Teatro e spettacolo nel Medioevo


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Biblioteca Unillersale

Luigi Allegri

eatro e s ettaco o nel Medioevo



Editori Laterza

Biblioteca Universale Laterza 242

TEATRO E SPETTACOLO

a cura di Franca Angelini

Teatro e spettacolo nel Medioevo di Luigi Allegri

Teatro e spettacolo nel Rinascimento di Giovanni Attolini

Teatro e spettacolo nel Seicento di Silvia Carandini

Teatro e spettacolo nel Settecento di Roberto Tessari

Teatro e spettacolo nel primo Ottocento di Claudio Meldolesi e Ferdinando Taviani

Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento di Roberto Alonge

Teatro e spettacolo nel primo Novecento di Franca Angelini

Teatro e spettacolo nel secondo Novecento di Paolo Puppa

Teatro e spettacolo fra Oriente e Occidente di Nicola Savarese

Luigi Allegri

Teatro e spettacolo nel Medioevo

Editori Laterza

© 1988, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 1988 Undicesima edizione 2011 www.laterza.it

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel febbraio 2011 Martano editrice srl - Lecce (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-3222-9

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Inizia con questo volume dedicato al Medioevo la serie « Teatro e spettacolo» della Biblioteca Universale Laterza, intesa a colmare una lacuna evidente negli attuali studi teatrali. Se infatti non scarseggiano le ricerche intorno alla drammaturgia, alla scrittura per il teatro o a singoli settori dello spettacolo, a gruppi o personaggi, mancano invece le opere storiche dedicate allo spettacolo nel suo complesso, alle singole discipline che lo compongono (scenografia, danza, generi popolari, attori ecc.) e alle loro interferenze nel quadro più vasto dei rapporti tra teatro e società, scena e pubblico. La serie «Teatro e spettacolo» prevede un volume per ogni secolo a partire dal Medioevo, salvo il XIX e il XX che avranno ognuno due tomi e inoltre un volume sui rapporti tra teatri orientali e teatri occidentali. I nove volumi complessivi presenteranno una relativa autonomia gli uni dagli altri, dettata dalle personalità degli autori (L. Allegri, R. Alonge, F. Angelini, G. Attolini, S. Carandini, F. C. Greco, C. Meldolesi, P. Puppa, N. Savarese, F. T aviani), dai caratteri del secolo e dal tipo di argomenti prescelti. Perciò i volumi non usciranno in ordine cronologico, non avranno rimandi interni né obbligheranno alla lettura dell'intera serie. Comune sarà invece l'ottica prescelta, prevalentemente italiana ma inserita, com' è indispensabile, in una rete di rapporti specialmente con quei teatri europei che hanno più decisamente influenzato il nostro, o ne sono stati influenzati. Franca Angelini

PREMESSA

Un volume sul teatro nel Medioevo o rinuncia ad esistere o cambia lo statuto del proprio oggetto. Se teatro è quella lstltuzione che fa parte della cultura moderna - moderna, appunto - , allora nel Medioevo quasi non c'è. Ma d'altra parte gli antropologi ci con· fortano sostenendo che non esiste cultura che sia priva di qual. che forma di teatralità; dunque a maggior ragione essa deve potersi trovare in un periodo di una civiltà come quella occidentale, che, prima e dopo, ha elaborato idee di teatro molto forti. La strada non può essere allora che quella di cercare la teatralità o anche la spettacolarità fuori dal teatro. Il Medioevo perde per molto tempo la memoria dell'idea di teatro codificata nell'antichità, e impiega secoli e processi lunghissimi ad elaborarne e soprattutto ad imporne di nuove, ma nel frattempo utilizza elementi isolati tra quelli la cui costellazione costituisce il teatro, a mantenere in vita appunto la funzione antropologica della teatralità. Questi elementi potranno essere un patrimonio di abilità tecniche e in generale la conservazione del meccanismo istituzionale di costruire una performance da offrire come prodotto ad un pubblico di spettatori: ed è la teatralità dei mimi, degli istrioni e dei giullari. Oppure il collocarsi in differenti contesti della caratteristica di base dell'atto teatrale, il suo essere cioè azione altra, non produttiva rispetto all'economicità delle azioni quotidiane, azione - come m'è capitato di definirla - intransitiva: ed è la teatralità diffusa nella festa. L'altra direttrice di ricerca possibile è quella di interrogare non tanto la categoria del teatrale quanto quella dello spettacolare. E non per quella continua spettacolarizzazione della vita quotidiana che viene spesso riconosciuta all'universo medievale, quanto per un IX

aspetto pm tecnico, dello spettacolo come costruzione di sistemi di azioni che consapevolmente impiantano un meccanismo di comunicazione, istituendo il gruppo di riferimento cui si rivolgono come insieme di spettatori e dunque come destinatario del messaggio. Pur senza istituire una contrapposizione tra classi di oggetti - che non esiste nella realtà - ma mantenendo una opposizione modellizzante, se questo strutturare l'azione in funzione di chi osserva è tratto decisivo a definire la spettacolarità, non altrettanto lo è per qualificare la teatralità, attività che gioca sulla profondità e non sulla superficie, che lavora sui meccanismi interni e al limite può anche fare a meno degli spettatori, esaurendo la propria funzione nel coinvolgimento esistenziale di chi partecipa. Ora, già si è detto, è soprattutto in questa dimensione spettacolare che si risolve il patrimonio di teatralità conservato e gestito dai giullari. Ma è soprattutto l'altro teatro medievale, quello religioso, che va visto, credo, in questa ottica. Soprattutto nel primo capitolo della terza parte, ho cercato di dimostrare come la stessa nozione di teatro religioso o addirittura liturgico costituisca una evidente contraddizione in termini, vista la violenta campagna ideologica che la cultura cristiana aveva intrapreso da. secoli contro il teatro, lo spettacolo e tutto quanto è loro contiguo. Ma ciononostante, il paradosso si è verificato e quel teatro esiste. La conseguenza che mi pare di poter trarre, e qui semplifico notevolmente, è che l'istituzione ecclesiale, pressata da necessità contingenti, abbia reinventato uno spettacolo apparentabile al teatro sostanzialmente senza accorgersene, o meglio senza rendersi conto della parentela stretta tra le sue cerimonie spettacolarizzate e i meccanismi che istituiscono quello spettacolo teatrale che ha costituito un bersaglio privilegiato per gli attacchi di teologi e moralisti, ma dei termini effettivi del quale si è ormai persa la memoria. In questo quadro, alla Chiesa non interessa affatto il lavoro simbolico, formale, tecnico o antropologico che produce teatro - situazione che al massimo può individuarsi, in nuce, nei primi esperimenti di cerimonie drammatizzate dei monasteri benedettini, che infatti sono senza pubblico - , quanto il meccanismo che istituisce quelle cerimonie come prodotto da offrire al pubblico dei fedeli nel contesto di una più generale attività educatrice, dunque come spettacolo. Questa grande ma pure ambigua operazione culturale porta anche a forme teatrali, sia chiaro, ma mi pare che l'aspet-

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to di gran lunga prevalente della sua funzionalità sociale ed ideologica sia appunto quello spettacolare, in molti casi saltando addirittura il termine mediano del processo che si può indicare nel modello cerimonia-dramma-spettacolo. Queste le direttrici della ricerca. Ma anche la struttura del volume ha bisogno di qualche chiarimento. Per necessità espositive, si è dovuta costruire una griglia che da un lato desse conto di una sia pur grossolana periodizzazione - si rammenti che quel periodo che denominiamo sbrigativamente Medioevo racchiude un millennio di storia, non sempre cosÌ immobile come quelle banalizzazioni scolastiche che vanno ormai scomparendo ci hanno insegnato - e dall'altro dividesse la materia per filoni quasi fossero compartimenti incomunicanti. Mentre invece, se nella cultura e nella vita in generale simili partizioni stagne non esistono, ancor meno esse sono giustificabili nella cultura e nella vita medievali, di una epoca cioè che non conosce distinzioni di generi e che mescola istituzionalmente forme, pratiche e attività appartenenti ai più diversi contesti. Per quanto è stato possibile, ho cercato nel corso della trat. tazione di riannodare qualcuno di questi fili che la partizione programmatica mi obbligava a tenere separati: per tutti gli altri casi, chiedo al lettore lo sforzo di riunire a posteriori ciò che gli è stato esposto separatamente. Le quattro parti intendono costruire, sin dai titoli, un sistema, che affronti la teatralità medievale insieme nel suo percorso cronologico e nei meccanismi ideologici e sociali che l'hanno determinata. Dalla dissoluzione dell'istituzione teatrale del mondo classico e della stessa idea di teatro alle pratiche della teatralità diffusa, al percorso inverso, nel contesto sempre della teatralità laica, alla riconquista e alla ricostituzione del teatro in senso forte. Poi, il passaggio ideologicamente contraddittorio che porta la cultura cristiana dalla programmatica negazione del teatro all'invenzione di un nuovo teatro. E infine le sopravvivenze della forma drammatica e il recupero, prima parziale e deformato e poi sempre più corretto, nel contesto della cultura umanistica, dell'idea di teatro classica, che innesta il meccanismo che porterà alla concezione moderna del teatro. Diversamente da quanto avviene di solito, questo volume sbilancia la propria struttura a favore della prima parte del periodo, sfumando programmaticamente, in tutte le parti, quando giunge al tardo Medioevo. Ma il fatto è che proprio il tardo o tardissimo XI

