la seconda ricerca, ma proprio per coglierne il vero significato, che solo all'interno della tradizione giudaica può essere compreso. Tuttavia, il fatto stesso che quella affermazione sia stata fatta da un teologo liberale, che considerava il giudaico della predicazione di Gesù assai meno rilevante, perché contingente, dell'umano, eternamente valido, e che insieme con l'altro grande teologo liberale A. Harnack finiva addirittura per contrapporre Gesù al giudaismo", dovrebbe rendere cauti di fronte a un suo uso precipitoso. Dovrebbe soprattutto impedire che il "Gesù ebreo" diventi soltanto uno slogan o serva unicamente a contrapporre il Gesù storico al Cristo dei vangeli (canonici). Restituire Gesù al giudaismo significa necessariamente sottrarre Gesù al cristianesimo o non significa piuttosto affermare l'appartenenza, apparentemente contraddittoria, di Gesù sia al mondo ebraico sia a quello cristiano? Che Gesù sia un giudeo, e che tutte le idee da lui espresse abbiano carattere giudaico, è

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assolutamente ovvio, ma di per sé non dice nulla, o comunque dice assai poco, sull'atteggiamento di Gesù nei confronti del giudaismo. Che a sua volta, come è altrettanto ovvio, non è il giudaismo, ma il giudaismo del suo tempo, e più esattamente, data la grande complessità e varietà di questo giudaismo, il sistema religioso (meglio ancora etnico-religioso) difeso dalle autorità giudaiche del suo tempo 11 • L'atteggiamento di Gesù, d'altra parte, non può essere ricostruito col semplice ricorso a un discutibile criterio di plausibilità storica che neghi per principio ogni sua troppo radicale originalità, così come non era correttamente ricostruito dalla "nuova ricerca" col solo criterio di discontinuità che questa originalità finiva con l'esaltare oltre misura. La domanda storica pertinente è perciò un'altra: Gesù ha assunto atteggiamenti nei confronti di questo giudaismo del suo tempo che hanno suscitato la reazione delle autorità giudaiche, sommi sacerdoti e capi dei farisei? E in particolare: il suo comportamento è stato ritenuto dai capi dei farisei poco rispettoso degli obblighi legali come essi li concepivano? Naturalmente qui il problema preliminare è costituito dalla rilevanza della presenza farisaica nel giudaismo del tempo e, poiché Gesù ha agito prevalentemente in Galilea, in particolare nella Galilea del tempo di Gesù. Se si ammette che i farisei non costituissero affatto un gruppo particolarmente significativo, e tanto meno spiritualmente dominante, nel giudaismo del tempo; e che in particolare nella Galilea la loro influenza fosse assai ridotta, allora i conflitti di Gesù con i farisei di cui sono pieni i vangeli canonici avrebbero ben poco fondamento. Ma io ho già affermato sopra che ritengo ingiustificato questo drastico ridimensionamento dell'influenza farisaica. La testimonianza di Giuseppe conferma largamente quella dei vangeli. Per il loro rigore nell'osservanza della legge i farisei, egli scrive in Ant. 18,15, «hanno grande influenza presso il popolo». E il racconto della Vita mostra che questa influenza, per quanto certamente in misura minore che a Gerusalemme, si faceva sentire anche in Galilea. E d'altra parte, secondo la testimonianza di Marco (3,2.2.; 7,1), scribi, cioè per lui maestri farisei, sono venuti da Gerusalemme in Galilea per controllare la predicazione di Gesù.C'è allora nel comportamento di Gesù qualcosa che può aver suscitato le critiche dei farisei? Cominciamo con osservazioni di carattere generale sullo stile di vita di Gesù. Gesù, come ho detto sopra, frequentava ambienti che non potevano piacere ai farisei. Secondo la tradizione evangelica, pur essendo originario di Nazaret e pur predicando presso il lago di Tiberiade, non ha

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mai messo piede né a Sepphoris, distante solo sei chilometri da Nazaret, né a Tiberiade, la nuova capitale del paese. Ha frequentato soltanto villaggi di contadini e di pescatori, quel "popolo della terra" che, non conoscendo la legge, difficilmente poteva essere apprezzato dai farisei (in Gv. 7,49 dicono addirittura i farisei: «Questa gente che non conosce la legge sono dei maledetti»; ma secondo il trattato rabbinico Abot 2,6 anche per il grande maestro fariseo Hillel «nessun incolto teme il peccato; nessun 'am ha-ares può essere pio»). E non ha avuto alcuna difficoltà a intrattenere rapporti familiari con le donne, cosa del tutto inusuale, e inevitabilmente sospetta, per un maestro ebreo. Peggio ancora, Gesù non ha avuto scrupolo a frequentare persone che agli occhi dei rappresentanti della religiosità ufficiale apparivano di assai dubbia moralità, quelli che vengono definiti nei vangeli pubblicani e peccatori. Con questa gente Gesù ha addirittura condiviso abitualmente la tavola, cosa che doveva apparire scandalosa ai farisei (in Mc. 2,16 chiedono infatti ai discepoli "gli scribi dei farisei", dottori quindi farisaici della legge: «Perché mangia coi pubblicani e i peccatori?»). Insomma, se già sopra ho detto che la pratica di vita di Gesù non aveva alcun carattere né di prudenza "politica" né di accortezza "borghese", aggiungiamo adesso che essa era ispirata alla più totale libertà e radicalità, lontana quindi da ogni forma di moderazione "benpensante" o di "perbenismo"' 3• Anche se non sembra che abbia affatto contestato le istituzioni fondamentali del paese (la famiglia, la sinagoga, il tempio), dentro le quali anzi si è mosso, a quanto pare, senza alcuna difficoltà, egli era realmente quell'"ebreo marginale" di cui parla Meier, che viveva (col suo gruppo di discepoli) al di fuori del sistema religioso approvato dalle autorità del tempo, e in particolare da quei capi dei farisei che secondo Giuseppe ne determinavano prevalentemente i contenuti. Come ho già ricordato sopra, con questo comportamento egli contestava infatti non la legge mosaica ma quell'idea della santità come separazione dei giusti dai peccatori in base ali' osservanza della legge che era gran parte della spiritualità giudaica, e costituiva il nocciolo in particolare di quella essena e farisaica. E questo suo comportamento non poteva non suscitare le critiche degli ambienti giudaici più osservanti e non obbligarlo quindi a giustificarlo. È da qui che nasce un'affermazione come quella che Marco attribuisce a Gesù, e che ha tutto l'aspetto di una effettiva risposta di Gesù a quelle critiche dei suoi avversari: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc. 2,17 ).

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Ma, come ho detto prima, Gesù ha tenuto atteggiamenti nei confronti della legge (rituale) che mostravano una libertà e radicalità ancora maggiore. Anzitutto, io credo, riguardo alle cosiddette norme di purità, che nel mondo ebraico del tempo rivestivano una grandissima importanza. Stando ai vangeli canonici Gesù ha mostrato scarsa attenzione a queste norme. Già lo stare a tavola con i pubblicani e i peccatori, trattandosi di persone probabilmente impure, doveva porre inevitabilmente anche problemi di purità. E difficilmente consentiva il rispetto rigoroso di quelle regole alimentari alle quali non soltanto esseni e farisei, ma tutti gli Ebrei attribuivano grande importanza (non sono quindi così sicuro che Gesù mangiasse "kosher"•~). Ma Gesù ha fatto di più. Ha lasciato che il lebbroso, che costituiva uno dei casi più temuti di impurità, gli si avvicinasse e per guarirlo non ne ha evitato anzi il contatto (Mc. 1,40-42). Ha permesso alla donna che aveva flussi di sangue, ed era perciò certamente impura, di toccargli le vesti senza fare alcuna rimostranza (Mc. 5,25-30 ). Secondo la tradizione sarebbe addirittura venuto in contatto con cadaveri, la forma più grave di impurità che richiedeva tempi e modi particolari di purificazione. Purtroppo è impossibile per noi stabilire con sicurezza non soltanto quali di questi episodi abbiano carattere storico ma anche quali di questi comportamenti fossero realmente tali da far contrarre impurità. Una cosa però è certa. Stando alla tradizione canonica (che nel complesso appare credibile) Gesù non ha mostrato alcuna preoccupazione per le regole di purità. Non è mai entrato nella difficile casistica che ne regolava l'osservanza. Anche in occasione dell'ultima pasqua non vi è alcun accenno al fatto che si sia sottoposto ai tradizionali riti di purificazione' 1• E soprattutto ha fatto in Mc. 7,15 la nota affermazione che «non c'è nulla al di fuori dell'uomo che entrando in lui possa contaminarlo, ma è ciò che esce dall'uomo che contamina l'uomo». Dobbiamo fermarci brevemente su questa affermazione' 6• Il detto fa parte della discussione tra Gesù e i farisei sull'obbligo di lavarsi le mani prima di mangiare: un episodio composito costruito da Marco, o comunque dalla tradizione prima di lui, con materiali di provenienza diversa, che in questa forma non risale quindi alla vicenda stessa di Gesù. Ma il detto, che non riguarda perciò la lavanda delle mani ma il problema più generale della purità dei cibi (e non soltanto dei cibi), ha chiaramente una sua storia particolare e va quindi giudicato da solo, indipendentemente dal contesto nel quale ora si trova. La "nuova ricerca" di ispirazione bultmanniana attribuiva un peso

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enorme a questa affermazione di Gesù, considerata profondamente rivoluzionaria e ritenuta in base al criterio di discontinuità sicuramente autentica. Per E. Kasemann essa costituiva una rottura aperta con tutto il sistema religioso dell'antichità, non soltanto giudaico, ma anche pagano, con la sua distinzione tra sacro e profano' 7• E W.G. Kiimmel condivideva sostanzialmente questo giudizio' 8, che anche un esponente significativo della ricerca attuale come M. J. Borg del resto fa suo, vedendo in Mc. 7,15 l'espressione della rottura di Gesù con il sistema di purità del giudaismo del tempo' 9 • Ma la "terza ricerca" contesta spesso questa valutazione o attribuendo a Mc. 7,15 una portata molto più limitata o ritenendolo semplicemente non autentico. Sulla base del criterio di plausibilità storica e con un uso arbitrario dell'argomento e silentio c'è infatti chi, come Sanders e Meier, ritiene impossibile che Gesù abbia fatto questa affermazione. Da un lato essa comporterebbe la sostanziale abrogazione di quelle norme alimentari previste dal Levitico e dal Deuteronomio che ogni ebreo riteneva di dover osservare rigorosamente' 0 • Dall'altro l'esistenza di un detto così chiaro di Gesù in materia renderebbe incomprensibile il comportamento esitante della comunità primitiva al riguardo, come è testimoniato da Paolo e da Luca"'. Ma, come ha scritto giustamente J. Schlosser, «la prima obiezione è quasi una petizione di principio e non tiene conto della grande diversità del giudaismo contemporaneo, così spesso invocata altrove. La seconda dimentica che altre frasi o atteggiamenti di Gesù sono rimasti senza un vero e proprio impatto sulla chiesa postpasquale»u. E ci sono invece motivi molto forti per ritenere autentica l'affermazione di Gesù. Il detto possiede infatti tutti i caratteri che si attribuiscono solitamente al modo di parlare di Gesù e risponde anche ai criteri che gli studiosi richiedono per affermarne l'autenticità: non soltanto la novità forse inaudita dell'affermazione e la sua coerenza col restante comportamento di Gesù, ma anche la sua forma incisiva e paradossale e il ricorso singolare alla tecnica del parallelismo antitetico. Non si può quindi negarne la paternità a Gesù in base soltanto a una sua presunta inverosimiglianza. E comunque bisogna comprendere bene il significato dell'affermazione di Gesù. Essa non costituisce un semplice rifiuto delle norme di purità dei cibi, ma appare come una "negazione dialettica", come quella famosa di Osea ( 6,6): «Voglio misericordia, non sacrifici», che Mt. 9,13; 12.,7 mette in bocca allo stesso Gesù, e come quella stessa di Mc. 2.,2.7 sul sabato. Non ha cioè carattere prescrittivo, non impone un determinato comportamento

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nei confronti delle norme sui cibi e non "abroga" quindi affatto quelle norme. Il che spiega benissimo il fatto che la comunità primitiva abbia dovuto vivacemente discutere per arrivare al superamento delle regole alimentari. D'altra parte però quell'affermazione non è una semplice interpretazione delle norme, non troppo diversa dalle discussioni che si facevano su di esse tra farisei e sadducei. Non si limita infatti ad allargare o a restringere le maglie di quelle norme. È invece un'interpretazione radicale che invita a riflettere sulla natura stessa delle regole alimentari e che avrebbe portato perciò lentamente i discepoli a superarle> 3• E che non poteva perciò non urtare la sensibilità dei farisei. C'è comunque un'affermazione ancora più forte, e di portata più generale, di questa da parte di Gesù. Si tratta di quella già citata di Mc. 2,27: « Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato»i 4 • Anche questa affermazione è riportata da Marco all'interno di un episodio, quello dei discepoli che strappano le spighe di grano, la cui storicità è da molti messa in discussione. L'episodio è in effetti chiaramente costruito con materiali di provenienza diversa, in qualche caso anche imprecisi o addirittura contraddittori. In questa forma non appartiene quindi alla vicenda di Gesù. Ma anche questo detto va valutato singolarmente, in maniera cioè indipendente dal resto dell'episodio. E c'è un consenso quasi unanime tra gli studiosi a considerarlo autentico. Non soltanto infatti la natura del detto, anch'esso una sorta di "negazione dialettica" di carattere incisivo e paradossale, ma questa volta anche il criterio di plausibilità storica sembra confermarne l'autenticità. Anche rabbi Shimon ben Menasja dirà in effetti qualcosa di simile: «Il sabato è stato consegnato a voi, non voi al sabato» ii. Qual è allora il senso di questa affermazione, e quale soprattutto la sua portata? Anche per questo detto si tende oggi spesso ad affermare che esso contiene soltanto un'interpretazione della norma del sabato. Ed è certamente vero. Gesù non pensa minimamente a contestare la norma del sabato, che egli ha sicuramente rispettato. Vuole soltanto fornirne l'interpretazione migliore. Ma la sua interpretazione non mira semplicemente ad ampliare o a restringere la norma del sabato, prescrivendo regole e ammettendo eccezioni, in un atteggiamento più o meno rigido, più o meno liberale. Essa mira a fornire il senso autentico della norma. Il sabato è stato fatto per l'uomo. Questo senso è perciò nella liberazione e nella salvezza dell'uomo, non nel suo asservimento e nella sua perdizione. Il valore del sabato non dipende semplicemente dal suo aspetto formale,

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ma dal contenuto concreto della norma. L'uomo ha quindi tutto il diritto di valutare questo contenuta2 6 • Si tratta di un'interpretazione che, pur tra incertezze e difficoltà, non può non aprire la strada al ripensamento stesso della norma e condurrà infatti abbastanza rapidamente la comunità dei discepoli ad abbandonarne l'osservanza. E questa interpretazione non poteva quindi non urtare la sensibilità dei farisei. Come ribadirò anche in seguito, a proposito dell'episodio della purificazione del tempio, lo spostamento della critica di Gesù che la maggior parte degli studiosi contemporanei opera dall'osservanza farisaica della legge al culto esteriore del tempio, minimizzando il suo conflitto con i farisei e accentuando quello con i sacerdoti (uno spostamento che deve attribuire il peso della condanna a morte di Gesù ai soli eventi di Gerusalemme), non credo perciò che sia realmente giustificato.

6 Gesù manifesta la sua pretesa messianica Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra Mc.11,7

Ali' avvicinarsi della pasqua, quindi probabilmente alla fine di marzo del :;o, Gesù decise di salire a Gerusalemme'. Nonostante l'affermazione di Le. 2,41 che « i suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di pasqua», non possiamo dire con sicurezza che fosse questa la sua consuetudine di ebreo osservante; che il pellegrinaggio a Gerusalemme fosse quindi il normale compimento di una pratica religiosa per lui abituale. Il quadro offerto dal Vangelo di Giovanni di un Gesù che sale periodicamente a Gerusalemme per le feste non ha reale fondamento storico. La pasqua era certamente una delle tre feste di pellegrinaggio (con quella delle settimane e quella delle capanne), e anzi la principale di queste feste. Ma fino a che punto i Galilei osservassero questa regola è difficile dire. Il viaggio non era semplice. Ai giorni prescritti per le purificazioni (che arrivavano fino a sette) si aggiungevano almeno cinque-sei giorni di viaggio ali' andata e altrettanti al ritorno". Il viaggio doveva avvenire o attraverso la Samaria - come secondo Giuseppe era abitudine dei Galilei! e come dice Luca (17,u) che fece in effetti Gesù, con tutti i pericoli di questo passaggio in mezzo a una popolazione spesso ostile - o per il più lungo tragitto della Perea di Erode Antipa, come, stando a Mc. ro,r ( «Partito di là, venne nella regione della Giudea e al di là del fiume Giordano»), potrebbe anche aver fatto Gesù. In tutti i casi è certo che Gesù ne fece l'occasione per portare il suo messaggio nel cuore stesso di Israele e sollecitare anche le autorità del popolo a prendere posizione nei suoi confronti. Con Gerusalemme Gesù in realtà aveva già avuto contatti precedentemente (e agli abitanti di Gerusalemme non era quindi sconosciuto). Come ho suggerito sopra, ne aveva avuti quasi certamente in maniera diretta al tempo della sua collaborazione col Battista. Ma per mezzo dei suoi discepoli ne aveva avuti anche molto probabilmente durante il suo ministero autonomo. La fonte Q riporta questa suggestiva apostrofe che Gesù,

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secondo Luca nel recarvisi, avrebbe rivolco alla città: «Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandaci a te: quante volce ho voluto (~0D.TJcra) raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi! Vi dico infatti che non mi vedrete finché verrà il tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!» (Le. 13,34-35/Mt. 2.3,37-39 ). E c'è chi, come Meier, vorrebbe utilizzare questo passo per confermare la sua ipotesi che Gesù sia salito più volce a Gerusalemme. In realtà il passo non solcanto non dice questo, ma a mio parere dice il contrario. Gli abitanti di Gerusalemme non vedranno Gesù fino al momento in cui lo accoglieranno con l'acclamazione: Benedetto colui che viene nel nome del Signore, dunque fino al momento del suo ingresso "messianico" nella città santa. Fino a quel momento, ritiene quindi la fonte Q (nella collocazione, anch'essa peralcro discutibile, di Luca), Gesù non è salito (o comunque non si è fermato) a Gerusalemme. Con ogni probabilità, ricordando tentativi precedenti di Gesù di rivolgersi a Gerusalemme (o desideri irrealizzati: ~0ÉÀTJ iEpCÌ)); rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe e non permetteva che si trasportassero cose [crKEùoç, quindi probabilmente vasi] attraverso il tempio (otà mu iEpou) » ), che Marco pone il giorno dopo l'ingresso in Gerusalemme (subito dopo l'ingresso Gesù infatti entra nel tempio, ma se ne allontana immediatamente, Mc. 11,11), e nel quale Gesù scaccia i mercanti dal cortile dei gentili antistante all'edificio (e separato anzi da questo dagli altri cortili, delle donne, degli uomini e dei sacerdoti), non abbia alcun carattere messianico (è Matteo che, inserendo l'episodio della purificazione del tempio tra l'ingresso trionfale in Gerusalemme da un lato, le guarigioni dei malati e le acclamazioni dei fanciulli nel tempio dall'altro, tende a dargli questo carattere). Solo la tendenza a leggere tutta la vicenda di Gesù in termini messianici, come fanno già i vangeli sinottici, ma andando spesso anche al di là degli stessi vangeli, può spingere N. T. Wright a interpretare l'episodio come una evidente manifestazione messianica che doveva fatalmente portare Gesù alla morte' 1• Non è vero che chiunque compiva (o addirittura soltanto diceva) qualcosa contro il tempio affermava implicitamente di essere il Messia e poteva perciò essere messo a morte. Nella tradizione profetica (Michea e Geremia soprattutto), nei movimenti apocalittici (gruppi enochici e comunità di Qumran) e penitenziali (quello stesso di Giovanni Battista) la polemica nei confronti del tempio era ampiamente diffusa. Ma non sappiamo dell'esistenza di alcun pretendente messianico all'interno di questi movimenti. E neppure nel caso particolarmente clamoroso di Geremia ( Ger. 2.6,1-19) i sacerdoti poterono metterlo a morte' 6• Giuseppe anzi racconta di un contadino (un certo Gesù figlio di Anania) che per anni girò per Gerusalemme predicendo la distruzione del tempio, che le autorità giudaica e romana si limitarono a flagellare, ritenendolo soltanto un esaltato' 7• Nel gesto di Gesù non c'è nessuna esplicita affermazione messianica e l'entità stessa dell'episodio deve essere stata molto limitata. Lo provano in maniera evidente già il fatto che i mercanti non sembra che

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abbiano opposto una seria resistenza e il fatto che né l'autorità giudaica né quella romana sono intervenute. Ma lo provano anche il fatto che nei giorni successivi all'episodio Gesù continua a predicare indisturbato nel tempio e il fatto che nel processo davanti al sinedrio l'azione provocatoria di Gesù non fu ritenuta sufficiente a giustificarne una condanna (e si dovette perciò ripiegare, probabilmente malvolentieri, sulla sua pretesa di essere il Messia). Nessun paragone è possibile con l'episodio di Geremia che provocò l'immediato intervento dei sacerdoti ed espose realmente il profeta al pericolo di morte. Ma questo significa anche che non possiamo dare all'episodio quel peso rivoluzionario che gli attribuivano al loro tempo H. S. Reimarus e S. G. F. Brandon' 8 e che oggi gli attribuisce gran parte della ricerca su Gesù. Si tratta in realtà di un'azione profetica puramente dimostrativa, il cui senso probabilmente più che nel gesto era nelle parole del v. 17 che lo accompagnavano ( «Non sta forse scritto: "La mia casa sarà chiamata casa di preghiera?"», senza l'aggiunta, esclusiva e tipica di Marco, "per tutte le nazioni") e che nell'estensione enorme dell'area del tempio e nella grande confusione del cortile dei gentili solo poche persone avranno notato. Neppure può dirsi che il carattere "messianico", e perciò eversivo, del gesto di Gesù risulta comunque implicitamente dal fatto che con questo "attacco al culto del tempio" (così spesso lo si definisce) Gesù alludeva alla vicina distruzione dell'edificio e alla sua futura ricostruzione, come elemento ritenuto tradizionale e particolarmente significativo del suo annuncio della restaurazione escatologica di Israele' 9 • Al rovesciamento di alcuni tavoli e sedie dei venditori di colombe e dei cambiavalute (è Matteo che ai venditori di Marco aggiunge un "tutti': 1tétvraç, per generalizzare un atto che è stato diretto contro alcuni soltanto dei venditori), che sono sistemati soltanto nel cortile esterno dei gentili e non fanno parte dell'arredo sacro del tempio, è molto difficile attribuire questo preciso significato simbolico. Rivolto com'è contro l'attività commerciale che si svolgeva nel cortile con l'autorizzazione e la gestione dei sommi sacerdoti ( i veri destinatari quindi del gesto), l'intervento di Gesù a me sembra in realtà più una difesa che non un "attacco" al culto del tempio (così in effetti l'hanno interpretato gli evangelisti, in particolare Gv. 2,16-17, con il suo riferimento a Sai. 69,10 ). E l'annotazione curiosa di Mc. 11,16, secondo cui Gesù « non permetteva che alcuno trasportasse vasi attraverso il tempio» (i5tà wiì ii:pou), cioè attraverso il cortile dei gentili usato probabilmente come scorciatoia'°, fa anzi della sua azione più una riaffermazione della santità di tutta la zona del

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tempio (lo iEp6v) che non una minaccia della distruzione dell'edificio (il va6c;) Il fatto stesso che dopo la morte di Gesù la comunità dei discepoli continuò a frequentare regolarmente il tempio sembra parlare del resto in questa direzione. Per dare al gesto di Gesù un carattere messianico così rivoluzionario è necessario in realtà legare la sua azione nel cortile dei gentili alla predizione effettiva di una distruzione (e ricostruzione) del tempio che egli stesso avrebbe operato. Ma per fare questo bisogna accogliere anzitutto la versione particolare dell'episodio del Vangelo di Giovanni (2,13-22), secondo cui è proprio in occasione dell'azione contro i mercanti del tempio (che a differenza dei sinottici Giovanni colloca, come è noto, assai poco credibilmente proprio agli inizi dell'attività di Gesù) che Gesù ha pronunciato quella previsione della sua distruzione e ricostruzione. Aggiungiamo anzi che anche dell'autenticità della predizione di una distruzione del tempio che Gesu stesso avrebbe operato non possiamo essere affatto sicuri (e ci sono anzi buone ragioni per ritenerla del tutto improbabile). Non dimentichiamo infatti che la versione di Giovanni non dice che sarà Gesù a distruggere il tempio; e che essa ha un carattere teologico assai più che storico (Giovanni non fa dire a Gesù che egli distruggerà il tempio, ma Gesù invita i suoi avversari a distruggere il tempio, col che secondo l'evangelista alludeva al suo corpo»). Sicché di questa minaccia di una distruzione del tempio che sarebbe stata operata da Gesù stesso abbiamo soltanto la testimonianza indiretta di Marco (e nella sua scia Matteo), secondo cui Gesù nel corso del processo dinanzi al sinedrio è stato accusato di averla pronunciata (Mc. 14,58: «Lo abbiamo udito mentre diceva: "lo distruggerò questo tempio (tòv vaòv wurnv) fatto da mani d'uomo e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d'uomo"»). Accusa che Marco stesso afferma non aver avuto alcun seguito 11 • La conclusione, di nuovo, è importante. Più ancora dell'ingresso in Gerusalemme, la purificazione del tempio non è, come pensava Reimarus, il segno di un Gesù che, giunto a Gerusalemme, depone la mitezza che ne aveva caratterizzato la predicazione in Galilea e inizia a compiere una serie di gesti violenti. E non è neppure la vera causa della condanna a morte di Gesù, come sostengono tra gli altri S. G. F. Brandon, E. P. Sanders e J. D. G. Dunn. Affermare con Brandon che «la "cacciata dei profanatori dal tempio" portò all'arresto di Gesù da parte delle autorità e che fu un'iniziativa carica di significato rivoluzionario» 14 ; ritenere con Sanders che «la dimostrazione fisica contro il tempio da parte di chi aveva un notevole 11



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seguito si mostra come occasione tanto ovvia per la condanna a morte che non c'è bisogno di rivolgersi ad altro» 11 ; o anche dire soltanto con Dunn che «l'azione simbolica compiuta da Gesù nel tempio e le sue parole sulla distruzione del tempio fornirono il motivo (il pretesto?) per l'arresto di Gesù e i capi d'imputazione primari a suo carico» 16 , costituisce una evidente esagerazione. Fa parte con ogni probabilità dell'esigenza, oggi fortemente sentita sul piano ecumenico, ma poco giustificata sul piano storico, di scaricare la responsabilità della morte di Gesù dalle spalle dei farisei, visti come precursori del giudaismo rabbinico, per addossarla interamente su quelle dei sommi sacerdoti e dei Romani 17• La purificazione del tempio, che io credo giusto continuare a chiamare così, non ha in realtà nessun carattere messianico e rivoluzionario, e non può essere perciò ritenuta la vera causa della condanna a morte di Gesù. Il problema messianico è posto invece nuovamente da Gesù, secondo Marco, due giorni dopo, nella cosiddetta questione del figlio di David: «E rispondendo (à1t0Kpt0Eiç) Gesù diceva, insegnando nel tempio: "In che modo gli scribi dicono che il Cristo è figlio di David? Disse infatti David stesso, mosso dallo Spirito santo: 'Il Signore ha detto al mio signore: Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici sotto i tuoi piedi'. David stesso lo chiama signore: donde dunque è suo figlio?"» (Mc. 12,35-37). E rispetto all'ingresso in Gerusalemme il carattere della messianità di Gesù appare in una luce ancor più enigmatica. L'interpretazione del passo di Marco è particolarmente difficile 18 • C'è anzitutto un problema di autenticità dell'episodio. Poiché non abbiamo testimonianze che all'epoca di Gesù il salmo 110, cui fa riferimento il testo con la sua citazione delle parole di David, fosse interpretato in senso messianico (come richiede evidentemente l'argomentazione di Gesù) e poiché invece sappiamo bene che in senso messianico è stato interpretato dalla comunità primitiva dei discepoli, si può pensare che l'episodio sia stato creato da una parte di questa comunità (quella di lingua greca) per affermare contro un'altra (quella di lingua aramaica) che in quanto Messia Gesù non è il re di Israele ( il figlio di David) ma il signore del mondo. Ma il carattere del passo non spinge affatto in questa direzione. L'indicazione della vera natura del Messia ( il Cristo) è nel testo puramente allusiva e alla persona di Gesù addirittura non c'è alcun riferimento. Il brano contiene in effetti una sottile e provocatoria questione esegetica che è molto più probabile sia stata posta da Gesù ai suoi avversari, presumibilmente in risposta (il testo dice infatti à1t0Kpt0Eiç, quindi letteralmente rispondendo) a una

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loro obiezione, non riportata dall'evangelista, circa la sua origine davidica, che non da un gruppo all'altro della comunità. Ma è l'interpretazione stessa del passo che non è facile. L'impressione immediata che esso suscita è che con la sua domanda Gesù voglia contestare l'origine davidica del Messia ( «Come fanno gli scribi a dire che è figlio di David?» ). E una spiegazione possibile di questa contestazione è che Gesù stesso non era di famiglia davidica. Non essendo di famiglia davidica avrebbe sentito il bisogno di contestare la necessità di questa origine del Messia. La spiegazione non è in effetti arbitraria, perché secondo Gv. 7,4142 questa obiezione è stata effettivamente rivolta a Gesù. A coloro che, presi da entusiasmo, cominciano a dire di lui: «Costui è il Cristo», cioè il Messia, altri infatti rispondono: «Il Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice la Scrittura: Dalla stirpe di Davide da Betlemme, il villaggio di David, verrà il Cristo?». E più tardi, ricollegandosi forse proprio a questo passo di Marco, certi ambienti cristiani hanno effettivamente provato la tentazione di rinunciare a utilizzare un titolo che, se non fosse stato realmente posseduto da Gesù, avrebbe potuto dare adito ai Giudei di disconoscerne la messianità. Ali' obiezione giudaica che il Messia è figlio di David risponde infatti la Lettera di Barnaba (12,10-11): «Ecco di nuovo Gesù, non figlio d'uomo, ma figlio di Dio, manifestato in figura nella carne. Poiché dunque avrebbero detto che il Cristo è figlio di David, lo stesso David, temendo e prevedendo l'errore dei peccatori, profetizza: "Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi". [... ] Vedi come David lo chiama Signore e non dice figlio». Ma la spiegazione, per quanto accolta da un gran numero di esegeti, non appare affatto convincente. Con ogni probabilità Gesù era realmente di famiglia davidica. La tradizione è pressoché unanime nel riconoscergli questo carattere e non lo fa soltanto con l'uso dell'appellativo di figlio di David, che potrebbe essere semplicemente un modo per affermare che egli era il Messia, ma lo fa anche con l'indicazione esplicita della sua origine familiare. Lasciamo pure stare le genealogie di Luca e di Matteo, il cui evidente carattere dogmatico rende il loro valore storico certamente discutibile. Ma, come ho già ricordato sopra, in Rom. 1,3b Paolo afferma che Gesù è « nato dal seme di David secondo la carne». E questa non è l'attribuzione a Gesù di un titolo messianico, ma l'affermazione della sua origine terrena, contrapposta alla sua intronizzazione celeste ( 1,4: «costituito Figlio di Dio[ ... ] dalla risurrezione dei morti»). Ed Eusebio di Cesarea riporta un racconto dello scrittore palestinese Egesippo, secondo cui l'imperatore

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Domiziano, per eliminare ogni possibilità di pretesa messianica tra i Giudei, fece ricercare i discendenti di David, tra i quali era anche un fratello di Gesù. La sua famiglia era quindi di origine davidica. Se Gesù avesse veramente contestato l'origine davidica del Messia sarebbe d'altra parte molto difficile spiegare perché la tradizione gli avrebbe attribuito in maniera unanime questo carattere, che non apparteneva necessariamente alla figura del Messia (esistevano infatti, come ho già detto, altre possibili figure messianiche). In realtà Gesù non contesta che il Messia debba avere origine davidica. Pur potendo appellarsi utilmente egli stesso a questa origine, e magari avendo tratto conferma alla propria pretesa messianica proprio da questa origine, afferma però chiaramente che non è questo il carattere essenziale del Messia. Vuole evidentemente indirizzare i suoi ascoltatori a un modo diverso di concepire la messianità e di guardare quindi alla sua missione. Quale sia però questo modo diverso non lo dice. Che voglia rinviare alla figura celeste del Figlio dell'uomo, come pensano numerosi studiosi, diventerà chiaro solo al processo davanti al sinedrio, nella risposta alla domanda che gli pone il sommo sacerdote se egli sia il Messia, ma qui non è detto. Per il momento né la natura del Messia né quella di Gesù vengono chiarite. La pretesa messianica di Gesù resta allusiva ed enigmatica, rispetto all'ingresso in Gerusalemme anzi ancor più allusiva ed enigmatica. Sembra quasi che egli inviti a ripensare il significato reale di quell'episodio, che l'affermazione della legittimità del tributo a Cesare aveva reso del resto ancor più problematico. È avvenuto forse qualcosa di nuovo che lo spinge a farlo? E siamo perciò di fronte a un'altra svolta nella sua vicenda? Con tutta la prudenza richiesta dai limiti e dal carattere della nostra documentazione, e ricordando anche che alla domanda di Pilato sul suo essere re Gesù non risponderà semplicemente sì, ma «tu lo dici» (Mc. 15,2), è possibile in effetti fare un'altra ipotesi.