Medioevo - non si dimentichi che fuori d'Italia le forme medie· vali continuano spesso per tutto il XVI secolo - è il periodo di gran lunga più indagato, e in una generale economia di studi restano molto più scoperti i secoli precedenti. Per lo stesso ordine di ragioni, alla fine del Medioevo ho ristretto l'analisi, che per i periodi precedenti ha programmaticamente un respiro europeo, quasi del tutto alla situazione italiana, perché Il ormai l'orizzonte europeo sarebbe risultato insopportabilmente vasto per l'economia del volume. L'impianto generale della serie in cui questo studio si inserisce, che è quello di dar conto della storia dello spettacolo teatrale e non della drammaturgia, ha poi naturalmente obbligato a lasciar molto sullo sfondo ogni considerazione sulla letteratura drammatica, se non in quanto essa può fornire strumenti per meglio comprendere i modi dello spettacolo. La medesima struttura seriale del contesto in cui il volume si colloca ha consigliato poi di lasciar fuori ogni discorso sulle influenze della teatralità medievale sulle epoche successive, perché pertinente volta a volta a chi si occuperà dei vari periodi. Solo un accenno tuttavia mi sia permesso, riguardo al recupero contemporaneo di quella teatralità, pur in un diverso contesto culturale, specie per quanto riguarda il mutato rapporto che lega il fruitore all'evento: dalla consuetudine e dal rispetto della tradizione al valore fondante, inverso, della novità. Quando, nella cultura del Novecento, crollano molte delle coordinate dell'istituzione teatrale post-rinascimentale, è quasi inevitabile che uno dei modelli alternativi cui teorici e operatori si rivolgono - assieme a quelli totalmente altri rispetto alla nostra cultura, come le esperienze non occidentali, o quelle popolari o comunque quelle escluse dalla linea dominante della tradizione teatrale europea - sia quello che esisteva prima del teatro moderno, e dunque quello medievale. È in questa maniera che le forme della teatralità medievale - dalla frammentarietà dello spazio che si oppone all'unitarietà della scena post-rinascimentale alla convenzionalità di una comunicazione che recupera l'artificialità istituzionale del teatro spesso tentativamente censurata dal teatro moderno, dalla tipologia giullaresca dell'affabulatore che si rivolge in prima persona al pubblico senza calarsi nella mediazione del personaggio ai vari tentativi di attenuare la alterità istituzionale tra attori e spettatori in favore di una dimensione più comunitaria dell'evento tornano ad abitare i modi del fare e del pensare teatro.

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La lista dei ringraziamenti è breve. L'elenco dei miei debiti è del tutto privato. Gli unici che mi preme rendere pubblici sono quelli verso Gabriella Ronchi, filologa romanza, e soprattutto verso Giovanni Torti, studioso di letteratura cristiana antica e di latino medievale, che mi è stato d'aiuto con indicazioni culturali e soprattutto rivedendo ed emendando non poche delle mie traduzioni latine: se imperfezioni o fraintendimenti sono rimasti, sono certamente in quei passi che la mia imprevidenza ha sottratto al suo controllo.

TEATRO E SPETTACOLO NEL MEDIOEVO

Parte prima

DAL TEATRO ALLA TEATRALITÀ

Capitolo primo

L'EREDITA ROMANA

Occorrerebbe forse prestare un'attenzione maggiore di quanto di solito non avvenga ad un fatto che invece mi pare di singolare rilevanza per la comprensione dello spettacolo dell'età ròmana, ossia alla irrimediabile asincronia tra la vicenda del teatro letterario e quella degli edifici teatrali 1. L'idea del teatro romano che la tradizione culturale ci ha consegnato e che ancora oggi frequentiamo, quella da cui si affacciano le figure grandi e venerate di Livio Andronico, di Plauto, di Terenzio, di Seneca, è un'idea di teatro già non più attuale, già morta, quando a Roma si cominciano a costruire gli edifici teatrali in pietra, non provvisori. Certo, il grande teatro di Pompeo costruito a Roma nel 55 a. C. non è stato il primo edificio stabile costruito in territorio romano, perché già in epoca precedente si trovano esempi di ibridazione tra la tipologia ellenistica e quella, per non pochi aspetti nuova, che si imporrà a Roma 2. Ma certo non è secondario che a Roma città l'edificio arrivi in quell'epoca, e dunque verso la fine dell'età letteraria del teatro. Questa asincronia, anche a non valerIa forzare, parrebbe dunque designare come una sorta di estraneità, o di non necessità almeno, del teatro - di quella idea di teatro - nel contesto della società romana. Senza voler con questo risollevare questioni qui non pertinenti, si può comunque sostenere che, fatte salve peculiarità che possono anche essere numerose e di non poco conto, la letteratura 1 Allegri, 1982, pp. 109-17. Per una generale panoramica sul teatro romano si veda almeno Beare, 1986. 2 Per un'analisi delle tipologie e dei passaggi si veda Bieber, 1961.

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teatrale romana è, nella sua impostazione e appunto nell'idea di teatro di cui si fa portatrice, di derivazione greca. E non è dunque un caso che il più tipicamente romano di quegli autori, quello che maggiormente ottenne successo presso il pubblico, sia stato Plauto, più di altri lontano dai modelli greci. Ma Plauto fu anche il meno letterario dei grandi autori romani, e meno letterario, in una tavola di opposizioni implicite o esplicite che incontreremo spesso, può significare anche più spettacolare. Questo per dire, molto succintamente e schematicamente, che probabilmente non fa parte delle coordinate culturali della civiltà romana un'idea di teatro alta, densa di valori e di qualità letterarie, analoga a quella greca classica. Anche del teatro, cioè, come di tante altre manifestazioni della cultura e della vita civile, Roma ha una concezione laica, intendendo con questa nozione non solo il distacco da quella dimensione religiosa da cui lo spettacolo teatrale aveva avuto origine e che la cultura greca non aveva mai abbandonato del tutto, ma anche un atteggiamento meno assoluto, meno totalizzante, e più attento invece ai concreti meccanismi di comunicazione spettacolare. Ed è appunto la concezione generale dello spettacolo che Roma e la cultura italica in genere formulano in modo radicalmente diverso da quella greca. Questo potrebbe spiegare, da un lato, la non necessarietà dell'idea di teatro di derivazione greca, alta e letteraria, e dall'altro, e di conseguenza, quella disomogeneità tra storia della letteratura teatrale e storia dell'architettura teatrale che è, come si diceva, carattere cosÌ vistoso seppur cosÌ spesso rimosso. Quando Roma comincia a costruire i suoi teatri, dotandoli poi anche di una valenza urbanistica rilevante, vi colloca non il teatro letterario che desta l'orgoglio e l'ammirazione dei colti di allora e di oggi, ma un diverso teatro, quello dei mimi e dei pantomimi sostanzialmente, che sempre di quei colti suscita il disprezzo e l'esecrazione. Certo, ai cultori della classicità potrà dispiacere che quei grandiosi teatri, tra l'altro architettonicamente assai meglio costruiti di quelli greci - con quella sontuosissima frons scaenae che effettivamente parrebbe suggerire un'idea di teatro alta e aristocratica - avessero in realtà espulso il teatro ad elevata densità letteraria per .ospitare un teatro, in quest'ottica, irrimediabilmente degradato. Il fatto è che l'edificio teatrale non è più, come per i greci, l'approdo necessario di un processo innescato da una teatralità a

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fortissimo radicamento antropologico, ma diviene solo monumento di orgoglio cittadino, strumento per l'ostentazione del prestigio e della ricchezza di una città 3. L'edificio romano, insomma, sembra entrare in scena - sulla scena urbanistica ma anche su quella della civiltà - molto più al seguito di esigenze di carattere sociale e politico che non come punto d'arrivo di un processo antropologico o culturale, come una necessità interna al teatro. Per questo si tratta molto di più di un edificio-monumento che di un edificio-funzione, e dunque può risultare comprensibile l'incongruenza appunto funzionale che porta una magnitudo architettonica e simbolica a farsi contenitore per una teatralità che è invece culturalmente a basso profilo. Ciò nonostante - ed è la ragione per cui conviene insistere sulla questione architettonica - anche l'edificio romano contiene, implicita nelle proprie strutture, un'idea di teatro precisa e specifica. Vediamo di leggerla in estrema sintesi, quest'idea di teatro, perché è con essa, o almeno con le sue estreme declinazioni, che sarà necessario confrontarsi per affrontare con consapevolezza la teatralità laica del Medioevo. L'edificio romano, pur derivando con tutta evidenza da quello greco, introduce innovazioni che ne mutano di non poco le caratteristiche fondanti 4. In realtà, mi pare di poter sostenere che il teatro romano, più che una filiazione diretta di quello greco, sia una ibridazione tra questo e l'odeon. Tra l'odeon e il teatro, in Grecia, non esisteva solo una differenza di scala, ma proprio soprattutto una differenza di funzione e di tipologia spaziale, che determinava una diversità di rapporto col pubblico. L'odeon, costruzione più piccola e coperta che di solito trovava posto di fianco al teatro, come ad esempio ad Atene nell'età di Pericle, serviva come sede di attività accademiche o di esecuzioni musicali. Dal punto di vista della relazione col pubblico, dunque, questo edificio non ha nulla della dimensione comunitaria che informa il teatro greco classico, con la gradinata avvolgente e l'orchestra circolare a costituire oltre che simbolicamente anche spazialmente un trait d'union tra attori e spettatori. Architettonicamente, infatti, la tipologia è del tutto differente, con Nicoll, 1971, p. 52. Si veda, a questo proposito, la tavola sinottica che Bieber, 1961, p. 189, utilizza per mostrare le differenze, che non di rado sono vere opposizioni, tra il teatro greco classico-ellenistico e quello romano. 3 4

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la gradinata semicircolare che si colloca frontalmente rispetto al palco, producendo una frattura spazi aIe e di situazione psicologica tra attore e spettatore ignota al teatro. Quel che avviene nell'odeon, infatti, musica o canto o orazione che sia, non è un rito, o comunque un evento antropologicamente assai carico che al rito è strettamente imparentato, è un fenomeno di comunicazione e non di coinvolgimento esistenziale, in cui il rapporto tra attore e pubblico è quello sostanzialmente passivizzante che intercorre tra emittente e destinatario della comunicazione. Quel che fa diverso lo spettacolo dell'odeon rispetto all'evento teatrale, pur nel medesimo contesto della civiltà greca, sta proprio nel suo essere senza residui gesto comunicativo. L'evento teatrale è un gesto che nasce religioso, rituale, e dunque fondamentalmente comunitario, e che via via diviene sempre meno esperienza esistenziale e sempre più fatto culturale e dunque comunicativo. Tuttavia esso mantiene almeno in parte le sue valenze originarie, e soprattutto la memoria di quella sua origine nelle strutture istituzionali che ha prodotto, tra cui appunto l'edificio, il quale esprime architettonicamente una funzione comunitaria anche quando questa funzione è quasi scomparsa dall'evento teatrale. Lo spettacolo da odeon, invece, ha sin dall'inizio una funzione di intrattenimento o di didattica, e quindi si rapporta ad un pubblico che gli è altro e per il quale e in funzione del quale lo spettacolo si dà come tale nella sua artificialità. Non importa, qui, che i singoli atti che possono essere portati sul podio abbiano radici antropologiche ben più profonde e meno artificiali (e sto pensando alle figure del cantore o del musico): quel che è pertinente è pfoprio il metterli sul podio, il costituirli a spettacolo. Pur all'interno di una evidente similarità tipologica, dunque, l' odeon mostra una radicale differenza spaziale e funzionale rispetto al teatro, del quale non possiede la centralità dell'intento comunitario, per cui in esso il rapporto spaziale è tra due alterità, tra due elementi che si fronteggiano: il podio e la gradinata, la quale poi resta semicircolare (e comunque non più che semicircolare) forse anche per una sorta di contagio tipologico con la gradinata teatrale, ma soprattutto per motivi ottici ed acustici. Ecco, tutto questo vale, in buona sostanza, anche per il teatro romano. Non, sia chiaro, che il teatro romano si identifichi strutturalmente con l' odeon greco, perché anche la cultura romana cono-

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scerà le due tipologie: solo che le diversità tra questi due edifici sono molto meno accentuate rispetto ai loro corrispettivi greci. Anche il teatro, infatti, riduce i tre spazi dell'edificio greco (gradinata, orchestra, scena), col secondo che costituiva mediazione tra gli estremi, a due spazi affrontati e rispettivamente altri. La scaena è legata alla cavea tramite strutture murarie sotto cui passano i corridoi voltati (versurae) che sostituiscono le greche parodoi: l'orchestra, che diviene semicircolare, è così anche architettonicamente inglobata nello spazio del pubblico e serve solo come luogo privilegiato per spettatori eminenti. L'edificio teatrale romano, dunque, nel momento in cui la società ne sente la necessità istituzionale, nasce come sedimentazione architettonica di un'idea di teatro radicalmente diversa da quella greca ed anche da quella del teatro letterario romano che dei modelli greci era debitore. In questo quadro, allora, non risulta più una incongruenza il fatto che questo edificio non ospiti il teatro che guarda al modello greco e si offra invece come contenitore per eventi diversi, perché risulta chiaro che quegli eventi sono portatori di un'idea di teatro analoga. L'edificio teatrale, dunque, con la sua struttura già esplicitamente spettacolare nel suo consumare fino in fondo la frattura istituzionale e spazi aIe tra chi agisce e chi guarda, si rivela omogeneo alle forme teatrali che ospita e che, a quel punto della storia romana, sono anch'esse caratterizzate dalle stesse valenze di spettacolarità. Del resto, facendo riferimento a quella tavola di opposizioni cui si accennava, che metterebbe da una parte un'idea a forte teatralità e a debole spettacolarità, con eventi fasciati da una dimensione pararituale, antropologicamente carica e culturalmente e letterariamente alta (è il modello greco), e dall'altra un'idea a debole teatralità e a forte spettacolarità, con eventi liberati in una dimensione laica, con scarsa rappresentazione di valori e maggiore attenzione ai meccanismi della fabbricazione di un oggetto-prodotto da guardare senza com-partecipazione 5, tutto sembra concorrere a collocare la teatralità romana e soprattutto tardo-romana all'interno di questo secondo modello. In generale, anzi, mi pare che più o meno vicine a questo mo5 Altrove ho cercato di delineare teoricamente l'opposizione tra la nozione di teatro e quella di spettacolo: Allegri, 1985.

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dello siano tutte le forme di teatralità elaborate dalla cultura italica. Già le farse fliaciche dell' Italia meridionale, a partire dal VI secolo a. C., o i fescennini delle comunità rurali fiorenti prima dell'età classica, o le atellane dal IV secolo a. C., sono evidentemente forme portatrici di un'idea di teatro anti-letterario e basso, e in cui il vero fulcro spettacolare è costituito dall'attore. L'attore, in questi casi, non è se non secondariamente il portaparola dell'autore che in qualche modo lo anima e comunque ne predetermina l'azione - così come avviene nella tragedia greca classica o nel teatro letterario romano - ed è invece innanzi tutto una presenza corporea, raggrumata in tipologie comportamentali fisse come nelle atellane o ipertrofizzata negli attributi della corporeità bassa (la pancia, il fallo) come negli spettacoli dei fliaci. E si tratta di teatro non-letterario non solo perché buona parte dell'azione è demandata all'improvvisazione dell'attore, ma proprio perché è l'azione a fare lo spettacolo, a costruire, in mancanza di valori da rappresentare e da partecipare al pubblico, l'unica ragion d'essere dell'evento teatrale. Un evento dunque che si vuole sin dall'inizio fondamentalmente spettacolare, di intrattenimento ~ ed essenzialmente comico per giunta. Ma queste forme, che pure sono fondamentali per intendere l'idea di teatro che fermenta sotto la pelle della cultura romana letteraria e colta, non sono quelle che possono interessarci maggiormente in prospettiva medievale, perché non sono quelle che la disgregazione della civiltà romana disseminerà nell'alto Medioevo. Le forme che più ci riguardano sono infatti quelle che in epoca imperiale hanno quasi totalmente soppiantato il teatro letterario e hanno trovato posto stabile in quei sontuosi e spettacolari edifici teatrali di cui s'è detto. E si tratta, in sostanza, del mimo e del pantomimo. Insisterò ancora: in queste forme non è rilevante solo la rimozione della priorità letteraria dall'evento teatrale (rimozione della priorità e non rimozione in assoluto, perché anche il mimo prevede una base letteraria) e dunque la rinuncia all'espressione di quei valori di cui la parola letteraria si era fatta portatrice, ma lo è soprattutto la dimensione otticamente e psicologicamente spettacolare in cui l'evento colloca attori e pubblico. Gli spettatori convengono in un luogo funzionalmente costruito non per partecipare ad un evento-rito, non per interrogar si sui valori, non per trovare un momento comunitario che permetta loro di riconoscersi come comunità e dunque di cementarsi in quanto tale, ma per assistere,

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come singole persone irrelate alle altre, ad uno spettacolo a cui li lega solo una relazione visiva, in una situazione psicologica di passività comunicativa che la turbolenza delle reazioni (che sono appunto risposte su un altro piano, con un altro codice) non contraddice ed anzi rafforza. In questa idea di teatro come puro spettacolo, l'elemento portante della macchina comunicativa diviene di necessità l'attore. Ed è questo il fattore più rilevante, ma anche il più paradossale, della teatralità romana e soprattutto dell'eredità che questa lascerà al Medioevo. Dico paradossale perché si sa del discredito sociale che circondava l'attore romano, in specie quello che non si fa portaparola di un messaggio letterario. Ce ne dà una testimonianza indiretta e polemica anche Tertulliano, lo scrittore cristiano che più compiutamente di ogni altro si è battuto contro gli spettacoli e gli attori, rilevando la contraddizione della società romana, che mostra di apprezzare in massimo grado lo spettacolo ma nel contempo di disprezzarne l'interprete: Gli stessi padroni e amministratori degli spettacoli, contro gli aurighi di quadrighe, gli attori, gli atleti, i gladiatori (tutte persone idolatrate, alle quali gli uomini sottomettono lo spirito e le donne - o gli uomini stessi - il corpo, e per le quali si lasciano andare ad atti che in altri biasimano), contro costoro, nello stesso momento in cui li esaltano, hanno approvato leggi che li umiliano e li menomano, che anzi apertamente li bollano d'ignominia e li privano dei diritti civili, allontanandoli dalla Curia, dai rostri, dal Senato, dall'ordine equestre e da tutte le altre onorificenze e distinzioni. Quale incredibile contraddizione! Amano quelli che condannano, disprezzano quelli che applaudono; esaltano l'arte, bollano l'artista. 6 È necessario insistere su questo apparente paradosso, dell'attore che diviene il vero centro dell'evento e dell'organizzazione teatrale proprio quando la sua posizione sociale è maggiormente screditata. Da un lato perché è in quel momento che si formula quell'interdetto nei confronti della figura sociale dell'attore che dominerà, più o meno drammaticamente marcato, la storia del teatro fino all'età contemporanea. E dall'altro perché questo spostamento del centro 6 De Spectaculis, 22, 2-3; la traduzione è di Emanuele Castorina in Tertulliano, 1961, p. 420. Argomentazioni analoghe sono svolte anche da Agostino, De civ. Dei, 2, 11-13 e 2, 28.