7

Gesù assume la morte nella sua missione E preso un calice, avendo reso grazie, lo diede loro, e ne bevvero tutti. E disse loro: "Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti"

E dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi"

Lc. ll,lO

L'annuncio dell'avvento imminente del regno di Dio, che è promessa di salvezza, non minaccia di giudizio, è un annuncio di gioia. Non c'è posto in esso per preannunci di morte'. Negli episodi di cui è protagonista in Galilea, anche in quelli di più aspro conflitto con scribi e farisei, Gesù non fa infatti alcun riferimento alla eventualità di una sua morte violenta. L'unico accenno che si trova nella prima parte del Vangelo di Marco, quello di Mc. 2.,20, nella risposta di Gesù alla critica che gli viene mossa perché, a differenza dei discepoli di Giovanni e dei farisei, i suoi discepoli non digiunavano ( «Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro calco: allora, in quel giorno, digiuneranno»), è chiaramente opera della tradizione, che leggendo il riferimento di Gesù alla gioia delle nozze del v. 19 ( «Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro?») con una interpretazione cristologica della figura dello sposo, vi ha aggiunto il riferimento alla sua morte. E se la fonte Q non contiene accenni alla morte di Gesù questo non dipende certo da un suo presunto disinteresse per questo tema, ma dal fatto che essa riporta quasi esclusivamente la predicazione di Gesù in Galilea". li conflitto di Gesù con i farisei non era del resto di tale gravità da far pensare fin dall'inizio alla possibilità di una morte violenta. L'affermazione di Mc. 3,6: «E i farisei uscirono subito con gli Erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire», è chiaramente un'anticipazione con cui l'evangelista, o già chi ha messo insieme gli episodi di Mc. 2.,1-3,6, ha ritenuto di chiudere la raccolta delle cinque controversie. Ma, salendo con i discepoli a Gerusalemme, Gesù faceva certamente

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i conti con la possibilità di essere messo a morte. Se la sua predicazione in Galilea già aveva suscitato parecchie resistenze, e anche forti critiche, soprattutto da parte dei farisei, recarsi a Gerusalemme significava indubbiamente sfidare la sorte. A Gerusalemme c'erano i sommi sacerdoti e i primi dei farisei, le autorità giudaiche che detenevano il potere religioso e politico e costituivano l'organo di governo del sinedrio. Misurarsi apertamente con queste autorità significava evidentemente esporsi al pericolo di essere arrestato e condannato. Ho già ricordato sopra che altre volte del resto, probabilmente con l'invio dei discepoli, Gesù, secondo quanto riferisce la fonte Q (Le. 13,34-35/Mt. 23,37-39 ), aveva sperato di convincerle ad accogliere il suo annuncio del regno e ne era rimasto deluso. Affrontare ora direttamente queste autorità significava per Gesù mettere a repentaglio la propria vita. La morte non era del resto un esito nuovo della missione di un inviato divino a Israele. Prima di lui già i profeti avevano subito più di una volta questa sorte. E questa sorte aveva subito Giovanni Battista. Non si può pensare che Gesù non si rendesse conto del pericolo che correva. Se è da escludere che nella sua predicazione in Galilea egli abbia parlato pubblicamente della propria morte come l'esito necessario della sua missione, perché questo sarebbe stato in evidente contrasto con l'invito ad accogliere il suo lieto annuncio dell'avvento imminente del regno di Dio, è molto probabile perciò che dietro le tre profezie della passione di Mc. 8,31 ( «E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere»); 9,31 ( «Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: "Il Figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà"») e I0,33-34 ( «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà») ci sia realmente l'avvertimento, almeno velato, di Gesù ai discepoli che andare a Gerusalemme poteva significare andare incontro alla morte. Naturalmente non è pensabile che Gesù abbia annunciato ripetutamente, e in maniera così esplicita, come fanno le tre profezie, la possibilità della morte del Figlio dell'uomo. Come dirò più diffusamente in seguito, se Gesù nella sua predicazione ha accennato a questa figura apo-

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calittica misteriosa del Figlio dell'uomo di cui parlavano i libri di Daniele e di Enoch, ne ha parlato come di colui che avrebbe portato testimonianza nel futuro giudizio di Dio, non come di colui che doveva soffrire ed essere messo a morte. E lo ha fatto non soltanto sempre in terza persona, senza cioè identificarsi esplicitamente con lui, ma anche in maniera puramente allusiva ed enigmatica. Qui invece si parla della sofferenza e della morte del Figlio dell'uomo. E il Figlio dell'uomo è identificato chiaramente con Gesù. Neppure della possibilità della propria morte è pensabile a mio parere che Gesù abbia parlato ripetutamente, e in maniera così esplicita, come fanno le tre profezie (nonostante Mc. 8,32: «e diceva queste cose apertamente»). Se fossero stati preparati con questa insistenza all'esito tragico della missione di Gesù i discepoli non avrebbero reagito ad esso così come hanno reagito, con la fuga e l'abbandono. L'ultima delle tre profezie, con l'indicazione precisa di tutti gli avvenimenti che si sarebbero susseguiti nella passione, compresa la consegna nelle mani dei pagani, mostra del resto chiaramente il progressivo crescere e ampliarsi della tradizione, che proseguirà ancora con gli evangelisti successivi (cfr. in particolare il riferimento di Mt. 20,19 non più genericamente all'uccisione, ma alla crocifissione, del Figlio dell'uomo). Nella forma in cui le possediamo non può esservi dubbio che queste sono dunque profezie ex eventu. Non è questo il carattere di un'autentica profezia. Marco in realtà ha anticipato al momento della confessione di Pietro (e ha riaffermato in maniera più esplicita con l'episodio della trasfigurazione) quello svelamento del mistero di Gesù Messia sofferente e glorioso che per i discepoli, come suggerisce Mc. 9,9 ( «Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell'uomo fosse risorto dai morti»), sarebbe avvenuto soltanto con l'esperienza delle apparizioni. Ma un accenno alla eventualità di una sua morte violenta, in una forma non troppo lontana da quella, molto semplice, e basata forse su un originario gioco di parole, della prima parte della profezia di Mc. 9,31 ( «Il Figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani degli uomini»), Gesù con loro, avviandosi a Gerusalemme, deve averlo fatto. Troppi testi parlano in questa direzione per pensare che si tratti soltanto di una costruzione successiva della tradizione. Ed è su questo accenno enigmatico che si sono formate e sono cresciute le tre profezie. Non si può dire tuttavia né che Gesù, salendo a Gerusalemme, fosse

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certo di andare incontro alla morte né tanto meno che sia salito a Gerusalemme proprio per incontrarvi la morte (checché ne dica Schweitzer, questa non sarebbe buona esegesi ma soltanto teologia, e cattiva teologia). Marco sembra al contrario suggerire che, nonostante il timore per quello che poteva accadere (10,32.: «Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti»), tra i discepoli in viaggio verso Gerusalemme l'atmosfera era soprattutto di eccitazione e speranza (Le. 19,11 afferma addirittura che «essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all'altro»). Non a caso colloca qui non soltanto, in risposta a una rimostranza di Pietro (10,2.8: «Ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito»), la promessa di Gesù ai discepoli di una grande ricompensa (10,2.9-30: «Non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi[ ... ] che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto»), ma anche l'episodio della richiesta a Gesù dei figli di Zebedeo (10,37: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra»). E probabilmente ha ragione Matteo a inserire proprio qui, tra la rimostranza di Pietro di Mc. 10,2.8 e la promessa di Gesù di Mc. 10,2.9-30, anche la promessa di Gesù ai dodici di sedere su dodici troni per giudicare le dodici tribù di Israele. Il viaggio verso Gerusalemme non è un viaggio di morte\ ma è ancora un viaggio di speranza. Se Gesù è entrato a Gerusalemme a cavallo di un asino, come il sovrano davidico di Zacc. 9,9, per suggerire agli abitanti della città santa, con questa "messa in scena", la sua pretesa messianica, e il fatto quindi che l'avvento del regno era imminente, questo era l'ultimo tentativo che egli faceva, non a caso proprio in occasione della festa di pasqua, vissuta tradizionalmente dai Giudei in un'atmosfera di eccitazione messianica, per invitarli ad accogliere il suo messaggio. Gesù insomma non voleva morire (è solo l'interpretazione teologica successiva che inserisce la sua morte nel disegno divino di salvezza, affermando che egli "doveva" morire perché così "era scritto") né poteva essere certo di essere messo a morte. Voleva ancora tentare di convincere e convertire il popolo, e i capi stessi, di lsraele 4 • Ma a Gerusalemme gli eventi sono rapidamente precipitati (se l'ingresso in Gerusalemme è avvenuto tuttavia qualche giorno prima di quel che afferma la tradizione, allora un po' meno rapidamente di quanto fa supporre Marco). Dobbiamo naturalmente tener conto di una presentazione dei testi che drammatizza ulteriormente la realtà storica. L'accoglienza

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della gente a Gesù non è stata certamente quel!' accoglienza trionfale di cui parlano i vangeli. Come ho già detto sopra, il confronto tra i racconti dei quattro evangelisti mostra in maniera chiarissima come l'episodio dell'ingresso in Gerusalemme sia venuto crescendo col passare del tempo e come in particolare sia venuto crescendo il suo carattere messianico e trionfale. È evidente che in origine esso non è stato una grande manifestazione di folla ma un episodio simbolico, un segno, che Gesù ha voluto dare per sollecitare i Giudei a prendere posizione nei suoi confronti. E non ha suscitato grande tumulto, altrimenti la coorte romana, schierata a Gerusalemme sulla fortezza Antonia, all'angolo nord-ovest del tempio, sarebbe immediatamente intervenuta, come sempre i Romani hanno fatto nei confronti dei movimenti rivoluzionari dell'epoca. Ma l'arrivo di Gesù, con quelle acclamazioni dei pellegrini, ha tuttavia messo in allarme le autorità giudaiche. Il segno era comunque abbastanza chiaro. Quel profeta avanzava precise pretese di leadership regale. Naturalmente io non credo, come ho già detto, che a proposito di Caifa e di Pilato si possa con Meier affermare tranquillamente che «quello che essi vedevano dalle finestre dei loro palazzi di Gerusalemme era un profeta ebreo popolare che eccitava folle giudaiche entusiaste durante le grandi feste di pellegrinaggio» 1• Non c'erano certamente folle entusiaste ad ascoltare Gesù in quegli ultimi giorni a Gerusalemme. Non credo neppure si possa insistere molto, come fa Sanders, su quella che era comunque la consistenza del seguito di Gesù che avrebbe contribuito a rendere preoccupante la sua azione successiva nel tempio. È Sanders stesso ad ammettere che quel seguito doveva essere meno numeroso di quello che aveva avuto il Battista. Ma neppure dobbiamo pensare con Fredriksen 6 che se in quest'ultima pasqua Pilato si è preoccupato del successo popolare conseguito da Gesù al suo arrivo a Gerusalemme, questo è avvenuto soltanto perché lo aveva conosciuto già in precedenti visite alla città santa che difficilmente per me hanno avuto luogo. L'episodio, riportato probabilmente a Pilato dalle autorità giudaiche, poteva già di per sé suscitare la sua attenzione. Gli eventi successivi indicano d'altra parte il rapido aggravarsi della situazione e preparano indubbiamente la catastrofe finale. Anche qui dobbiamo tener conto della drammatizzazione letteraria degli eventi da parte degli evangelisti. L'episodio del tempio (qui ha ragione invece Fredriksen) non ha avuto certamente quell'importanza decisiva che vuole attribuirgli oggi la maggior parte degli studiosi. Più ancora dell'ingresso in Gerusa-

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lemme è stato anch'esso un episodio simbolico, che non avrà creato grande turbamento in città. Anche in questo caso la tradizione non riporta nessuna reazione seria né da parte degli stessi mercanti né da parte delle autorità giudaiche e romane. E Gesù ha potuto continuare a predicare nel tempio. Deve essere stato quindi anch'esso un episodio molto limitato, che nella grande confusione del cortile dei gentili antistante al tempio solo pochi avranno notato. Ma anch'esso era comunque una sfida aperta al potere dei sacerdoti che gestivano il tempio, che il discreto seguito di Gesù poteva rendere pericolosa. Il fatto è che qui a Gerusalemme ad ascoltare Gesù non c'era più soltanto la popolazione dei villaggi galilaici che accoglieva in genere con entusiasmo la buona novella dell'avvento del regno di Dio. C'erano anche le autorità cittadine che con il sostegno di farisei e sadducei difendevano il sistema religioso di cui erano i principali rappresentanti. E il confronto con queste autorità non poteva non essere assai aspro. Toccava infatti problemi centrali della vita politica e religiosa dei Giudei, nei quali entravano in gioco per loro la sicurezza della nazione e la sua stessa identità. Che Gesù parlasse di un ingresso dei gentili nel regno di Dio e di una esclusione invece dei capi di Israele (così probabilmente in Le. 13,28-29/Mt. 8,11-12: «Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio»; e così anche in Mc. 12,1-11, la parabola dei vignaioli omicidi, a cui Mc. 12,12 aggiunge il commento esplicito sulla ostilità sempre più forte dei capi del popolo nei confronti di Gesù: «E cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla; avevano capito infatti che aveva detto quella parabola contro di loro») doveva essere sentita come un'offesa intollerabile. La questione del tributo a Cesare (Mc. 12,13-17 ), posta non a caso da farisei ed Erodiani, l'autorità religiosa e quella politica insieme (secondo Mc. 12,13 «per coglierlo in fallo»), toccava il problema decisivo dei rapporti della nazione giudaica con il potere romano, che l'attività di Gesù, dopo quell'ingresso "regale" in Gerusalemme, rischiava indubbiamente di rendere più difficili. La discussione stessa sulla risurrezione dei morti (Mc. 12,18-27 ), che l'evangelista fa porre invece con precisione da sadducei (i quali alla risurrezione non credono), riguardava uno degli aspetti più delicati e controversi delle dispute tra farisei e sadducei, su cui si pensava probabilmente di poter costringere Gesù a mettersi in contrasto con gli

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uni o con gli altri. Gli evangelisti possono certamente avere esagerato a mettere in risalto la malizia degli interroganti, ma sembra comunque evidente in queste discussioni la precisa intenzione delle autorità cittadine di mettere sempre più in difficoltà Gesù. Quel profeta stava diventando sempre più scomodo. Ai motivi schiettamente religiosi già sollevati dai farisei in Galilea si univano adesso, a Gerusalemme, motivi anche politici da parte dei sommi sacerdoti e dei capi dei farisei. Quando Giovanni a queste autorità giudaiche del sinedrio, capi dei sacerdoti e dei farisei (11,47), fa dire da Caifa: «Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo e non vada in rovina la nazione intera» ( II,50 ), esprime certamente una sua convinzione personale ma, con la conoscenza che egli ha della realtà giudaica del tempo, la sua convinzione appare del tutto fondata. Se il "meccanismo vittimario" (come lo chiama Girard) per ristabilire la pace sociale compromessa deve avere il suo capro espiatorio, è semplicemente naturale in effetti che le autorità giudaiche abbiano deciso di prendere qualche iniziativa nei confronti di Gesù. Ed è perfettamente comprensibile che, dato il successo discreto della sua predicazione, unito alla diffidenza della popolazione nei confronti delle autorità e alla sua simpatia invece per i movimenti messianici, abbiano pensato di farlo con l'aiuto di uno dei suoi discepoli. Un aiuto che avrebbe dovuto consentire di agire silenziosamente, senza che la gente raccolta per la festa si accorgesse di nulla (Mc. 14,2: «Dicevano infatti: "Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo"»). È impossibile dire se Gesù abbia addirittura scoperto che era Giuda che stava per consegnarlo ai sommi sacerdoti. I preannunci del tradimento dell'apostolo, sulla figura del quale storia, teologia e letteratura hanno tanto ricamato, e dopo la scoperta del Vangelo di Giuda continuano ancor più a ricamare, per il ruolo che egli avrebbe svolto nel disegno salvifico di Dio, sono una creazione letteraria e drammatica degli evangelisti (e non sapremo mai quali sono stati i motivi che hanno spinto realmente Giuda a "consegnare" Gesù). Ma alla luce di queste circostanze Gesù ha certamente compreso che la morte era ormai per lui inevitabile e l'avvento del regno di Dio più lontano. E ha necessariamente riflettuto sul significato che questo esito tragico aveva per la sua missione7. Lo provano chiaramente due elementi del racconto di Marco della cui realtà possiamo essere sicuri: la celebrazione dell'ultima cena di Gesù con i discepoli e le parole pronunciate da Gesù durante quella cena. E lo conferma a mio parere ulte-

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riormence l'accenno che negli ultimi giorni di vita Gesù fa alla figura del Figlio dell'uomo. Il carattere preciso dell'ultima cena è notoriamente discusso. Nella presentazione dei vangeli sinottici essa appare chiaramente come la cena pasquale che i Giudei consumavano la sera del 14 nisan (inizio del 15). Mc. 14,12.-16 ricorda esplicitamente i preparativi fatti dai discepoli per la celebrazione della pasqua: Il primo giorno degli azzimi, quando si immolava la pasqua, i suoi discepoli gli dissero: "Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la pasqua?" Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: "Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d'acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: Il maestro dice: dov'è la mia stanza, in cui io possa mangiare la pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi". I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la pasqua.

Benché nel racconto successivo della cena dei sinottici, che pure la descrivono come un banchetto solenne, non appaia nessuno degli elementi tradizionali della celebrazione pasquale (né gli azzimi né le erbe amare né soprattutto l'agnello), e benché dopo il racconto della cena non vi sia più in essi alcun riferimento alla data, per loro si tratta evidentemente della cena pasquale. Ma secondo il Vangelo di Giovanni Gesù è morto non il giorno di pasqua, cioè il 15 di nisan, dopo aver mangiato la cena di pasqua con i discepoli, ma la vigilia della pasqua, cioè il 14 di nisan, quando nel tempio si immolavano gli agnelli (secondo Gv. 18,2.8, giunti all'alba da Pilato, i sinedriti «non vollero entrare nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la pasqua»). La cena della sera prima, dunque, che era stata una cena di addio, non era stata la cena di pasqua. Cosa che viene esplicitamente confermata anche dal testo, per quanto in genere assai poco attendibile, del Vangelo di Pietro. Riportando la decisione di Antipa di condannare Gesù, scrive infatti il vangelo: «E così lo consegnò al popolo il giorno prima degli azzimi, la loro festa» (2.,5). Una conclusione certa è impossibile. Ma, una volta esclusi tutti i tentativi di mettere d'accordo le due diverse tradizioni (anche l'ipotesi di A. Jaubert 8 , che Gesù seguisse non il calendario ufficiale farisaico ma, come gli esseni, l'antico calendario sacerdotale, e i vangeli, sinottici e Giovanni, facciano riferimento a due diversi calendari, benché accolta da un buon

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numero di studiosi, è a mio parere priva di fondamento. Gesù non soltanto non è un esseno, ma non ha nulla di settario. La tradizione lo vede partecipare senza problemi al culto ufficiale), le maggiori probabilità sono dalla parte della datazione di Giovanni 9 • Che ci sia stata nella casa del sommo sacerdote una riunione di membri del sinedrio, sia essa un processo formale dell'incero organismo di governo o una semplice consultazione di suoi membri da parte del sommo sacerdote, la notte stessa di pasqua, in un giorno quindi festivo, sembra impossibile ammetterlo. Sarebbe avvenuta chiaramente in contrasto con la legge giudaica. Se l'episodio dell'amnistia di un condannato da parte del governo romano (l'episodio di Barabba) ha, come appare probabile, un fondamento scoricow, esso si giustifica nella maniera migliore la vigilia della pasqua, come ateo di clemenza del governatore per consentire al condannato di celebrare la festa con i suoi familiari. È questo il senso più ovvio di Gv. 18,39: «Vi è tra voi l'usanza che, in occasione della pasqua", io rimetta uno in libertà per voi». Ed è questo che sembra suggerire il passo del trattato Pesal;im della Mishna (8,6a: « Per uno a cui sia stato promesso di farlo uscire dalla prigione [... ] si può immolare [l'agnello]»). Se un fondamento storico ha anche l'episodio di Simone di Cirene che tornava dai campi (probabilmente per averci lavorato), anche questo sembra indicare che non si trattava di un giorno festivo. Sarebbe impensabile che egli avesse lavorato nel giorno di pasqua. L'unica testimonianza del Talmud che ha qualche possibilità di fare effettivamente riferimento alla morte di Gesù e di avere fondamento storico, quella di bSanhedrin 43a, colloca l'avvenimento alla vigilia della pasqua: «La vigilia della pasqua fu appeso Gesù. Quaranta giorni prima un banditore aveva gridato: "Egli sarà condotto alla lapidazione, perché ha praticato la magia, ha sedotto Israele e l'ha spinto alla rivolta. Chiunque ha qualcosa da dire in sua difesa, venga a dirlo". Ma siccome non si trovò nulla in sua difesa, Io si appese alla vigilia della pasqua». Se Le. 22,1s ( «Ho tanto desiderato (bn0uµic;i Èm:0uµricra) mangiare questa pasqua con voi, prima della mia passione») esprime il desiderio non realizzato di Gesù di celebrare la pasqua con i discepoli (nel senso che Gesù direbbe: «Avrei tanto voluto mangiare la pasqua con voi»)'\ anch'esso potrebbe del resto indicare che non si trattava di una cena pasquale' 1• Si afferma spesso che la testimonianza di Giovanni è priva di valore, perché determinata chiaramente da ragioni teologiche: l'incenco dell'evangelista di far coincidere la morte di Gesù con l'immolazione degli agnelli nel tempio, e di presentarla così come sacrificio sostitutivo del sa-

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crificio degli agnelli (il "Cristo nostra pasqua" di cui parla anche Paolo in Cor. 5,7 ). È sicuramente vero che vi sia un intento teologico. Lo conferma anche l'indicazione dell'evangelista (19,36) che a Gesù non fu spezzato nessun osso, come voleva la prescrizione rituale per l'agnello pasquale di Es. 12,46. Ma un analogo intento teologico è con ogni probabilità dietro la presentazione dei sinottici. Anche essi vogliono sostituire la pasqua cristiana alla pasqua giudaica ( nel loro racconto della cena l'offerta del pane e del vino come corpo e sangue di Gesù ha la stessa centralità che aveva nella pasqua giudaica la consumazione dell'agnello, della quale ha comunque preso il posto). E possono per questo aver creato una coincidenza con la festa di pasqua che in questa forma precisa non c'era stata' 4 • La presenza in Giovanni di un intento teologico, di cui è testimone già Paolo, non porta comunque necessariamente con sé l'impossibilità che dietro I' affermazione teologica vi sia un fatto storico. Ma se l'ultima cena di Gesù con i discepoli, pur essendo celebrata in maniera solenne, non è stata una cena pasquale, la conseguenza appare inevitabile, anche se molto raramente viene tratta dagli studiosi. Gesù ha riunito i suoi discepoli il giorno prima di pasqua per quell'insegnamento solenne che ha dato loro nell'ultima cena perché era convinto che non avrebbe celebrato la pasqua con loro. Altrimenti avrebbe scelto sicuramente l'occasione della cena di pasqua per un insegnamento che si presentava proprio come un nuovo significato da dare al culto sacrificale, e a quella stessa celebrazione'S. Le parole con cui Gesù accompagna il gesto sul vino ne sono la conferma. Secondo Mc. 14,25, dopo aver fatto girare il calice col vino tra i discepoli, Gesù ha affermato: «In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». Gli esegeti ( in modo del tutto particolare J. Jeremias nella sua accuratissima analisi delle parole dell'ultima cena) cercano spesso un significato teologico specifico per queste parole (per Jeremias è la rinuncia di Gesù a celebrare la festa e a bere il vino' 6 ). E si potrebbe anche leggerle come un semplice riferimento alla imminente venuta del regno. Ma non c'è dubbio che il loro senso più ovvio è che Gesù ritiene che non potrà più partecipare ad alcuna cena festiva con i suoi discepoli, e quindi anche alla pasqua, perché sta per essere messo a morte. Ma allora anche il significato da dare alle sue parole durante la cena diventa più chiaro. Quelle parole erano così importanti per la vita della comunità dei discepoli e sono d'altra parte trasmesse dalla tradizione (in due forme tra loro indipendenti: Marco e Matteo da un lato, nella forma 1

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di una narrazione storica, che accosta tuttavia immediatamente i due gesti di Gesù sul pane e sul vino, Luca e Paolo dall'altro, con una più forte stilizzazione liturgica, che conserva però la collocazione originaria dei due gesti l'uno durante e l'altro dopo il pasto) in maniera così simile che non possiamo ritenerle ampiamente adattate o addirittura costruite dalla comunità, ma dobbiamo ritenerle pronunciate così nella sostanza da Gesù stesso' 7• Marco scrive: «E mentre mangiavano prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro dicendo: "Prendete, questo è il mio corpo". E preso un calice, avendo reso grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: "Questo è il mio sangue dell'alleanza che è versato per molti"» (14,22-24). E Luca afferma: «Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: "Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me". E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi"» ( 12,19-20 ). Le differenze sono quindi lievi ("il mio sangue del!' alleanza" in Marco o "la nuova alleanza nel mio sangue" in Luca, "versato per molti" in Marco o "versato per voi" in Luca) e, per quanto su di esse gli esegeti discutano accanitamente (a me sembra senz'altro più attendibile il testo di Marco, meno influenzato dalla prassi liturgica), non toccano il significato sostanziale del passo. Ci si chiede però tra gli studiosi se le parole di Gesù costituiscano soltanto una presa di posizione sul problema del culto sacrificale giudaico o se facciano invece riferimento esplicito alla sua prossima morte violenta. G. Theissen ritiene per esempio che il significato dell'ultima cena, da mettere in stretto rapporto con la purificazione del tempio e la previsione della sua distruzione, consista nella sostituzione del culto sacrificale con una nuova forma di culto spirituale. E che Gesù non possa perciò(?) aver ritenuto sicura la sua prossima morte, ma debba aver fatto i conti soltanto con la sua eventualità'". Ma se, come ho detto, Gesù ha celebrato una cena solenne con i suoi discepoli il giorno prima della pasqua, come anche Theissen ritiene, perché a mio parere era sicuro ormai di dover morire, allora le parole dell'ultima cena non possono non fare riferimento alla sua morte violenta. E altro non possono significare se non che Gesù ha visto nella sua morte il passaggio necessario per il compimento della salvezza. Della imminenza di questo compimento Gesù non era più certo (è probabilmente anche questo il senso di Mc. 13,32: «Quanto a quel giorno e a quell'ora, nessuno li conosce, né gli angeli del cielo e neppure il figlio, ma soltanto il Padre»). Tuttavia, non soltanto era certo che l'av-

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vento del regno di Dio non sarebbe stato comunque impedito dal sacrificio della sua vita (Mc. 14,2.5) 19 , ma era anche certo che proprio questo sacrificio avrebbe costituito la realizzazione paradossale, e per molti versi incomprensibile (come suggeriscono le successive scene del Getsemani e della croce, con la preghiera al Padre di allontanare da lui il calice della passione e il grido «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» 10 ), del disegno salvifico divino 11 • Quale fosse il senso fondamentale da dare alla sua morte Gesù lo ha infatti indicato soprattutto nelle parole sul calice di Marco: «Questo è il mio sangue dell'alleanza che è versato per molti» (Mc. 14,2.4; Le. 2.2.,2.0: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che è versato per voi»). La formulazione "ellenistica", più che aramaica, del passo di Marco (rò aiµa µou r,;i; om0ipcrii; rò ÈKXUW6µevov imÉp, "il mio sangue dell'alleanza versato per", ha un suono prevalentemente "ellenistico") e il fatto che l'invito a bere il sangue (14,2.3: «Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti») sembra impensabile nel giudaismo non impediscono infatti di ritenere, come ho detto, che l'affermazione risalga nella sostanza a Gesù Il passo di Luca (e di Paolo, I Cor. 11,2.s) ne è la conferma. Nel dono della sua vita, simboleggiato chiaramente dal riferimento al suo sangue, Gesù ha visto l'inizio di un'alleanza (nuova dice Luca, e allude a Ger. 31,31) diversa da quella mosaica ancora legata all'immolazione e al sangue degli animali (Es. 2.4,8: «Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: "Ecco il sangue dell'alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole"»). lo non credo che nella sua predicazione Gesù, pur non legando la remissione dei peccati ad alcun rito di espiazione (come doveva essere la sua prassi già nel periodo della collaborazione con Giovanni e come mostra in maniera particolarmente evidente l'affermazione, tuttavia di dubbia autenticità, di Mc. 2.,s nell'episodio della guarigione del paralitico), avesse preso una posizione critica nei confronti dei sacrifici del tempio (come per le norme di purità cui ho accennato sopra). L'invito al lebbroso guarito a presentarsi al sacerdote per la purificazione (Mc. 1,44), che includeva il sacrificio, sembra testimoniare il contrario. E anche Mt. 5,2.3-2.4 ( «Se dunque tu presenti la tua offerta all'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare, va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono»), una delle rare parole di Gesù riportate dal solo Matteo che anche Bultmann riteneva autentiche, presuppone la partecipazione al culto sacrificale. E 11



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neppure ora, credo, egli pensa di "abrogare" i sacrifici del tempio. Perciò una parte almeno della comunità dei discepoli continuerà a compierli regolarmente anche dopo la sua morte. Ora però nell'alleanza di Dio con il suo popolo l'offerta della sua vita da parte di Gesù, che per volontà di Gesù stesso, secondo Luca e Paolo, i discepoli in futuro avrebbero dovuto commemorare, ripetendo il rito del pane e del vino (Le. 2.2.,19; 1 Cor. 11,2.4-2.5: «Fate questo in memoria di me»), toglieva ogni valore salvifico al sacrificio degli animali 11 • E questo non poteva non portare abbastanza rapidamente i suoi discepoli all'abbandono della prassi sacrificale del tempio 14 • Altro, e più difficile, problema è però se, identificando il pane e il vino col proprio corpo e sangue e vedendo nella sua morte l'inizio di una nuova alleanza, Gesù abbia fatto riferimento a una precisa teologia dell'espiazione vicaria e se per far questo abbia anche fatto riferimento alla figura isaiana del servo sofferente di Jahvè (ls. 52.,13-53,12.). È la linea interpretativa seguita da grandi studiosi come J. Jeremias 1 \ R. Pesch 16 e M. Hengel 17 (con qualche differenza: Jeremias e Hengel pensano a un'espiazione per tutti i popoli, Pesch soltanto per Israele), che giustamente però Hengel definisce puramente ipotetica 18 , e che non può essere troppo facilmente squalificata come "conservatrice" 19 • Anche se può sembrare esagerato affermare che le « idee sulla forza espiatrice della morte erano quanto mai familiari all'ambiente di Gesù»' è vero infatti che l'idea dell'espiazione di un uomo per gli altri era conosciuta nel giudaismo del tempo (cfr. per esempio come 4QTesto aronitico A (4Q541) 9,1,2. a proposito del sommo sacerdote dell'era messianica, oggetto di violenza da parte dei suoi nemici, scrive: «Ed espierà per tutti i figli della sua generazione»). Come il testo dell'alleanza di Es. 2.4,8 verrà interpretato dal targum di Onqelos nel senso di un'espiazione per Israele ( «Allora Mosè prese il sangue e lo versò sull'altare a espiazione per il popolo, e disse: "Ecco, questo è il sangue dcli' alleanza che il Signore ha stabilito con voi sulla base di tutte queste parole"» 11 ), così infatti Is. 53 sarà più volte adoperato dalla comunità dei discepoli per dare una spiegazione alla morte di Gesù nel senso dell' inizio di una nuova alleanza fondata sul valore espiatorio della sua morte. Ma ci sono argomenti seri per andar contro questa legittima ipotesi. Pur non essendo ignota alla tradizione giudaica, già l'idea che un uomo possa "morire per" (àno0vncrK€LV untp), con quella connessa dell'espiazione di qualcuno per gli altri, è più greca che giudaica 11 • E il riferimento al testo di ls. 53,12., con l'accenno in particolare di Marco (ma non di Luca) ai 0

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"molti" (1t0Uoi), non è abbastanza esplicito nelle parole di Gesù. Mentre è facile capire come la comunità dei discepoli, e in particolare la parte ellenistica di questa comunità, trovasse nell'idea di espiazione per gli altri come espressa da Is. 53 uno strumento efficacissimo per spiegare il mistero tormentoso della morte di Gesù. Sembra perciò più probabile che un'interpretazione della morte di Gesù in termini di espiazione vicaria, e con riferimento al servo sofferente di Isaia, come appare già in Mc. 10,45 ( «Il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e dare la sua vita in riscatto per molti, À.frrpov àvrì 1toU&v», un testo anche questo di origine più probabilmente ellenistica che non semitica, come vorrebbero invece Jeremias e Hengel, dove il morire per gli altri di Gesù viene interpretato come riscatto, À:frrpov, e non è espresso più perciò con u1tÉp, ma proprio con àvri), sia stata introdotta dalla comunità dei discepoli, e con ogni probabilità dalla componente ellenistica della comunità dei discepoli, che l'ha trasmessa a Paolo 11.

8 Gesù è condannato a morte E il sommo sacerdote, stracciandosi le vesci, disse: "Avete udito la bestemmia. Che ve ne pare?" E cucci sentenziarono che era reo di morte

Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver facto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso

Mc. 15,15

Quello che Gesù aveva lucidamente previsto si è verificato immediatamente. Un drappello di guardie inviate dal sinedrio e guidate da Giuda è venuto ad arrestarlo. Giovanni per la verità a 18,3.12. parla di una "coorte" (crm:ipa) e di un "tribuno" (x111.iapxoç), e poiché questi termini si adoperano normalmente per corpi militari romani dà l'impressione di una partecipazione romana all'arresto. Ma anche se, nel!' intento di accentuare il movente politico e la responsabilità dei Romani per la condanna di Gesù, vari studiosi gli prestano fede, la notizia è certamente inesatta o comunque non ha questo significato (crm:ipa e x111.iapxoç possono in effetti essere adoperati anche per un contingente non romano; cfr. per esempio Guerra 2.,11 e Antichita 17,2.15, dove indicano truppe di Archelao con il loro comandante). Gesù creava seri problemi all'autorità giudaica, non a quella romana, ed è stato condotto infatti non dal governatore romano ma dal sommo sacerdote (Mc. 14,58: «E portarono Gesù dal sommo sacerdote»), quindi quasi certamente nel palazzo di Caifa (anche Giovanni parla a 18,15 del «cortile del sommo sacerdote» e a 18,2.8 di Gesù condotto al pretorio muovendo non dal sinedrio, ma da Caifa). Il che dovrebbe essere sufficiente ad escludere che i Romani abbiano partecipato all'arresto o perché già in precedenza d'accordo con le autorità giudaiche o per averne preso essi stessi l'iniziativa'. Che Pilato abbia fornito le sue truppe a sostegno di una decisione presa soltanto dal sinedrio è infatti assolutamente impensabile. Ma egualmente impensabile è che sia stato proprio lui a prendere I' iniziativa del!' arresto. Se lo avesse fatto, il governatore romano non avrebbe certamente inviato Gesù al sommo sacerdote, ma lo avrebbe giudicato egli

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stesso'. I Romani del resto, come ho detto sopra, non avevano ragioni particolarmente gravi per procedere ali' arresto. Si apre qui il difficile e tormentato problema del processo di Gesù dinanzi al sinedrio giudaico\ La ricerca attuale è infatti sempre più diffidente nei confronti del racconto evangelico e appare sempre più incline a negare del tutto che ci sia stato un processo dinanzi al sinedrio 4 • Non è questa naturalmente la sede per discutere tutti gli aspetti del problema, che ho affrontato più a lungo in un altro mio libro. Mi limito perciò ad alcune osservazioni soltanto. Ricordo anzitutto che col racconto del processo del Vangelo di Marco siamo ali' interno di quella storia della passione (Mc. 14,1-16,8) i cui episodi, a differenza del precedente materiale del vangelo, sono in gran parte così strettamente legati fra loro e si presentano con indicazioni cronologiche e topografiche così precise da suggerire alla sua base l'esistenza di una narrazione più breve scritta in forma continua e apparsa non molti anni dopo la morte di Gesù. Benché alcuni esegeti (per esempio Marguerat e Stegemann) sostengano che proprio in questo caso la ricostruzione della vicenda di Gesù si rivela particolarmente difficile, per il carattere chiaramente confessionale e apologetico dei testi 1 ( un carattere che ovviamente anch'io non nego, ma che non è affatto maggiore di quello delle altre parti dei vangeli), possiamo legittimamente ritenere di trovarci di fronte a una successione di episodi che - come riconosceva del resto la stessa storia delle forme di Schmidt e Bultmann - per quanto anch'essi certamente rielaborati dall'evangelista, soprattutto con richiami alla Scrittura, e da lui completati con l'aggiunta di nuovo materiale, appaiono tuttavia forniti di particolare attendibilità. Vediamone dunque gli elementi essenziali. Secondo Marco il sommo sacerdote, di cui egli non riporta il nome (lo farà soltanto Matteo), ha convocato in fretta e furia il sinedrio, che ha celebrato durante la notte un vero e proprio processo nei confronti di Gesù conclusosi con la sua condanna a morte e la sua consegna ali' alba al governatore romano Ponzio Pilato. Ci sono però varie difficoltà ad accettare la versione dell'evangelista. Due soprattutto vanno prese in seria considerazione. Anzitutto sembra difficile che un processo, e un processo capitale, dinanzi al sinedrio si sia potuto svolgere durante la notte, e per di più la notte di pasqua. È difficile che il sommo sacerdote sia riuscito a convocare il sinedrio a quell'ora, e in un tempo così rapido. È difficile, anche se per l'epoca di Gesù non risulta proibito, che un processo capitale dinanzi al sinedrio si sia tenuto durante la notte. È difficile soprattutto che una riunione del genere

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abbia potuto svolgersi la notte di pasqua, in un giorno cioè festivo. Luca ha sentito le difficoltà e con la sua sensibilità di storico che lo porta spesso a correggere i dati di Marco che gli appaiono poco verosimili ne ha parzialmente modificato il testo, spostando la riunione del sinedrio dalla notte al mattino seguente (2.2.,66: «Appena fu giorno si riunì il consiglio degli anziani del popolo, con i capi dei sacerdoti e gli scribi, e lo condussero davanti al loro sinedrio»). Ma non ha eliminato con questo la difficoltà più grave, che è quella della celebrazione del processo nel giorno stesso di pasqua. Se però uno svolgimento del processo (in origine non necessariamente capitale) durante la notte, per quanto anomalo, è da ritenere, data l'urgenza di procedere dovuta comunque alla celebrazione della pasqua, del tutto possibile, anche questa difficoltà non porta necessariamente a mettere in dubbio l'attendibilità del racconto di Marco. Essa infatti si risolve se, come ho suggerito sopra, si accetta la datazione del Vangelo di Giovanni, che pone l'ultima cena di Gesù con i discepoli, e quindi l'arresto e il processo, non nel giorno di pasqua (il 15 di nisan), ma la vigilia di pasqua (il 14 di nisan). Tale datazione oltre tutto rende ancora più comprensibile l'esigenza di un rapido svolgimento notturno del processo, per evitare appunto di trovarsi nella necessità del rispetto del riposo festivo. La seconda difficoltà nasce invece dal successivo deferimento di Gesù a Pilato. Se un processo dinanzi al sinedrio realmente c'è stato, ed è giunto per di più a formulare una condanna a morte, come sembra dire Marco, perché la condanna non viene eseguita dallo stesso sinedrio e Gesù viene inviato al governatore romano? C'è qui una interminabile discussione tra gli studiosi sui poteri giudiziari del sinedrio in epoca romana. Sotto l'occupazione di Roma il sinedrio aveva il potere di condannare a morte un imputato o per farlo doveva necessariamente rivolgersi al prefetto romano? Una soluzione certa non è possibile. Non ci sono infatti testimonianze esplicite in proposito. E tuttavia le ragioni che militano a favore della versione suggerita da Marco del doppio processo sono decisamente più forti di quelle contrarie. I Romani, quando occupavano militarmente una regione, pur lasciando in genere al popolo sottomesso una relativa autonomia e consentendogli di continuare a governarsi con le proprie leggi, avevano l'abitudine di togliere al governo locale (come è del resto ovvio) il diritto di pronunciare, o almeno di eseguire, condanne a morte. E a sentire Giuseppe, sembra che abbiano fatto questo anche al momento della riduzione della Giudea a provincia romana, nel 6 d.C. In tale occasione, dice infatti Giuseppe ( Guerra 2.,117 ), fu inviato nella nuova provincia un

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procuratore (in realtà un prefetto), Coponio, con tutti i poteri, compreso quello di uccidere (µÉXPl tou Krdvi::tv). E non abbiamo alcun motivo per pensare che la situazione sia cambiata con i prefetti successivi e fosse quindi diversa al tempo di Pilato. La letteratura rabbinica più tarda conferma del resto questa indicazione di Giuseppe. In almeno due testi, il cosiddetto Rotolo del digiuno (un elenco di giorni particolarmente lieti per i Giudei e in cui perciò a Israele è proibito digiunare) e il trattato Sanhedrin del Talmud di Gerusalemme, accenna infatti a un diritto di condannare a morte che era stato tolto ai Giudei dai Romani 6 • E il racconto di Giuseppe sull'esecuzione di Giacomo fratello di Gesù nel 62. d.C., per compiere la quale il sommo sacerdote sadduceo Anano dovette approfittare dell'assenza del procuratore romano 7, sembra una conferma decisiva del fatto che di norma al sinedrio non era riconosciuto il diritto di condannare a morte. Le obiezioni che si portano contro queste notizie non sono convincenti. L'uccisione di Stefano narrata dagli Atti degli Apostoli quasi certamente non è il risultato di una decisione del sinedrio, come sembra suggerire Luca 8, ma di un linciaggio popolare. La facoltà concessa ai Giudei di mettere a morte lo straniero che oltrepassasse le barriere del tempio, secondo il testo delle lapidi poste nel cortile dei gentili 9 , costituisce chiaramente un'eccezione alla regola generale 10 , e comunque anch'essa non deriva da una decisione del sinedrio. Non vi è motivo quindi di dubitare radicalmente del racconto di Marco. Una decisione del sinedrio di condannare Gesù realmente c'è stata. Si può discutere se essa sia stata presa dall'organismo regolarmente convocato dell'intero sinedrio, in un processo formale, come afferma chiaramente Marco (che accenna più volte ai sommi sacerdoti, agli anziani e agli scribi, cioè a quello che è per lui "tutto il sinedrio"), o se invece essa sia il frutto di una riunione ristretta di un certo numero di collaboratori del sommo sacerdote, da lui convocati per l'occasione. E si può anche discutere se questa riunione si sia conclusa, come sembra affermare Marco, con una formale condanna a morte (14,64: «E tutti sentenziarono (KarÉKptvav) che era reo (tvoxov) di morte»), o soltanto con la decisione di deferire Gesù a Pilato (come potrebbe in realtà suggerire Mc. 15,1: «E subito, al mattino, i capi dei sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo portarono via e lo consegnarono a Pilato»). Ma una riunione di autorità giudaiche facenti parte del sinedrio, sommi sacerdoti e capi dei farisei, c'è stata. E come conferma Giuseppe nel suo celebre testimonium, sono state queste autorità giudaiche che hanno preso la decisione di chiedere a Pilato

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la condanna a morte di Gesù (Antichita 18,64: «Pilato lo condannò alla croce su denuncia (èvi'>Eil;Et) dei primi tra noi»)". Il problema più difficile è un altro, e riguarda il motivo formale, giuridico, della condanna del sinedrio, che comunque deve esserci stato. Marco afferma che a un certo punto del processo, non riuscendo a trovare un capo d'accusa che fosse confermato, come era necessario, da più testimoni (anche per l'episodio del tempio se ne presentarono, ma le testimonianze non erano concordi), il sommo sacerdote pose a Gesù la domanda: « Tu sei il Messia (ò XPto-ròç), il figlio del Benedetto?» (Mc. 14,61). E Gesù rispose: «Lo sono, e vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nuvole del cielo» (Mc. 14,62). Questa risposta suscitò la reazione sdegnata del sommo sacerdote, che esclamò: «"Avete udito la bestemmia. Che ve ne pare?" E tutti sentenziarono che era reo di morte» (Mc. 14,64). Per Marco quindi il motivo formale della condanna a morte di Gesù da parte del sinedrio è nella bestemmia e la bestemmia è contenuta in questa risposta di Gesù. Ma a questa versione di Marco si muovono molte obiezioni. Una prima obiezione è che tutto l'episodio, domanda di Caifa e risposta di Gesù, può sembrare creato apposta dall'evangelista per fare la sua professione di fede in Gesù Messia e Figlio di Dio. Per alcuni studiosi la domanda di Caifa non appare infatti giustificata dalle circostanze storiche (che cosa spinge il sommo sacerdote a porre questa domanda e come fa a sapere che Gesù avanzala pretesa di essere il Messia?) ed è formulata inoltre in maniera poco credibile da un punto di vista giudaico. In nessun punto della tradizione giudaica il Messia viene mai definito figlio del Benedetto (cioè figlio di Dio). E la risposta di Gesù in particolare è una vera e propria confessione di fede cristiana. Mette infatti insieme due passi della Scrittura, il primo versetto del salmo 110 ( «Il Signore ha detto al mio signore: "Siedi alla mia destra finché ponga i tuoi nemici a sgabello per i tuoi piedi"») e quello di Dan. 7,13 ( «Ecco venire con le nuvole del cielo uno simile a un figlio d'uomo»), che sono due testi fondamentali della cristologia della comunità primitiva, con i quali questa comunità esprime la fede nella risurrezione di Gesù e la speranza nel suo ritorno". Domanda e risposta possono essere perciò facilmente considerate una creazione di questa comunità, che professa in tal modo la sua fede nella sovranità del Cristo risorto. E infine, anche ammesso che l'episodio sia storico, e le affermazioni siano state fatte proprio in questa forma trasmessa da Marco, dove sta la bestemmia di Gesù? Proclamarsi Messia non può essere considerata una bestemmia e anche l'accenno al Figi io dell'uomo non sembra essere chiaramente blasfemo.

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Queste obiezioni non possono tuttavia nascondere il fatto fondamentale che solo l'affermazione di Gesù di essere il Messia fornisce l'anello necessario per legare il processo dinanzi al sinedrio a quello dinanzi a Pilato. Se non si vuol fare del sinedrio un giudice che cinicamente costruisce nei confronti di Gesù un'accusa che altro non sarebbe se non un falso grossolano - come a suo tempo riteneva J. Blinzler - solo una risposta affermativa di Gesù alla domanda di Caifa sulla sua messianità può giustificare infatti la successiva condanna romana di Gesù come re dei Giudei. Non credo d'altra parte che quelle obiezioni abbiano molto fondamento. La domanda di Caifa si giustifica in vario modo. Il processo sembrava essere giunto a un punto morto. Non si trovavano motivi validi per giungere a una condanna di Gesù ( il che tra l'altro significa che né le trasgressioni della legge né l'episodio del tempio erano stati così clamorosi). Bisognava sollevare quindi una questione decisiva. E dopo l'ingresso di Gesù in Gerusalemme a Caifa erano certamente giunte le voci di una possibile pretesa messianica da parte di Gesù (Schweitzer pensava che proprio la rivelazione di questa pretesa messianica di Gesù fosse il contenuto del tradimento di Giuda•i). Nulla di strano quindi che egli si decida, per quanto, si direbbe, con una certa riluttanza (la pretesa di essere il Messia poteva suscitare da parte della gente reazioni ben diverse dalla minaccia di distruggere il tempio), a porre a Gesù quella domanda. Che non è formulata d'altra parte in maniera poco credibile, come spesso si dice, in bocca al sommo sacerdote. Non è infatti impossibile che al Messia (regale) si attribuisca il titolo (puramente onorifico) di figlio di Dio. C'era tutta una tradizione (cfr. in particolare 2 Sam. 7,14: «lo sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio», e Sai. 2,7: «Egli mi ha detto: "Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato"») che esprimeva la dignità eccezionale del re di Israele, e poi del Messia, con riferimento alla sua qualità, anche se non al titolo, di figlio di Dio. E un testo divenuto famoso di Qumran definisce un personaggio che sembra essere il Messia (ed è comunque un re) proprio col titolo di figlio di Dio (4QApocalisse aramaica [4Q246) 2,1: «Sarà chiamato figlio di Dio e lo chiameranno figlio dell'Altissimo»). Che Gesù alla domanda di Caifa (in maniera diversa rispetto a quella analoga del Battista) abbia risposto sì, proclamando in tal modo per la prima volta in maniera aperta la sua messianità, pur intesa certamente da Caifa nel suo carattere regale, neppure d'altra parte può sorprendere. Nella situazione del processo, a una richiesta esplicita del sommo sacerdote, non aveva più senso insistere sulla enigmaticità fin qui mantenuta in relazione alla sua pretesa di

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essere il Messia davidico. Quella enigmaticità era il carattere ineliminabile, e profondo, di un appello alla fede rivolto ai propri seguaci (come nella risposta alla domanda del Battista), non poteva essere invece il carattere di una risposta alla domanda fatta da un giudice incredulo e ostile (anche per questo, oltre che per il fatto che è Matteo a modificare Marco, e non viceversa, la versione affermativa di Marco: «Lo sono» è preferibile a quella problematica di Matteo: « Tu lo dici»). Il problema è in realtà costituito soltanto da quella parte della risposta di Gesù con cui egli, precisando, e modificando, l'immagine popolare del Messia sottintesa evidentemente dalla domanda di Caifa, fa riferimento alla figura del Figlio dell'uomo «seduto alla destra della Potenza» e che dovrà « venire con le nuvole del cielo»: riferimento quindi all'esaltazione e al ritorno del Figlio dell'uomo. Questa parte della risposta pone realmente qualche difficoltà. È autentica anch'essa? E se lo è, lo è interamente o soltanto in parte? Ed è autentico in particolare il riferimento al Figlio dell'uomo? Il problema del Figlio dell'uomo è infatti, come è noto, uno dei più spinosi, e forse il più difficile, della ricerca sul Gesù storico. Nessun accordo esiste su di esso tra gli studiosi. Un certo vigore ha ripreso ultimamente (a partire dalle ricerche linguistiche di G. Vermes e oggi in particolare con gli studi su Q di J. M. Robinson) l'ipotesi, che fu anzitutto di H. Lietzmann e J. Wellhausen, secondo la quale in bocca a Gesù l'espressione figlio dell'uomo non avesse altro senso che quello originario e generico di uomo, essere umano, o servisse semplicemente come autodesignazione al posto del pronome personale; solo la tradizione l'avrebbe trasformata in titolo cristologico, e in particolare escatologico. Questa ipotesi non sembra tuttavia convincente. Ci sono indubbiamente dei casi nei vangeli (soprattutto in Q) nei quali l'espressione figlio dell'uomo mostra ancora il suo senso generico di uomo e poteva anche essere quindi in origine una semplice autodesignazione di Gesù. Così per esempio nel già citato Le. 7,34/Mt. 11,19: «È venuto il Figlio dell'uomo che mangia e beve; e dite: ecco un uomo mangione e beone»; in Le. 9,58/Mt. 8,20: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo», e forse anche in Mc. 9,31: « Il Figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani degli uomini». Qui è possibile che l'espressione figlio dell'uomo indicasse in origine semplicemente l'uomo, e indirettamente quindi Gesù. Ma è impossibile spiegare la presenza dell'espressione nei vangeli soltanto in questo modo (che ricerche linguistiche più accurate

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non hanno confermato affatto come abituale per l'epoca di Gesù e che non tiene sufficientemente conto della particolarità costante della forma evangelica dell'espressione con l'articolo determinativo: il Figlio dell'uomo) e rendere quindi conto del suo uso in senso cristologico ed escatologico da parte dei loro autori se essa almeno in alcuni ambienti già non circolasse come titolo o come simbolo e non fosse stata usata in questo modo già da Gesù stesso. Che cosa avrebbe indotto la tradizione a trasformare un'espressione generica in titolo cristologico ed escatologico in maniera così unanime e pregnante? L'identificazione successiva di Gesù col Messia o l'evoluzione della tradizione verso l'apocalittica? Non è credibile. Questi fatti possono avere svolto certamente un ruolo, e almeno il primo un ruolo importante (allo sviluppo infatti della tradizione in direzione apocalittica credo poco), come anch'io dirò, nell'uso successivo dell'espressione, ma non possono aver determinato da soli una trasformazione così radicale. Perché l'identificazione di Gesù col Messia comportasse infatti questa trasformazione era comunque necessario che l'espressione avesse già in bocca a Gesù un contenuto simbolico. E d'altra parte, influenzato come certamente egli è dall'apocalittica, perché non avrebbe potuto farne Gesù stesso quell'uso escatologico (e "cristologico") che si suppone abbia fatto la comunità dei discepoli? L'ipotesi di una trasformazione dell'espressione figlio dell'uomo da locuzione generica a titolo cristologico non è dunque convincente. Ma anche tra coloro che vedono nell'espressione fin dall'inizio un titolo, o quanto meno un simbolo, e ritengono che così Gesù l'abbia adoperata, non c'è alcun accordo. In che senso Gesù l'ha adoperata? E sono autentici i passi dei vangeli in cui essa ricorre? Non è questa ovviamente la sede per trattare la questione in modo esauriente. Mi limito quindi anche in questo caso ad alcune osservazioni soltanto. Qual era anzitutto la situazione all'epoca di Gesù? Che cosa poteva significare per i Giudei del tempo l'espressione figlio dell'uomo? Accanto al senso generico e quotidiano esisteva anche un senso specifico dell 'espressione? Oggi molti studiosi ne dubitano e ritengono, come ho detto, che il problema del Figlio dell'uomo sia in fondo una creazione della critica moderna. Ma io credo che alla domanda non si possa invece non rispondere sì. C'era una tradizione (apocalittica) nella quale l'espressione aveva un ruolo particolare e particolarmente significativo. Nel libro di Daniele, al cap. 7, si narra la famosa visione avuta dal profeta delle quattro bestie, simboli dei regni, e dei re, che avevano dominato successivamente su Israele (2.-8). Il

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profeta prima racconta del giudizio divino cui saranno sottoposte le bestie: « Furono collocaci troni e un vegliardo si assise [... ]. La corte sedette e i libri furono aperti». E le bestie vennero giudicate (9-12). Poi racconta di un'altra visione: egli vede «venire con le nuvole del cielo uno simile a un figlio d'uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno» (13-14). E come viene subito spiegato al profeta quella figura umana indica il popolo dei santi dell'Alcissimo che alla fine dei tempi riceverà il dominio, e il cui regno sarà eterno (15-18.l7 ). Figlio dell'uomo, ma qui, non dimentichiamolo, non proprio in questi termini, ma più esattamente «uno simile a un figlio d'uomo» (nell'aramaico del cesto kebar enash ), cioè un essere in forma umana, in origine forse allusione agli angeli di Dio (se le bestie raffigurano infatti esseri terreni, l'uomo raffigurava probabilmente esseri celesti), è quindi ora nel passo di Daniele soltanto il simbolo del popolo di Israele che alla fine dei tempi riceverà il dominio sul mondo intero. Ma nel libro etiopico di Enoch, nei capitoli 37-71 che costituiscono il Libro delle parabole, scritto quasi certamente poco prima dell'inizio del!' era cristiana'\ nel quale si descrive in particolare il tema apocalittico del giudizio divino sui potenti e del trionfo finale dei giusti, si parla a lungo di un personaggio di origine celeste, indicato proprio come « il Figlio dell'uomo»: espressione che, pur con qualche dubbio residuo'\ sembra essere non tanto un semplice simbolo quanto un vero e proprio titolo (o quanto meno tendere a diventarlo). Questo personaggio, chiamato anche a volce nel cesto l'Eletto e il Giusto, chiaramente desunto dal libro di Daniele, è ora però una figura non soltanto individuale, ma anche messianica. Ad essa viene assegnato in particolare da Dio, il Signore degli spiriti, il compito di giudicare, anch'egli, come Dio, «seduco sul trono della sua gloria» ( 6l,S), i re e i potenti della terra. Alla sovranità, che già caratterizzava la figura simile a un figlio d'uomo del libro di Daniele, si unisce qui il potere del Figlio dell'uomo celeste di cenere il giudizio. La tradizione apocalittica testimoniata dal Libro delle parabole, per quanto marginale, già conosceva quindi al tempo di Gesù una interpretazione del passo di Daniele in senso messianico e con riferimento al giudizio. E non bisogna neppure dimenticare che (pur non richiamandosi, per quel che ne sappiamo, al libro di Daniele e al Figlio dell'uomo) a una figura messianica incaricata del giudizio aveva già fatto riferimento nella sua predicazione il maestro di Gesù: Giovanni Battista. Qual è ora la situazione dei testi evangelici? Marco - da cui, per la mag-

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giore completezza dei riferimenti e l'esposizione cronologica del vangelo, più che da Q anche in questo caso conviene partire per il mio discorso parla sostanzialmente in tre modi diversi del Figlio dell'uomo. Si riferisce o al potere attuale del Figlio dell'uomo, o alla sua morte imminente, o alla sua venuta futura' 6 • E nella ricerca attuale si va da coloro che ritengono autentiche tutte e tre le forme in cui i detti appaiono a coloro che ritengono invece che nessuna delle tre risalga a Gesù stesso. lo credo che i motivi tradizionali per attribuire a Gesù l'uso dell'espressione (e cioè il fatto che sia solo Gesù, e mai i suoi interlocutori, nei vangeli ad usarla; il fatto che egli la usi sempre in terza persona e che a volte sembri anzi distinguersi dal Figlio dell'uomo; e il fatto che Paolo, che non ha conosciuto Gesù personalmente, ignori del tutto l'espressione) siano molto forti' 7• E credo anche, come ho detto, che Gesù non l'abbia usata soltanto nel suo generico significato quotidiano di uomo o come semplice autodesignazione, ma abbia già dato ad essa un contenuto "cristologico". Tuttavia, come ho già avuto modo di dire in precedenza, i riferimenti di Marco al potere attuale e alla morte imminente del Figlio dell'uomo quasi certamente non sono autentici, per tre motivi convergenti. Anzitutto non corrilipondono assolutamente a quella che sembra essere l'unica concezione del Figlio dell'uomo conosciuta al tempo di Gesù, contenuta nei libri apocalittici di Daniele e di Enoch: il Figlio dell'uomo come figura escatologica destinata a ricevere da Dio la sovranità e la gloria (Daniele) e a partecipare con Dio al giudizio del mondo (Enoch). In secondo luogo essi corrispondono invece perfettamente alle idee della più antica comunità dei discepoli, che da un lato conosce la condanna a morte di Gesù ad opera del sinedrio e cerca di farsene una ragione attribuendo a Gesù la sua conoscenza profetica, dall'altro è convinta che con la risurrezione Gesù ha ricevuto da Dio il potere e la gloria (si è "seduto alla destra del Padre"). E infine identificano in maniera così esplicita e naturale Gesù con il Figlio dell'uomo, usando (come è caratteristico della tradizione ulteriore) l'espressione come termine semplicemente sostitutivo del pronome personale, da rafforzare il sospetto che in questi passi sia la comunità primitiva ad attribuire a Gesù quella espressione. Al contrario, il riferimento alla venuta futura del Figlio dell'uomo corrisponde perfettamente alla concezione dei libri di Daniele e di Enoch, ai quali Gesù appare per più aspetti vicino. E nel riferimento alla sua venuta futura Gesù non si identifica esplicitamente col Figlio dell'uomo, ma usa un modo di esprimersi che è insieme allusivo ed enigmatico, non soltanto sempre in terza persona ma a volte anzi distinguendo apparentemente tra

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sé e il Figlio dell'uomo: un modo che assai difficilmente avrebbe adoperato la comunità dei discepoli, per la quale non vi era alcun dubbio che fosse Gesù il Figlio dell'uomo. Sicché appare naturale supporre che almeno alcuni di questi riferimenti alla venuta futura del Figlio dell'uomo risalgano allo stesso Gesù'". Ma quando è che Gesù ha cominciato a parlare del Figlio dell'uomo? E con chi e in quale situazione lo ha fatto? È possibile trarre qualche indicazione in proposito dal Vangelo di Marco? Convinti della impossibilità di ricostruire un qualsiasi sviluppo della predicazione di Gesù dai dati contraddittori del vangelo, gli studiosi abitualmente rispondono di no. E le ragioni per dare una risposta negativa sono in effetti molto forti. Gli accenni al Figlio dell'uomo sono distribuiti infatti in maniera abbastanza uniforme nelle varie parti del vangelo. E a prima vista non sembra potersi cogliere alcuno sviluppo nel loro uso. E tuttavia, con ogni cautela una ipotesi si può forse avanzare. In Marco i primi riferimenti di Gesù al Figlio dell'uomo sono quelli di Mc. 2,10 e 2,28, che al Figlio dell'uomo attribuiscono il potere di rimettere i peccati e un'autorità sovrana sulla legge. Ma per le considerazioni fatte prima (l'identificazione evidente di Gesù col Figlio dell'uomo e l'attribuzione a lui di un potere divino) questi riferimenti non sono da ritenere autentici e nello stesso Vangelo di Marco appaiono fuori posto, anticipando un'affermazione di sovranità e messianità da parte di Gesù che Marco gli farà fare esplicitamente soltanto più tardi. Il riferimento successivo di Gesù al Figlio dell'uomo è quello di Mc. 8,31, nella prima profezia della passione. Ma ho già detto sopra che questo riferimento è da attribuire all'evangelista, o comunque alla tradizione. Andando verso Gerusalemme Gesù può avere accennato alla propria morte (cosa che ai discepoli sarebbe risultata facilmente comprensibile), ma difficilmente a quella del Figlio dell'uomo (cosa che nessuno di loro avrebbe potuto capire). Prescindendo da Mc. 2,10 e 2,28, che sono dunque da ritenere non autentici, e fuori posto nel Vangelo stesso di Marco, e da Mc. 8,31, dove il riferimento al Figlio dell'uomo non è originario, ma è stato introdotto dalla tradizione, al Figlio dell'uomo (nella figura di giudice del libro di Enoch) Gesù accenna per la prima volta in Mc. 8,38, dopo il primo annuncio della passione: «Chiunque si vergognerà di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui quando verrà nella gloria del Padre con gli angeli santi». Un detto che Luca riporta in maniera indipendente e leggermente diversa (e proba-

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bilmente anche più fedele), insistendo più sul ruolo di testimone che su quello di giudice del Figlio dell'uomo (come farà fare anche a Stefano in Atti 7,56, dove il Figlio dell'uomo è in piedi alla destra di Dio, non seduto sul trono della sua gloria): «Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il Figlio dell'uomo lo riconoscerà davanti agli angeli di Dio; ma chi mi rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio» (Le. 12.,8-9/Mt. 10,32.-33). E un detto la cui sostanza, a differenza di Mc. 2.,10; 2.,2.8 e 8,31, appare difficile non considerare storica. L' accenno al Figlio dell'uomo non soltanto ne rinvia infatti la manifestazione al futuro, non ne afferma, come 2.,10 e 2.,2.8, il potere attuale; e ne indica la gloria escatologica, non ne prevede, come 8,31, la morte imminente. Ma soprattutto non identifica chiaramente Gesù con lui, come fanno invece i tre passi precedenti; sembra anzi distinguerlo da lui (e la versione di Luca, insistendo sul ruolo di testimone più che di giudice del Figlio dell'uomo, lo rende anche più credibile). Ciò non significa, io credo, che si debba condividere l'opinione di R. Bultmann e H. E. Todt, per i quali in questo suo riferimento al Figlio dell'uomo Gesù esprimeva ancora la sua attesa di qualcuno diverso da lui, come ritengo avesse fatto durante la sua collaborazione col Battista. Non c'è nulla infatti nell'atteggiamento di Gesù che possa far pensare che egli sia rimasto in attesa di uno più forte di lui anche dopo il distacco da Giovanni Battista' 9 • Al contrario i passi citati precedentemente mostrano chiaramente la consapevolezza di Gesù di essere lui la svolta decisiva degli eoni. È vero soltanto che, a differenza di Mc. 2.,10; 2.,2.8 e 8,31, di una identificazione esplicita di Gesù col Figlio dell'uomo qui non si può parlare. Il che appare una conferma notevole della sua autenticità. Quando allora Gesù ha cominciato ad accennare alla venuta futura di questa figura misteriosa del Figlio dell'uomo? È molto difficile dirlo, ma a mio parere non è un caso che quell'accenno appaia in Marco proprio dopo la prima profezia della passione. Ancora una volta, pur con le contraddizioni cui ho appena accennato, e che derivano in gran parte dal suo uso di tradizioni e fonti precedenti, Marco ha compreso bene il pensiero di Gesù. Il riferimento di Gesù al Figlio dell'uomo è strettamente legato alla previsione della propria morte (e difficilmente quindi si può leggere come allusione a un rapimento, come quelli di Elia e di Enoch). Finché annuncia la buona novella dell'avvento imminente del regno di Dio Gesù, come non parla della propria morte, così non parla della venuta del Figlio dell'uomo al momento del giudizio. Ma è quando comincia a pensare a una sua prossima morte violenta che egli rinvia la manifestazione della sua messianità a

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un momento successivo alla morte'°. È probabile tuttavia che, come per il preannuncio della propria morte, così per il riferimento al Figlio dell'uomo, dobbiamo correggere leggermente il testo di Marco, quanto meno nel senso più attenuato di quello di Luca. Riprendendo l'osservazione già fatta in precedenza sull'anticipazione dello svelamento del mistero di Gesù Messia sofferente e glorioso operata dall'evangelista dall'esperienza delle apparizioni alla confessione di Pietro, e anche se non è possibile ovviamente dire nulla di preciso su quella che era in quel momento la consapevolezza della sua messianità da parte di Gesù, possiamo infatti pensare che, legandolo al primo annuncio ai discepoli della sua prossima morte, e attribuendogli quindi lo stesso carattere "aperto" che aveva per lui quell'annuncio, prima ancora dell'ingresso in Gerusalemme, Marco anche in questo caso abbia reso più esplicito (e anche più forte: il Figlio dell'uomo verrà per lui nella gloria del Padre, come un personaggio messianico) il riferimento di Gesù a un ruolo del Figlio dell'uomo nel giudizio che doveva essere ancora velato ed enigmatico. Se la morte era in quel momento ancora soltanto una eventualità, che non avrebbe impedito a Gesù il suo ingresso messianico e regale in Gerusalemme, non è così facile pensare che Gesù abbia fatto già allora un riferimento esplicito alla venuta del Figlio dell'uomo come manifestazione celeste della sua messianità negata sulla terra. Più fondaco sembra ritenere che, con l'affermazione di Mc. 8,38, e nella forma però "attenuata" di Le. 12.,8, Gesù abbia suggerito indubbiamente una sua manifestazione non terrena, ma celeste. E tuttavia, non soltanto ancora non ha fatto una sua identificazione esplicita col Figlio dell'uomo (e l'affermazione quindi sembra anche per questo autentica); ma nella maniera più "aperta" e più forte farà ai discepoli il riferimento stesso al Figlio dell'uomo soltanto più cardi, dopo l'ingresso in Gerusalemme, quando l'idea della morte si è fatta più concreta e quella del regno più lontana. È il caso infatti del riferimento al Figlio dell'uomo, anch'esso probabilmente autentico, ma ora chiaramente ispirato a Daniele, e quindi molto più forte ed esplicito, che Gesù farà in Mc. 13,2.6, nel discorso escatologico a Gerusalemme: «E allora vedranno il Figlio dell'uomo venire con le nuvole del cielo con molta potenza e gloria». È solo per avere anticipato l'annuncio esplicito della propria morte, della morte anzi del Figlio dell'uomo da parte di Gesù, il suo parlarne apertamente ( 8,32.: nappTJcriçi), che Marco ha reso esplicito (e messianico) anche il riferimento escatologico di 8,38 al Figlio dell'uomo, facendo poi della trasfigurazione il secondo inizio della scoria messianica di Gesù (così come il battesimo ne era stato il primo). Un rife-