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gravitazionale della macchina sociale dello spettacolo comporta una modificazione nella struttura generale di questa macchina. L'attore romano, cioè, e a maggior ragione l'attore tardo-romano, non ha più nulla di religioso, la sua dimensione non è più assolutamente né quella rituale né quella del comunitario. Tra l'altro, la sparizione del coro, già operata del resto quasi totalmente anche dal teatro letterario, fa dell'attore e del suo pubblico due entità totalmente irrelate. È perciò quasi necessario che, a differenza dell'attore e soprattutto del coro greci, che erano espressione della comunità, l'attore romano sia il più possibile altro anche dal punto di vista sociale, sia possibilmente uno schiavo o un liberto o al più un giovane civis dilettante su cui cade il discredito della società. Proprio per questo, perché si offre come oggetto di spettacolo e non come partecipante ad un evento, questo attore rompe definitivamente l'unitarietà dell'azione teatrale greca, distinguendo in funzioni specifiche e separate l'azione del cantar, dell'actor e dell'histrio, contraddistinte rispettivamente dall'uso del canto, della parola e dell'azione. Ma allora quella contraddizione cui si accennava è appunto solo apparente, perché è del tutto evidente che è proprio a causa della sua laicità che l'attore tardo-romano è al contempo una figura sociale degradata e il vero motore dell'azione spettacolare. Proprio perché - per così dire - la soglia di accesso al palcoscenico teatrale si abbassa, per essa passano soggetti sociali più bassi, che dunque non possono, culturalmente e socialmente, rappresentare null'altro che se stessi, rinunciando di conseguenza a farsi portatori di quei valori che invece la società greca riconosceva nei suoi attori. E nel contempo, quasi tautologicamente, l'unico elemento portante di una teatralità programma tic amen te così bassa, l'unico ingrediente possibile di spettacolo, è un soggetto che sia sul piano culturale e sociale ugualmente basso, ossia l'attore stesso. Di questo meccanismo, la riprova più convincente è forse in una innovazione eccezionalmente significativa, ossia nella presenza delle donne in scena, come testimonia il successo di alcune attrici in spettacoli di mimo. Nel teatro greco la presenza della donna era inconcepibile proprio per l'aura sacrale o comunque alta di cui era permeato l'evento, mentre nello spettacolo tardo-romano, culturalmente degradato, sociologicamente utilizzato per un divertimento spesso osceno, comunicativamente affidato prevalentemente alla corporeità dell'attore, anche la donna può salire su un palco che si è, simbolicamente, molto abbassato. 12

Questa accentuazione del lato spettacolare del teatro, che è tratto caratteristico della cultura romana e che sempre più si fa evidente a partire dall'epoca imperiale, è del resto perfettamente coerente con la parallela accentuazione della spettacolarità degli eventi agonistici. Sono del resto il circo, le battaglie dei gladiatori, le venationes, le naumachie, le corse dei carri, a costituire l'elemento quasi folkloristico ed assolutamente predominante dell'immagine dei divertimenti romani che anche la cultura moderna possiede, raffigurata ed iterata in tante narrazioni e in tanti film di ambientazione romana. E che il favorire questa spettacolarità sia stato soprattutto uno strumento di dominio, un ricercato espediente politico - il panem et circenses di Giovenale - , è divenuto anch'esso un luogo comune, pur non cessando di esser vero. Ma è anche indubitabile che questo fenomeno è stato possibile perché la categoria dello spettacolo e dello spettacolare appartiene alla cultura romana, e non apparteneva invece a quella greca. I circhi, le arene, gli ippodromi costituiscono quindi gli spazi spettacolari più caratteristici della civiltà romana. In questi grandi anfiteatri, che pure raggiungono la forma perfettamente chiusa se non del cerchio dell'ellissi, ogni intento comunitario è del tutto sparito. I settori per il pubblico sono rigidamente distinti e scalati per classi, e soprattutto il rapporto che lega gli spettatori allo spettacolo non è più un rapporto plurale, dell'intera comunità rispetto all'evento, ma è un rapporto singolare, di ogni spettatore nei confronti dello spettacolo. Ad onta della perfetta contiguità da ogni lato, la relazione spaziale tra l'arena e le gradinate è di totale estraneità, anche al di là dei diaframmi concreti che le separano. Chi si esibisce in quell'arena, sia esso schiavo, gladiatore, condannato, cristiano, sta sempre, spazialmente e socialmente, dall'altra parte, è un altro, un estraneo. Proprio queste, mi pare, sono le caratteristiche che lo spettacolo tardo-romano lascia in eredità alle epoche successive: la separazione non mediabile tra spazio dell'azione e spazio degli spettatori; la costituzione di questi ultimi in pubblico, in insieme disomogeneo che entra in contatto con lo spettacolo per un puro rapporto di fruizione; la conseguente consapevolezza della artificialità della rappresentazione, la consapevolezza cioè che ogni atto che si costituisce a spettacolo è sempre in funzione di chi vi assiste; l'emergere del problema, quindi, dei gusti e delle preferenze del pubblico, e perciò 13

della macchina sociale del teatro come produttrice di spettacoli e non come momento comunitario e aggregativo; la centralità della figura dell'attore in quanto soggetto di spettacolo; la scissione dell'unitarietà dell'attore nelle figure attorali specifiche di cantante, danzatore, dicitore, mimo. Per i nostalgici della dimensione aulica, letteraria e intrisa di valori assoluti del teatro classico, la situazione che appare verso la fine dell'età romana è sconfortante. Già gli scrittori della prima età imperiale, da Seneca a Marziale, come vedremo, avevano testimoniato del cambiamento di gusto del pubblico, dell'abbandono del teatro letterario a favore della spettacolarità brutale dei giochi o del teatro degradato del mimo. A seguire, giungono le violente e frontali polemiche dei teorici cristiani, a cominciare da Tertulliano. E si gettano così le basi per una gigantesca opera di censura culturale, di non registrazione alla memoria storica, se non per brevi cenni spregiativi, di una teatralità invece diffusissima e radicatissima nella civiltà tardo-romana. Queste forme anti-classiche e anti-culturali di teatro si vanno insomma inabissando nel rimosso della storia come un fiume carsico, coperte da una crosta che la cultura ufficiale stende loro sopra. Ma questa teatralità ridotta magari a schegge dalla disgregazione delle forme culturali che accompagna la fine dell'Impero romano non scompare mai del tutto, ed anzi per un lunghissimo periodo dell'alto Medioevo costituisce l'unico residuo di teatralità ad abitare le contrade europee. Queste forme di teatralità diffusa vengono non di rado rimosse o tenute a distanza, come eredità imbarazzanti, anche dalla cultura moderna, come accade in maniera esemplare ad Allardyce Nicoll nelle righe di chiusura del capitolo sui teatri romani: Quando cadde l'impero romano gli unici elementi teatrali o drammatici superstiti furono le ambigue rappresentazioni dei mimi, le ancora più ambigue esibizioni dei danzatori pantomimici, e le opere ampollose di poeti che scrivevano non per la rappresentazione ma per la lettura. 7 Ma sono proprio queste pratiche ambigue, ben più dell'obsoleto teatro classico, a fornire il filo di una continuità e a costituire il lascito veramente operante della cultura romana alla teatralità medievale. 7

Nicoll, 1971, p. 53.

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Capitolo secondo

LA CULTURA CRISTIANA CONTRO LO SPETTACOLO

Come si accennava nel capitolo precedente, appartiene gla ai valori della classicità romana la condanna morale e sociale dell'attore 1, pur accompagnata da forme macroscopiche di successo artistico e anche mondano. Ma in quello stesso contesto di discorso si sottolineava anche come la contraddizione sia solo apparente, perché la risoluzione tutta spettacolare dell'avvenimento e delle sue modalità non può che produrre da un lato un'opera di seduzione del pubblico e perciò il divismo, e dall'altro il contemporaneo abbassamento della soglia di accesso al palcoscenico, per cui divengono attori soggetti socialmente degradati e dunque non protetti dalla comunità. All'interno di questo discredito comune, tuttavia, esistono alcune differenze che è utile sottolineare. Una documentata analisi della storia semantica di actor e histrio 2, ad esempio, dimostra bene la differenza di connotazioni sociali tra i due termini e dunque tra le due figure: se actor possiede valenze più positive - o comunque meno negative - di histrio, la ragione sta nell'uso della voce, che avvicina l'actor all'orator, e che per contrasto dequalifica l'histrio, che ne è privo. Ma questa è solo una delle discriminanti che gerarchizzano le condizioni dell'attore. Un'altra è quella legata al professionismo, secondo la quale, pur ancora nel comune discredito, l'attività degli attori non professionisti sarà classi-

1 2

Si veda Lanza, 1983, pp. 127-39, con la bibliografia Zucchelli, 1964.

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n segnalata.

ficata tra gli humilia, e dunque con un'ostilità meno marcata rispetto all'attività dei professionisti, classificata tra gli infamia 3. Discredito morale e sociale dell'attore, dunque, e aggravanti particolari per chi fa di questa attività il proprio mestiere e per chi affida la comunicatività del proprio ruolo non alla parola ma al corpo, sono valori' del tutto espliciti nella cultura romana. Cosi come ben dentro all'alta cultura classica sono da ritrovare le radici della principale fonte di polemica degli scrittori cristiani, cioè lo spettacolo più che il teatro. Ci sono a questo proposito delle pagine molto note di Cicerone (Ep. ad fam., 7, 1) o di Seneca (Ep., 7, 2-5; 95, 33) sugli spettacoli delle fiere o dei gladiatori, che esprimono una condanna che, proprio per venire dal di dentro della cultura pagan~, ha come unico termine di giudizio una moralità che negli scrittori cristiani, come vedremo, è invece inquinata da altre considerazioni. È di Seneca la più umanamente lucida di queste analisi: In verità che cosa può esserci di più dannoso alla virtù che poltrire assistendo ad uno spettacolo; infatti allora i vizi, favoriti dal piacere che si prova, più facilmente si insinuano nell'animo. Mi comprendi, ritorno a casa non solo più avido di beni materiali, più ambizioso, più amante del lusso, ma anche più crudele e più inumano, perché ho frequentato la compagnia degli uomini. Per caso a mezzogiorno capitai nel Circo durante uno spettacolo ed attendevo con ansia i giuochi, le facezie dei buffoni, qualche sollievo che permettesse all'occhio, ormai stanco di vedere sangue umano, di riposarsi; ma avviene tutto il contrario. Tutti i combattimenti, svoltisi prima, furono miti; ora, tralasciate quelle cose da nulla, avvengono omicidi veri e propri: i gladiatori sono affatto indifesi; esposti ai colpi in tutte le parti del corpo non mai si scontrano invano. La maggior parte degli spettatori preferisce questo genere di lotta a quello proprio delle coppie ordinarie e straordinarie di gladiatori. E perché non dovrebbero preferirlo? La spada non è respinta né dall'elmo né dallo scudo. A che proteggersi? a che usare accorgimenti? non si farebbe che ritardare la morte. La mattina gli uomini sono gettati in preda ai leoni ed agli orsi, a mezzogiorno ai loro spettatori. Questi ordinano che chi prima ha ucciso si scontri con chi fra breve lo ucciderà e riservano il vincitore per un'altra uccisione; la conclusione è la morte dei combattenti: si procede col ferro e col fuoco. 4 3 Si veda a questo proposito Capizzi, 1983, che analizza tutti i riferimenti allo spettacolo e agli attori nella legislazione giustinianea. 4 Ep., 7, 2-4. La traduzione è di Umberto Boella in Seneca, 1969, pp. 54-57.

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Ma non è solo questo. Quel che traspare in non pochi punti degli scrittori classici romani, e che è più specifico al nostro discorso, è invece la denuncia preoccupata dello scivolamento anche dell'evento teatrale da fatto letterario a spettacolarità, col conseguente passaggio da una comunicazione che privilegia l'orecchio a una eminentemente visiva. È ancora Cicerone, ad esempio, a constatare (Ep. ad fam., 7, 1) il prevalere della messa in scena sulla qualità letteraria del testo, mentre Orazio nota polemicamente come il pubblico applauda solo il vestito, prima ancora che l'attore abbia parlato, ed esplicitamente commenta: «Vero è che, anche fra i nobili, il gusto è passato tutto dagli orecchi agli occhi, i quali vagano qua e là per mero passatempo » 5. È qui, in questo passaggio dello spettacolo teatrale da evento letterario che prima di tutto si ascolta a fenomeno la cui principale valenza comunicativa è affidata all'apparato scenico, e dunque indirizzata agli occhi - incertos oculos, dice l'originale latino di Orazio - , che avviene per la cultura classica la degradazione del teatro. Già all'epoca del primo impero il teatro si spettacolarizza totalmente e pone le sue cure maggiori alla grandiosità della messa in scena o alla ricerca di quella particolare forma di realismo - di cui ad esempio Marziale e Svetonio ci sono testimoni 6 - che con suo ricorso alla realtà vera è più vicino alla ricerca di effetti speciali a forte impatto spettacolare che a una dimensione di rappresentazione realistica come modernamente si intende. Ed è appunto allora che la cultura romana inventa una collocazione diversa del proprio teatro all'interno delle strutture sociali e delle gerarchie di valori, rendenEp., 2, 1. La traduzione è di Tito Colamarino in Orazio, 1969, pp. 512-13. Di Svetonio si vedano soprattutto le descrizioni degli spettacoli dell'epoca di Nerone (Ner., 11-12); la traduzione è di Felice Dessi in Svetonio, 1982, II, pp. 574-77: «Durante la rappresentazione della commedia togata di Afranio, L'incendio, gli attori ebbero il permesso di saccheggiare le suppellettili della casa che bruciava, e di tenersele. Tra i soggetti delle pirriche fu anche rappresentato il toro che monta Pasife - cosi interpretarono molti spettatori - nascosta in una vacca di legno; e Icaro che, al primo tentativo di volo, cadde accanto al suo [di Nerone] seggio e lo spruzzò di sangue ». Di Marziale si veda naturalmente l'intero Liber de spectaculis, e in specie 5, 1-2 (ancora una scena con l'episodio di Pasife) e 7, 1-6; la traduzione è di Giuseppe Norcio in Marziale, 1980, pp. 96-97: «Come Prometeo, legato alla rupe scitica, nutri col suo enorme petto l'uccello che gli piombava sopra continuamente, cosi Laureolo, appeso a una vera croce, offerse le sue nude carni a un orso della Caledonia. Le sue articolazioni erano ancora vive, mentre le membra stillavano sangue e in tutto il corpo nessuna parte' conservava il suo aspetto di corpo ». 5

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dolo non sostanzialmente dissimile dalle altre forme spettacolari da circo, già moralmente e culturalmente screditate. Occorre insistere, allora, sul fatto che quello che i moralisti cristiani si trovano davanti, quando dal finire del II secolo cominciano ad attaccarlo, è questo teatro, certo praticatissimo dalla gente ma già degradato dalla cultura classica. Lo spettacolo tardo-romano, sia esso di gladiatori o di prostitute-attrici che consumano reali atti sessuali nell'orchestra, che avvenga dunque negli anfiteatri, nelle palestre o nei teatri, è del tutto omogeneizzato dal principio fondante che prevede un evento che passa attraverso gli incerti ocuti e che chiede agli spettatori una partecipazione puramente emozionale, come da folla calcistica d'oggi, di cui parlano tra gli altri Agostino (Coni., 6, 8) o Lattanzio (Divin. Istit., 6, 20, 32). Non stupisce, quindi, che gli scrittori cristiani non facciano praticamente alcuna distinzione tra il teatro e gli altri spettacoli, accomunati in una condanna globale, che riguarda dunque lo spettacolo in quanto tale. Ma gli argomenti per la condanna non sono, come ci si potrebbe attendere, soprattutto quelli di natura morale che già abbiamo rintracciato presso alcuni scrittori pagani. Questo argomento è secondario: il primo e fondamentale è che lo spettacolo, qualsiasi spettacolo, per la sua forma e per le sue origini, è idolatria. Forse il primo a sostenere questo principio è Ireneo (Adv. Haer., 1, 1, 12), ma poi è soprattutto Tertulliano ad illustrarlo, con argomenti che si ritroveranno poi anche negli altri cristiani che si occuperanno di spettacoli, da Novaziano tradizionalmente conosciuto come Pseudo Cipriano (Spect., 4) a Lattanzio (Divin. Instit., 6, 20, 33 sgg.) a Salviano (Gubern. Dei, 6, 61). Affidiamoci dunque a Tertulliano, il cui De Spectaculis, della fine del II secolo, è il più completo trattato scritto sull'argomento e dal quale tra l'altro ricaviamo gran parte delle informazioni sullo spettacolo della Roma imperiale. Già nell'Apologeticum (38, 4), peraltro, Tertulliano aveva anticipato l'argomentazione, prima di fornire poi questa efficacissima sintesi delle ragioni contro gli spettacoli: «Niente abbiamo a che fare - né con la parola né con la vista né con l'udito - con l'insania del circo, con l'impudicizia del teatro, con l'atrocità dell'arena, con la vanità della palestra» 7.

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Apologeticum, 38, 4, in Tertulliano, 1965, p. 89.

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Gli spettacoli, dunque, per Tertulliano, sono idolatri soprattutto per la loro origine: Son reperibili molti autori che hanno pubblicato notizie sull'argomento. Da costoro si deduce che l'origine dei giuochi fu questa: Timeo informa che i Lidi, emigrando dall'Asia, si fermarono in Etruria, sotto la guida di Tirreno, che s'era piegato al fratello nella lotta per il regno. Così in Etruria, fra gli altri loro riti superstiziosi, istituirono anche spettacoli con valore cultuale. Da lì i Romani ricercarono gli attori e li presero in prestito, ciò che fecero anche col nome, per cui gli attori son chiamati' ludii ' proprio dai Lidi [ ... ]. Ma basta ormai con l'origine del vocabolo, ché all'origine del fatto sta sempre l'idolatria. Poiché, infatti, i 'ludi' si chiamavano indistintamente 'Liberalia', celebravano apertamente il culto di Libero padre, ché proprio in onore di Libero si celebravano originariamente da parte dei contadini, per la benemerenza che gli attribuiscono, d'aver fatto conoscere un bene come il vino. Vennero poi i 'ludi' chiamati 'Consualia', che originariamente si davano in onore di Nettuno. Questi, infatti, era chiamato anche Conso [ ... ].8 L'argomentazione, naturalmente iterata con insistenza lungo tutto

il trattato e poi anche dagli altri autori cristiani, è molto chiara: gli spettacoli sono nefasti, prioritariamente, non tanto in sé ma in quanto legati per origine e riferimenti continui dei luoghi e delle azioni che vi si svolgono 9 alle divinità pagane. Anzi, di queste divinità, i vari luoghi di spettacolo sono veri e propri templi, come con conClSlone sostiene Salviano, che riprende poi anche, rimescolando un po' gli elementi, la formulazione del Tertulliano dell'Apologeticum: E dunque si celebra e si onora Minerva nei ginnasi, Venere nei teatri, Nettuno nei circhi, Marte nelle arene, Mercurio nelle palestre; e dunque il culto delle superstizioni è conforme alla qualità dei loro istitutori. Ciò che è immondo si esercita nei teatri; ciò che è dissoluto, nelle palestre; ciò che è smodato, nei circhi; ciò che è sfrenato, nelle arene. IO È tra l'altro curioso - e sia detto di passaggio perché il nostro oggetto sono gli spettacoli e non l'idolatria quel cortocircuito

De Spectaculis, 5, 2 sgg., in Tertulliano, 1961, pp. 97-106 e 402-3. Si veda ad esempio Tertulliano (De Spect., 8, 1-7; 9, 1-6; 12, 1-7) quando dimostra come praticamente tutti i segni che intervengono negli spettacoli, dal colore delle casacche degli aurighi a ogni ornamento ed attrezzo del circo, abbiano un fondamento idolatra. IO Il testo latino è in De Gubernatione Dei, 6, 11, P.L., 53, col. 120. 8 9

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argomentativo con cui a volte gli scrittori crIstiani mettono in relazione reciproca spettacolo e dèi pagani. Gli spettacoli dunque sono disonesti principalmente perché attraverso essi si venerano gli dèi pagani, ma d'altro canto la disonestà degli spettacoli ad essi dedicati è addotta come prova della non credibilità di quegli stessi dèi. Argomentazioni simili si trovano ad esempio in Arnobio o in Agostino 11. Questo perché i cristiani sanno dalla tradizione e dalle Scritture che gli dèi pagani sono vane parvenze, idoli, dietro cui agiscono gli spiriti maligni. E nell'immoralità degli spettacoli trovano appunto conferma di ciò (cfr. anche San Paolo, I Corinti, lO, 20). Ma l'aspetto che maggiormente ci interessa qui è l'accostamento di Venere al teatro. Il dato non è un'invenzione polemica degli scrittori crIstiani ma una rilevazione oggettiva, e lo stesso Tertulliano ci ricorda il contesto religioso della nascita del teatro di Pompeo: Per l'impurità del luogo, il teatro è un autentico sacrario di Venereo In tal modo (per dirla in breve) questo genere d'istituzione l'ha fatta franca tra i pagani. Infatti i censori facevano spesso demolire i teatri nel momento in cui sorgevano, a tutela della moralità: naturalmente perché intuivano quel grande pericolo di corruzione [ ... ]. Per questo Pompeo Magno, inferiore solo alla grandezza del suo teatro, temendo prima o poi il biasimo censorio contro la sua memoria per aver costruito quella cittadella d'ogni sozzura, vi sovrappose un tempio di Venere e, chiamando con un editto il popolo per la consacrazione, lo proclamò non teatro ma tempio di Venere, «sotto il quale abbiamo posto - disse delle gradinate per gli spettacoli ». 12

Ciò che ci sembra qui degno di nota non è tanto la forzatura polemica quanto invece l'articolazione del discorso con cui Tertulliano fa interagire i due termini Venere e teatro. Posta la relazione - che come si diceva è oggettiva - , l'autore deduce la negatività dell'elemento teatro dalle mutate valenze dell'elemento Venere, che non 11 Arnobio, Adversus Nationes, 35-36, in Arnobio, 1955, pp. 242-44. Ma si veda soprattutto Agostino, De civitate Dei, 2, 4; la traduzione è di Domenico Gentili in Agostino, 1978, pp. 100-1: «Non si capisce dunque di che razza siano gli spiriti che si dilettano di tali oscenità? A meno che si ignori l'esistenza di spiriti immondi i quali ingannano col titolo di dèi o si conduca una vita, in cui si desiderano propizi o si temono irati loro anziché il vero Dio ». 12 De Spect., lO, 3 sgg., ed. cit., pp. 220-25 e 408.