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rimento che per lui identifica infatti chiaramente il Figlio dell'uomo con Gesù e di qui in avanti ne lega ripetutamente la figura al tema della sofferenza, ma che in origine si presentava ai discepoli come un detto enigmatico, nel quale questa identificazione ancora non c'era e del Figlio dell'uomo si parlava soltanto al futuro e in termini non esplicitamente messianici i'. Se queste considerazioni sono giuste (ma sono ben consapevole del loro carattere puramente ipotetico), possiamo forse interpretare più correttamente la risposta di Gesù a Caifa. Ho detto sopra che al problema dell'origine davidica del Messia Gesù non aveva dato una soluzione, ma aveva lasciato aperta la questione della natura del Messia. Ora però è avvenuto qualcosa di nuovo e a tale questione egli risponde in maniera più esplicita. L'identificazione col Figlio dell'uomo, il riferimento al quale non c'è motivo di mettere in discussione, c'è infatti sicuramente nella risposta di Gesù al sommo sacerdote. E Caifa non ha dubbi sulla bestemmia che nasce dall'identificazione contenuta in quella risposta. Nel testo di Marco il contenuto, per lui blasfemo, dell'affermazione di Gesù è quindi a Caifa del tutto chiaro. E tuttavia, anche qui i problemi non mancano. Qual è stato il tenore esatto della risposta di Gesù? E in che cosa consiste quindi la bestemmia? Naturalmente non possiamo avere la pretesa di ricostruire i termini precisi dell'affermazione di Gesù (che nessun discepolo ha ascoltato). Ma possiamo chiederci quale fosse nella sostanza il contenuto della bestemmia: l'esaltazione alla destra di Dio o la venuta con le nuvole del cielo? Molti autori in realtà ritengono che, affermando chiaramente, con le due citazioni della Scrittura, la manifestazione gloriosa di Gesù che seguirà alla sua morte, il testo attuale di Marco non possa essere autentico, ma esprima la fede della comunità nella sequenza salvifica morte-risurrezione-parusia. E che non sia legittimo quindi trarre da esso la bestemmia di Gesù. Altri pensano invece che Gesù possa avere accennato alla sua esaltazione alla destra di Dio, ma non al suo ritorno con le nuvole del cielo. E che solo il riferimento al salmo 110 possa essere quindi ritenuto autentico, ma non quello alla venuta futura del libro di Daniele. Io sono convinto al contrario - l'ho più volte sostenuto in libri precedentill - che proprio questo riferimento a Daniele sia autentico, e non quello al salmo 110. Ma ne sono convinto perché, eliminata dal testo di Marco quest'ultima citazione, che attribuendo a Gesù una sovranità celeste deriva probabilmente dalla comunità primitiva che esprime la sua fede nel potere ricevuto da Dio dal risorto, quel riferimento non parla di un ritorno di Gesù dopo la risurrezione, ma della sua venuta nella gloria dopo la morte. Modificando

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l'immagine del Messia regale davidico della tradizione profetica e popolare cui faceva riferimento Caifa, Gesù ha accennato qui alla venuta nella gloria del Figlio dell'uomo di cui parlava il libro di Daniele (e a cui aveva già fatto riferimento in Mc. 13,26). E lo ha unito al ruolo futuro del Figlio dell'uomo nel giudizio di Dio di cui parlava il libro di Enoch (e a cui aveva già accennato con i discepoli in Mc. 8,38 e Le. 12,8). Ma è la comunità che col riferimento al salmo 110 accenna anche al potere da lui ricevuto nella risurrezione. A un insediamento alla destra di Dio (del Messia o del Figlio dell'uomo) Gesù non aveva mai fatto riferimento, neppure se riteniamo autentica la domanda sul figlio di David di Mc. 12,35-37. Qui infatti non si parla del Figlio dell'uomo e il salmo 110 viene usato da Gesù non per l'insediamento alla destra di Dio, ma soltanto per il riferimento al titolo di signore attribuito al Messia 23 • Questa risposta di Gesù poteva ben essere ritenuta blasfema dal sinedrio. Non è necessario infatti pensare a una bestemmia nel senso tecnico della parola, come sarà definito in particolare dalla letteratura rabbinica. Marco non è interessato agli aspetti giuridici della condanna. La risposta di Gesù era blasfema in un senso più largo. Che un personaggio privo di qualunque aspetto glorioso e che non aveva realizzato nessuna delle attese messianiche dei Giudei, portato dinanzi al sinedrio in veste di accusato, e abbandonato da tutti i suoi seguaci, potesse avere l'ardire di proclamarsi Messia e minacciare addirittura il sinedrio con un riferimento esplicito al proprio ruolo sovrano nel giudizio di Dio poteva certamente essere considerata una bestemmia 4 • E il sinedrio, se non ha formalmente condannato Gesù a morte, come sembra affermare Marco, che per la sua decisione usa il termine tecnico KUTUKpivffi, ha però ritenuto che Gesù fosse comunque meritevole (Mc. 14,64: tvoxov) di morte. La prosecuzione degli avvenimenti è facilmente ricostruibile. Poiché non avevano la facoltà di eseguire la sentenza i sinedriti, se volevano ottenere la condanna di Gesù, dovevano necessariamente rivolgersi a Pilato, che ne deteneva il potere esclusivo. Appena il giorno è spuntato, approntata una delibera (cruµpouÀ.tov é.otµocravm;) 21 , dal palazzo di Caifa Gesù è stato portato perciò al palazzo di Erode, dove il prefetto romano risiedeva quando era a Gerusalemme. Ma a Pilato non si poteva portare semplicemente un'accusa di "bestemmia". Il prefetto romano non avrebbe preso in considerazione il caso. A lui interessava l'aspetto politico della questione. Ma secondo la concezione popolare più diffusa nel giudaismo del tempo il Messia è il re di Israele (così si esprime Nicodemo in Gv. 1,49: «Rabbì, tu 2

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sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele»; così si esprime la folla esultante che in Gv. 12,13 va incontro a Gesù al suo ingresso in Gerusalemme: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re di Israele»; e così continuano a definirlo i sommi sacerdoti e gli scribi che in Mc. 15,32 si fanno beffe di Gesù crocifisso: « il Cristo, il re di Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo»). E re di Israele significa per i Romani re dei Giudei. È stato facile per i sinedriti presentare la pretesa di Gesù di essere il Messia come pretesa di essere il re dei Giudei e trasformare in tal modo un'accusa che era ancora prevalentemente religiosa in un'accusa che era squisitamente politica (Le. 23,2 è però certamente inesatto quando fa dire ai sinedriti «Abbiamo trovato costui che metteva in agitazione il nostro popolo, impediva di pagare tributi a Cesare e affermava di essere Cristo re»: l'accenno al rifiuto di pagare il tributo a Cesare i sinedriti non possono averlo fatto). È questa infatti la domanda che pone Pilato a Gesù appena i sinedriti glielo consegnano (Mc. 15,2: « Tu sei il re dei Giudei?»). È questo, come sottolineano in particolare Luca ( 23,2) e Giovanni ( 18,3 3-37 ), il contenuto esclusivo del breve processo che si svolge al mattino dinanzi al governatore romano. E sarà questa l'accusa che verrà riportata sulla croce a indicare la motivazione giuridica della condanna romana (Mc. 15,26: «La scritta con il motivo della sua condanna diceva: "Il re dei Giudei"»). Non possiamo sapere quanto i sinedriti fossero consapevoli di compiere in questo modo una fatale ingiustizia, quanto fosse perciò malizioso il loro comportamento (nel versetto di tradizione non del tutto sicura di Le. 23,34 Gesù prega il Padre di perdonare coloro che lo crocifiggono «perché non sanno quel che fanno»). Dal punto di vista delle autorità giudaiche, sommi sacerdoti e capi dei farisei, le ragioni religiose e le ragioni politiche apparivano strettamente legate. E non possiamo del tutto escludere che, chiedendo a Pilato di condannare Gesù, esse ritenessero soltanto di applicare la legge e difendere la nazione. Ho già ricordato sopra l'affermazione che Gv. 11,50 attribuisce a Caifa: «Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera». E credo che nello stesso modo si debba leggere l'affermazione di Mc. 14,64 sull'unanimità del verdetto (che sembra in realtà contraddetta dalla notizia di Mc. 15,43 sull' «autorevole membro del consiglio» Giuseppe di Arimatea, «che aspettava anch'egli il regno di Dio», resa ancora più esplicita in Le. 23,51: «Egli non aveva aderito alla decisione e all'operato degli altri»): «E tutti sentenziarono che era reo di morte». Nei confronti di Gesù è per l'evangelista semplicemente inevitabile che si

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realizzi quello che R. Girard definisce il "tutti contro uno mimetico" del meccanismo vittimario che è alla base delle persecuzioni delle religioni e delle politiche> 6, col suo "deve morire" ( Gv. 16,2 fa dire addirittura da Gesù ai discepoli che «chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio»; e non si può non pensare con un brivido ai tribunali dell'inquisizione). I vangeli stessi del resto, quello di Giovanni in particolare, non condannano tanto il sinedrio (e Pilato) quanto il "mondo" che essi rappresentano (che è il mondo demoniaco). Ma non vi è dubbio che in questo modo sono le autorità giudaiche che hanno deciso la sorte di Gesù. La tendenza odierna a scaricarne tutta la responsabilità sulle spalle di Pilato, nel comprensibile umanissimo intento di liberare gli Ebrei da ogni colpa per la morte di Gesù 17, non ha sufficienti basi storiche. Il sinedrio sapeva bene che - convinto o meno che fosse dell'innocenza di Gesù (e probabilmente lo era), e anche ammettendo che abbia quindi realmente tentato di liberare lui piuttosto che Barabba, come gli chiedeva la folla eccitata dai sinedriti - un prefetto romano che si preoccupava soltanto di compiacere l'imperatore, tenendo sotto ferreo controllo la situazione politica della provincia, e che anzi, secondo la testimonianza, tuttavia non neutrale, di Filone Alessandrino18 e di Flavio Giuseppe 19 , non perdeva occasione per infierire sui sudditi giudei, non poteva alla fine non condannare a morte un profeta che pretendeva di farsi re in una provincia soggetta al potere romano 1°.

Conclusione Un profilo storico essenziale di Gesù

Il profilo storico di Gesù disegnato rapidamente in questo libro, col suo tentativo di ricostruire i momenti essenziali della sua vicenda, è certamente molto diverso da quelli delle principali ricerche attuali sul Gesù storico (Sanders, Theissen, Meier, Dunn, Stegemann). Nella sua rinnovata (ma non ingenua!) fiducia nella sostanziale attendibilità storica del Vangelo di Marco richiama invece indubbiamente quelli tratteggiati nelle vite di Gesù della teologia liberale del XIX secolo. E tuttavia credo che esso abbia nelle nostre fonti un fondamento più solido di certe ricostruzioni fantasiose della cosiddetta "terza ricerca" (Crossan, Borg, Horsley, Fredriksen) e si differenzi d'altra parte in modo evidente da quelle della teologia liberale (a cui proprio questa terza ricerca viene a volte accostata). È del resto proprio la riflessione imposta da alcune acquisizioni fondamentali della ricerca attuale sul Gesù storico (prima fra tutte quella del Gesù "ebreo") che mi ha spinto a tentare di disegnare questo profilo. Ne riassumo quindi brevemente gli aspetti principali. 1. Se questa ricerca vuole essere realmente, come dice, una ricerca storiografica, e non soltanto esegetica e teologica, una ricerca quindi anche assolutamente non confessionale, non può rinunciare in partenza a cogliere uno sviluppo nell'azione e predicazione di Gesù, come fanno quasi tutti gli scudi attuali sul Gesù storico e come Meier e Dunn teorizzano in maniera esplicita. Naturalmente è più che giusto sottolineare le difficoltà che presentano da questo punto di v_ista le nostre fonti principali su Gesù (e cioè i vangeli canonici), con il loro schema cronologico e geografico artificiale e il loro carattere squisitamente dogmatico. Rinunciare però a cogliere quello sviluppo fa inevitabilmente di Gesù un personaggio fuori del tempo, proprio come fuori del tempo era quasi sempre il Gesù della "nuova ricerca" oggi tanto vituperata. E porta a disegnare una figura di Gesù che non è veramente storica, ma appare inevitabilmente ideologica, e quindi pur sempre dogmatica.

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Se il Gesù storico è veramente un Gesù ebreo, e questo del Gesù ebreo non è soltanto un facile slogan pubblicitario per far colpo sui lettori, o al contrario un'arma ideologica per combattere il cristianesimo, allora lo specifico contesto ebraico nel quale Gesù ha svolto la sua azione e predicazione non può non essere significativo. Come anche la moderna ricerca antropologica (Malina, Theissen, Stegemann, Destro e Pesce) insistentemente ci ricorda, i luoghi, i personaggi e gli eventi della sua vicenda umana hanno evidentemente importanza decisiva ai fini della comprensione di questa vicenda. È importante sapere anzitutto se Gesù ha svolto la sua azione quasi soltanto in Galilea o anche, spesso, a Gerusalemme. E decidere quindi tra lo schema geografico di Marco e quello di Giovanni. Ma egualmente importante è chiedersi come hanno influito su di lui i rapporti che ha avuto con i vari gruppi giudaici e quale valore hanno gli eventi che hanno segnato la sua vicenda: se l'adesione al movimento del Battista ha significato per Gesù una piena condivisione delle posizioni religiose del maestro; se l'inizio di un ministero autonomo in Galilea indica un reale mutamento della sua predicazione; se il successo della sua attività di guaritore ha influito sull'idea che egli aveva del regno di Dio e della sua stessa missione; se i contrasti con i farisei lo hanno spinto a motivare il suo comportamento nei confronti della legge mosaica; quale valore egli ha dato al suo ingresso in Gerusalemme a cavallo di un asino e che cosa hanno significato per lui gli scontri con le autorità di Gerusalemme, la prospettiva sempre più chiara di una morte imminente e la decisione di celebrare un'ultima cena con i discepoli. 3. Il problema decisivo è naturalmente quello delle fonti storiche in nostro possesso. Perduta la fiducia tradizionale nell'attendibilità del Vangelo di Marco, la ricerca contemporanea sul Gesù storico si rivolge prevalentemente alla fonte dei detti (Q) o utilizza in maniera indiscriminata tutti e quattro i vangeli canonici (compreso quindi quello di Giovanni) ed eventualmente anche alcuni vangeli apocrifi (soprattutto il Vangelo di Tommaso). Ma in tal modo rinuncia inevitabilmente a ogni tentativo di ricostruire storicamente la vicenda di Gesù. Per fare questo tentativo, poiché il primo a fornire un'interpretazione storica di quella vicenda, che è stata non soltanto imitata ma anche largamente fatta propria più tardi da Luca e da Matteo, è stato Marco, il problema principale resta infatti quello di sapere quale attendibilità ha il racconto di Marco. Che il Vangelo di Marco abbia un carattere essenzialmente dogmatico e che il suo schema narrativo sia largamente artificiale è certo. Ma significa questo che è del tutto impos2.

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sibile trarre da esso elementi storici sullo sviluppo della vicenda di Gesù? E le altre fonti in nostro possesso, anzitutto Q (per l'ipotesi delle due fonti), ma anche Luca e Giovanni, non aggiungono nulla al racconto di Marco? lo non lo credo. Al di là del loro carattere kerygmatico Marco e Q, il primo per quanto riguarda soprattutto gli episodi della vita di Gesù, la seconda per quanto riguarda soprattutto il contenuto della sua predicazione, restano due fonti sostanzialmente attendibili per una ricostruzione della figura di Gesù. E i vangeli di Luca e di Giovanni, benché segnati in maniera molto più forte dall'impronta dei loro autori, contengono ancora tradizioni di valore storico. Il mio lavoro si fonda quindi soprattutto sul Vangelo di Marco e sulla fonte Q, ma utilizza anche Luca e Giovanni per alcuni dati che sembrano forniti di particolare attendibilità. L'interpretazione "giudaica" propria di Matteo, l'immagine "sovrumana" di Gesù di Giovanni e le poche notizie dei vangeli apocrifi non sono invece considerate quasi mai storicamente attendibili. 4. Il profilo di Gesù che ne risulta è naturalmente molto scarno, e dal punto di vista della fede cristiana può apparire deludente. Ultimamente si moltiplicano in effetti nella ricerca su Gesù i tentativi di studiosi credenti di dare maggiore consistenza storica al racconto dei vangeli. Lo ha fatto J. D. G. Dunn col suo ricorso alla memoria collettiva di Gesù che, ovviando all'inadeguatezza del tradizionale paradigma letterario fondato ancora largamente sulla storia delle forme, consentirebbe secondo l'autore di risalire a Gesù attraverso la fede dei discepoli da lui suscitata già prima della sua morte'. E ancor più lo hanno fatto S. Byrskog e R. Bauckham con il loro ricorso alla testimonianza oculare dei discepoli di Gesù che costituirebbe il veicolo principale, e particolarmente attendibile sul piano storico, delle tradizioni evangeliche>. Contemporaneamente al mio primo libro su Gesù è uscito anzi a Tubinga un grosso volume di oltre 800 pagine, nel quale gli autori analizzano ben dodici di quelli che essi definiscono gli "eventi chiave nella vita del Gesù storico" per trarne conclusioni teologiche di ampio respiro 1• E nell'ottobre 2.013 si terrà alla Pontificia Università Lateranense un grande convegno internazionale sui vangeli e il Gesù storico nel quale i temi e i nomi dei relatori fanno supporre che sarà questa la linea principale del convegno. È una reazione evidente allo scetticismo diffuso sull'attendibilità storica delle fonti evangeliche e alla convinzione che lo studioso non possa trarre conseguenze teologiche esagerate dal suo lavoro di storico. Non è un caso certamente che l'ultimo degli eventi (della vita del Gesù storico!) presi in esame dagli autori del libro citato

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per ultimo sia costituito dalla tomba vuota e dalle apparizioni di Gesù. Ma è a mio parere una reazione eccessiva. Dopo il grande lavoro critico svolto dalle precedenti ricerche sulla figura di Gesù non si può più avere una fiducia esagerata nell'attendibilità storica delle narrazioni evangeliche e non si può senza grande cautela attribuire agli eventi della vita di Gesù quel significato teologico che la fede dei discepoli vi ha saputo leggere. Anche alla testimonianza e al ricordo non si può dare un valore storico eccessivo. Anche a prescindere dalla loro intrinseca fragilità e parzialità come prova storica, già in Luca e in Giovanni essi sono in realtà categorie teologiche, non storiche. I testimoni oculari, gli m'.nòntm, di Le. 1,2. sono diventati infatti U7tT]pÉtm mi> À.Òyou, quindi predicatori della parola, e ora sono µaprupi:ç del risorto (Atti 1,8). E il ricordo di Giovanni è reso possibile soltanto dall'invio dello Spirito dopo la risurrezione e la glorificazione di Gesù ( Gv. 2.,2.2.; 12.,16; 14,2.6). La ricostruzione della figura di Gesù fatta "col solo legittimo mezzo di una consapevole critica storica" (che lo studioso applica d'altra parte con i suoi criteri e le sue capacità) non può essere in effetti che molto semplice e per la fede del tutto insufficiente. Non per nulla essa non comprende, e non può comprendere, la risurrezione. Ci si preoccupa da parte del credente di colmare il fossato che la ricerca storica sembra creare tra il Gesù storico (ebreo) e il Cristo dei vangeli (cristiani). E di evitare in tal modo quello che in maniera assai efficace, e in evidente polemica con questa ricerca, K. Berger definisce il "ridimensionamento" di Gesù che «lo ha reso una persona qualunque» 4 • Ma non ci si rende abbastanza conto che quel fossato è creato non soltanto, e non tanto, dall'affermazione di quegli studiosi, da H. S. Reimarus a G. Liidemann, secondo i quali i vangeli sono il frutto di un inganno, perché hanno inventato (con malizia!) eventi storici non realmente accaduti (e la cui realtà l'esegeta dovrebbe quindi sforzarsi di riaffermare, e di riaffermare come già manifestamente piena di senso teologico), ma anche, più seriamente, dal fatto che la narrazione di quegli eventi da parte dei vangeli è il frutto di un'interpretazione teologica e di un'elaborazione letteraria degli autori, e già della tradizione prima di loro, che pretendono di esprimerne il significato religioso autentico nella maniera più efficace. In realtà, come gli eventi miracolosi a cui fa riferimento il messaggio inviato da Gesù a Giovanni che gli chiedeva se era lui l'Atteso di Israele, così l' intero Gesù storico, l'intera ricerca quindi del Gesù storico, che a sua volta non è soltanto neutrale «raccolta di materiale obiettivamente osservato» (Schillebeeckx) ma già interpretazione di Gesù di Nazaret (non è soltanto

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historisch ma giàgeschichtlich ), e si colloca quindi non soltanto prima ma accanto al Cristo della fede, come una sua diversa interpretazione, non è una prova, ma è un segno, e un segno ambivalente, della sua identità messianica: una domanda inquietante che esige una risposta (che può essere di fede o di incredulità); e che è la stessa domanda inquietante che pone incredulo Caifa a Gesù («Tu sei il Messia?») e che nel Cristo dei vangeli ha avuto quella particolare risposta che è la risposta della fede. Il rifiuto del postmoderno, con la sua mistica dell'interpretazione, non può essere insomma una ricaduta nel positivismo, con la sua mistica dei fatti. La storia (e per il credente anche la storia della rivelazione) è per sua natura dialogo tra autore e interprete, parola e ascolto. Il messaggio di Gesù, per essere cale (ma può anche dirsi per esistere realmente), deve essere ascoltato e interpretato. E le interpretazioni della storia e della fede non possono non essere diverseS. Ma alcuni snodi, e alcuni caratteri, della vicenda pubblica di Gesù appaiono comunque accertabili e significativi. E aiutano anche a comprendere meglio la nascita e gli sviluppi della comunità successiva dei discepoli. 5. Gesù ha cominciato la sua missione pubblica come discepolo e collaboratore di Giovanni Battista in Giudea. Ne ha condiviso quindi inizialmente le posizioni escatologiche e apocalittiche sul giudizio imminente di Dio e la necessità della penitenza. Ali' arresto di Giovanni ha dato vita però in Galilea a un ministero autonomo molto diverso da quello del Battista, centrato sull'annuncio della venuta imminente del regno di Dio e accompagnato da un'intensa attività taumaturgica. Il successo clamoroso di cale attività lo ha convinto che la venuta del regno era realmente vicina e che la sua azione ne costituiva anzi l'inizio misterioso. Questo lo ha spinto ad assumere posizioni molto personali nei confronti della legge mosaica (e le critiche dei farisei lo hanno spinto a motivare le sue posizioni) e a presentarsi come l'ultimo e decisivo inviato di Dio prima dell'avvento del suo regno. A Gerusalemme, dove dopo circa un anno di predicazione in Galilea ha deciso di andare a confrontarsi direttamente con le autorità giudaiche, gli eventi sono però precipitati. Alle critiche dei farisei si sono aggiunte quelle dei sommi sacerdoti e Gesù ha compreso che l'avvento del regno non era così vicino come aveva sperato e che Dio voleva che prima egli passasse per la morte.Nell'ultima cena tenuta con i discepoli la vigilia della pasqua ha indicato perciò il valore teologico della sua morte imminente e nel processo dinanzi al sinedrio giudaico ha parlato di una sua venuta futura come Figlio dell'uomo nella gloria del regno di Dio.

Appendice Sul Gesù storico diJ. P. Meier

La nostra epoca sembra essere caratterizzata da libri che imprimono una svolta decisiva alla ricerca scientifica, ma rischiano tuttavia di porla su binari sbagliati. Negli anni sessanta del secolo scorso furono Gli Zeloti di M. Hengel a costituire un caso del genere. Con una padronanza delle fonti giudaiche fuori del comune per un cultore del Nuovo Testamento, il grande studioso da poco scomparso delineò uno sviluppo del movimento di liberazione della Palestina, definito appunto degli zeloti, che ha influenzato a lungo la ricerca successiva e solo da qualche decennio è stato messo radicalmente in discussione: uno sviluppo che partiva dalle rivolte maccabaiche contro Antioco IV per giungere senza soluzione di continuità fino alla guerra giudaica contro Roma del 66, e i cui protagonisti erano posti tutti sotto l'unica etichetta dello zelo religioso per Jahvè e per la legge. Negli anni ottanta fu Gesù e il giudaismo di E. P. Sanders a costituire un caso analogo. Con una polemica durissima nei confronti della cosiddetta "nuova ricerca" sul Gesù storico (quella degli allievi di R. Bultmann) Sanders aprì la strada a quella che sarebbe stata definita genericamente la "terza ricerca~ Inserendo decisamente la figura di Gesù nel contesto delle concezioni e delle istituzioni giudaiche del tempo, disegnò un Gesù radicalmente ebreo, dominato dalla speranza visionaria della restaurazione escatologica di Israele, che ha esercitato un influsso altrettanto notevole sugli studi successivi: un Gesù che non sarebbe mai entrato in conflitto con i farisei sul tema dell'osservanza della legge mosaica e sarebbe stato messo a morte per motivi non religiosi ma politici dal governatore romano Ponzio Pilato con l'aiuto dei sommi sacerdoti giudaici. Ora è l'opera di J. P. Meier che, prendendo in esame in maniera accuratissima tutti gli aspetti della figura e dell'azione di Gesù, sembra costituire una nuova pietra miliare nella ricerca sul Gesù storico, ma presta a mio parere il fianco a tutta una serie di osservazioni critiche di notevole gravità. L'opera di Meier in realtà non è ancora conclusa. Manca un ultimo volume (e sarà il quinto) con la trattazione delle parabole, delle autodesignazioni e della morte di Gesù. È possibile quindi che questa trattazione porti complementi e correzioni significative a quanto da lui scritto finora. Poiché però è probabile che questo ultimo volume tardi ancora parecchi anni, può essere opportuno discutere già adesso le posizioni più rilevanti dell'autore. Il libro di Meier è stato un vero e proprio evento nel panorama degli studi sul Gesù storico. Era difficile immaginare un'opera di questa vastità e completezza. Se il

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manuale di Theissen e Merz, pur con le sue 800 pagine, rimane uno strumento pur sempre sintetico per questi studi, i quattro (e in futuro cinque) volumi dell'opera di Meier (per oltre 4.000 pagine) contengono infatti un esame minuziosamente (e a volte forse anche troppo minuziosamente) analitico (evitando divagazioni e ripetizioni le pagine avrebbero potuto essere a mio parere ridotte quasi alla metà) di tutti i problemi di questa ricerca e praticamente di tutti i passi dei quattro vangeli canonici. Naturalmente anche la scelta di prendere in esame ogni singolo fatto o detto di Gesù, importante o irrilevante, storico o non storico, nel tentativo titanico di non lasciare nessuna domanda senza risposta, può essere ritenuta discutibile. Un'opera sul Gesù storico è diversa dal commentario a un vangelo. Era veramente necessario per esempio dedicare oltre seicento pagine alla trattazione dei miracoli, analizzandone i racconti uno per uno nell'intento, a mio parere irrealizzabile, di stabilire la storicità di ciascuno? Meier risponde di sì; e motiva la sua risposta con l'osservazione che troppo spesso gli studiosi da un lato ammettono senza difficoltà che Gesù era considerato un taumaturgo, dall'altro però ritengono tutti i racconti di miracoli dei vangeli non storici. Tuttavia si può anche ritenere più semplicemente che Gesù ha compiuto certamente un gran numero di azioni miracolose, ma è difficile dire con sicurezza quali di queste "opere straordinarie" sono avvenute così come le raccontano i vangeli (anche l'autore del resto termina spesso le sue analisi con un non liquet). La scelta della completezza nell'esame dei testi, soprattutto in un caso come questo, può apparire perciò discutibile. E non è detto che sia più utile dell'offerta di una selezione motivata del materiale documentario. In tutti i casi bisogna però riconoscere che sarebbe difficile nel libro di Meier non trovare risposta alle proprie domande. Se il materiale evangelico è riportato in maniera praticamente integrale, la documentazione ulteriore esaminata dall'autore per il suo testo e la bibliografia da lui discussa nelle note sono infatti semplicemente impressionanti. E soprattutto bisogna dire che le conclusioni cui Meier giunge al termine delle sue analisi sono per lo più equilibrate e in larga misura convincenti. L'autore rifugge abitualmente da posizioni unilaterali e da slogan tanto diffusi quanto vuoti. Se da un punto di vista meramente cronologico egli appartiene infatti alla cosiddetta terza ricerca, su alcuni punti decisivi, e particolarmente discutibili, se ne distacca in maniera netta. In realtà, degli orientamenti fondamentali della terza ricerca Meier ne condivide soprattutto due: l'insistenza costante sul Gesù ebreo, che come vedremo diventa anzi in lui l'insistenza un po' ossessiva sul Gesù halakico; e l'uso frequente, per determinare l'autenticità dei detti di Gesù, del criterio di plausibilità storica. Su altri, per esempio la rivalutazione, per la ricerca sul Gesù storico, dei vangeli apocrifi, egli è invece decisamente critico (le sue conclusioni sull'attendibilità storica di questi apocrifi sono anzi a tal punto negative da risultare un po' eccessive). E soprattutto Meier è decisamente, e felicemente, critico sull'immagine del Gesù americano, moderno e illuminato, inaugurata da T. Jefferson e ripresa da alcuni orientamenti della terza ricerca (iljesus Seminar in particolare). Questi volumi rimarranno perciò per decenni uno strumento fondamentale per chiunque voglia inoltrarsi nello studio del Gesù storico. Perché allora dire che rischiano di porre la ricerca su binari

APPENDICE. SUL GESÙ STORICO DI J. P. MEIER

sbagliati? Perché a questi meriti grandissimi, e assolutamente innegabili, del lavoro di Meier si accompagnano, a mio parere, alcune opzioni di fondo molto discutibili che ne minano alla base il valore. La prima, che incide un po' su tutta l'impostazione dell'opera, l'ho già accennata ed è di carattere metodologico. Riguarda il modo stesso di valutare la documentazione in nostro possesso. Il primo volume di Meier contiene un'ampia trattazione dei criteri di autenticità delle parole e delle azioni di Gesù. È un genere di trattazione che -: convinto come sono non soltanto che non esistono criteri veramente decisivi di autenticità, ma che la pretesa stessa di stabilire con sicurezza quali parole e azioni di Gesù siano autentiche è assurda - non riesce in alcun modo ad appassionarmi, ma che molti studiosi ritengono invece necessaria ali' inizio dei loro lavori. Per Meier è in effetti assolutamente indispensabile, visto che tutta la sua ricerca mira proprio ad accertare la storicità di ogni singolo passo evangelico. Giustamente anche l'autore afferma che non esiste un criterio privilegiato di autenticità, ma lo studioso deve necessariamente applicare insieme criteri diversi. Ed enumera quindi cinque criteri principali (i quattro tradizionali di imbarazzo, di discontinuità, di molteplice attestazione e di coerenza e un quinto, più singolare, di rifiuto di Gesù) e quattro criteri secondari. Nel corso dell'opera curiosamente, pur facendo riferimento continuo, e a volte persino un po' troppo insistente, a questi criteri, ricorre però spesso, e talvolta addirittura in maniera privilegiata, a un criterio che non aveva indicato nella sua introduzione metodologica: il criterio di plausibilità storica (che era in fondo il criterio principale della storiografia antica e che è sostanzialmente l'opposto di quello di discontinuità) difeso in particolare, come è noto, da G. Theissen, secondo cui è possibile ritenere autentico un fatto o un detto di Gesù solo se riceve conferma dal contesto giudaico contemporaneo o dalla tradizione cristiana successiva. Poiché per esempio da nessun testo giudaico anteriore al 70 risulta che guarire in giorno di sabato fosse proibito, per Meier tutti i racconti di guarigioni compiute da Gesù di sabato, «così come si trovano attualmente nei vangeli, devono essere giudicati non storici» (4, pp. 339-40 ). E tutta la sua lunga analisi del!' affermazione di Mc. 7,15 sull'impurità è dominata dal riferimento a questo duplice criterio, in base al quale alla fine Mc. 7,15 viene giudicato non autentico. Da un lato infatti « non appare affatto credibile che il popolare maestro giudeo-palestinese chiamato Gesù abbia rigettato o annullato in un singolo loghion tutte le leggi sui cibi proibiti racchiuse nel Levitico e nel Deuteronomio» (4, p. 416). Dall'altro «l'obiezione più significativa all'autenticità di Mc. 7,15 è l'assenza di qualunque impatto sui discepoli di Gesù o ripetizione da parte loro nel periodo fra il 30 e il 70 d.C. - che è precisamente il periodo critico in cui il loghion sarebbe stato più rilevante» (4, p. 436). Ma il criterio di plausibilità storica (che è in fondo quello sulla cui base già Luca corregge spesso Marco) è estremamente discutibile. Può valere come conferma di una documentazione esistente, ma non può troppo facilmente smentirla, come in questo caso (né canto meno può sostituire una documentazione inesistente, come nei casi cui accennerò tra un momento delle visite di Gesù a Gerusalemme e di una sua attività di battezzatore). Ha infatti la stessa debolezza del criterio di disso-

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miglianza o di discontinuità, del quale è, come ho detto, il capovolgimento. Da un lato noi conosciamo troppo poco la realtà giudaica del tempo di Gesù e la tradizione cristiana immediatamente successiva per poter affermare con sicurezza che un fatto o un detto di Gesù non ha conferma né nel contesto storico né in quella tradizione. Dall'altro non si può escludere per principio che Gesù abbia fatto o affermato qualcosa che non ha riscontro né nel contesto giudaico dell'epoca né nella tradizione cristiana successiva. Nel primo volume della sua opera Meier stesso del resto lo aveva ammesso, almeno per quanto riguarda il rapporto di Gesù col giudaismo contemporaneo. Criticando un'osservazione fatta da Sanders proprio a proposito di Mc. 7,15 Uewish Lawfromjesus to the Mishnah. Five Studies, London-Philadelphia 1990, p. 2.8: «In questo caso il detto attribuito a Gesù [... ] mi sembra troppo rivoluzionario per essere stato pronunciato da Gesù stesso»), egli infatti aveva scritto: «Proprio come non possiamo decidere che Gesù deve essere stato in discontinuità col giudaismo dei suoi tempi, in questa o quella questione, così non possiamo decidere a priori che deve essere stato d'accordo con il giudaismo in ogni cosa» (1, p. 167). E perché allora ritenere non credibile l'affermazione di Mc. 7,15? Gesù non può aver manifestato il suo dissenso (che non è comunque "l'annullamento di tutte le leggi sui cibi proibiti") rispetto alle posizioni assunte in proposito dai farisei? La pluralità di orientamenti del giudaismo del tempo e la marginalità stessa di Gesù sottolineata dall'autore non sono già di per sé sufficienti a renderlo possibile? Sono comunque soprattutto alcune opzioni di fondo sulla figura e il contenuto del messaggio di Gesù, spesso fondate precisamente su questo discutibile criterio di plausibilità storica, che non appaiono convincenti. La prima, a mio parere particolarmente grave, è quella che, nonostante affermazioni in contrario dell'autore (che riferendosi al suo testo fa spesso uso della metafora dei pezzi di un puzzle che lentamente compongono il tutto), appare come la sostanziale rinuncia a un'immagine complessiva e unitaria (oggi si dice spesso olistica) della figura, e della vicenda, storica di Gesù. Vedremo naturalmente se a conclusione del quinto volume Meier abbozzerà un'immagine del genere, e se questa immagine risulterà convincente. I volumi pubblicati fin qui consentono tuttavia di dubitarne. Quella di Meier è infatti, come quella di Theissen e Merz, e come quelle di Sanders e di Dunn, una trattazione per temi (il regno, i miracoli, gli avversari, la legge, le parabole, i titoli, la morte), senza un vero tentativo di collegare questi temi tra loro e tanto meno di dare loro un preciso contesto storico. Sintomatico, da questo punto di vista, è non soltanto il rifiuto, condiviso in particolare con Dunn, e ripetuto con forza più volte, di prendere in considerazione, per il carattere delle nostre fonti, qualunque sviluppo della predicazione, e della vicenda stessa, di Gesù; ma anche il bisogno che egli sente di confutare dettagliatamente l'ipotesi, tutto sommato non così intrigante, di P. W. Hollenbach sull'esistenza di diverse fasi della vicenda personale di Gesù (2., pp. 146-55). C'è sì, dopo ognuna delle singole trattazioni, una breve conclusione che sintetizza i risultati dell'analisi precedente fornendo una valutazione complessiva del materiale trattato. Ma nessun nesso appare tra le diverse trattazioni, e tra le diverse