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è più evidentemente la Venus Victrix di Pompeo e che ora diviene connotato re negativo, in quanto sinonimo di libidine e di sfrenatezza sessuale. È proprio in questo contesto di discorso che affiora allora il dato di maggior interesse di questa polemica cristiana contro il teatro, cioè prioritariamente il rifiuto della corporeità e della spettacolarità. Poco sotto infatti Tertulliano scrive esplicitamente: È evidente l'influenza di Venere e Libero anche sulle arti sceniche. Ciò che appartiene tipicamente alla scena, ciò che si riferisce al gesto o alla flessione del corpo, consacra la dissolutezza a Venere e Libero: rammolliti l'una dal sesso, l'altro dal vino. Ciò, poi, che si compie con la voce, col ritmo, con gli strumenti musicali e con la scrittura, ha come aggiudicatari gli Apolli, le Muse, le Minerve e i Mercurii. 13

La seconda parte del brano riconduce Tertulliano all'interno del consueto discorso sull'idolatria, ma la prima parte, con quel riconoscere che il gesto e il corpo privata et propria sunt scaenae - come scrive l'originale latino - , individua il bersaglio vero della polemica. Nessun residuo di dignità culturale è dunque concesso al teatro, nulla vi si riconosce che lo elevi dall'essere puro divertimento, semplice voluttà degli occhi. È questa concezione del teatro che percorre tutto il trattato di Tertulliano. Così, ad esempio, gli spettacoli sono «così esigui conforti esteriori degli occhi e delle orecchie » e perciò « gli occhi e le orecchie, teniamo lontani dalle attrattive idolatre, siano consacrate ad idoli, siano consacrate a defunti» 14. Che sia l'aspetto visivo, e dunque la spettacolarità accattivante, a costituire il bersaglio principale, è del resto evidente, come si diceva, dall'assoluta equiparazione dell'evento teatrale alle altre forme di spettacolarità, come i combattimenti dei gladiatori o le corse dei cavalli. Non sembra esserci distinzione, né in Tertulliano né - se non con rare eccezioni, come Agostino - negli autori posteriori, trlJ. il teatro e gli altri spettacoli, perché ciò che conta è sì la natura di ciò che avviene sulla scena, ma è soprattutto la qualità del rapporto che si instaura tra spettacolo e spettatore. Abbastanza raramente, ad esempio, o almeno più raramente di quanto ci si aspetterebbe, si incontra negli scrittori cristiani la condanna della drammaturgia pagana. Questa condanna c'è esplicitamente in Tertulliano, 13 14

Ivi, lO, 8-9, pp. 228-32 e 409. Ivi, 1, 3 e 13, 5, pp. 11, 267, 397, 412.

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ma si tratta di un unico accenno in tutto il trattato, ed appare per di più del tutto acontestuale, come aggiunto per completezza: Se noi disprezziamo i principi della letteratura pagana in quanto frutto di stoltezza agli occhi di Dio, altrettanto ci s'impone per quanto riguarda quelle forme di spettacolo che nella letteratura pagana costituiscono - ben distinte - la commedia e la tragedia. Che se le tragedie e le commedie sono esempi cruenti e lascivi, empi e sregolati, di delitti e libidini, nessuna esaltazione di fatto atroce o volgare è migliore del fatto stesso: ciò che si rigetta nelle azioni, non può accogliersi neanche nelle parole 15. Richiamiamo poi i passi di Arnobio e di Agostino citati alla nota Il, in cui la condanna dei contenuti della drammaturgia era giocata nella polemica contro gli dèi pagani. Ma consideriamo soprattutto un passo di Lattanzio, che dimostra come in questi autori non sia assolutamente chiara la differenza tra drammaturgia e spettacolo, tra la disonestà del contenuto delle fabulae scritte dal drammaturgo e la oscenità corrente sulle scene del tardo impero ad opera di mimi ed istrioni: Non so se sulle scene la corruzione non sia ancora più turpe [che nel circo]; infatti le favole comiche parlano di corruzione di vergini o di amori di meretrici; e quanto più sono eloquenti coloro che hanno inventato queste infamità, tanto più l'eleganza delle parole persuade, e più facilmente i versi belli ed armoniosi entrano nella memoria di chi ascolta. Parimenti le storie tragiche mettono sotto gli occhi parricidi e incesti di re cattivi, e mostrano tragiche scelleratezze. Anche gli impudentissimi gesti degli istrioni, cosa altro se non libidini, insegnano e stimolano? i loro effeminati corpi, rammolliti in abiti e comportamenti femminili, simulano femmine impudiche con gesti disonesti. Che dirò dei mimi, che fanno bella mostra dell'insegnamento della corruzione? che mostrano adulteri, e, mentre fingono, inducono alle azioni vere? Che cosa faranno mai i giovani e le vergini, quando vedono che queste cose si possono sia fare spudoratamente che vedere piacevolmente da tutti? 16 Certo, a noi oggi pare evidente che l'accanimento nei confronti dello spettacolo più che della parola, e dunque il violento disprezzo 15 16

Ivi, 17, 6-7, pp. 299-302 e 416. Il testo latino è in Divinae Institutiones, 6, 20, P.L., 6, colI. 710-11.

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per gli istrioni che della parola sono privati, si spiega anche con l'avversione inevitabile della cultura cristiana a pratiche difficilmente riconducibili a discorso, a logos. Ma sono considerazioni, queste, che non trovano esplicitamente posto in questi scrittori. Il fatto è che per loro l'accusa di idolatria è già sufficiente, e ogni altra considerazione è aggiunta quasi per uno scrupolo di completezza, ex abundanti come scrive Tertulliano (14, 1). Per questo, ad esempio, sono infrequenti quelle pagine di sgomenta lucidità sulla crudeltà di certi spettacoli che abbiamo trovato in Seneca, delle quali questo brano di Lattanzio sembra costituire un pallido riverbero, più retorico che commosso: Ora chiedo se vi possano essere uomini giusti e pii, che non soltanto sopportano che si uccidano altri uomini che si trovano sotto minaccia di morte e implorano misericordia, ma addirittura la reclamano, e condannano a morte con crudele e inumano voto, non saziati dalle ferite, né contenti del sangue: che anzi comandano che si colpisca di nuovo chi è già stato colpito e giace a terra, e che i cadaveri siano smembrati, perché nessuno li inganni con una morte simulata. Si adirano anche coi combattenti se uno dei due non è ucciso velocemente; e come assetati di sangue umano, non sopportano gli indugi. E poi pretendono che siano loro consegnati altri combattenti più freschi, perché al più presto possibile i loro occhi siano saziati. Imbevuti di questa consuetudine, hanno perso l'umanità 17.

Anche per quanto riguarda l'oscenità, che è certamente l'elemento primario di certe pratiche sceniche come ad esempio lamostra delle meretrici durante i Floralia 18, a costituire il vero scandalo non è tanto la meretrice o il meretricio come pratica, ma la sua esposizione, la sua spettacolazione. Se ne trovi la conferma, oltre che in Tertulliano (De Spect., 17, 3 sgg.) o in Novaziano (Spect., 6), ancora in Lattanzio:

17 18

Ivi, col. 707.

Naturalmente sul piano antropologico il rapporto tra festa, oscenità e meretricio non è neutro. Sui significati antropologici di queste feste - che saranno qui analizzati nel prossimo capitolo - insiste particolarmente Tessari, 1983, pp. 1-74, che costituisce tra l'altro uno dei pochissimi interventi italiani dalla parte del teatro, ossia di studiosi di teatro e non di letteratura cristiana, che trattino almeno tangenzialmente questi temi. Sul piano generale, valgono ancora i classici studi, che contengono anche molto materiale documentario, di Alt, 1846; Douhet, 1854; Reyval, 1924.