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immagini quindi di Gesù, e più di una volta sembra anzi di cogliere, se non delle contraddizioni, delle tensioni evidenti tra alcune di esse. E nessun nesso soprattutto è dato di cogliere tra le posizioni assunte da Gesù in relazione ai vari temi e il particolare momento, e contesto, storico in cui egli si muoveva. « Una volta che riconosciamo la natura artificiale dell'ordine degli eventi in ciascuno dei vangeli, necessariamente ammettiamo che, per gran parte del materiale del ministero pubblico, non c'è un prima e un poi, per quanto concerne la critica moderna che tenta una ricostruzione storica.[ ... ] Teorie fantasiose sull'evoluzione della consapevolezza di Gesù e della sua prassi ministeriale non servono che a vendere libri» (2, p. 1244). Sicché la figura di Gesù appare alla fine assai poco storica e contro l'intento dichiarato dell'autore rischia di assumere fatalmente un carattere dogmatico, e quindi ideologico (c'entrano in qualche modo anche il carattere di sacerdote cattolico dell'autore e la sua definizione di Gesù come un ebreo marginale?). Faccio soltanto qualche esempio. C'è un nesso anzitutto tra l'annuncio escatologico del regno di Dio, e dunque quello che Meier definisce il Gesù profeta sul tipo di Elia, e la sua discussione continua dei problemi della legge, e dunque quello che Meier chiama il Gesù halakico, maestro della legge? Affermando che sulle norme di purità Gesù ha mantenuto un significativo silenzio, anzi una « studiata indifferenza», Meier sembra in effetti trovare questo nesso. «In quanto profeta del tempo finale che, simile a Elia, si sforza di riunire l'intero Israele e di prepararlo al regno di Dio[ ... ], lui e soltanto lui può dire al suo popolo come interpretare e mettere in pratica la legge di Dio in maniera consona ai membri del regno. Niente di più e niente di meno spiega quello che ci appare come un approccio disomogeneo alla legge. In breve, la studiata indifferenza di Gesù riguardo ali' impurità rituale deve essere vista nella cornice più ampia della sua pretesa di essere il profeta carismatico del tempo finale» (4, p. 469). Gesù infatti, scrive qui Meier, «non fu un maestro sistematico, uno scriba o un rabbino; fu un carismatico religioso» (4, p. 468). Ma perché allora insistere tanto sul Gesù halakico, continuamente impegnato a discutere con compagni e avversari le norme della legge ( 4, p. 654: «Personalmente, non posso fare a meno di pensare che, durante un ministero durato dai due ai tre anni, Gesù abbia ingaggiato un numero molto maggiore di discussioni halakiche con compagni o rivali»), e in un altro luogo del libro vedere addirittura nell'immagine di Gesù dei quattro vangeli canonici «la parziale trasformazione di un rabbino galileo in un guru pagano» (4, p. 655)? Non c'è un'evidente tensione tra queste diverse affermazioni? Se proprio Gesù è una sorta di rabbino, sia pure in senso lato, e bisogna quindi parlare veramente di un Gesù halakico, come si concilia questa sua immagine con quella del profeta escatologico del tipo di Elia? lo non credo infatti che Gesù sia paragonabile a un rabbino. Credo invece che le sue prese di posizione nei confronti della legge, nate in gran parte dalle critiche che gli venivano mosse dai suoi avversari, derivino proprio dalla sua consapevolezza di essere il profeta escatologico del regno di Dio, colui i cui esorcismi anzi dimostravano che il regno di Dio era già venuto. L'etica di Gesù è cioè l'etica del regno di Dio, e del regno di Dio già iniziato sulla terra. Cosa che del resto Meier stesso sembra condividere quando, in maniera

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che a me pare piuttosto contraddittoria con quanto affermato in precedenza sul Gesù "rabbino", a proposito dell'etica di Gesù scrive che «la vita halakica da lui richiesta ai suoi discepoli è una vita che è già resa possibile dal potere del regno di Dio e che a tale potere, presente nel suo annuncio e nelle sue azioni, già risponde» (4, p. 665). Questa infatti, come l'autore stesso aggiunge, «è la spiegazione più soddisfacente[ ... ) di come il Gesù profeta-escatologico-simile-a-Elia si combini col Gesù maestro esigente della Torah» (ibid.). C'è un nesso poi tra la vicenda di Gesù in Galilea, e in particolare il Gesù operatore di miracoli e maestro della legge, e la sua condanna a morte a Gerusalemme come sovversivo? O basta l'episodio del tempio a spiegare quello che Meier stesso definisce l'enigma della sua morte? Qui appare a mio parere la vera chiave per comprendere l'opera di Meier, che è nella sua accuratissima analisi filologica e letteraria da un lato e nella sua sostanziale carenza di senso storico dall'altro. Vedremo meglio nel quinto volume come egli spiega l'enigma della morte di Gesù. Ma qualcosa può dirsi fin da adesso. Anche se in maniera meno decisa di altri autori, Sanders in particolare, Meier accetta infatti l'ipotesi oggi assai diffusa che Gesù non sia entrato in conflitto radicale con i farisei sul problema dell'osservanza della legge ma sia stato messo a morte soprattutto per motivi politici. E che l'episodio decisivo che ha fatto intervenire il sinedrio, e quindi Pilato, sia stata la purificazione del tempio. Ma questo lo costringe a dire da un lato che Gesù, pur discutendo continuamente i problemi della legge, non si è scontrato veramente con i farisei (3, p. 384: «Gli strati più antichi delle tradizioni evangeliche non forniscono alcuna base per ritenere che i contrasti di Gesù con i farisei siano stati la causa principale della sua morte»); e ad affermare dall'altro che egli appariva a Caifa e Pilato come un potenziale rivoluzionario (3, p. 624: «Quello che essi vedevano dalle finestre dei loro palazzi di Gerusalemme era un profeta ebreo popolare che eccitava folle giudaiche entusiaste durante le grandi feste di pellegrinaggio»). Due affermazioni a mio parere molto difficili da accettare. Tornerò tra un momento sia sul problema degli avversari di Gesù, e quindi sul problema della legge, sia sulle cause politiche della sua morte, e quindi sull'episodio del tempio. Ma fin da adesso posso dire che nella tradizione evangelica c'è ben poco che possa giustificare questo assunto delle motivazioni prevalentemente politiche della condanna di Gesù, per quanto oggi esso appaia particolarmente diffuso tra gli studiosi. Secondo la tradizione sinottica Gesù ha predicato quasi esclusivamente in Galilea, in Galilea si è scontrato prevalentemente con i farisei, e il tema dello scontro è stata l'osservanza della legge mosaica. Il conflitto suscitato da Gesù nel popolo giudaico è quindi essenzialmente religioso, non politico. I Romani e i sommi sacerdoti entrano in gioco soltanto alla fine della sua vicenda, nel!' ultima settimana della sua vita. La Galilea non era infatti sotto il dominio diretto dei Romani, ma sotto quello di Erode Antipa, e in Galilea Gesù non ha probabilmente incontrato mai i Romani. E i sommi sacerdoti esercitavano il loro potere soprattutto a Gerusalemme, col controllo del tempio e mediante l'organo del sinedrio. Ma in Galilea questo potere era presente in maniera molto limitata. È possibile che la vicenda di Gesù, che poneva essenzialmente proble-

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mi di carattere religioso e secondo questi studiosi si era svolta in Galilea in maniera abbastanza tranquilla, sia improvvisamente, e in pochi giorni, precipitata a Gerusalemme diventando squisitamente politica? C'è così scarso rapporto tra la gran parte della predicazione di Gesù e le cause specifiche della sua morte? O dobbiamo tornare alle ipotesi di J. Blinzler e R. Bultmann, secondo cui la condanna di Gesù è dovuta a un falso grossolano del sinedrio e a un errore giudiziario di Pilato, che avrebbero trasformato in pericolosamente politica una predicazione essenzialmente religiosa? Meier infatti si rende perfettamente conto che qui c'è un grosso problema storico. E questo lo spinge a fare un'altra discutibilissima scelta metodologica nell'impiego delle fonti evangeliche. È infatti legata a questa duplice impostazione (utilizzazione del criterio della plausibilità storica e rifiuto di ammettere qualunque sviluppo nella predicazione di Gesù) un'altra opzione particolare di Meier: la preferenza data allo schema geografico e cronologico di Giovanni rispetto a quello dei sinottici. Poiché nessuno sviluppo è riconoscibile per Meier nella predicazione, e nella vicenda stessa, di Gesù, e poiché è del tutto verosimile che Gesù sia salito a Gerusalemme più volte, in occasione delle feste di pellegrinaggio, lo schema di Marco secondo cui Gesù ha predicato quasi interamente in Galilea, per salire a Gerusalemme solo alla fine della sua vicenda, si rivela per Meier del tutto artificiale. È una costruzione di Marco che non corrisponde in alcun modo alla realtà storica. Mentre quello di Giovanni, che vede presente Gesù più volte a Gerusalemme in occasione delle diverse feste, non soltanto è più verosimile ma consente di spiegare meglio alcuni aspetti problematici della vicenda di Gesù, come appunto da un lato la sua interazione con i farisei, certamente presenti più a Gerusalemme che non in Galilea (3, p. 380: «Così, è forse l'artificiale schema teologico di Marco, secondo il quale Gesù resta in Galilea e lontano da Gerusalemme fino alla settimana fatale e finale della sua vita, che ha necessità di situare in Galilea gran parte dell'interazione con i farisei. Storicamente, è invece probabile che l'interazione con i farisei abbia avuto luogo soprattutto a Gerusalemme e nei suoi pressi, quando Gesù veniva in pellegrinaggio per le grandi feste - proprio come informa il vangelo di Giovanni»), e il fatto dall'altro che Gesù sembra essere ben conosciuto a Gerusalemme, non soltanto dalla gente comune ma anche da Caifa e da Pilato (è veramente emblematica in proposito, e a mio parere storicamente infondata, l'affermazione già citata prima secondo cui «quello che essi vedevano dalle finestre dei loro palazzi di Gerusalemme era un profeta ebreo popolare che eccitava folle giudaiche entusiaste durante le grandi feste di pellegrinaggio»). Ma lo schema geografico di Giovanni è ancora più artificiale di quello di Marco. O, per meglio dire, non c'è semplicemente in Giovanni nessuno schema geografico. Il riferimento alle feste giudaiche in occasione delle quali Gesù svolge la sua predicazione non ha loscopo di indicare uno svolgimento cronologico della sua vicenda, per il quale Giovanni non ha alcun interesse, ma serve soltanto all'evangelista (e forse già alla tradizione a lui precedente) per collocare nella maniera che a lui sembra più significativa i diversi episodi di quella predicazione. Fa parte probabilmente del suo tentativo di dare un significato nuovo alle ricorrenze religiose giudaiche. Non ha quindi nessun valore per

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quanto riguarda lo svolgimento reale della vicenda di Gesù. Mentre quello di Marco, pur con tutti i suoi limiti dovuti alla difficoltà di mettere ordine in una tradizione eterogenea, conserva a mio parere una validità di fondo. La collocazione degli episodi non è infatti in lui né così obbligata come ritiene Meier né così arbitraria come a volte si sostiene. Se fosse stato determinato soltanto dal suo artificiale schema teologico, Marco avrebbe potuto per esempio porre anche il confronto di Gesù con i sadducei in Galilea. Ma la discussione con loro sulla risurrezione dei morti egli la pone invece correttamente a Gerusalemme, perché quasi soltanto a Gerusalemme si trovavano sadducei. E, avendo già accennato ai farisei e agli Erodiani insieme dopo le cinque controversie galilaiche di Gesù, Marco avrebbe potuto collocare anche la questione del tributo a Cesare, posta appunto da farisei ed Erodiani, in Galilea. Ma la colloca invece con precisione a Gerusalemme, perché è soltanto per la Giudea, non per la Galilea, che si poneva il problema del tributo. Collegata con questo è l'individuazione già accennata degli avversari di Gesù. A differenza di Sanders, Meier ammette senza dubbio che al tempo di Gesù, come afferma Giuseppe, «i farisei erano la fazione ebraica più attiva e influente fra la gente comune»; sostiene che anzi «l'unico significativo gruppo ebraico che in cali anni cercava di influenzare le concezioni religiose e la condotta degli ebrei palestinesi ordinari, a livello degli strati sociali di base, erano i farisei» (3, p. 382.). E riconosce anche che era Gesù e i farisei «i disaccordi erano inevitabili» (3, p. 383). Sia pure in forma meno radicale di Sanders, e sia pure forse in maniera un po' contraddittoria, anche Meier però è convinto che gli avversari principali di Gesù, quelli che lo hanno portato a morte, non sono stati i farisei - con i quali egli ha discusso sì i problemi dell'osservanza della legge mosaica (il Gesù halakico), ma non si è mai scontrato in maniera mortale - bensì i sommi sacerdoti, colpici nei loro interessi politici ed economici soprattutto con l'episodio della purificazione del tempio (3, pp. 498, 505-6). Gli argomenti principali a sostegno di questa ipotesi sono ancora una volta non soltanto il carattere artificiale già accennato dello schema di Marco (3, p. 646: «Potrebbe essere la "geografia sacra" del racconto di Marco che obbliga a trasferire i farisei in Galilea, dove Marco fa svolgere la maggior parte del ministero di Gesù, prima del suo viaggio fatale (e unico) a Gerusalemme verso la fine del vangelo»), ma anche, da un lato, l'ipotesi che i vangeli, Matteo e Giovanni in particolare, polemizzino in maniera diretta con i saggi di Jamnia; e dall'altro, la mancata menzione dei farisei nella storia della passione dei sinottici. «I vangeli riflettono il conflitto tra il nascente cristianesimo e il nascente giudaismo rabbinico» (3, p. 643). «Le preoccupazioni letterarie e teologiche di Marco [... ] inducono alla cautela nel considerare resoconto storico i pochi casi di una disputa diretta era Gesù e i farisei» (3, p. 646). «I farisei di Matteo e di Giovanni sono in larga misura i farisei posteriori al 70 e i loro alleati, che sono sulla strada di diventare rapidamente i primi rabbini del giudaismo cannaicico» (3, p. 379 ). È certamente «molto probabile che Gesù e i farisei si siano trovaci a dialogare e a dibattere durante il ministero pubblico» (3, p. 642.). Ma i farisei «non ebbero direttamente niente a che fare con la fine del suo ministero» (ibid.). Infatti, lo abbiamo già

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visto, «gli strati più antichi delle tradizioni evangeliche non forniscono alcuna base per ritenere che i contrasti di Gesù con i farisei siano stati la causa principale della sua morte» (3, p. 384). E «in contrasto con la loro abbondante presenza nei racconti sul ministero pubblico, i farisei come gruppo si segnalano per la loro assenza nella narrazione della passione» (3, p. 385). Ma è possibile che non ci si renda conto della debolezza estrema di questi argomenti? Che Marco, il primo a individuare nei farisei gli avversari principali di Gesù, scritto come è incorno all'anno 70, rifletta «il conflitto tra il nascente cristianesimo e il nascente giudaismo rabbinico» è chiaramente impossibile. Ma anche l'ipotesi, avanzata soprattutto da W. D. Davies e J. L. Martin, che Matteo e Giovanni diano tanto spazio ai farisei perché, scritti negli anni So e 90, hanno ormai davanti a sé i rabbini loro successori, si è rivelata senza fondamento. Non è vero che Matteo e Giovanni polemizzino in maniera diretta con i rabbi di Jamnia. Né il discorso della montagna dell'uno né l'ànocruvaywyoç dell'altro possono essere interpretati in questo modo. Il discorso della montagna è preso da Matteo in larga parte dalla fonte Q E la birkat ha-minim che dovrebbe spiegare l' ànocruvaywyoç è stata formulata più tardi e non riguarda esplicitamente i giudeocristiani. Né è vero d'altra parte che i rabbi di Jamnia siano i fedeli prosecutori dell'opera dei farisei. Il rabbinismo è piuttosto il tentativo, riuscito solo lentamente e con fatica, di ridurre all'unità i diversi orientamenti del giudaismo precedente, ivi compreso quello sacerdotale. Ma anche il silenzio della storia della passione dei sinottici sui farisei, l'argomento introdotto soprattutto da P. Wincer e divenuto quasi un luogo comune tra gli studiosi, ha scarso significato. Intanto ai farisei fa ripetutamente accenno il Vangelo di Giovanni. Sono loro nel quarto vangelo (coni sommi sacerdoti) che decidono di procedere contro Gesù (11,47-48: «Allora i capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dissero: "Che cosa facciamo? Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione"») e aspettano il momento propizio per farlo (11,57: «Intanto i capi dei sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunciasse, perché potessero arrestarlo»). Sono loro inoltre che inviano le guardie e i soldati ad arrestare Gesù (18,3: «Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei»). E un autore che preferisce Giovanni ai sinottici per il suo schema cronologico e geografico, e che ritiene anzi preferibile lo schema cronologico e geografico di Giovanni proprio perché consente di spiegare meglio l'interazione di Gesù con i farisei, non può trascurare tranquillamente questa testimonianza. Ma i farisei non vengono nominati nella storia della passione dei sinottici semplicemente perché quella storia - scritta, io credo, da discepoli ellenistici di Gesù che non avevano vissuto con lui la predicazione e i conflitti in Galilea - ha per protagonista il sinedrio. È interessata cioè a indicare le autorità di governo, non gli orientamenti religiosi, del giudaismo del tempo che si scontrano con Gesù. Ma tra queste autorità di governo rappresentate dal sinedrio, come ci sono i sommi sacerdoti, prevalentemente sadducei, ci sono gli scribi, che per i vangeli sinottici non sono altro che i capi dei farisei. O dobbiamo ritenere che, poiché

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anch'essi non vengono mai nominaci nella scoria della passione, anche i sadducei non hanno avuto alcuna parre nella condanna a morte di Gesù? Ma sono più di cucco proprio le due caratterizzazioni principali di Gesù fornice da Meier, il Gesù profeta simile a Elia e il Gesù halakico, che a me appaiono fortemente discutibili. Gesù è visco anzicucco da Meier come un carismatico religioso, e più esattamente come un profeta escatologico. In accesa che l'autore affronti nel quinto volume il problema delle aucodesignazioni di Gesù (e quindi il problema della sua pretesa messianica) non si può evidentemente che convenire con lui. Quella di profeta escatologico, profeta cioè che annuncia l'arrivo degli ulcimi tempi, è per Gesù senza dubbio la categoria su cui quasi cucci gli studiosi più seri (non iljesus Seminar!) sarebbero d'accordo. Meier però fa in proposito due precisazioni assai impegnative e a mio parere discutibili. Anzitutto ritiene che nella sua accivicà di profeta escatologico Gesù sia rimasto sempre sostanzialmente fedele all'insegnamento, e al modello, di Giovanni Battista: Quando Gesù inizia il suo ministero, egli proclama un messaggio escatologico che concerne l'imminente fine della storia così come Israele l'aveva conosciuta sino ad allora; egli richiede dai suoi connazionali giudei un cambiamento radicale di cuore e di vita, in vista della prossima fine; sottolinea l'urgenza della scelta cui sollecita il suo uditorio, prospettando le terribili conseguenze della non accoglienza del suo messaggio; raduna attorno a sé dei discepoli, tra cui una cerchia intima che sta con lui e condivide la sua vita; simboleggia l'adesione al suo messaggio conferendo ai suoi discepoli un lavacro rituale o battesimo; rivolge il suo ministero a tutto Israele, ma non intraprende nessuna missione diretta apertamente ai pagani; diffonde il suo messaggio con un ministero di stile itinerante e la sua vita itinerante include il celibato. Tutti questi elementi[ ... ] rispecchiano la vita, la predicazione e la prassi del Battista (l, p. 170).

Ma è proprio così? È veramente possibile affermare questa sostanziale identità degli acceggiamenti e della predicazione dei due profeti? A me sembra al contrario che molti elementi li differenzino in maniera evidente, e più di uno (il caraccere itinerante, la scelta dei discepoli, il rito del battesimo) proprio tra quelli indicati da Meier come comuni. Intanto i luoghi della predicazione e lo stile di vita. Il Battista, anche se a sentire Giovanni si è spostato a un cerco punto dalla Giudea (o dalla Perea) alla Samaria, era sostanzialmente un profeta sedentario, che predicava nel deserto e conduceva una vita ascetica. Gesù è un carismatico itinerante, che predica nei villaggi della Galilea e vive in mezzo alla gente. La tradizione ha colco molco bene questa differenza tra i due profeti. Ai discepoli di Gesù chiedono infatti scandalizzati gli scribi dei farisei: «Perché il vostro maestro mangia e beve insieme ai pubblicani e ai peccatori?» (Mc. 2.,16). E a Gesù stesso muovono questa critica: «Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?» (Mc. 2.,18). Gesù non ha nulla quindi del carattere ascetico di Giovanni. Secondo questa tradizione è anzi Gesù stesso a rilevare la differenza di stile di vira era lui e il Battista. Rispondendo a queste critiche dei farisei afferma infacci Gesù: «È venuto Giovanni che non mangia

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pane e non beve vino e dice: è posseduto dal demonio. È venuto il Figlio dell'uomo che mangia e beve e dice: ecco un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori» (Le. 7,33-34). Giovanni e Gesù incarnano in maniera evidente due tipi religiosi profondamente diversi. Ed è questo che spiega la diversa scelta dei luoghi per la loro predicazione: il deserto della Giudea e i villaggi della Galilea. Nel suo ministero Gesù d'altra parte fa due cose che la tradizione non attribuisce affatto a Giovanni: sceglie personalmente i suoi discepoli e compie azioni miracolose. E secondo la tradizione non fa invece quella che era l'azione caratterizzante di Giovanni, cioè non battezza. Noi non sappiamo in realcà se attorno a Giovanni ci fosse una cerchia intima di discepoli che ne condivideva stabilmente l'esistenza, come avviene per Gesù. Il quarto vangelo può farlo supporre, quando parla di discepoli di Giovanni che passano con Gesù. In tutti i casi non è lui che li sceglie, ma sono i discepoli che vengono a lui, richiamati dalla sua fama e dal suo battesimo. Gesù invece sceglie personalmente, con atto di autorità, i discepoli destinaci a vivere stabilmente con lui. E di Giovanni non sentiamo mai dire che abbia compiuto miracoli, come tutti i vangeli affermano per Gesù. Qualche studioso ha voluto supporre anche questo. Ma in realcà le guarigioni e gli esorcismi che caratterizzano così fortemente l'azione di Gesù in Giovanni mancano totalmente. Anche Giuseppe, che a Gesù attribuisce "opere straordinarie", fa di Giovanni un maestro di virtù, non un taumaturgo. D' alcra parte è forse vero, come pensa Meier, che la tradizione potrebbe aver preferito tacere su un'eventuale attività di battezzatore di Gesù, che avrebbe potuto pregiudicarne l'originalità e l'autorevolezza rispetto a Giovanni. Sta di fatto però che non ne parla mai e che non abbiamo elementi seri per ritenere che ne abbia taciuto di proposito. Ma non è solcanto lo stile di vita né sono solcanto questi elementi a distinguere i due profeti. È l'insegnamento stesso che è diverso. Matteo può dare un'impressione differente. Per lui infatti sia Giovanni che Gesù annunciano che il regno dei cieli è vicino. Ma non è così. Giovanni, come l'Elia di Malachia, annunciava l'imminenza del giudizio di Dio, del «giorno grande e terribile del Signore» (Mal. 3,2.3: «Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore»). Perciò richiedeva il pentimento. E perciò si era ritirato nel deserto e impartiva il battesimo nel Giordano. Gesù, come il Deutero Isaia, anche se a volce ancora minaccia il prossimo giudizio di Dio, annuncia invece l'imminenza del regno di Dio, la "buona novella" della venuta di Dio (Js. 52.,7: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: "Regna il tuo Dio"»). Perciò chiede di cambiare mentalità. E perciò vive in mezzo alla gente e non battezza più. Il suo tempo non è il tempo del timore e della rinuncia, ma il tempo della gioia e della partecipazione, paragonabile a una festa di nozze. E «possono forse digiunare gli invitati a nozze finché lo sposo è con loro?» (Mc. 2.,19 ). Sotto questo aspetto la tradizione non si è sbagliata, identificando con Elia Giovanni. È Giovanni, non Gesù, il profeta simile a Elia. A dire il vero, con le oscillazioni che caratterizzano spesso le sue posizioni (ma in un'opera che si protrae per più di venti anni oscillazioni del genere sono perfettamen-

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te comprensibili), in più di un luogo del suo libro Meier ammette le differenze tra Giovanni e Gesù, soprattutto per quanto riguarda la presenza di azioni miracolose. Alla fine del secondo volume, a proposito del richiamo di Gesù alla profezia messianica di Isaia nella risposta all'ambasciata di Giovanni, egli aveva già scritto per esempio: «Con un'allusione ali' assenza di miracoli nel ministero di Giovanni Battista [?]. agli inviati a interrogarlo Gesù segnalò la differenza sbalorditiva [ !) nel suo ministero pubblico» (2., p. 12.43). E ancora a proposito degli esorcismi e delle guarigioni che Gesù compiva egli afferma nel terzo volume: «Tutte queste attività distinguono nettamente [ !) il suo ministero di guarigione e di consolazione dalla terribile minaccia di condanna del Battista» (3, p. 499). Ma continua nonostante tutto ad affermare che, pur riformulando gran parte dell'eredità del Battista, Gesù gli rimase sostanzialmente fedele (2., p. 2.74), ritenendo anzi necessario spiegare ad amici e avversari «che la sua predicazione e la sua prassi erano una continuazione, anche se con differenze, di quelle del Battista» (2., p. 2.75). Sono insomma più le analogie che non le differenze tra Gesù e Giovanni. «In un senso molto reale, Giovanni rimase sempre il mentore di Gesù» (2., p. 12.41). Qualcosa di cui Flavio Giuseppe non mostra di avere il minimo sentore. Gesù dunque profeta escatologico analogo a Giovanni. Ma Meier pensa di poter dire di più. Perché, quando deve dare di Gesù una caratterizzazione più precisa, afferma che Gesù è in particolare un profeta escatologico simile proprio a Elia, che quello di Elia è anzi «il ruolo escatologico che Gesù ha scelto per se stesso» (3, pp. 497-8). «Egli assunse consapevolmente il ruolo del profeta Elia, di cui si attendeva il ritorno per restaurare Israele e prepararlo alla venuta del suo Dio» (3, p. 62.2.). In maniera anche qui un po' contraddittoria, mentre il carattere di profeta itinerante accosta per lui Gesù sia a Giovanni che a Elia (e per quanto riguarda Giovanni la cosa mi sembra molto discutibile), la presenza massiccia dei miracoli nel ministero di Gesù (2., p. 12.44: «I miracoli sono presenti in modo massiccio nei quattro vangeli, perché anzitutto sono stati presenti in modo massiccio nel ministero pubblico del Gesù storico») che, pur riconosciuta caratteristica di Gesù, non lo aveva indotto a distinguerlo radicalmente da Giovanni, lo induce ora ad affermare che Gesù era visco (e forse egli stesso si vedeva) come un profeta simile a Elia. «Questa fede in Gesù come profeta che era allo stesso tempo un taumaturgo[ ... ) fornisce una chiave importante per comprendere che cosa pensava la gente di Gesù e forse chi egli pensava di essere» (2., p. 12.45; ma nel volume successivo, come si è visto, anche iljòrse scompare). « Una regolare attività taumaturgica svolca da un profeta itinerante attivo nella parte settentrionale di Israele avrebbe ovviamente fatto pensare ad Elia ed Eliseo. In particolare la convinzione che, in aggiunta a tutta una serie di miracoli, Gesù risuscitò dei morti - un miracolo che nelle Sacre Scritture è attribuito a Elia e a Eliseo, ma non a Mosè non poteva non proiettarlo sullo sfondo di questi due profeti precedenti» (ibid.). Mi sembra difficile negare che siamo in presenza di una contraddizione. Perché, se i miracoli sono l'elemento più caratterizzante del ministero di Gesù, la somiglianza con Elia si può sostenere, ma la differenza con Giovanni appare evidente. Meier stesso,

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come abbiamo visto, è infatti costretto ad ammetterla esplicitamente. Se invece non lo sono, Gesù non si distanzia tanto da Giovanni, ma non può essere accostato troppo rapidamente a Elia. Ancora più difficile (ma direi addirittura fantasioso) è, sulla base del comune riferimento di Mt. 11,5 e 4Qs2.1 a Is. 61,1, voler istituire un parallelo tra Gesù profeta simile a Elia e il profeta escatologico di Qumran (3, pp. 499-501). In realtà, se l'elemento centrale dell'azione e predicazione di Gesù è l'annuncio del regno, non basta l'attività miracolosa a fare di lui un Elia. L'annuncio del regno è diverso dalla minaccia del giudizio attribuita a Elia dalla tradizione, e l'affermazione della presenza del regno nella sua stessa azione e predicazione implica una pretesa di Gesù che non è quella di un semplice profeta, sia pure escatologico. Non soltanto infatti, come Meier stesso afferma, «Gesù non era uno dei tanti profeti che sul futuro sapevano pronunciare più profezie di altri. Egli era il profeta che portava a compimento quello che i profeti avevano predetto» (2., p. 12.43). Ma non era neppure un Elia il cui compito era soltanto di preparare l'avvento del regno. Era invece colui che inaugurava il regno preparato da Elia. E, come subito dirò, anche le sue prese di posizione nei confronti della legge mosaica sono una conseguenza di questa consapevolezza escatologica straordinaria che non ha riscontro in Elia e che io credo debba definirsi messianica. Che la gente paragonasse Gesù a Elia (come anche a Giovanni) è certamente plausibile. Ma non poteva non vederne anche tutta la differenza. E soprattutto non sembra possibile dire che quello di Elia è « il ruolo escatologico che Gesù ha scelto per se stesso». Gesù d'altra parte è visto, come ho detto, da Meier come un maestro della legge. Anche questo potrebbe in linea generale essere accettato. Certamente Gesù si è pronunciato in più di un'occasione in merito all'osservanza di norme della legge. Ha assunto quindi realmente le vesti del maestro. Ma di nuovo Meier offre una precisazione che appare invece molto discutibile. Per lui Gesù, pur non essendo un maestro sistematico, non è troppo diverso da un rabbino perché è impegnato costantemente in discussioni con compagni e avversari sulla giusta osservanza delle norme della legge. Il quarto volume dell'opera insiste anzi in maniera quasi ossessiva ( lo ammette egli stesso) su quello che Meier definisce il Gesù halakico, il Gesù appunto impegnato costantemente in queste discussioni. E l'autore arriva ad affermare, lo abbiamo visto, che i vangeli canonici già contengono la parziale trasformazione in un guru pagano di quello che era in realtà un rabbino galileo. Ma, a parte la difficoltà già indicata di conciliare questo aspetto della predicazione di Gesù col suo carattere di profeta escatologico simile a Elia, è giusto insistere a tal punto sul Gesù halakico? Veramente è da vedere in Gesù una sorta di rabbino galileo? In realtà Meier stesso sembra a volte escluderlo. Gesù, egli dice, non ha alcuna visione sistematica della legge. Non è uno scriba o un rabbino. Il suo annuncio d'altra parte è annuncio del regno. Prima che un maestro della legge egli è un profeta escatologico. Ma non è più corretto allora vedere nelle prese di posizione di Gesù nei confronti della legge non tanto il suo carattere "halakico" - l'abitudine che egli avrebbe di discutere costantemente, come un rabbino, i problemi della legge - quanto le conseguenze pratiche che egli trae

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sull'osservanza della legge dall'annuncio, e dalla presenza, del regno? Quelle prese di posizione nascono infatti a mio parere non dalla consuetudine di discutere la legge con compagni e rivali, ma dalle critiche che i suoi avversari gli rivolgono. Meier stesso, come ho già detto, sembra in definitiva ammetterlo quando a proposito delle norme di purità parla di una studiata indifferenza da parte di Gesù e quando più in generale afferma che la spiegazione migliore dell'atteggiamento di Gesù nei confronti della legge è proprio la sua consapevolezza di essere il profeta degli ultimi tempi. Ma questo sembra decisamente escludere che egli possa essere ritenuto una sorta di rabbino. E a mio parere mette anche necessariamente in discussione l'immagine del Gesù halakico. La centralità dell'annuncio del regno di Dio, dell'imminenza e della presenza del regno di Dio, non si concilia con la costante discussione della legge al modo di un rabbino. Il Gesù che annuncia la venuta imminente, e la presenza misteriosa, del regno di Dio raccoglie attorno a sé discepoli, con i quali certamente non ingaggia minuziose discussioni "halakiche" sull'osservanza della legge. Solo molto raramente, e su un piano generale, i vangeli riferiscono casi del genere. E d'altra parte Gesù non va in giro per la Galilea enunciando principi morali di carattere astratto e di portata generale. La discussione della legge, e quindi, se si vuole, il carattere halakico, non è un elemento centrale della predicazione di Gesù, ma nasce invece soprattutto dal confronto con i suoi avversari, e cioè dalle critiche che il suo comportamento molto libero nei confronti della legge, conseguenza della sua convinzione di una presenza già attuale del regno, suscita tra scribi e farisei. O eventualmente dalla difficoltà in cui i suoi avversari, farisei e sadducei, vogliono metterlo riguardo all'osservanza della legge. Ma Gesù resta il profeta escatologico del regno artefice di opere straordinarie, e fornito a mio parere di una forte consapevolezza messianica, non il maestro della legge che alla maniera dei (posteriori) rabbini discute costantemente con compagni e rivali i casi legali particolarmente difficili.

Note

Premessa 1. Per non aumentare troppo la lunghezza del libro i riferimenti puramente bibliografici sono però ridotti al minimo e le note, che anche se collocate alla fine del volume, sono tuttavia parte integrante del testo - prego perciò il lettore di non saltarle-, sono riservate principalmente alla discussione dei punti più controversi. l. Ho anche aggiunto in appendice la mia recensione al libro di J. P. Meier, Un ebreo marginale, apparsa su "Henoch~ 33, l0II, pp. 316-30 (e per la cui pubblicazione ringrazio dell'autorizzazione gli editori della rivista), perché, anche se l'aggiunta comporta alcune ripetizioni, mi sembra un utile complemento alla mia esposizione.

Introduzione

È veramente impossibile scrivere una storia di Gesù? Il cosiddetto Gesù storico e l'autentico Cristo biblico, Napoli 199l, p. 66: «Per una vita di Gesù non possediamo alcuna fonte che uno storico possa far valere come attendibile e sufficiente. [... ] In primo luogo le nostre fonti, cioè i cosiddetti vangeli, stanno lì così isolati che senza di essi non sapremmo proprio nulla di Gesù, sebbene la sua epoca e il teatro della sua vita siano per altro verso assolutamente chiari sotto il profilo storico; egli potrebbe passare per una figura creata dalla fantasia della comunità intorno all'anno 100. Inoltre queste fonti non si possono ricondurre con sicurezza a testimoni oculari. Per di più esse narrano solamente l'ultimo brevissimo periodo della sua vita». Nel titolo del libro di Kahler, dietro i termini resi in italiano con "storico" e "autentico", c'è la contrapposizione tipica della lingua tedesca tra historisch e geschichtlich. l. R. Bultmann, Gesù, Brescia 197l, p. 103: «Io sono indubbiamente del parere che noi non possiamo sapere più nulla della vita e della personalità di Gesù, poiché le fonti cristiane non si sono interessate al riguardo se non in modo molto frammentario e con taglio leggendario, e perché non esistono altre fonti su Gesù». Si ricordi tuttavia che sia Bultmann che Kahler più che l'impossibilità da un punto di vista storiografico tenevano ad affermare l'illegittimità dal punto di vista della fede cristiana di una vita di Gesù. 1. M. Kahler,

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Gli allievi di Bulcmann, e in genere gli autori della cosiddetta "nuova ricerca", pur avendo ripreso l'indagine sul Gesù storico, sono cucci sostanzialmente della opinione di Bulcmann. La contesta invece apparentemente D. Flusser,jesus, Genova 1976, p. 2.5: «Questo libro è stato scritto con il particolare intento di dimostrare che è possibile scrivere una vita di Gesù. [... ] Gesù è il giudeo pose-testamentario del quale meglio conosciamo la vita e il pensiero». Ma in realcà, pur attribuendo in maniera poco critica ai vangeli sinottici un'attendibilità storica decisamente esagerata, anche Flusser non scrive affatto una vita di Gesù, ma vuole solo presentarne il pensiero. Non sempre piuttosto è della opinione di Bulcmann la ricerca contemporanea, che a volte anzi non si limita a scrivere una vita di Gesù ma, col ricorso in particolare alla sociologia religiosa e all'antropologia culcurale, tenta di ricostruire anche lo stile di vita e la personalità di Gesù. 3. H. J. Holczmann, Die synoptischen Evangelien. Ihr Ursprung und geschichtlicher Charakter, Leipzig 1863, pp. 479-96. Sulla base del Vangelo di Marco, e più esattamente di quella che egli riteneva la prima edizione del Vangelo di Marco, e in una concezione fortemente evolutiva sia della vicenda personale di Gesù sia del suo annuncio del regno e della sua coscienza messianica, l'autore arrivava a distinguere ben sette scadi nell'attività di Gesù in Galilea. Uno schizzo totalmente diverso - con l'ipotesi di un Gesù non "evolutivo" bensì "escatologico", che sarebbe stato in attesa febbrile dell'avvento imminente del regno di Dio; e nell'unica svolca della sua concezione salvifica, non avendolo visto apparire, avrebbe deciso di forzarne la venuta cercando la morte a Gerusalemme - è quello alcrettanto famoso del suo allievo A. Schweiczer, La vita di Gesù. Il segreto della messianita e della passione, Milano 2.000, pp. 2.13-34. Qualcosa di simile a Holczmann, ma con intenti ancor più limitati, avrebbe fatto invece un secolo più cardi C. H. Dodd, Ilfondatore del cristianesimo, Torino 1975, pp. 12.7-78 (p. 12.7: «Ho tentato un abbozzo, e un'interpretazione, del corso degli eventi, per quanto si può dedurre dai dati dei quattro vangeli. Inevitabilmente tutto ciò è in qualche misura congetturale»). Ma a differenza di Holczmann, che si appoggiava interamente sul Vangelo di Marco, Schweitzer utilizzava tutti e ere i vangeli sinottici (ma soprattutto Marco e Matteo) e Dodd tutti e quattro i vangeli canonici (compreso quindi quello di Giovanni). 4. Flavio Giuseppe, Antichita giudaiche 18,63-64: «In questo periodo visse Gesù, uomo saggio, se pure bisogna dirlo uomo. Fu infatti artefice di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità. E attrasse molci Giudei e molci anche del mondo greco. Egli era il Cristo. E quando Pilato, su denuncia dei primi tra noi, lo condannò alla croce, quelli che da prima lo avevano amato non cessarono di amarlo. Egli apparve loro il terzo giorno di nuovo in vita, secondo che i divini profeti avevano predetto di lui queste e mille alcre cose meravigliose. E ancora oggi il gruppo di quelli chiamati da lui cristiani non è scomparso». Si ricordi che almeno ere passi di questo testimonium flavianum («se pure bisogna dirlo uomo», «egli era il Cristo» e «egli apparve loro il terzo giorno di nuovo in vita, secondo che i divini profeti avevano predetto di lui queste e mille alcre cose meravigliose») sono ritenuti dalla

NOTE

maggior parte degli studiosi interpolazioni cristiane (così per esempio

Un ebreo marginale. Ripensare il Gesu storico

1,

J.

P. Meier,

Le radici del problema e della persona,

Brescia 2.001, pp. 63-85). 5. Cornelio Tacito, Annali 15,44,3. Raccontando l'episodio famoso dell'incendio di Roma del 64 e la successiva persecuzione dei cristiani da parte di Nerone, Tacito ricorda solcanco che, socco l'impero di Tiberio, Gesù (che egli chiama Cristo) era stato messo a morte dal governatore romano della Giudea Ponzio Pilato: «L'autore di questo nome, Cristo, era stato mandato al supplizio sotto l'impero di Tiberio dal procuratore Ponzio Pilato». Pilato in realcà non era procuratore, ma prefetto. 6. W. Wrede, Il segreto messianico nei Vangeli. Contributo alla comprensione del Vangelo di Marco, Napoli 1996. 7. K. L. Schmidc, Der Rahmen der Geschichte jesu. Literarkritische Untersuchungen zur altestenjesusuberliejèrung, Berlin 1919. 8. W. Marxsen, L'evangelista Marco. Studi sulla storia della redazione del Vangelo, Casale Monferrato 1994, pp. 70-1: «Marco scrive un "vangelo galileano". [... ] Per Marco però la Galilea ha una portata non anzitutto storica, bensì teologica, come luogo della parusia che verrà presto. [... ] Il facto dunque che Marco scriva un vangelo galileano non è dovuto a un interesse "storico-geografico". Si potrebbe parlare invece, forse, di un interesse "escatologico-geografico"». 9. Oppure la cosiddetta "terza ricerca" si limita a fornire preziose indicazioni metodologiche sul carattere della ricerca e sull'uso delle fonti, come nella tavola rotonda sul Gesù storico tenutasi a Roma nel 2.009. E. Norelli, C. Gianocco, M. Pesce, L'enigma Gesu, a cura di E. Prinzivalli, Roma 2.010. 10. J. P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesu storico 2., Mentore, messaggio e miracoli, Brescia 2.002., pp. 172.-3, 12.44: « Che Gesù abbia murato e sviluppato le sue idee e la sua condotta durame il ministero pubblico è alcamence probabile; in che cosa sia consistito esattamente cale cambiamento e come esso abbia avuto luogo, oggi non possiamo saperlo. Teorie fantasiose sull'evoluzione della consapevolezza di Gesù e della sua prassi ministeriale non servono che a vendere libri»; J. D. G. Dunn, La memoria di Gesu 1, Brescia 2.006, p. 341: «Sarebbe un errore voler ricondurre particolari insegnamenti a fasi particolari della missione di Gesù. Quando quindi si passerà a esaminare più da vicino la tradizione di Gesù, in generale non si cercherà di argomentare sulla base della cronologia o dell'ubicazione di insegnamenti e atti di Gesù». Nei quattro (e era poco cinque) volumi del primo e nei ere (in italiano) del secondo la vicenda storica di Gesù è infatti praticamente assente. È una decisa presa di posizione nei confronti di quegli autori (pochi per la verità) che ancora ritengono di poter cogliere uno sviluppo nell'azione e nella predicazione di Gesù. Ed è una presa di posizione indubbiamente giustificata dalla disinvolcura eccessiva con cui alcuni studiosi (dal vecchio O. Holczmann, che spostava arbitrariamente i passi dei vangeli sulla base quasi sempre di supposti sviluppi psicologici della coscienza di Gesù, al più recente P. W. Hollenbach, con le sue quattro fasi della personalità di Gesù: Gesù il penitente, Gesù il discepolo di Giovanni, Gesù il battezzatore, Gesù il guaritore) han-

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no ritenuto di poter cogliere tale sviluppo e ordinare cronologicamente i vari episodi della vicenda di Gesù. Ma è una presa di posizione che a me sembra troppo drastica e rinunciataria. Sono proprio sicuri i due autori che non ci sia nulla da dire in proposito? Che non si possa individuare alcun cambiamento nelle idee di Gesù? E che non si possa mai collocare un suo insegnamento in un tempo e in un luogo particolari? 11. Si vedano i passi di Wellhausen e di Harnack citati nel testo, p. 17, nei quali il primo definisce Gesù «un miracolo divino nel suo tempo e nel suo ambiente», un uomo dunque, e un ebreo, che non deve nulla al contesto storico in cui è vissuto, e il secondo afferma che a un esame approfondito la maggior parte dei fili che legano Gesù alla storia del suo tempo si rivelano privi di importanza. E si ricordi l'acuto giudizio che dette E. Lohmeyer nella sua recensione al libro, peraltro bellissimo, di R. Bultmann su Gesù, in "lheologische Literaturzeitung': 52., 192.7, p. 433: «È in certo senso un libro su Gesù senza Gesù»; p. 439: «Ciò che questo libro certamente è e vuole essere, lo è non come documento di conoscenza storica, ma come testimonianza di apologetica religiosa». 12.. Almeno in un caso del resto lo si è sempre fatto: ed è quello dell'atteggiamento di Gesù di fronte alla propria morte. A parte rare eccezioni, come quella di A. Schweitzer, si è sempre ritenuto infatti che l'eventualità di una morte violenta, e la riflessione quindi sul senso della propria morte, si sono imposti a Gesù solo gradualmente. Cfr. per esempio quanto scriveva già H. Schi.irmann, Regno di Dio e destino di Gesu. La morte di Gesu alla luce del suo annuncio del regno, Milano 1996, p. 83: «Insieme a gran parte della critica crediamo di poter considerare acquisito il fatto che già molto presto Gesù dovette prevedere la possibilità della sua morte violenta. Quanto più si avvicinava alla sua fine, tanto più chiaramente le esperienze storiche gli imponevano questa possibilita, che divenne via via probabilita, per prendere alla fine la forma di certezza morale». Ma su questo tornerò più avanti. 13. Come ricorda Eusebio di Cesarea nella sua Storia ecclesiastica (3,39,15), riportandone la testimonianza: «Marco, divenuto interprete (tpµl]VEUTI)ç) di Pietro, scrisse con precisione, ma senza ordine, tutto quel che ricordava delle cose dette o fatte dal Signore. Non aveva infatti udito il Signore né aveva seguito lui ma, come ho detto, Pietro. Questi dava i suoi insegnamenti secondo le necessità, ma senza fare una esposizione ordinata (cruvtal;tv) delle parole del Signore, sicché Marco non sbagliò in nulla scrivendo le cose come le ricordava. Di una sola cosa infatti ebbe cura: di non tralasciare nulla di quel che aveva udito e di non introdurre in esso alcunché di falso». 14. Quella di Q con maggiore difficoltà perché, come giustamente afferma D. Li.ihrmann, Die Logienquelle und die Leben-jesu-Forschung, in A. Lindemann (ed.), lhe Sayings Source Qand the Historica/jesus, Leuven 2.001, p. 2.05, e come quasi tutti gli studiosi riconoscono a proposito delle parole di Gesù della raccolta, «la riduzione e tipizzazione del contesto narrativo in Q dà loro una certa assenza di tempo, più certamente che in Marco». E non è accettabile (oltre che in contraddizione con quella citata sopra) l'affermazione diJ. D. G. Dunn, Cambiare prospettiva su Gesu. Dove sbaglia la ricerca sul Gesu storico, Brescia 2.011, p. 31, secondo il quale «Q dimostra che gli insegnamenti di

NOTE

Gesù non solo erano stati ricordati dai suoi primi discepoli, ma erano stati organizzati in forme che riflettevano la provenienza locale e temporale in cui erano sorti, ed avevano perdurato in quellafonna ». Ma eccessiva è d'altra parte l'affermazione di D. C. Aflison, Cristo storico e Gesu teologico, Brescia lOll, p. 136, per il quale, se «è ancora possibile raccogliere gruppi di detti tematicamente collegati e interpretarli sulla base di quel che per altri versi si sa del ministero di Gesù», il senso dei singoli aforismi normalmente ci sfugge perché il contesto è «perso per sempre». Il tentativo di ricollocare le parole di Gesù nel loro contesto originario, identificando in particolare i loro diversi destinatari (la gente, i discepoli o gli avversari), può, e deve, in alcuni casi essere fatto. 15. J. Wellhausen, Einleitung indie drei ersten Evangelien, Berlin 1911', pp. IOl-3; lsraelitische undjudische Geschichte, Berlin 1901', p. 389. 16. A. Harnack, L'essenza del cristianesimo, Brescia 1980, pp. 74-5. 17. È veramente sintomatico che quando, col Die Predigt jesu vom Reiche Gottes di J. Weiss, cominciò a disegnarsi nel 189l una rivalutazione profonda dell'apocalittica che spingeva necessariamente a chiedersi se la predicazione di Gesù dovesse qualcosa a questa corrente importante del giudaismo, uno degli ultimi rappresentanti della teologia liberale, W. Bousset, che in seguito avrebbe anch'egli rivalutato l'apocalittica, replicò immediatamente alla nuova tendenza degli studi con un polemico libretto intitolato Jesu Predigt in ihrem Gegensatz zum judentum. Ein religionsgeschichtlicher Vergleich, Gottingen 189l, nel quale tra l'altro affermava che «nel tardo giudaismo non vi è alcuna reale forza viva, alcuno spirito creativo» (p. 38). Due anni soltanto più tardi, nella lsraelitische und Judische Geschichte, Wellhausen avrebbe presentato del resto un Gesù totalmente isolato dal contesto giudaico, con un rapporto del tutto esteriore con la escatologia e il messianismo giudaici. 18. Si pensi soltanto al noto articolo di E. Kasemann, Das Problem des historischen jesus, in "Zeitschrifi: flir Theologie und Kirche", 51, 1954, pp. ll5-53, ora anche in Id., Saggi esegetici, a cura di M. Pesce, Casale Monferrato 1985, pp. 30-57, che ha dato origine alla "nuova ricerca" e che era interamente fondato sulla convinzione della possibilità di riconoscere gli elementi caratterizzanti della predicazione di Gesù attraverso il criterio della sua discontinuità rispetto alla tradizione giudaica (e l'elemento più evidente di questa discontinuità che caratterizza la predicazione di Gesù era individuato ovviamente nelle cosiddette antitesi del discorso della montagna). E non è certamente un caso che, allontanandosi anche in questo dal suo maestro, lo stesso Kasemann riprendesse le posizioni della teologia liberale sul carattere non apocalittico della predicazione di Gesù, sostenendo che l'attesa ardente della fine imminente avrebbe trovato spazio in lui solo ali' inizio della sua attività perché, guardando al complesso della sua azione e predicazione, «è difficile non avvertire i gesti e le parole di Gesù come contraddizione nei confronti di questo inizio». Sul tema dell'apocalittica cristiana primitiva, in Id., Saggi esegetici, cit., p. rn9. Gesù non poteva avere nulla a che fare con l'apocalittica. 19. J. Ratzinger, Gesu di Nazaret, Milano loo7, p. 18: «Ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei vangeli come il Gesù reale, come il "Gesù storico" in sen-

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so vero e proprio. lo sono convinto, e spero che se ne possa rendere conto anche il lettore, che questa figura è molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni. lo ritengo che proprio questo Gesù - quello dei vangeli - sia una figura storicamente sensata e convincente». Sulle preoccupazioni per la fede, a mio parere ingiustificate, che hanno spinto Ratzinger a fare questo tentativo tornerò brevemente nella conclusione. 2.0. K. Berger, Gesu, Brescia 2.006, p. 10: «Interpreto il Nuovo Testamento - e cioè attraverso una serie di osservazioni che si integrano a vicenda e le più disparate esperienze con tutti i vangeli»; p. 11: «Parto dal presupposto dell' estraneita dei testi[ ... ]. Non voglio dunque coprire o eliminare, a forza di interpretazioni, la ricchezza religiosa dei testi, bensì farla agire proprio nella sua diversità. Se quindi su singoli avvenimenti o affermazioni di Gesù ci sono racconti diversi, questo non è motivo di dubitare profondamente della loro autenticità, bensì un segnale di grande ricchezza spirituale»; p. 49: «Fino a prova contraria i racconti del Nuovo Testamento sono da considerarsi come storicamente autentici (nel senso dello storico)». Che questo rappresenti una svolta nei confronti delle sue precedenti ricerche è l'autore stesso ad affermarlo. Cfr. anche, per una posizione analoga, G. Gaeta, Il "Gesu moderno", Torino 2.010. Ma, come è particolarmente evidente dalle citazioni di Ratzinger e di Berger, la sfiducia nelle effettive possibilità del metodo storico-critico e la conseguente rinuncia alla ricerca del Gesù storico portano fatalmente a sostenere che l'unica figura "reale" di Gesù è quella dei vangeli canonici. 2.1. Dunn, Cambiare prospettiva su Gesu, cit., p. 66: «La ricerca dovrebbe partire dall'apriori storico che Gesù ebbe un tffètto di fede sui suoi discepoli, e che l'unico modo di accostarsi storicamente a Gesù passa attraverso quell'effetto». Id., La memoria di Gesu 1, cit., p. 142.: «L'idea che si possa guardare attraverso la prospettiva di fede degli scritti del N.T. e vedere un Gesù che non abbia ispirato la fede o che abbia ispirato fede in modo diverso è un'illusione. Un simile Gesù non esiste»; p. 148: «È proprio la constatazione che Gesù può essere percepito soltanto attraverso gli effetti che ebbe sui primi discepoli (cioè la loro fede) che è la chiave per una verifica (e una valutazione) storica di quegli effetti. [... ] La tradizione sinottica di cui disponiamo, con la sua registrazione di cose che Gesù disse e fece, testimonia una continuità tra la memoria prepasquale e la proclamazione postpasquale, una continuità di fede». Ed è questa continuità di fede che attraverso la tradizione sinottica consente di risalire realmente a Gesù. Affermazioni identiche, ma dal punto di vista assai più legittimo di una teologia del Nuovo Testamento, erano state già fatte da H. Schlier, Significato e Jùnzione di una teologia del Nuovo Testamento, in Id., Riflessioni sul Nuovo Testamento, Brescia 1969, p. 2.0: «Il Gesù storico si può manifestare a noi altrimenti che nell'interpretazione dei testimoni, che oggettivamente non vogliono prescindere dalla fede, ritenendola premessa della loro conoscenza? Il Gesù storico è stato mai diverso da quello che in tal modo fu conosciuto e attestato? Vi è un Gesù "storico", da raggiungere per via "storica"? Ma non è il cosiddetto Gesù "storico" o il Gesù reale,

NOTE storico, degli evangeli, o un Gesù scoperto per una via che è per principio inadeguata, ossia al di fuori dell 'intellectus fidei, e quindi in realtà un Gesù non scoperto, ma immaginato, e immaginato dalla fantasia storica?». E affermazioni simili, anche se più sfumate, fa R. Penna, Ricerca e ritrovamento del Gesù storico. Alcune considerazioni, in "Rivista biblica", 60, 2.012., pp. 371-95. Ma così la conclusione rischia di essere analoga a quelle di Ratzinger e Berger. Il solo Gesù storico è il Cristo dei vangeli canonici (o quanto meno sinottici). 2.2.. Benché a volte ci si compiaccia che la trattazione del Gesù storico sia fatta non da storici di professione ma da esegeti, perché questo garantirebbe la necessaria attenzione ali' aspetto teologico della ricerca (cfr. per esempio M. Imperatori, Gesù di Nazaret, tra ricerca storica e teologia, in "La Civiltà Cattolica", 3889, 2.012., III, p. 3, che approva l'affidamento di quella trattazione a D. Marguerat nel voi. I della recente Storia del Cristianesimo diretta da J.-M. Mayeur, C. e L. Pietri, A. Vauchez, M. Venard, Roma 2.003, pp. 2.5-71; ma lo stesso era già avvenuto nella Storia ecumenica della Chiesa diretta da R. Kottje e B. Moeller, dove a trattare la figura di Gesù con un ottimo articolo che citerò più sotto era stato A. Vogde), il vero, e per certi versi paradossale, problema infatti è proprio che, nonostante la durissima polemica condotta dalla maggior parte degli studiosi contemporanei, sulla scia di E. P. Sanders, nei confronti della "nuova ricerca" di ispirazione bultmanniana per il suo carattere troppo teologico, l'indagine sul Gesù storico - che è evidentemente una indagine storica, la quale richiede solide conoscenze antichistiche, e non solo dell'antichità giudaica e pagana che ne fornisce il necessario contesto, ma anche di quella cristiana che ne costituisce il conseguente sviluppo - è portata avanti ancora oggi quasi esclusivamente da esegeti e teologi (i docenti in genere di Nuovo Testamento delle facoltà teologiche), i quali si limitano a un'analisi puramente teologica e letteraria dei testi, nella quale il proclamato riferimento al contesto giudaico, e magari anche greco e romano, per quanto ampio possa essere, resta sempre esteriore. È questo per esempio il caso dei grandi volumi di J. P. Meier e J. D. G. Dunn. Ed è questo che rende poco utili anche i recenti, e pur così notevoli, volumi che segnalerò tra un momento di G. Barbaglio, W. Stegemann e R. Fabris. Ma anche se nella esposizione della figura di Gesù inevitabilmente si intrecciano, storia, teologia e letteratura sono tre dimensioni dei testi che vanno tenute, per quanto possibile, accuratamente distinte. 2.3. Sulle affinità che, contro l'opinione di Schmidt e di Bultmann, comunque i vangeli canonici mostrano col genere letterario del pioç cfr. R. A. Burridge, Che cosa sono i vangeli? Studio comparativo con la biografia greco-romana, Brescia 2.009. La tesi di Burridge è che, se «Matteo e Luca tentarono di adeguare la loro opera più strettamente al pioç», tuttavia già Marco, in maniera probabilmente deliberata, scrisse secondo il genere dei Pim (in particolare di filosofi): pp. 2.45-8. 2.4. Si ricordino sempre le affermazioni sui racconti biblici, e sul Vangelo di Marco in particolare, di E. Auerbach, Mimesis. Il carattere realistico della letteratura occidentale 1, Torino 1956, pp. 8-2.9 e 48-57. A pp. 16-7 osserva in particolare Auerbach che lo scrittore biblico «non mirava[ ... ] in primo luogo alla "realcà" [... ]. mirava invece alla

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verità. [... ] Il mondo delle storie della Sacra Scrittura non si accontenta di voler essere la vera realtà storica, ma afferma di essere l'unica vera». E l'osservazione, che egli fa per le scorie dell'Antico Testamento, vale anche per i racconci del Vangelo di Marco. La distinzione di Auerbach era realtà e verità, fondata su un'analisi letteraria dei racconci biblici, e che Ratzinger mi pare trascuri, è ripresa invece con gli stessi termini, dal punto di vista questa volta di una considerazione antropologica della verità biblica, da R. Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, Milano 2.001, p. 155: « Tale verità trascende la questione della referenzialità del racconto, della realtà o non realtà degli avvenimenti che ci vengono narrati. Ciò che rende vero il racconto biblico non è la sua possibile corrispondenza con un dato excracestuale». 2.5. Particolarmente importanti appaiono due conclusioni dell'opera, oggi largamente condivisa, di Burridge sulla appartenenza dei vangeli al genere letterario del Pioç: «Se la chiesa delle origini non fosse stata interessata alla persona e alla vita terrena di Gesù, non avrebbe prodotto piot, con la loro struttura narrativa e la loro intelaiatura cronologica, ma piuttosto discorsi del Cristo risorto, come i "vangeli" gnostici». «Analogamente, il Pioç come genere dei vangeli tocca la "ricerca sul Gesù storico~ con particolare riguardo per l'uso delle fonti da parte degli autori di pio1. La selettività consentita a uno scrittore nel produrre il suo ritratto del soggetto sarà presa in considerazione dal metodo della critica della redazione. Poiché tuttavia questa è la vita di una persona storica scritta nel corso dell'esistenza dei suoi contemporanei, vi sono limiti alla libera composizione»: Burridge, Che cosa sono i vangeli?, cic., pp. 2.50-1. 2.6. C. Clifton Black, Mark as Historian of God's Kingdom, in "Catholic Biblica) Quarterly", 71, 2.009, pp. 64-83. 2.7. Per un più completo orientamento del lettore segnalo qui alcune opere uscite negli anni scorsi in Italia sulla figura di Gesù. Ricordo anzitutto i due libri di W. Stegemann, Gesu e il suo tempo, Brescia 2.011, e R. Fabris, Gesit il "Nazareno•: Indagine storica, Assisi 2.011. Due opere indubbiamente notevoli, che tuttavia a mio parere non recano un grande contributo alla ricostruzione storica della figura di Gesù. Il libro di Stegemann è una testimonianza eccellente delle nuove strade intraprese dalla ricerca attuale sul Gesù storico. Assertore convinco dell'esigenza di interpretare la figura di Gesù nel suo contesto giudaico (e di un giudaismo inceso in maniera decisa come realtà non soltanto religiosa ma etnica), particolarmente sensibile alla dimensione politico-sociale della sua predicazione del regno (che egli interpreta come "progetto di eterotopia sociale") e aperto all'uso dei metodi delle scienze sociali (I' antropologia culturale in particolare), Stegemann offre una larga messe di osservazioni metodologiche di notevole valore. Ma, per quanto riguarda la ricostruzione positiva della figura di Gesù, animato come è da uno scetticismo tipicamente "postmoderno" sulla possibilità di una utilizzazione dei vangeli canonici come fonti storiche su Gesù (che egli più volte sostituisce con un discutibilissimo ricorso al criterio di plausibilità storica), e rinunciando a tracciare un qualunque sviluppo della vicenda di Gesù (e addirittura a discutere i vari dati storici forniti dai vangeli), egli non va oltre questo pur interessante contributo di metodo su alcuni aspetti particolari (l'osservanza della legge,

NOTE l'annuncio del regno e la fine tragica di Gesù). A sua volta il libro nel suo impianto complessivo assai più tradizionale di Fabris, fondato su una conoscenza eccezionale delle fonti non soltanto neotestamentarie, è un esempio ammirevole di ampiezza della documentazione e di prudenza nei giudizi, e fornisce indubbiamente una esposizione esauriente delle diverse opzioni possibili nella valutazione storica dei racconti della vicenda di Gesù. Per un uso delle fonti che si avvale troppo indiscriminatamente dei testi di tutti e quattro i vangeli canonici, in un amalgama singolare di fiducia e di scetticismo sulla loro attendibilità storica, per l'attenzione ancora largamente esteriore (e non sempre del tutto accurata) al contesto storico e per la rinuncia ancora più esplicita di Stegemann a fare scelte decise in tema di autenticità storica dei testi evangelici e a tentare di cogliere un qualunque sviluppo nella vicenda di Gesù, esso resta però, nonostante il sottotitolo, più un commento teologico al Cristo dei vangeli che un lavoro critico sul Gesù storico. Il tentativo di una più radicale storicizzazione della figura di Gesù, mediante il suo deciso inserimento nel contesto storico del tempo, è stato in realtà compiuto da G. Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea. Indagine storica, Bologna 2.002.. La ricchezza veramente eccezionale dei riferimenti alla letteratura giudaica e greco-romana del tempo e la valutazione rigorosamente critica delle fonti evangeliche fanno infatti della sua presentazione di Gesù una delle più complete ed equilibrate della ricerca attuale. Ma anche qui non c'è alcun tentativo di delineare il concreto sviluppo storico della vicenda di Gesù, la cui immagine resta affidata alla presentazione letteraria dei singoli aspetti della sua personalità (guaritore, evangelista, narratore, carismatico, saggio), senza porre neppure il problema del nesso che lega tra loro questi diversi aspetti. Al contrario, due piccole opere non appartenenti in senso stretto alla "terza ricerca", ma certamente influenzate dagli orientamenti attuali della ricerca su Gesù, nonostante il carattere di rapida sintesi divulgativa, vanno già nella direzione di una maggiore storicizzazione della figura di Gesù: J. Rololf, Gesù, Torino 2.002., e R. Penna, Gesù di Nazaret. La sua storia, la nostra fede, Cinisello Balsamo 2.008. Un tentativo molto interessante di applicare alla ricerca su Gesù i metodi dell'antropologia culturale, nell'intento di valorizzare al massimo il contesto storico-sociale della sua vicenda, e spostando così l'accento dall'insegnamento di Gesù alla sua concreta pratica di vita, è costituito invece dagli articoli contenuti in W. Stegemann, B.J. Malina, G. Theissen (a cura di), Il nuovo Gesù storico, Brescia 2.006, e soprattutto dal libro di A. Destro e M. Pesce, L'uomo Gesù. Luoghi, giorni, incontri di una vita, Brescia 2.008, che rispetto ad altre ricerche del genere ha il grandissimo pregio di essere scritto non da un esegeta che fa l'antropologo o da un antropologo che fa l'esegeta, ma da un biblista e da un'antropologa insieme. Tuttavia il tentativo trova qui a mio parere un ostacolo difficilmente superabile nella povertà, giustamente sottolineata da Kahler e da Bultmann, di fonti storiche sufficientemente sicure a nostra disposizione. Se del tutto legittimamente i due autori italiani citati avevano ritenuto infatti di poter scrivere in precedenza una Antropologia delle origini cristiane (Roma-Bari 1997) fondata sulle lettere di Paolo, gli Atti degli Apostoli e il Vangelo di Giovanni, con lo

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scopo di conoscere le concezioni sociali e le categorie mentali dei loro autori, la distanza da Gesù, la povertà documentaria e il carattere dogmatico dei vangeli rendono invece inevitabilmente precaria una ricerca antropologica volca a ricostruire non la cultura dei loro autori ma la culcura di Gesù e la costringono troppo spesso a supporre una continuità difficilmente dimostrabile tra il mondo di Gesù e quello dei vangeli e a prendere quindi in considerazione anche fonti storicamente poco accendibili o a trarre comunque dai cesti conclusioni largamente ipotetiche. 2.8. Anch'esso comunque in una rielaborazione che è insieme teologica e letteraria. Non si dimentichi infatti che, anche se si accoglie l'ipotesi della esistenza in Q di strati diversi, con uno strato più antico non apocalittico, come la sostiene in particolare J. S. Kloppenborg, The Fonnation ofQ Trajectories in Ancient Wisdom Collections, Philadelphia 1987; Excavating Q The History and Settingofthe Sayings Gospel, Minneapolis 2.000, la fonte Q non trasmette comunque semplicemente il "Gesù storico", ma quello che è pur sempre un "Cristo kerygmacico~ Come lo stesso Kloppenborg ha più volce affermato, per esempio in Discursive Practices in the Sayings Gospel Q and the Quest ofthe Historicaljesus, in Lindemann (ed.), The Sayings Source Q and the Historicaljesus, cic., pp. 161-2., «il "Gesù" di Qha lo stesso status del "Gesù" di Marco; è un carattere letterario, costruito con una rete di detti, scorie e commenti editoriali». E la storia letteraria non è convertibile in scoria della tradizione. È senza dubbio quindi eccessiva la fiducia nutrita da alcuni autori contemporanei, per i quali sarebbe appunto la fonte Q a restituire il volco "reale", "autentico", del Gesù storico. Così più di cucci J. M. Robinson, Il Gesu autentico [The Rea/jesus} del vangelo di detti Q, in Id., Gesu secondo il testimone piu antico, Brescia 2.009, p. 79: mediante Q è possibile «sapere che cosa è realmente avvenuto, quali fossero i reali intenti di Gesù»; «ascolcare la voce di Gesù in persona»; « intravedere quali fossero i suoi intenti». Benché nella sua Autobiografia teologica, in Id., Gesu secondo il testimone piu antico, cic., p. 2.2.1, egli stesso espressamente lo neghi, sembra infatti di rileggere il vecchio J. Jeremias, col suo sforzo costante di riconoscere la ipsissima voxjesu, quando non addirittura gli ipsissima verba jesu. Ma in maniera diversa, che valorizza soprattutto la continuità era la fede poscpasquale dei discepoli e quella che essi avevano già prima della morte di Gesù, sembra essere questa anche la conclusione di Dunn, in Cambiare prospettiva su Gesu, cic., pp. 30-1: dopo avere affermato che il materiale di Q «esprime gli effetti che Gesù produsse durante la sua missione in Galilea e prima che l'ombra della croce iniziasse a cadere pesantemente sia sulla sua missione sia sul ricordo del suo insegnamento», conclude infatti Dunn: «La tradizione di Q [... ] risale non solo agli anni 70 e So, quando furono scritti i vangeli, e nemmeno agli anni 40, 50 o 60, quando la tradizione di Gesù si scava diffondendo era le prime chiese, ma alla fine degli anni 2.0 o ai primi anni 30, al tempo e alla missione di Gesù stesso. Essa pertanto consente di udire Gesù stesso così come lo udirono questi primi discepoli, molto più chiaramente di quanto abbiano regolarmente creduto i protagonisti della ricerca su Gesù». In realtà, qualunque sia l'origine della sua tradizione, la comparsa di Q difficilmente risale a prima degli anni 50. E il Gesù di Q non è il Gesù "reale", ma pur sempre un Cristo kerygmacico.