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Si celebrano dunque quei giochi con ogni lascivia, in maniera confacente al ricordo della meretrice. Infatti oltre alla licenza delle parole, con le quali si sparge ogni oscenità, le meretrici - che ora prendono il posto delle attrici - a richiesta del popolo si spogliano anche dei vestiti, e al cospetto del popolo sono trattenute con vergognosi movimenti fino alla sazietà di quegli occhi impudichi. 19

Si noti appunto quell'accenno alle meretrici che divengono attrici, che fanno cioè quello che di consueto compete alle attrici, ossia il far mostra di sé e del proprio corpo in azione. È il dare spettacolo che per i cristiani costituisce il peccato maggiore, è la particolarità di quel rapporto che lega il cittadino che si fa spettatore, sul filo dello sguardo dunque, all'oggetto della sua attenzione. Sembra esserci, anzi, in questi scrittori, una sorta di ossessione dello sguardo, un accanimento maggiore e appunto quasi ossessivo per quei vizi che hanno come porta d'ingresso all'anima gli occhi. Quando la condanna degli spettacoli avviene nel contesto del discorso generale contro la voluttà dei sensi, come in Lattanzio (Divin. Instit., 6, 20 sgg.) o in Gerolamo (Ad. Jovin., 2, 8), sempre alla voluttà che ha per strumento l'occhio sono dedicati il primo posto nell'elenco e lo spazio maggiore. Ma anche quando l'occhio non è una delle finestre dell'anima (e dunque pertugio da tutelare), lo sguardo non cessa di essere strumento di peccato. Come in Tertulliano (De Spect., 25, 3), secondo il quale il male intrinseco negli edifici per lo spettacolo sta non solo in ciò che lo spettatore vede o sente, ma anche nel loro essere luogo in cui lo spettatore dà soprattutto spettacolo di sé e si offre alla vista altrui: «Nessuno, infine, andando allo spettacolo, si preoccupa anzitutto se non di vedere e d'essere vis to » 20. E la indicazione dello statuto di autorità giudicatrice solo per colui che vede, contenuta nel passo che segue, è la spia evidente di una concezione dello sguardo come strumento forte di rapporto con la realtà del mondo, e dunque canale da tutelare sopra ogni altro: «Metti a confronto, o uomo, l'accusato e il giudice: l'accusato che è accusato perché è visto, il giudice che è giudice perché vede» 21. 19 20 21

Divin. Instit., 1, 20, col. 220. De Spect., 25, 3, pp. 347 e 422. Ivi, 20, 4, pp. 316 e 418.

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Dare spettacolo, dunque, è dare scandalo perché, come scrive Gerolamo: L'ingresso dei vizi all'anima avviene per i cinque sensi, quasi fossero cinque finestre [ ... ]. Se qualcuno è dilettato dai circensi, o dalle gare degli atleti, o dalle movenze degli istrioni, o dalle forme delle donne o da altre simili dallo splendore delle gemme, delle vesti, dei metalli, cose, la libertà dell'anima è catturata attraverso le finestre degli occhi, e si compie ciò che è stato profetizzato: «La morte è entrata dalle vostre finestre ».22

°

E se il vizio cattura la libertà dell'anima, inequivocabilmente, è perché la rende schiava delle passioni. Perché è qui, nella concezione dello spettacolo come reagente per l'esplodere delle passioni, che sta uno dei nodi centrali del rifiuto dei cristiani, ed è qui infatti che le loro pagine acquistano densità e lucidità inconsuete. C'è da un lato la passione esibita dall'attore, cioè il meccanismo tecnico e psicologico per cui l'attore finge ma induce in chi lo guarda passioni vere. E c'è in certe notazioni di Tertulliano o di Agostino a questo riguardo una succinta ma chiarissima e convincente individuazione del processo di identificazione e di translert psicologico che lega lo spettatore all'attore, intendendo naturalmente il termine nel suo significato più largo. Scrive Tertulliano: Poiché dunque il furore ci vien proibito, siamo tagliati fuori da ogni spettacolo, anche dal circo, dove anzi il furore spadroneggia come a casa sua. Contempla il popolo che accorre a questo spettacolo già in preda al furore, già tutto sconvolto, già come accecato, già in subbuglio per le scommesse [ ... ]. Di qui maledizioni, ingiurie senza ragione d'odio, anche entusiasmi senza ragione d'amore. Quale vantaggio, infatti, si ripromettono, che cosa fanno, lì, uomini che non sono più se stessi? Forse non per altro che per questo, perché non sono se stessi, si dolgono dell'altrui sventura, si allietano dell'altrui fortuna. Tutto ciò che desiderano, tutto ciò che detestano, è loro estraneo; così, anche l'amore è in essi ingiustificato e l'odio ingiusto. 23

22 23

Adversus ]ovinianum, 2, 8, P.L., 23, collo 310-11. De Spect., 16, 1 sgg., pp. 208-87 e 414.

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E Agostino, finemente, porta oltre questa notazione dell'uscir fuori di sé a cui lo spettatore è indotto, individuandone la ragione in un processo di identificazione: Come avviene che a teatro l'uomo cerca la sofferenza contemplando vicende luttuose e tragiche e che, se pure non vorrebbe per conto suo patirle, quale spettatore cerca di patirne tutto il dolore, e proprio il dolore costituisce il suo piacere? Miserevole follia, e non altro, è questa. A quei casi si commuove infatti di più chi è meno immune dalle passioni che agitano; eppure, mentre di solito si definisce miseria la propria sofferenza, le sofferenze per gli altri si definiscono misericordia. Ma infine, dov'è la misericordia nella finzione delle scene? Là non si è sollecitati a soccorrere, ma soltanto eccitati a soffrire, e si apprezza tanto più l'attore di quelle figurazioni, quanto più si soffre, e se la rappresentazione di sventure remote nel tempo oppure immaginarie non lo fa soffrire, lo spettatore si allontana disgustato e imprecando; se invece soffre, rimane attento e godendo piange 24. Ma la passione che più sembra inquietare gli scrittori cnsuani è quella che pervade gli spettatori non per immedesimazione ma per esaltazione, per quel non esser più se stessi di cui parla Tertulliano, che fa dunque dell'esperienza dello spettatore il luogo dell'eccesso ed esattamente il contrario di quella regola della continenza e del dominio delle passioni che dovrebbe essere tra le prime del comportamento cristiano. Naturalmente questo tratto non è peculiare alla riflessione cristiana, e deriva almeno in parte dalla tradizione stoica, che predicava anch'essa l'impassibilità pur tra il tumulto della folla. C'è un passo di Epitteto (Enchir., 33), ad esempio, che pare costituire un perfetto antecedente delle prese di posizione cristiane al riguardo: Non è necessario andare tanto spesso a teatro. Se se ne presenta l'occasione non mostrarti preoccupato per nessuno, ma per te stesso, vale a 24 Coni., 3, 2; la traduzione è di Carlo Carena in Agostino, 1965, pp. 56-59. Ma non è naturalmente solo la commozione che viene censurata; lo è anche il riso, come ad esempio in Salviano, Gubern. Dei, 6, 11, col. 120: «Mentre ci divertiamo in teatri e circhi, ci perdiamo, proprio secondo quel detto della Sacra Scrittura: "Tramite il riso lo stolto opera empietà" (Prov. X, 23). E pertanto anche noi, mentre ridiamo tra cose turpi e indecorose, operiamo empietà, e neanche da poco ma tanto più colpevoli poiché, mentre sembrano oneste all'aspetto, sono dannosissime nella loro sostanza rovinosa ».

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dire devi volere che avvenga solo ciò che avviene e che vinca solo colui che vince; così infatti non ti troverai turbato. Astieniti però completamente dall'acclamare, dal ridere, dal dimenarti tanto spesso. E quando torni a casa non parlare tanto a lungo degli avvenimenti che non contribuiscono per nulla al tuo miglioramento; da un comportamento del genere potrebbe sembrare che tu abbia apprezzato lo spettacolo. 25 Tra i cristiani è poi soprattutto Lattanzio a insistere su questo aspetto, in diversi punti, consigliando per questa ragione di fuggire qualsiasi tipo di spettacolo: Dunque sono da evitare tutti gli spettacoli, non solo perché qualcosa di vizioso non si venga ad annidare negli animi, che devono invece essere quieti e tranquilli; ma perché l'abitudine a una qualche voluttà non ci seduca, e ci allontani da Dio e dalle buone opere. Pertanto ogni spettacolo è da fuggirsi, perché possiamo tenere tranquilla la condizione della mente. 26 In particolare, poi, è soprattutto il comportamento delle folle degli spettacoli del circo che viene violentemente censurato, ad esempio da Lattanzio nel brano più in alto riportato, o da Agostino in quel noto e stupendo passo in cui racconta di Alipio trascinato a forza nell'anfiteatro, il quale, nonostante avesse chiuso gli occhi per non vedere, non seppe resistere alla curiosità provocata da un boato della folla, e guardò: La sua anima ne subì una ferita più grave di quella subita nel corpo di colui che volle guardare, e cadde più miseramente di colui che con la propria caduta aveva provocato il grido. Questo, penetrato attraverso le orecchie, spalancò gli occhi per aprire una breccia al colpo che avrebbe abbattuto quello spirito ancora più temerario che robusto [ ... ]. Vedere il sangue e sorbire la ferocia fu tutt'uno, né più se ne distolse, ma tenne gli occhi fissi e attinse inconsciamente il furore, mentre godeva della gara criminale e s'inebriava di una voluttà sanguinaria. Non era ormai più la stessa persona venuta al teatro, ma una delle tante fra cui era venuta, un degno compare di coloro che ve lo avevano condotto. Che altro dire? Osservò lo spettacolo, divampò, se ne portò via un'eccita25 La traduzione è in Epitteto, 1973, p. 66. Il testo greco, con traduzione inglese a fronte, è in Epitteto, 1966, p. 519. 26 Divin. Instit., 6, 20, col. 712 e Epitome Divinarum Institutionum, 58, 9, P.L., 6, col. 1075.

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zione forsennata, che lo stimolava a tornarvi non solo insieme a coloro che lo avevano trascinato la prima volta, ma anche più di coloro, e trascinandovi altri. Z7 Ma proprio se si riflette su questo brano si coglie il nucleo vero della polemica cristiana contro gli spettacoli. Paradossalmente, queste frasi di Agostino potrebbero degnamente figurare come esergo di ogni saggio che celebri la positività dello spettacolo, la sua enorme forza di fascinazione, la sua capacità di toccare in profondità. Se si prescinde, come mi sembra perfettamente lecito perché non è là il bersaglio di Agostino, dal che cosa costituisca in questo caso l'oggetto di spettacolo, è il meccanismo stesso dell'evento spettacolare e quello che fa della folla lì convenuta un organismo in qualche modo aggregante di spettatori, ad essere qui lucidamente analizzato, e poi censurato in quanto carico di valenze perturbatrici. Perché, come è chiaro, l'imperturbabilità cristiana non è quella stoica, che è consapevolmente ricercata come strumento di autosufficienza elitaria del saggio. Nei cristiani prevale invece un tono impositivo che mette in rilievo una gigantesca operazione didattica, tesa non a immunizzare il singolo individuo ma a reprimere le passioni nelle masse in modo generalizzato e d'autorità, non ad attenuare gli effetti degli spettacoli ma a vietare che la gente partecipi ad essi, e tendenzialmente ad impedire la loro stessa effettuazione. Questi, dunque, in buona sostanza ed esposti con un montaggio che li riduce a fenomeno sostanzialmente unitario che è certo filologicamente indebito ma culturalmente e ideologicamente legittimo, gli argomenti e i modi dei primi scrittori cristiani contro gli spettacoli. Contro la spettacolarità, si diceva, molto più che contro la teatralità; contro gli attori, resi non dissimili dagli aurighi delle corse dei carri; contro il fondamento stesso della spettacolarità che sta nel produrre un evento proprio per farne mostra ad un pubblico, e dunque contro il rapporto di seduzione che lo spettacolo intrattiene col pubblico; contro l'esibizione della passione che fa l'attore e contro il prevalere della passionalità nei confronti della ragione e della continenza che lo spettacolo in quanto processo di seduzione produce nello spettatore. Per questo, nelle invettive cristiane non sono previste distinzioni Z7

Coni., 6, 8, pp. 160·65.