NOTE

2.9. Holtzmann, Die synoptischen Evangelien, cit., p. 472..

,o.

Wrede, Il segreto messianico nei Vangeli, cit., p. 61.

31. lvi, p. 191.

,2.. lvi, p. 192.. H- lvi, p. 193.

R. Pesch, Il Vangelo di Marco 1, Brescia 1980, p. S4lvi, p. SS· ,6. Wrede, Il segreto messianico nei Vangeli, cit., p. 192.. Non molto diversa, anche se ancora più essenziale, è in effetti la ricostruzione che fa oggi Clifron Black, Mark as Historian o/God's Kingdom, cit., pp. 67-8, che come elementi particolarmente attendibili del Vangelo di Marco elenca i seguenti: «il legame di Gesù con Giovanni Battista; il compimento da parte di Gesù di atti straordinari di guarigione nei dintorni della Galilea; il suo insegnamento in metafore sul "regno di Dio"; il misto confuso di accettazione e rifiuto che generò il suo ministero; momenti chiave del racconto della passione di Marco, in particolare l'attività di disturbo di Gesù nel tempio e qualche collusione giudeo-romana che ha provocato la sua morte a Gerusalemme per crocifissione». ,7. Questa affermazione susciterà tuttavia, ne sono ben consapevole, molte riserve. Gli studi attuali sul Gesù storico (primi fra tutti quelli del]esus Seminar di R. W. Funk eJ. D. Crossan), oltre a esprimere in genere dubbi e critiche sull'affidabilità storica di tutto il materiale evangelico, non hanno questa fiducia particolare nel Vangelo di Marco e tendono magari non solo a privilegiare la testimonianza della fonte Q rispetto a quella di Marco e a rivalutare l'attendibilità del Vangelo di Giovanni rispetto a quella dei sinottici, ma anche ad ampliare più decisamente la documentazione allargando lo sguardo ai vangeli apocrifi. Su un piano metodologico astratto la tendenza è più che giustificata: vangeli canonici e vangeli apocrifi hanno per lo storico lo stesso valore documentario. E non c'è motivo alcuno per privilegiare a priori la testimonianza dei primi rispetto a quella dei secondi, come in maniera diversa finiscono col fare anche studiosi di grande valore come J. P. Meier e J. D. G. Dunn (si veda la critica, sottile ma giustificata, di E. Norelli, Considerazioni di metodo sull'uso delle fanti per la ricostruzione della figura storica di Gesit, in Norelli, Gian otto, Pesce, L'enigma Gesit, cit., pp. 2.0-38). Se, a differenza di alcuni autori contemporanei, dal Vangelo di Tommaso (soprattutto per l'assenza di qualunque contesto storico dei suoi detti) e dal Vangelo di Pietro (per il suo carattere frammentario, tardivo e leggendario) penso ci sia ben poco da utilizzare ai fini di una ricostruzione storica della vicenda di Gesù, credo anzi che, se possedessimo interamente i cosiddetti vangeli giudeocristiani (il Vangelo degli ebioniti, il Vangelo dei Nazareni e il Vangelo degli Ebrei), ci restituirebbero una immagine di Gesù che sarebbe preziosissima per questa ricostruzione. Allo staro attuale i pochissimi frammenti a noi pervenuti di questi vangeli sono anch'essi tuttavia di scarso aiuto. E solo eccezionalmente farò ad essi riferimento. È al Vangelo di Marco (con l'aiuto della fonte Q) che bisogna necessariamente ricorrere in maniera privilegiata per una ricostruzione della vicenda di Gesù. ,4.

,s-

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Die synoptischen Evangelien, cit., p. 479. Gesu Messia? Un dilemma storico, Roma 2.006, p. 72., ho scritto: «Il Vangelo di Marco è [... ] un testo teologico o, come anche si dice, kerygmatico. Pur con tutte 38. Holtzmann,

39. In

le differenze che abbiamo visto tra loro, tutti gli autori ormai lo riconoscono. Si possono discutere alcune (o anche molte) delle conclusioni di Wrede. Ma la sua critica della scuola liberale per l'uso disinvolto, e perciò metodologicamente scorretto, del Vangelo di Marco come fonte storica è difficilmente contestabile. Quella che Marco racconta non è semplicemente la storia di Gesù, ma è la storia di Gesù interpretata alla luce della risurrezione e fatta oggetto di predicazione. L'opera di Marco è un'opera teologica, non un'opera storica». La predicazione di Gesù e gli eventi della sua vita non vengono riportati in maniera neutrale ma sono oggetto di interpretazione, e di interpretazione teologica. 40. Holtzmann, Die synoptischen Evangelien, cit., p. 1. 41. Wellhausen, Einleitung indie drei ersten Evangelien, cit., p. 96. 42.. Harnack, L'essenza del cristianesimo, cit., p. 87. 43. Si leggano soltanto, a titolo di esempio, queste affermazioni di colui che, pur nella presa di distanza dei suoi discepoli sul problema del Gesù storico, resta il maestro degli studiosi della nuova ricerca: R. Bultmann, Teologia del Nuovo Testamento, Brescia 1985, p. 2.1: «La predicazione di Gesù è una vigorosa protesta contro il legalismo giudaico, cioè contro quella spiritualità che vede espressa la volontà di Dio nella legge scritta e nella tradizione che l'interpreta, e che si sforza di conquistare la benevolenza di Dio attraverso l'osservanza meticolosa delle prescrizioni della legge»; p. 2.2.: «Su questo sfondo la predicazione che Gesù fa della volontà di Dio si staglia come una vibrata protesta. [... ] Gesù, di fronte alla obbedienza formale che privilegia l'osservanza delle prescrizioni rituali, esige l'obbedienza autentica, radicale». 44. G. Theissen, A. Merz, IL Gesu storico. Un manuale, Brescia 2.0084, pp. 151-2. (che d'ora in poi citerò come Theissen soltanto). 45. Anche Theissen in fondo lo ammette. Scrive infatti: «Beninteso, così operando Gesù può essere finito in contraddizione con il proprio ambiente. Il giudaismo è pieno di esempi di critica aspra mossa da singole figure carismatiche e di polemica tra gruppi giudaici». Ma aggiunge immediatamente: «Ma tale critica dev'essere dimostrabile contestualmente»: ivi, p. 152.. Dimostrabile però in che modo? Facendo nuovamente ricorso al contesto storico, come egli sembra suggerire? O mediante il criterio di molteplice attestazione, come vorrebbe in particolare J. D. Crossan? O non piuttosto, come io credo, guardando all'orientamento complessivo della predicazione di Gesù? 46. Anche J. P. Meier è di questo avviso. In Un ebreo marginale. Ripensare il Gesu storico 1, cit., pp. 157-84, ne indica infatti cinque principali e cinque secondari, ma conclude che nessuno di questi può essere considerato «la chiave magica capace di aprire tutte le porte». A riprova dei limiti di qualunque scelta di criteri privilegiati di autenticità si possono del resto addurre a titolo di curiosità due fatti che riguardano proprio Theissen e Meier. Di Theissen si può ricordare che prima di sostene-

NOTE re così decisamente il criterio di plausibilità era anch'egli un fautore, come criterio principale di autenticità, proprio del criterio di discontinuità. Nell'articolo su La profezia di Gesu sul tempio. Profezia e tensioni fra citta e campagna, in Id., Sociologia del cristianesimo primitivo, Genova 1987, p. 124, a proposito del detto di Gesù sul tempio aveva infatti scritto: «Vogliamo esporre sinteticamente alcuni argomenti che testimoniano a favore dell'autenticità di questo detto, basandoci in primo luogo sul criterio della sua inderivabilità sia dal giudaismo sia dal cristianesimo primitivo». E Meier è incorso in un curioso incidente perché, dopo aver criticato nel primo volume della sua opera (p. 167) E. P. Sanders per avere affermato che Mc. 7,15 non può essere attribuito a Gesù perché «troppo rivoluzionario», nel quarto volume ha applicato proprio il criterio di plausibilità per sostenere anche lui l'inautenticità di Mc. 7,15 (cfr. sotto, p. 219, note 20 e 21). Ai limiti dei criteri di autenticità più adoperati dagli studiosi ha dedicato pagine di particolare acume D. C. AllisonJr,jesus o/Nazareth Millenarian Prophet, Minneapolis 1998, pp. 1-32 (soprattutto in polemica conJ. D. Crossan). 4 7. Cfr. per esempio i lavori di J. D. Crossan, The Historicaljesus. The Lifè o/a Mediten-anean jewish Peasant, Edinburgh 1991; The Birth ofChristianity. Discovering what Happened in the Years immediately a.fter the Execution oj}esus, San Francisco 1998. Crossan è probabilmente l'autore che più di tutti ha allargato la base documentaria della ricerca sul Gesù storico e le origini cristiane. In maniera tuttavia, bisogna dire, assai poco convincente (si veda la critica nel lavoro ora citato di Allison, nota 46). La sua ipotesi in particolare della esistenza dietro il Vangelo di Pietro di un Vangelo della croce che sarebbe alla base del racconto della passione dei vangeli canonici ( The Cross that Spoke. The Origins o/the Passion Nan-ative, San Francisco 1988) è considerata da quasi tutti gli studiosi un puro parto della sua fantasia. 48. C. W. Hedrick, The Tyranny o/the Synoptic jesus, in The Historical jesus and the Rejected Gospels (Semeia 44). Atlanta 1988, pp. 1-8. 49. È l'opinione soprattutto di J. P. Meier e P. Fredriksen, seguita in Italia in particolare da G. Segalla. 50. Anche se non nomina esplicitamente i farisei, cfr. per esempio come si esprimeva J.Jeremias, uno dei più autorevoli esponenti della seconda ricerca: «Fu dunque Gesù stesso a scuotere le fondamenta dell'antico popolo di Dio. La sua critica alla torà, unita ali' annuncio della fine del culto, il suo rifiuto della hàlaka e la sua pretesa di promulgare la definitiva volontà di Dio costituiscono il motivo decisivo per l'azione dei capi del popolo contro di lui, azione che ha inizio in occasione della cacciata dei venditori dal tempio. Gesù era per essi un falso profeta.[ ... ] Questa accusa lo ha portato alla croce»: Teologia del Nuovo Testamento 1, La predicazione di Gesu, Brescia 1976', p. 242. 51. Sul problema dell'interpretazione politica della vicenda di Gesù, credo che il mio vecchio libro Gesu e i movimenti di liberazione della Palestina, Brescia 1980, ora ri-

stampato da Paideia, conservi ancora un suo valore. 52. J. P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesu storico 3, Compagni e antago-

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nisti, Brescia 2.003, p. 380: «Così, è forse l'artificiale schema teologico di Marco, secondo il quale Gesù resta in Galilea e lontano da Gerusalemme fino alla settimana fatale e finale della sua vita, che ha necessità di situare in Galilea gran parte del!' interazione con i farisei. Storicamente, è invece probabile che l'interazione con i farisei abbia avuto luogo soprattutto a Gerusalemme e nei suoi pressi, quando Gesù veniva in pellegrinaggio per le grandi feste - proprio come informa il vangelo di Giovanni». 53. P. Fredriksen.jesus Nazaret, King the jews. A jewish Lift and the Emergence Christianity, New York 1999, pp. 2.8-34, 2.35-41 (p. 2.55: «Il vantaggio di trarre la missione di Gesù da Giovanni, con i suoi ripetuti soggiorni a Gerusalemme, è che così si può spiegare il fatto che Pilato già sappia chi è Gesù»). 54. Era già l'opinione di G. Bornkamm, Gesu di Nazareth, Torino 1977, p. 151: «Giovanni [... ] non può essere un testimone storico sicuro in questa circostanza, poiché è evidente che i luoghi dell'attività di Gesù hanno per lui un significato simbolico». Ma anche Theissen è di questo parere. «Il valore storico di questa cronologia giovannea, basata sulle festività menzionate dal quarto vangelo, è molto problematico, poiché potrebbe trattarsi di un espediente redazionale per organizzare il materiale»: Il Gesu storico, cit., p. 195. 55. Così anche M. Frenschkowski, Galilda oder jerusalem? Die topographischen und politischen Hintergrunde der Logienquelle, in Lindemann (ed.), The Sayings Source Q and the Historicaljesus, cit., pp. 535-8. Il fatto che, nonostante i limiti indicati sopra, Q costituisca una notevole conferma del quadro cronologico e geografico di Marco, e che con ogni probabilità entrambe le fonti riflettano nel complesso lo sviluppo storico reale dell'attività di Gesù (dal battesimo di Giovanni all'attesa del Figlio dell'uomo; dalla Galilea a Gerusalemme), è affermato anche con convinzione da S. Guijarro Oporto, La aportacùJn del «Documento Q» al estudio deljesus historico, in "Ricerche storico-bibliche", 17, 2., 2.005, pp. 55-82.. Altro discorso è ovviamente quello della individuazione dell'orientamento teologico di Q. per il quale ha indubbiamente ragione A. Lindemann quando afferma: «Rimane la questione se una analisi letteraria e una spiegazione teologica complessive della fonte dei logia, paragonabili alla analisi e alla interpretazione dei vangeli sinottici, siano realmente possibili», Die Logienquelle Q Fragen an eine gut begrundete Hypothese, in Id., The Sayings Source Qand the Historicaljesus, cit., p. 2.6. 56. L'utilizzazione della fonte Q che propongo al riguardo in questo libro deve comunque essere motivata, perché costituisce un elemento significativo della mia ricerca. Di questa fonte, che non possediamo, esiste, come è noto, un'edizione critica (!) ad opera di tre eminenti studiosi: J. M. Robinson, P. Hoffmann, J. S. Kloppenborg, The Criticai Edition o/Q Synopsis Including the Gospels o/Matthew and Luke, Mark and Thomas, Leuven-Minneapolis 2.000. Questa edizione riporta il testo della fonte Q con larghissima preferenza nella forma e nell'ordine in cui lo riporta il Vangelo di Luca. E questa preferenza per Luca è condivisa oggi dalla stragrande maggioranza degli studiosi. Ma, come rilevava già a suo tempo col suo

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solito acume A. Harnack, che, se non la forma, preferiva però l'ordine di Matteo, la maggiore fedelcà di Luca al testo originario di Q, e ancor più la sua maggiore aderenza alla realcà storica, non sempre possono ritenersi sicure. Vanno discusse invece caso per caso. E in questo libro in più di un caso io non seguo per Q né la forma né la collocazione del testo di Luca. E soprattutto propongo un diverso contesto storico per i passi di Q. Così per esempio per quanto riguarda la promessa di Gesù ai discepoli secondo la quale essi giudicheranno le tribù di Israele, che sulla base di Luca l'edizione critica ritiene costituisca il passo conclusivo della fonte Q, e io credo vada collocata durante il viaggio verso Gerusalemme. E così per quanto riguarda i detti sulla venuta futura del Figlio dell'uomo, che Luca colloca prevalentemente durante il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, e io credo invece che appartengano alla sua permanenza nella città santa. Questa utilizzazione particolare della fonte Q, che cerca non solcanto di recuperarne il testo originario ma anche di collocarne i passi nella loro più probabile situazione storica originaria, è in realcà uno degli strumenti di cui mi servo per ricostruire il possibile sviluppo storico della vicenda di Gesù e spiega anche il motivo per cui il testo di Q. ci taco non secondo l'edizione critica, ma secondo i due sinottici, è indicato da me a volce con Le./Mt., a volte con Mt./Lc. 57. Come in tempi recenti è tornato ad affermare in particolare S. Byrskog, Story as History - History as Story. Ihe Gospel Tradition in the Context ofAncient Ora/ History, Tubingen 2.000, pp. 2.72.-84. I

La Palestina al tempo di Gesù 1. Il racconto particolareggiato di queste vicende, dalla morte di Erode il Grande fino al tempo di Gesù, si trova in Giuseppe, Guerra giudaica 1,665-2.,177, e Antichitd giudaiche 17,188-18,62.. Le edizioni recenti di queste opere di Giuseppe in italiano (da cui prendo normalmente il testo citato) sono, per la Guerra, quella di G. Vitucci, Flavio Giuseppe, La guerra giudaica, Roma 1974, e, per i libri 12.-2.0 delle Antichitd, che riguardano la Palestina di età ellenistico-romana, quella di M. Simonetti, Storia dei Giudei da Alessandro Magno a Nerone, Milano 2.002.. 2.. Dove è stata ritrovata nel 1961 l'epigrafe di Pilato (Pontius Pilatus praejèctus Iudaeae) che ha consentito di restituire al governatore romano il titolo di prefetto, anziché quello attribuitogli da Tacito (e da Giuseppe a Coponio) di procuratore. 3. Si veda la mia edizione: G. ]ossa (a cura di), Flavio Giuseppe, Autobiografia, Napoli 1992., dove alcuni di questi aspetti della religiosità galilaica sono particolarmente sottolineati. 4. M. Chancey, Ihe Myth efthe Pagan Galilee, Cambridge 2.003. Si insiste spesso sul fatto che la regione era circondata da città greche. Ma ci si può chiedere legittimamente se proprio questo fatto non abbia portato la Galilea ad accentuare gli elementi di identità giudaica.

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5. H. Kreissig, Die sozialen Zusammenhange des judaischen Krieges. Klassen und Klassenkampfim Palastina des 1.Jahrhunderts v.u.Z., Berlin 1970. 6. G. Theissen, Sociologia del cristianesimo primitivo, Genova 1987; Lokalkolorit und Zeitgeschichte in den Evangelien. Ein Beitrag zur Geschichte der synoptischen Tradition, Freiburg 1989. 7. S. Freyne, GalileeJrom Alexander the Great to Hadrian, 323 BCE to 135 CE. A Study ofSecond Templejudaism, Wilmington 1980; Galilee,]esus and the Gospels. Literary Approaches and Historical lnvestigations, Dublin 1988; Galilee and Gospel. Collected Essays, Tt.ibingen looo. 8. R. A. Horsley.]esus and the Spirai ofViolence. Popular ]ewish Resistance in Roman Palestine, San Francisco 1987; Banditi, profeti e messia. Movimenti popolari al tempo di Gesù (con J. S. Hanson), Brescia 1995; Galilea. Storia, politica, popolazione, Brescia l006. 9. A. J. Saldarini, 1-àrisei, scribi e sadducei nella societa palestinese. Ricerca sociologica, Brescia loo3. 10. Per il governo giudaico, a sottolineare il carattere religioso, anzi l'origine divina, della sua costituzione, Giuseppe ha coniato, come è noto, il termine di "teocrazia". Contro Apione l,l 64- 165: « Infinite sono le distinzioni nei particolari tra i costumi e le leggi di tutti gli uomini. Si potrebbero così riassumere: alcuni hanno affidato l'autorità di governo a monarchie, altri a oligarchie, altri, ancora, alle masse. U nostro legislatore, invece, non si soffermò su nessuna di tali forme, ma determinò un governo che - forzando la lingua - si potrebbe chiamare teocrazia, riponendo in Dio il potere e la forza» (trad. di F. Calabi). Ma nelleAntichitagiudaiche riconosce il carattere aristocratico del governo giudaico al tempo di Gesù e specifica anzi che esso era detenuto dai sommi sacerdoti. Dopo avere accennato alle loro nomine da parte di Erode e Archelao, scrive infatti che «dopo la morte di questi ultimi la costituzione politica fu aristocratica e il governo della nazione fu affidato ai sommi sacerdoti»: Antichita l0,l51. 11. Cfr. per esempio Guerra l,411: «I notabili si riunirono con i sommi sacerdoti e i capi dei farisei» e Vita li, dove Giuseppe ricorda che egli si unì «ai sommi sacerdoti e ai primi dei farisei». Il. Su questo aspetto particolarmente interessante dell'ambiente in cui si svolse l'attività di Gesù, di cui abbiamo una fonte diretta estremamente significativa nell'autobiografia di Flavio Giuseppe, cfr. in particolare S. Freyne, The Galileans in the Light ofjosephus' Vita, in Id., Galileeand Gospel. CollectedEssays, cit., pp. l7-44; e G.Jossa, Chi sono i Galilei nella "Vita" di Flavio Giuseppe?, in Id., I gruppi giudaici ai tempi di Gesù, Brescia loo1, pp. 16l-75. 13. Così anche J. Schlosser, Gesù di Nazaret, Roma l00l, p. 41: «Si ha comunque motivo di pensare che il silenzio dei nostri testi sui rapporti di Gesù con Tiberiade e Sepphoris corrisponda alla realtà, e non è senza importanza se si tiene conto del fatto che l'opposizione tra la realtà urbana e il mondo rurale è un fenomeno importante nel mondo mediterraneo dell'antichità, almeno altrettanto quanto la polarizzazione ricchi/ poveri».

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14. Su questo aspetto assai importante per giudicare correttamente il rapporto di Gesù col giudaismo del suo tempo, cfr. in particolare l'ottimo articolo di S. Mason, jews, judeans, judaizing, judaism. Problems of Categorizing in Ancient History, in "Journal forche Scudy ofJudaism", 38, 2.007, pp. 457-512.. 15. Così soprattutto Guerra 2.,118: «Sotto di lui [cioè Coponio, il primo prefetto della Giudea] un galileo di nome Giuda spinse gli abitanti alla ribellione, colmandoli di ingiurie se avessero continuato a pagare il tributo ai Romani e ad avere, olcre Dio, padroni mo reali». 16. A partire soprattutto dalla grande opera di M. Hengel, Gli Zeloti. Ricerche sul movimento di liberazione giudaico dai tempi di Erode I al 70 d.C., Brescia 1996 (1 ed. 1961), che, come è chiaro già da titolo e sottotitolo del libro, fornì una interpretazione unitaria dei vari movimenti di liberazione, posti sotto l'unica etichetta di zeloti. Ma contro questa opinione cfr. il mio articolo Gli zeloti e i sicari, in ]ossa, I gruppi giudaici ai tempi di Gesu, cic., pp. 11-78. 17. H. S. Reimarus, Dello scopo di Gesu e dei suoi discepoli, in Id., Iframmenti dell'A.nonimo di Wo!fenbuttel pubblicati da G. E. Lessing, a cura di F. Parente, Napoli 1977, pp. 349-534. Per Reimarus Gesù era una delle tante figure di liberatori politici e pretendenti messianici apparsi in quel periodo in Palestina. Il regno di Dio di cui egli parlava non era alcro infatti che il regno di Israele e la figura messianica con la quale si identificava era quella del figlio di David che ne avrebbe restaurato il regno. Solo dopo il fallimento della sua missione politica, con l'inganno del sepolcro vuoto e l'affermazione della risurrezione, i vangeli canonici hanno facto di Gesù il redentore spirituale del mondo. 18. S. G. F. Brandon, Gesu e gli Zeloti, Milano 1983; Il processo a Gesu, Milano 1974. Per Brandon Gesù, pur non essendo propriamente uno zelota (termine col quale, sulla scia di Hengel, egli indicava tutti i movimenti di liberazione della Palestina), era molco vicino al gruppo di Giuda il Galileo. E alcuni suoi atti, come l'ingresso in Gerusalemme e la cacciata dei mercanti dal tempio, avevano un carattere squisitamente rivoluzionario. È stato il Vangelo di Marco, per ragioni apologetiche, e cioè per rendere i cristiani accettabili ai Romani, a eliminare ogni aspetto di protesta politica dal messaggio di Gesù. 19. Horsley,jesus and the Spirai of Violence, cit.; Banditi, profeti e messia, cit.; Gesu e l'Impero. Il regno di Dio e il nuovo disordine mondiale, Bologna 2.008. All'interno di una concezione della società giudaica in cui religione e politica non possono in alcun modo distinguersi e il movimento di Gesù è accostato agli alcri movimenti messianici del tempo, Horsley è attualmente 1'autore che maggiormente insiste sull'aspetto politico, e specificamente antiromano, dell'azione e predicazione di Gesù, fino a giungere ad affermazioni francamente paradossali (cfr. sotto, p. 2.04 n 2.0 ). 2.0. P. Fredriksen,jesus ofNazaret, KingoftheJews.Ajewish Lift and the Emergence of Christianity, New York 1999. Per l'autrice, come abbiamo visto, la condanna di Gesù nasce dal timore di Pilato per una pretesa messianica di Gesù che si sarebbe manifestata in maniera esplicita e pericolosa con le acclamazioni dei pellegrini al momento dell'ingresso di Gesù in Gerusalemme in occasione dell'ulcima pasqua.

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21. E. P. Sanders, Gesu e il giudaismo, Genova 1992; Gesu. La verità storica, Milano 1995. L'autore sostiene che con la proclamazione della venuta del regno di Dio, la scelta dei dodici e la predizione della distruzione del tempio Gesù annunciava la restaurazione escatologica del popolo di Israele, nella quale egli avrebbe avuto il ruolo di una sorta di "viceré': con i discepoli come suoi ministri. E la sua condanna, ad opera non dei farisei ma dei sommi sacerdoti e del prefetto romano, sarebbe stata causata dalla sua minaccia della distruzione del tempio. Di Sanders parlerò comunque più a lungo in seguito. 22. È il carattere stesso dei vangeli canonici che in qualche modo lo impone. Come affermavo già nel mio Gesu e i movimenti di liberazione della Palestina, Brescia 1980, p. 111, «l'analisi del materiale evangelico pone infatti di fronte a uno sviluppo della comprensione di fede del messaggio di Gesù da parte dei discepoli che ha due direzioni: da un lato l'accentuazione sempre più evidente del carattere messianico della vita di Gesù, dall'alcro l'attenuazione, anch'essa sempre più evidente, del carattere politico della sua predicazione». 23. A semplice titolo di esempio riporto questa affermazione di G. Vermes, Gesu l'ebreo, Roma 1983, p. 58: «Zelota o meno, Gesù fu senza dubbio accusato, perseguitato e giustiziato come tale; e che ciò fosse dovuto al paese d'origine suo e dei suoi discepoli è più che probabile. Agli occhi delle autorità, erodiane o romane, chiunque avesse dei seguaci nella tetrarchia di Galilea era un ribelle, quanto meno potenziale». 24. È questa una delle tesi principali del libro di Freyne, Galilee from Alexander the Great to Hadrian, cit. Ma cfr. anche in particolare Horsley, Galilea, cit., pp. 334 ss., e il mio La condanna del Messia, Brescia 2010, dedicato in gran parte (pp. 115 ss.) a confutare appunto queste convinzioni. 25. Guerra 2,56-65; Antichità 17,271-284. Di Simone e Atronge Giuseppe ricorda in maniera esplicita sia nella Guerra che nelle Antichità la pretesa regale (entrambi « si cinsero del diadema»). Per Giuda, figlio del capo brigante Ezechia che aveva combattuto ed era stato catturato da Erode, solo le Antichità affermano invece più genericamente che «ambiva l'onore della regalità» (17,272). 26. bSanhedrin 98b, secondo cui il nome del Messia è Menahem figlio di Ezechia. 27. Antichità 18,15. Aggiunge anzi con evidente esagerazione Giuseppe (18,17) che i sadducei «non fanno praticamente niente: quando infatti assumono qualche carica, contro voglia e per necessità, accedono a quanto dicono i farisei, perché altrimenti non potrebbero riuscire accetti alla massa del popolo». 28. Cfr. il racconto dell'episodio in Vita 189-198. 29. Su questo punto della identità degli scribi è opportuno tuttavia fermarsi un momento, perché non è così evidente e viene a volce contestato. J. P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesu storico 3, Compagni e antagonisti, Brescia 2003, pp. 58399, afferma per esempio giustamente che con l'etichetta di scribi vengono indicate nelle fonti antiche categorie di persone molto diverse, per cui è difficile dare di essi una definizione precisa. Quella dello scriba è comunque, egli dice, una professione, non un orientamento religioso, per cui «parlare di Gesù in relazione agli scribi giu-

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daici allo stesso modo in cui si parla di Gesù in relazione ai farisei o ai sadducei [... ]

è un esempio di confusione antistorica di categorie diverse» (p. 598). Ma qui non interessa dare una definizione precisa dello scriba giudaico. L'importante è che per i vangeli canonici, e in particolare per il Vangelo di Marco, gli scribi sono sostanzialmente i dottori della legge, e più esattamente i maestri, e quindi anche i capi, dei farisei. E questo è provato sia dal richiamo di Marco ali' insegnamento, e ali' autorità dell'insegnamento, come elemento tipico della figura dello scriba (1,2.2.), sia dal suo riferimento a farisei e scribi insieme (7,1), e anzi anche agli scribi dei farisei (2.,16), sia dalle caratteristiche, tutte relative a una ricerca ed esibizione di prestigio, che egli attribuisce agli scribi ( 12.,38-40 ), sia soprattutto dalla sua indicazione del sinedrio, che sappiamo composto da sadducei e farisei, con la formula "sommi sacerdoti, anziani e scribi", che corrisponde con esattezza a quella usata da Giuseppe, la quale comprende sommi sacerdoti, capi della città e primi dei farisei. In realtà con questa ultima indicazione Marco mostra da un lato di riconoscere appunto negli scribi non un orientamento religioso ma una categoria sociale, o se si vuole una professione, come quella dei sommi sacerdoti, dall'altro di individuare proprio negli scribi la più significativa presenza dei farisei nel sinedrio. Il che significa anche che se tace dei farisei nel racconto della passione è perché dei membri del sinedrio indica appunto la professione, non l'orientamento religioso. Nel suo racconto, dove Marco, per indicare non "tutto il sinedrio~ ma soltanto le sue autorità religiose, parla di sommi sacerdoti e scribi (11,18; 14,1), Giovanni scriverà infatti: «i sommi sacerdoti e i farisei» (11,47,57; 18,3). 30. Salmi di Salomone, 17,2.1-2.3,32.: «Vedi Signore, e suscita loro il loro re, figlio di

David, nel tempo che tu, o Dio, hai scelto perché regni su Israele, tuo servo. E cingilo di forza, perché distrugga i principi ingiusti, purifichi Gerusalemme dai pagani che la calpestano con rovina, con sapienza e giustizia cacci fuori i peccatori dall'eredità.[ ... ] Ed egli regnerà su di loro da re giusto istruito da Dio e non ci sarà ingiustizia nei suoi giorni in mezzo a loro, perché saranno tutti santi e loro re sarà il Messia del Signore». 31. Cfr. con quanta decisione si esprimeva già nel lontano 1900 J. Weiss, La predicazione di Gesu sul regno di Dio, Napoli 1993, p. 57: «Il pensiero che Satana domini il mondo e che possa essere scacciato solo con una battaglia e una vittoria decisiva non è, nel senso più assoluto, di stampo veterotestamentario. Dal punto di vista dell'antico Israele sfiora la bestemmia e rivela l'enorme prostrazione senza speranza del giudaismo postesilico ». 32.. Testamento di Dan 6,1-5: «E ora temete il Signore, figlioli miei, e guardatevi da Satana e dai suoi spiriti. Avvicinatevi a Dio e all'angelo che intercede per voi, perché è mediatore fra Dio e gli uomini e per la pace di Israele si ergerà di fronte al regno del nemico. Per questo il nemico cerca di fare inciampare tutti coloro che invocano il Signore. Egli sa infatti che il giorno in cui Israele si convertirà, il regno del nemico sarà annientato» (trad. di P. Sacchi); Assunzione di Mose I0,1: «E allora apparirà il suo regno su tutte le creature, e allora Satana avrà la sua fine e la tristezza sarà portata via con lui».

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Gesù aderisce al movimento di Giovanni Battista 1. Qui si pone naturalmente un problema metodologico. Trovandosi infatti di fronte a due testimonianze contrapposte, quella dell'osservatore apparentemente neutrale Giuseppe e quella del troppo coinvolto Marco, lo storico potrebbe essere tentato di privilegiare la testimonianza di Giuseppe. Ed è questo in effetti il caso della diversa spiegazione della morte di Giovanni che offrono le due fonti. Ma non si deve dimenticare che se Marco leggeva la storia di Giovanni in funzione di quella di Gesù, Giuseppe si preoccupava di presentarne la figura in un modo che fosse accettabile dai suoi lettori di cultura greca. E qui l'affermazione del "greco" Giuseppe è molto meno convincente di quella del "cristiano" Marco. l. Storia ecclesiastica 3,19-lo,1: «Avendo lo stesso Domiziano ordinato di eliminare i discendenti di David, una antica tradizione riporta che alcuni eretici accusarono i discendenti di Giuda, che era fratello del Salvatore secondo la carne, come discendenti di David e appartenenti alla parentela dello stesso Cristo. [... ] C'erano ancora, discendenti del Signore, i nipoti di Giuda detto suo fratello secondo la carne, che furono denunciati come discendenti di David». Il racconto di Egesippo continua poi ricordando che, riconosciuti come contadini del tutto inoffensivi, questi parenti di Gesù vennero infine rilasciati da Domiziano. 3. A. Schweitzer, Storia della ricerca sulla vita di Gesù, Brescia 1986, p. 500 (con traduzione leggermente modificata): «La concezione finora dominante sostiene che la comunità cristiana primitiva ha fatto del Signore il figlio di David, perché lo riteneva il Messia. Sarebbe ora che si cominciasse a pensare seriamente se, viceversa, Gesù non si sia ritenuto Messia perché era figlio di David ». Se si tiene infatti conto di quelle che erano le idee del tempo sulla esistenza ultraterrena «si può comprendere come un'eminente personalità religiosa, di origine davidica, abbia potuto pensare di essere l'eletto che doveva essere elevato al rango del messia-figlio dell'uomo al momento della grande trasformazione». 4. Le. l,1-3: «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città». 5. Come ancora in tempi recenti ha fatto in particolare R. Riesner,jesus als Lehrer. Eine Untersuchung zum Ursprung der Evangelien-Vberliejèrung, Ttibingen 1984 ', pp. 97-l45. 6. Che la predicazione di Gesù contenga riferimenti di carattere autobiografico (per esempio in Mt. 13,44: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo»; e Mt. 19,1 l: « Vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli»), come alcuni studiosi sostengono, resta infatti un'ipotesi, anche se molto suggestiva.

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7. Un testo che il Vangelo degli ebioniti riportato da Epifanio, La cassetta dei medicinali 30,13,7-8, rende ancora più forte: «Quando Giovanni vide il fatto - racconta il vangelo - gli disse: Chi sei tu, Signore? E ancora risuonò una voce dal cielo verso di lui: Questi è il mio figlio diletto, in cui ho posto la mia compiacenza. Allora - narra - gli cadde dinanzi e prese a dirgli: Ti prego, Signore: tu battezza me! Ma quegli lo distolse con il dirgli: Lascia: conviene infatti che così si compia ogni cosa» (trad. di M. Erbetta). 8. «Ora avvenne che quando il Signore fu salico dall'acqua discese tutta la fonte dello Spirito santo e riposò su di lui e gli disse: Figlio mio, in tutti i profeti aspettavo che tu venissi e potessi riposarmi in te. Tu infatti sei il mio riposo, tu sei il mio figlio primogenito che regni in eterno» (Girolamo, Commento a Isaia 11,1-3). 9. P. W. Hollenbach, Ihe Conversion oJjesus: From jesus the Baptizer to jesus the Healer, in "Aufstieg und Niedergang der romischen Welt", II, 25, 1, 1982, pp. 196-219. 10. Girolamo, Contro i Pelagiani 3,2,1. Cfr. M. Pesce, Le parole dimenticate di Gesù, Milano 2005, pp. 99, 602. 11. Si ricordi il caso successivo di Giuseppe, che nella sua autobiografia (Vita 11) racconta come, dopo aver fatto esperienza dei vari gruppi giudaici, farisei, sadducei ed esseni, si recò presso un eremita di nome Banno e visse tre anni con lui. 12. Deserto di Giuda e tempio di Gerusalemme sono in particolare i due luoghi classici dove la fede messianica del giudaismo del tempo di Gesù attende la manifestazione della redenzione. Secondo Giuseppe nel deserto uomini falsi e bugiardi conducevano la moltitudine «come se lì Dio avesse dovuto mostrar loro segni di libertà» ( Guerra 2,259); come nel deserto il falso profeta egiziano «prometteva di entrare a forza in Gerusalemme e di farsi signore del popolo» ( Guerra 2,262). E al tempio «un falso profeta aveva proclamato agli abitanti della città che Dio comandava di salire per ricevere i segni della salvezza» ( Guerra 6,285); come è nel luogo del tempio che Simone bar Giora farà la sua apparizione messianica vestito di cunichette bianche e di un mantello purpureo ( Guerra 7,29 ). 13. I rappresentanti più noti sono indubbiamente). D. Crossan, M.J. Borge in genere il]esus Seminar. È in aperta polemica con loro che è scritto il libro di D. C. Allison, jesus ofNazareth Millenarian Prophet, Minneapolis 1998. 14. Cfr. per esempio come si esprime J. M. Robinson, La traiettoria Q: tra Giovanni e Matteo passando per Gesù, in Id., Gesù secondo il testimone più antico, Brescia 2009, pp. 195, 196: «È da prendere in considerazione la possibilità che Gesù si sia sottoposto al battesimo di Giovanni, che abbia quindi aderito a un movimento apocalittico e che dunque in un primo momento debba aver creduto al suo annuncio apocalittico molto fervidamente». Ma alla luce delle profonde divergenze tra i loro stili di vita, «non c'è una ragione valida per supporre che Gesù abbia portato avanti l'ideologia di Giovanni. L'apocalitticismo della seconda edizione di Qpuò infatti essere una riapocalitticizzazione della tradizione su Gesù». 15. G. ]ossa, Dal Messia al Cristo. Le origini della cristologia, Brescia 2000 1 , p. 41. 16. Così J. Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento 1, La predicazione di Gesù, Brescia

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1976', pp. 69-70. Per lui il testo di Marco interpreta la venuta dello Spirito come compimento non di 1s. 41,1 e Sai. 1,7, ma soltanto di 1s. 41,1. Perciò «la proclamazione non ha nulla a che vedere con l'intronizzazione o con i riti di adozione o simili; essa non ci introduce nell'idea del Messia regale, ma nelle affermazioni scritturistiche sul servo di Dio». E «nulla esclude che il senso di questo passo della Scrittura, espresso ora dalla proclamazione, potesse essere già presente a Gesù e che egli a partire dal battesimo si sentisse come il servo di Dio promesso da Isaia». 17. Così R. Pesch, Il Vangelo di Marco 1, Brescia 1980, pp. 168-9: «Considerando che la scena del battesimo interpreta Gesù a confronto con Giovanni Battista che aveva preannunciato il Figlio dell'uomo, e che Gesù ebbe coscienza di essere tale[ ... ]. viene ovvio interpretare il predicato di Gesù quale "mio Figlio" nell'orizzonte della cristologia del Figlio dell'uomo». E «dato che non ci troviamo di fronte a una visione di vocazione, il testo non costituisce una fonte della "vita di Gesù", che vada oltre la menzione del battesimo, bensì un documento dell'antica cristologia palestinese, probabilmente della comunità di Gerusalemme».

3 Gesù annuncia la venuta imminente del regno di Dio 1. A differenza di Marco (e di Matteo) Le. 4,14 ( «Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione») non dice che Gesù tornò in Galilea dopo che Giovanni fu arrestato. E anche nell'introduzione del)' episodio dell'ambasciata del Battista a Gesù (Le. 7,18-19: «Giovanni fu informato dai suoi discepoli di tutte queste cose. Chiamati quindi due di loro, Giovanni li mandò a dire al Signore: "Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?"»), che secondo l'edizione critica è la più vicina al testo originario di Q. non dice che Giovanni inviò i suoi due discepoli dal carcere. È anche possibile quindi che la sequenza cronologica di Marco risponda a un criterio eminentemente teologico e Gesù abbia dato inizio al suo ministero autonomo prima ancora dell'arresto di Giovanni. Non si dimentichi tuttavia che le correzioni che Luca apporta a Marco rispondono a loro volta più a un criterio di verosimiglianza storica che al possesso di informazioni diverse. 1. Il passo di Le. 13,31, nel quale i farisei avvertono Gesù che Antipa lo vuole uccidere ( «In quella stessa ora si avvicinarono alcuni farisei, dicendogli: "Esci e parti di qui, poiché Erode vuole ucciderti"»), ha tutta l'aria di una creazione di Luca, che prepara in questo modo il viaggio di Gesù verso Gerusalemme. È particolarmente strano l'atteggiamento amichevole dei farisei nei confronti di Gesù, anche se Luca, a differenza degli altri evangelisti, ricorda pure in altre occasioni questo comportamento meno ostile dei farisei. In tutti i casi Antipa non ha preso iniziative concrete nei confronti di Gesù. Con ogni probabilità la sua predicazione gli appariva meno minacciosa sul piano personale e meno pericolosa dal punto di vista sociale di quella di Giovanni. 3. Sull'importanza dell'ambiente familiare della casa nella missione di Gesù, ma anche sulla sua tensione con l'istituto privilegiato del discepolato, cfr. le osservazioni,

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dal punto di vista dell'antropologia culturale, di A. Destro, M. Pesce, L'uomo Gesu. Luoghi, giorni, incontri di una vita, Brescia 2008, pp. 12.8-56. Proprio sul tema della casa non si possono tuttavia non rilevare le diffìcolcà cui va incontro l'approccio antropologico quando tenta di risalire al Gesù storico. Da un lato infatti non è proprio agevole raffigurarsi concretamente questa presenza continua di Gesù nelle case. Per quanto forte fosse certamente il senso dell'ospitalità nel mondo ebraico del tempo, possiamo essere sicuri che Gesù godeva così spesso di questa ospitalità, pur avendo un numero non irrilevante di discepoli al suo seguito? E d'alcra parte è inevitabile chiedersi se in questo continuo rinvio alle case non ci siano anche forti elementi redazionali. Come diceva Wrede (Il segreto messianico nei Vangeli. Contributo alla comprensione del vangelo di Marco, Napoli 1996, pp. 198 ss.), Marco ha sempre a porcata di mano la casa, o il monte, o la folla, quando ne ha bisogno. Ma lì.no a che punto possiamo essere sicuri che questi dati siano storici e non dipendano invece dal mutamento di ambiente sociale che si verifica nel passaggio dalla predicazione di Gesù al racconto di Marco? E come le feste nel Vangelo di Giovanni facciano parte quindi non del mondo di Gesù ma di quello dell'evangelista? Il problema non si pone infatti nell'approccio antropologico di M. Rescio, La famiglia alternativa di Gesu. Discepolato e strategie di trasformazione sociale nel Vangelo di Marco, Brescia 2.012., pp. 133-53, che, sulla scia di E. Malbon, si chiede non quale sia stato il ruolo della casa per il Gesù storico, ma quale fosse « il ruolo attribuito alla casa nel complesso della strategia narrativa marciana» (p. 133). 4. Così, in maniera netta, A. Schweitzer, La vita di Gesu. Il segreto della messianita e della passione, Milano 2.000, p. 59: «L'idea fondamentale della predicazione di Gesù è l'attesa escatologica del regno e tutta la sua erica si riassume nella penitenza che è la preparazione a questa venuta». 5. Giustamente anzi E. P. Sanders va olcre. Esaminati infatti tutti i passi evangelici in cui si parla del pentimento, afferma: «Il risulcato complessivo è che non c'è alcuna singola informazione solida su Gesù che lo rappresenti come viene descritto da Matteo e Marco ali' inizio del loro vangelo: uno che chiamò a un pentimento generale in vista della venuta del regno»: Gesu e il giudaismo, Genova 1992., p. 146. Cfr. anche, dello stesso Sanders, Gesu. La verita storica, Milano 1995, pp. 2.2.8-41. EJ. S. Kloppenborg, Discursive Practices in the Sayings Gospel Q and the Qjtest oJthe Historical jesus, in A. Lindemann (ed.), The Sayings Source Qand the Historicaljesus, Leuven 2.001, p. 190, condivide la sua opinione. Anche la formulazione di Schweitzer citata sopra si rivela quindi inadeguata. Come anch'io dirò subito, l'annuncio dell'avvento del regno esige infatti solcanto di essere accolto (con fede, cfr. Mc. 1,15b: «Convertitevi e credete nel vangelo»; formulazione tuttavia già chiaramente marciana: il nucleo storico è tutto nel "credete"), non che ci si prepari ad esso con opere adeguate (i «frucci degni della conversione» richiesti dal Battista in vista del giudizio secondo Le. 3,8/ Mt. 3,8). Sarà soltanto la comunità primitiva che polemizzando con un Israele ("questa generazione") che rifiuta il vangelo tornerà a insistere nuovamente (soprattutto con la ripresa della predicazione del Battista da parte della fonte Q) sull'annuncio del

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giudizio e la necessità del pentimento. Che il punto decisivo del contrasto di Gesù con i farisei sia che anche dopo l'accoglimento del vangelo Gesù non abbia richiesto ciò che il pentimento di norma comportava, come pensa Sanders, Gesu e ilgiudaismo, cit., pp. 262-76, è tuttavia discutibile. 6. Cfr. in particolare J. M. Robinson, La traiettoria Q: tra Giovanni e Matteo passando per Gesu, in Id., Gesu secondo il testimone piu antico, cit., pp. 178-98. 7. Così J. P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesu storico 2, Mentore, messaggio e miracoli, Brescia 2002, p. 274: «Egli portò con sé l'escatologia di Giovanni, la sua preoccupazione per un Israele peccatore di fronte all'imminente giudizio di Dio, il suo invito al pentimento ed il suo battesimo nel corso del proprio ministero, pur riformulando e reinterpretando gran parte di questa eredità». 8. Non è un caso infatti che sia proprio Meier a fare queste affermazioni, cioè uno degli studiosi che respingono con maggiore energia la possibilità di individuare un qualsiasi sviluppo del pensiero di Gesù. 9. È questo senza alcun dubbio il carattere del linguaggio delle parabole. L' affermazione di Mc. 4,11-12, secondo cui Gesù avrebbe parlato in parabole per far sì che «quelli che sono fuori» non comprendessero, è una riflessione della tradizione eriguarda un problema diverso, connesso col tema caro al vangelo del segreto messianico. 10. Mc. 7,31, che sembra ricordare un ingresso di Gesù nella città di Sidone ( «Di nuovo, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decapoli» ), non può essere considerata una prova contraria perché la menzione di Sidone, comunque abbastanza generica, difficilmente ha una base storica. Essa infatti (e forse anche quella della Decapoli), oltre a indicare un itinerario da quasi tutti gli studiosi ritenuto "assurdo" (Sidone è infatti a nord di Tiro ed è perciò molto strano che Gesù attraversi la città per andare nella Decapoli), sembra essere stata aggiunta da Marco nel)' intento di accentuare il carattere "simbolico" di un episodio come quello del sordomuto, il cui scopo è di accennare a una prima missione tra i pagani. 11. L'autore che ha più insistito su questo è R. A. Batey in tutta una serie di articoli e volumi. "/s not 1his the Carpenter?", in "New Testamene Studies", 30, 1984, pp. 249-58; ]esus and the 1heater, ivi, pp. 563-74; Jesus and the Forgotten City, Grand Rapids 1991; Sepphoris and the ]esus Movement, in "New Testamene Studies~ 47, 2001, pp. 402-9. 12. Sul problema in verità non c'è accordo tra gli studiosi. Per J. Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento 1, La predicazione di Gesu, Brescia 1976', pp. 130-44, peccatori erano «soprattutto quanti esercitavano una professione ritenuta spregevole» (p. 131), come appunto quella dei pubblicani, ma poi più in genere gli 'amme ha-ares, il "popolo della terra", cioè «gli incolti, gli ignoranti, la cui ignoranza religiosa e [il cui] comportamento morale, secondo le convinzioni del tempo, sbarravano l'accesso alla salvezza» (p. 133). E Gesù veniva quindi criticato perché frequentava «uomini incolti, retrivi e al tempo stesso miscredenti, dato che il giudaismo palestinese non sa concepire una formazione che non sia religiosa» (ibid.). Sanders, Gesu e ilgiudaismo,

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cit., pp. 2.2.6-76, ha però lungamente e duramente criticato questa opinione. Per lui il termine peccatore indica invece «coloro che hanno peccato deliberatamente e in modo scellerato e che non si sono pentiti» (p. 2.31), cioè gli empi. Sono questi empi che Gesù è accusato di frequentare: «l'accusa contro di lui non fu che egli amasse gli 'amme ha-ares, la gente comune» (p. 2.33); piuttosto «Gesù si associò con gli empi e fu per questo criticato» (ibid.). E vari studiosi hanno fatto propria la spiegazione di Sanders. Ma J. D. G. Duno, La memoria di Gesu 2., Brescia 2.006, pp. 569-70, ha giustamente fatto notare che « nel vocabolario delle fazioni "peccatore" era diventato un termine spregiativo, fungeva da vero e proprio insulto, una parola che esprimeva disapprovazione vituperevole e disprezzo per chi appartenesse a un'altra fazione». Il che significa che «Gesù era criticato da alcuni che si ritenevano osservanti ortodossi della legge ("giusti") e veniva criticato perché non rifuggiva la compagnia di coloro che i sedicenti "giusti" consideravano "peccatori"». Credo che, nonostante un po' di esagerazione nelle loro affermazioni, la risposta di Gesù contenuta in Mc. 2.,17: «lo non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori», vista alla luce del suo atteggiamento complessivo nei confronti della legge, di cui subito dirò, dia più ragione a Jeremias e Duno che non a Sanders. Nel linguaggio dei vangeli, che esprime il modo in cui vedono le cose i farisei, peccatori sono coloro che non sono giusti, cioè tutti coloro che non osservano la legge. 13. Su questa commensalicà come elemento caratterizzante dello stile di vita di Gesù e sul suo significato simbolico cfr. Destro, Pesce, L'uomo Gesu, cit., pp. 101-2.7. 14. È proprio Theissen in effetti, l'autore che più si affida al criterio di plausibilità, a riconoscerlo: «Questo logion non può provenire dal cristianesimo primitivo, dove invece s'impose presto l'idea che i pagani avrebbero trovato accesso alla salvezza non solo nel futuro tempo della fine (al di là dei confini della morte, come mostra la menzione esplicita di Abramo, Isacco e Giacobbe), ma già nel presente» (Il Gesu storico. Un manuale, Brescia 2.0084, p. 316). 15. Anche Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesu storico 2., cit., p. 146, non ritiene originaria né la collocazione di Luca né quella di Matteo: «Sembra che né Mt. 8,11-12. né Le. 13,2.8-2.9 abbiano avuto in origine niente a che fare con il loro attuale contesto». Ma, coerentemente con la sua impostazione generale, non pensa neppure di poter suggerire una collocazione del passo a Gerusalemme. 16. Di Giuda per la verità Giuseppe non dice che volesse la restaurazione della monarchia davidica. Essendo contrario a qualunque padrone mortale accanto a Dio, è possibile quindi che rifiutasse non soltanto il dominio romano, mal' idea stessa della monarchia. 17. J. Weiss, La predicazione di Gesu sul regno di Dio, Napoli 1993, pp. 144-5. Il facto stesso che, come vedremo nel prossimo capitolo, Gesù, a differenza di quel che pensava Weiss, abbia potuto a un certo punto parlare di una presenza misteriosa del regno di Dio che si manifesta già adesso nella sua attività di guaritore ed esorcista, lo conferma.L'avvento del regno di Dio richiede per Gesù la sconfitta di Satana, non la liberazione dai Romani.

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18. Una diffidenza che sembra invece venir meno nella formulazione più tarda della questione del tributo contenuta nel cosiddetto Papiro Egerton: «È lecito dare ai re ciò che spetta al potere?». Interamente spostata sul piano generale dei diritti delle autorità, la formulazione della domanda, alla quale manca nel papiro la risposta, sembra avere infatti qui una ispirazione già più paolina che gesuana. 19. S. G. F. Brandon, Gesu e gli Zeloti, Milano 1983, pp. 341 ss. La tesi di Brandon è che dietro l'uso apologetico dell'episodio da parte di Marco ci sono delle parole autentiche di Gesù che in origine avevano un significato completamente diverso. Se la questione del tributo implica che Gesù prenda posizione sul problema posto da quelli che Brandon chiama ancora gli zeloti, allora la risposta di Gesù va letta infatti nella prospettiva degli zeloti. E poiché in questa prospettiva la terra santa di Israele, con tutte le sue risorse, di cui precisamente è espressione il tributo, appartiene a Dio, la risposta di Gesù vuol dire che il tributo ai Romani non deve essere pagato. 2.0. R. A. Horsley,jesus und imperiale Herrschaft - damals und heute. Ein Versuch, jesu Botschaft von der Konigsherrschaft Gottes von ihrer politischen Harmlosigkeit zu befreien, in "Bibel und Kirche", 62., 2.007, pp. 89-93. Per Horsley, se già «gli esorcismi, come i pasti nel deserto, sono eventi chiave del rinnovamento di Israele (Mc. 4-8); sono battaglie nella lotta per la liberazione dal dominio romano», ancor più larisposta di Gesù alla domanda sul tributo a Cesare va letta come una presa di posizione critica nei confronti del potere imperiale. Gesù parla infatti delle "cose di Dio". E «poiché secondo la comprensione israelitica tutte le cose appartengono a Dio, con ciò egli dice indirettamente che gli uomini non devono all'imperatore nessun tributo, poiché Dio è il loro unico ed esclusivo re» (pp. 90-1). 2.1. G. )ossa, I cristiani e l'impero romano. Da Tiberio a Marco Aurelio, Roma 2.000, p. 2.6: «Qual è in definitiva il senso della risposta? Detto molto semplicemente, è il rifiuto della teocrazia». Gesù da un lato «desacralizza, secolarizza il potere imperiale, gli toglie il suo contenuto religioso. Pagare il tributo è un atto di lealismo, non un atto di idolatria.[ ... ] Ciò che si dà all'imperatore è il denaro, non il culto». Dall'altro «depoliticizza, spiritualizza l'idea della regalità di Dio e rompe quindi con l'idea giudaica della libertà di Israele. [... ] La liberazione politica dal dominio straniero non è più condizione necessaria all'avvento del regno». Effetto certamente sì, ma non condizione di questo avvento. 2.2.. Purché naturalmente si riconosca che avvento del regno di Dio e instaurazione della teocrazia non sono necessariamente la stessa cosa. E che la novità di Gesù è che egli ne afferma appunto la distinzione. A proposito del termine regno di Dio scrive infatti B. J. Malina, Scienze sociali e ricerca sul Gesu storico, in W. Stegemann, B. J. Malina, G. Theissen (a cura di), Il nuovo Gesu storico, Brescia 2.006, p. 2.3: «Questa espressione rientrava nella categoria della politica, più specificamente della religione politica. In parole più astratte, il regno dei cieli era una forma di teocrazia. Il ravvedimento richiesto per avere parte al regno venturo consisteva nel riordinare la propria vita così da poter vivere nel nuovo ordine politico». È una osservazione che ricorre spesso tra gli studiosi e non le voglio negare un reale fondamento. Se però, come

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Malina riconosce, regno di Dio e teocrazia sono categorie "astratte", non si può non chiedersi ulteriormente quale fosse "concretamente" l'idea che aveva Gesù della loro realizzazione. E se egli restasse in definitiva del tutto dentro le categorie tradizionali. 2.3. La letteratura su questo difficile logion è naturalmente assai cospicua. E le opinioni sulla collocazione e il valore del testo di Q e sull'autenticità gesuana del detto sono molto diverse. Gli articoli più esaurienti sono quelli diJ. Dupont, le logion des douze trones (Mt r9,28; le 22,28-30), in Id., Études sur les Évangiles synoptiques 2., Leuven 1985, pp. 706-43 (il detto va attribuito a Gesù, si riferisce al giudizio escatologico su Israele e il suo contesto originario è la missione dei discepoli); e J. Verheyden, The Conclusion ofQ: Eschatology in Q 22,28-30, in A. Lindemann (ed.), The Sayings Source Q and the Historical Jesus, Leuven 2.001, pp. 695-718 ( il detto costituiva l'ultimo logion della fonte Q ed esprime sia la delusione per la mancata conversione di Israele sia la promessa di ricompensa per i discepoli; ma non è attribuibile a Gesù). Ma le opinioni di R. A. Horsley, E. P. Sanders e D. C. Allison citate alla nota 37, che vedono nel detto un'affermazione autentica di Gesù sul futuro terreno di Israele, sono per me più convincenti. 2.4. Cfr. per esempio Enoch Etiopico 108,12.: «E farò uscire nella luce splendente coloro che amino il mio nome santo e li porrò ciascuno sul trono della gloria». Con riferimento a Salmi di Salomone 17,2.6, che a proposito del Messia afferma: «E raccoglierà un popolo santo, che governerà con giustizia, e giudicherà le tribù del popolo santificato dal Signore suo Dio», Theissen, Il Gesu storico, cit., pp. 2.71-2. (e p. 655), sostiene anzi che «ai discepoli viene promessa qui l'autorità messianica. Essi dovranno formare un gruppo messianico. Il messianismo tradizionale è trasformato da Gesù in un messianismo di gruppo». 2.5. Cfr. in particolare P. Vielhauer, Gottesreich und Menschensohn in der Verkundigung]esu, in Id., Aujsdtze zum Neuen Testament, Miinchen 1965, pp. 68-71. 2.6. Sanders, Gesu e il giudaismo, cit., pp. 83-157. 2.7. rQRegola della Guerra (1QM) 17,5-8: «Questo è il giorno fissato per umiliare e abbattere il principe del dominio del male. Ha inviato aiuto eterno alla parte redenta con la forza del potente angelo, al comando di Michele in eterna luce. Farà brillare di gioia il patto di Israele, pace e benedizione alla parte di Dio. Innalzerà sugli angeli il comando di Michele e il dominio d'Israele su ogni essere vivente. La giustizia si rallegrerà in alto, e tutti i figli della tua verità gioiranno nella conoscenza eterna»; uQMelchisedek (11Q13) 2.,9-15: «Questo è l'anno di grazia per Melchisedek, per esaltare nel processo i santi di Dio per il dominio del giudizio [... ]. E Melchisedek eseguirà la vendetta dei giudizi di Dio in quel giorno ed essi saranno salvati dal potere di Belial e dal potere di tutti gli spiriti della sua parte. In suo aiuto ci saranno tutti gli angeli di giustizia: è lui che in questo giorno sarà al di sopra di tutti i figli di Dio e presiederà questa assemblea» (trad. di C. Marrone). Cfr. anche Testamento di Dan 5,1011.13: «Sorgerà per voi dalla tribù di Levi la salvezza del Signore. Sarà lui stesso infatti che farà guerra a Beliar, farà vendetta eterna dei vostri nemici. Libererà i prigionieri dalle mani di Beliar, rivolgerà i cuori infedeli verso il Signore; darà a coloro che lo in-

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vocano la pace eterna[ ... ]. Mai più Gerusalemme subirà devastazione, né Israele sarà condotto in schiavitù, perché il Signore starà in mezzo ad essa» (trad. di P. Sacchi). 2.8. Ed è perciò veramente sorprendente come in autori che attribuiscono a Gesù I' intenzione di una restaurazione di Israele (o ne discutono a lungo l'atteggiamento nei confronti della legge) l'episodio fondamentale del tributo a Cesare (Mc. 12.,13-17 ), che pure quasi tutti (per la risposta di Gesù anche iljesus Seminar!) ritengono autentico, non giochi più alcun ruolo, rivelando così la scarsa sensibilità politico-sociale di quegli studiosi. Nel libro di Sanders su Gesù e il giudaismo l'episodio del tributo non viene addirittura preso in considerazione. E nelle oltre trecento pagine dedicate da Meier al tema del regno (come nelle oltre seicento dedicate al tema della legge) neppure un rigo, se ho visto bene, è dedicato al commento dell'episodio. Ma era possibile per Gesù volere la restaurazione di Israele (con la pretesa di esserne il re) senza prendere posizione sul problema del dominio dei Romani? Ancora più singolare è tuttavia questa assenza in un autore come W. Stegemann, che si pronuncia decisamente per una interpretazione politica dell'azione e predicazione di Gesù, definita come un progetto di trasformazione delle strutture sociali nel quale Gesù avrebbe avuto il ruolo regale del Figlio di David. In tutto il libro di Stegemann su Gesù e il suo tempo ci sono infatti soltanto poche righe su Mc. 12.,13-17. E in queste poche righe l'autore da un lato esprime (giustamente) dubbi sulle ipotesi di Horsley citate sopra, dall'altro si limita però ad affermare, avvertendo evidentemente che la sua interpretazione politica della predicazione di Gesù si scontra qui con un grosso ostacolo, che la risposta di Gesù potrebbe essere vista semplicemente come « una strategia che mira a evitare il confronto diretto sul problema del pagamento del tributo a Roma»: Gesu e il suo tempo, Brescia 2.011, p. 395. Un progetto dunque di trasformazione delle strutture sociali, quello di Gesù, dal quale è però del tutto assente il problema del dominio dei Romani. 2.9. Così infatti lo definisce in pagine documentate e ancora oggi efficaci D. S. Russell, L'apocalittica giudaica (200 a.C. - IOO d.C.), Brescia 1991, pp. 2.57-371, che giustamente però insiste sulla necessità di non contrapporre troppo nettamente la speranza dei profeti di carattere nazionale e l'escatologia apocalittica a carattere universale, «perché anche negli scritti apocalittici permane l'attesa di un regno futuro dello stesso tipo di quello dell'Antico Testamento» (p. 333). Ed è questa attesa nazionale che non si ritrova invece nel messaggio di Gesù. 30. A. Schweitzer, Storia della ricerca sulla vita di Gesu, Brescia 1986, pp. 408-9: «Il suo annuncio del complesso tradizionale di speranze nel futuro presenta pressappoco tutte quelle che possono concordare con la concezione fondamentale. Non menziona invece le concezioni inscindibilmente connesse con l'idea profetica del regno messianico come, ad esempio, il rimpatrio dell'Israele disperso e l'elevazione di Gerusalemme a capitale santa del signore universale. Gesù non nomina mai la riunione dei dispersi». 31. Sanders, Gesu e il giudaismo, cit., p. 2.90: «Il materiale dei detti, considerato nel suo insieme, non è ciò che ci si potrebbe attendere da un profeta della restaurazione giudaica. Non è incentrato sulla nazione di Israele.[ ... ] Non c'è materiale di insegna-

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mento sulle dodici tribù radunate [... ) e nel materiale che si può ragionevolmente considerare autentico non c'è predizione di un giudizio generale in termini di gruppi [... ). Il materiale dei detti è di tono marcatamente individuale». 32. Era questa, come è noto, l'interpretazione dominante, e sicuramente unilaterale, della predicazione di Gesù di R. Bultmann e della nuova ricerca. Cfr. per esempio R. Bultmann, Teologia del Nuovo Testamento, Brescia 1985, pp. 33-4: «La sua predicazione non si rivolge in primo luogo, come invece quella dei profeti, al popolo nel suo insieme, ma ai singoli. Il giudizio non riguarderà i popoli, ma gli individui, che dovranno rendere conto a Dio; e la salvezza futura costituirà la felicità dei singoli»; un'affermazione che A. Vogtle, Il singolo e la comunità nello sviluppo graduale della rivelazione di Cristo, in J. Daniélou, H. Vorgrimler (a cura di), Sentire Ecclesiam. La coscienza della Chiesa come forza plasmatrice della pietà, voi. I, Roma 1964, p. 144, cita e approva pienamente. Ma l'interpretazione disconosce troppo il carattere sociale della predicazione di Gesù. 33. Come si esprime invece Sanders, Gesù e il giudaismo, cit., p. 304: nella restaurazione escatologica di Israele Gesù avrebbe svolto le funzioni di una specie di viceré, con i discepoli come suoi ministri. E del governo romano (e più in genere dei pagani) che ne sarebbe stato? 34. Come scrive A. Vogtle, in quella che è una delle migliori presentazioni sintetiche della figura storica di Gesù: «A differenza di quei profeti escatologici che promettono di rinnovare i miracoli dell'esodo, Gesù respinge la richiesta di un segno miracoloso (Mc. 8,11-13 par.). Egli non pensava di riunire incorno a sé - com'era nello stile di tali capi e profeti - una massa di popolo entusiasta, conducendola ad un'azione escatologica.[ ... ) Gesù chiamò al suo seguito dei singoli»: A. Vogtle, Gesù di Nazareth, in R. Kottje, B. Moeller (a cura di), Storia ecumenica della Chiesa 1, Brescia 1980, pp. 26-7. 35. Era questa infatti, negli anni sessanta del secolo scorso, l'opinione categorica di uno degli esegeti cattolici più rappresentativi: R. Schnackenburg, Signoria e regno di Dio. Uno studio di teologia biblica, Bologna 1971, pp. 92-3: «La salvezza promessa e annunciata da Gesù con la signoria di Dio è una realtà puramente religiosa. L'elemento terrestre-nazionale e politico-religioso Gesù lo ha completamente escluso dalla idea della basi/eia e con ciò ha contraddetto l'attesa generale del popolo giudeo di uno splendido regno messianico di Israele. La dura battaglia di Gesù contro queste concezioni profondamente radicate si rispecchia chiaramente nei vangeli». Ed è questa ancora oggi la convinzione decisa della maggior parte degli esegeti credenti. Così per esempio, a proposito di Le. 13,28-29/ Mt. 8,11-12, inceso come ripresa da parte di Gesù dell'antica rappresentazione del pellegrinaggio escatologico delle nazioni a Sion, afferma J. Schlosser, Le regne de Dieu dans !es dits de jésus, Paris 1980, p. 641: «Gesù ha concepito la salvezza del regno nel suo stato pienamente compiuto come una realtà propriamente trascendente, che deriva da un modo di esistenza del tutto diverso da quello di questo mondo e di questa storia». E così si esprime anche Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico 2, cit., p. 404: «Stando a Mt. 8,11-12 e par., il Gesù storico attendeva veramente un avvento futuro del regno di Dio e quel

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regno doveva essere in un cerco senso trascendente»; p. 465: «Questa salvezza futura e trascendente era una parte essenziale della proclamazione di Gesù del regno. Qualsiasi ricostruzione del Gesù storico che non renda piena giustizia a questo fu curo escatologico deve essere rigettata come decisamente inadeguata». 36. L'aggiunta «del mondo» nella traduzione è solcanco una interpretazione. 37. È quello che con le sue abituali forzature (intendendo per esempio "giudicare" nel senso di "fare giustizia per" Israele) sostiene R. A. Horsley,jesus and the Spirai oJ Violence. Popular jewish Resistance in Roman Palestine, San Francisco 1987, pp. 2.01-7, nella sua ipotesi di un Gesù che combatte in maniera pacifica contro il dominio romano per il rinnovamento di Israele e l'instaurazione di una società a carattere egualitario. Ma in maniera meno radicale e più convincente è quello che, nella loro concezione di un Gesù che sogna la restaurazione escatologica di Israele e condivide le speranze millenaristiche della tradizione apocalittica, ritengono anche Sanders, Gesu e il giudaismo, cic., pp. 132.-41, e D. C. Allison,jesus o/Nazareth Millenarian Prophet, Minneapolis 1998, pp. 142.-3. Theissen, Il Gesu storico, cic., pp. 2.71-2., 655, lo definisce «messianismo di gruppo».

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Gesù compie "opere straordinarie" 1. Devo dire però che col passare del tempo sono meno sicuro dell'attribuzione a Giuseppe dell'affermazione relativa ai miracoli di Gesù. La frase «Fu infatti artefice (1torrrniç) di opere straordinarie», olcre ad adoperare un termine (1t01T]TTJ

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