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o gerarchie tra i vari tipi di spettacolo, e dunque lo spettacolo strettamente teatrale trova un'attenzione né più favorevole né meno preoccupata. Tertulliano e Lattanzio, come s'è visto,. solo incidentalmente condannano anche la drammaturgia pagana, che evidentemente non costituisce un problema e un vero pericolo. Agostino, invece, come al solito lucido e lungimirante, riesce a distinguere in maniera netta non solo tra drammaturgia e spettacolo, ma tra spettacolo teatrale che ha come base un testo scritto e altri spettacoli o anche spettacoli teatrali non letterari: E questi sono gli aspetti più sopportabili delle rappresentazioni teatrali, cioè della commedia e della tragedia, ossia della favola poetica da eseguirsi negli spettacoli con grande indecenza dei fatti ma almeno non composte, come molte altre, con parole oscene. Eppure i fanciulli sono costretti dagli anziani a leggerle e impararle negli studi che si dicono umanistici. 28

Ma questo germe, gettato per il superamento di una impostazione teorica che non può che portare ad un vicolo cieco, resterà infecondo. Non affiora se non episodicamente, e comunque non si afferma, il recupero teorico di una teatralità antica, nutrita di valori alti e di classicità, da non disperdere al vento di una polemica che, per essere rigorosa al massimo, arriva a confondere i piani e gli oggetti. Possiamo registrare solo un caso vistoso, reso più attuale dal recupero di diverse forme della teatralità romana sotto i primi re barbari di cui egli stesso ci fornisce testimonianza; ed è quello di Cassiodoro, all'inizio del VI secolo, nella nota lettera che scrive per Teodorico a Simmaco, in cui raccomanda il restauro del teatro di Pompeo (e già in questo la distanza da T ertulliano è abissale) e contestualmente si produce in una esaltazione degli spettacoli che, per quanto scritta da un funzionario governativo quale egli è, esce pur sempre da una penna cristiana. Il tono con cui si enumerano e si descrivono le varie forme di spettacolo teatrale è del tutto diverso da quello consueto: anche il mimo e il pantomimo, in sé, sono considerati con benevolenza e ammirazione, e il solo accento polemico, ma molto più lieve del consueto, è a quel processo di degenerazione 28 De civ. Dei, 2, 8, pp. 106-7. Della traduzione riportata si potrebbe tuttavia contestare quell'eppure con cui inizia l'ultima frase, che introduce una connotazione negativa che probabilmente nell'originale non c'è.

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per cui azioni nate per diletti onesti - cosa che, naturalmente, nessun altro cristiano avrebbe ammesso - si sono poi degradate e involgarite: Dunque al pantomima - che deve il suo nome ad una multiforme attività di imitazione - appena gli è giunto tramite gli applausi l'invito in scena, si associano appropriati cori di diversi strumenti. Allora quella scrittura dei sensi espone agli occhi il carme canoro, e per mezzo di segni composti quasi fossero lettere, educa la vista di chi assiste e in essa si legge la grafia delle cose, così che, pur non scrivendo, esegue quello che la scrittura aveva annunciato. Una stessa persona rappresenta Ercole e Venere, una donna tramite un corpo maschile, un re e un soldato, un vecchio e un giovane, tanto che potresti credere che in uno siano molte persone distinte per una tanto varia imitazione. Anche il mimo, che ora viene soltanto deriso, fu inventato da Filistione con tanta avvedutezza che la sua azione fu posta in scrittura, al fine di rallegrare con lietissimi motti un mondo agitato da corrosive preoccupazioni. Cosa dirò del tintinnio degli acetabuli? Che cosa dell'armonia del dolcissimo suono di varia cadenza? La qual cosa viene accolta con tanta attrattiva di giocondità che ora gli uomini ritengono che, tra gli altri sensi, l'udito sia loro stato dato come dono sommo. Mentre l'epoca successiva, mescolandovi oscenità, portò verso il vizio le invenzioni degli antichi, e trascinò verso i piaceri del corpo, con lo spirito di chi va rapidamente verso la rovina, ciò che era stato inventato per onesto diletto. 29 È proprio una posizione come questa di Cassiodoro che ci dimostra come la polemica anti-teatrale degli scrittori cristiani, che tanto peserà nei secòli successivi, sia all'origine viziata da presupposti teorici che non le consentono di inquadrare l'oggetto contro cui polemizza. Ad un occhio moderno, voglio dire, la critica appare sostanzialmente estrinseca, da un lato troppo tesa ad assumere gli spettacoli come pretesto per cogliere un bersaglio - la mentalità pagana - che li trascende, e dall'altro troppo sociologicamente dipendente dall'avversione a quel particolare tipo di spettacolo che circolava nel tardo impero, ma dal quale si partiva per una condanna globale. Gettiamo su questi scritti lo sguardo dello studioso della teatralità, e non quello dello storico del pensiero cristiano. Potremo così 29 Il testo latino è in Variarium libri XII, 4, 51, in Cassiodoro, 1973, pp. 178-79.

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depurarli dall'accusa di idolatria, perché non pertinente, cosi come da quella di immoralità o di brutalità, perché contingente e tra l'altro già propria anche di non pochi pagani. Ciò che resta, e che t! sostanziale perché va a toccare un nodo che è dentro e non fuori ai meccanismi dello spettacolo, è la critica alla visività degli spettacoli, al loro essere mostra di eventi più che eventi, al loro prodursi come oggetti il cui unico scopo è di creare un rapporto visivo ed emotivo con lo spettatore. Si tratta, come si è visto, di una critica non nuova, rintracciabile in tanti scrittori della classicità latina, ed anzi, per certi versi, anche nel cuore della cultura greca, in Aristotele e soprattutto in Platone. Ma per i cristiani, il motivo si inserisce in un differente contesto: non si tratta più di constatare il decadimento, attraverso il passaggio dall'orecchio all'occhio, di una forma culturale di cui si rimpiange il glorioso e nobile passato, ma di descrivere e condannare proprio i meccanismi costitutivi della spettacolarità come evento non estetico ma antropologico. In questa chiave si può leggere anche la denuncia ripetuta della inutilità degli spettacoli, ad esempio in Tertulliano (De Spect., 18, 2), in Lattanzio (Divin. Instit., 6, 21), in Arnobio (Ad. Nat., 7, 33), in Giovanni Crisostomo (De Anna, serma IV, 2). Rimarcare l'inutilità di un evento significa riconoscere che esso non produce nient'altro all'infuori degli effetti immediati che dà. E se questi effetti - che sono divertimento e soprattutto scatenamento delle passioni - , sono negativi e peccaminosi, lo spettacolo in sé non potrà che essere negativo e peccaminoso. È tanto prioritario questo aspetto che per questi scrittori diviene quasi inessenziale l'elemento che più caratterizza la teatralità e che ci si sarebbe aspettati di vedere tra i capisaldi dell'accusa, come del resto era avvenuto sin dagli inizi della storia del teatro in Grecia 30 e come avverrà anche in epoche successive sino a Rousseau, e cioè la messa in scena e la recitazione come falso istituzionalizzato. L'attore è per statuto colui che mente, che pretende di essere ciò che non è, che seduce - come ricordava ammirato Cassiodoro - per la sua capacità di trasformarsi in altro da sé. Anche in uno scrittore tendenzialmente completo e puntiglioso come TertuIliano, questo aspetto è talmente secondario da comparire una volta sola ed incidentalmente, verso la fine del trattato, e per di più introdotto da 30

Sì veda Zucchelli, 1962, specie le pp. 75-96.

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una considerazione su un argomento prossimo ma differente, quello della maschera: Veramente, anzi, mi domando se lo stesso affare delle maschere possa piacere a Dio, che proibisce ogni forma di falsa imitazione: figuriamoci quella dell'immagine sua! Non ama iI falso iI creatore del vero: per Lui tutto ciò che vien contraffatto è gravissimo falso. Per questo, Chi condanna ogni forma di imitazione istrionica, non potrà approvare chi falsifica la voce, iI sesso, l'età, chi ostenta con solenne finzione amore, ira, gemiti e lacrime. 31 E altrove lo stesso Tertulliano, riferendosi ad ogni forma di imitazione, era stato più conciso ma ancora più netto: «Ciò che è naturale è opera di Dio, per cui ciò che è fatto artificiosamente è affare del diavolo» 32. Su questa base, allora, forse più che su quelle che hanno costituito il nerbo del discorso accusatorio tertullianeo e in genere cristiano, si può comprendere e spiegare quel violento ostracismo morale e sociale nei confronti di chi fa di questo affare del diavolo la propria professione e, tra questi, di chi lo fa istrionescamente, come i mimi o i pantomimi della tarda romanità, cioè usando il proprio corpo e le proprie capacità mimetiche, dando spettacolo solo di sé e della propria capacità di mentire. Ma è tuttavia lecito pensare che, tra V e VI secolo, quando lo spettacolo istituzionalizzato è stato ormai distrutto - non certo solo dagli attacchi cristiani, sia chiaro - , cambi anche l'atteggiamento della cultura cristiana. Già si è visto un esempio in Cassiodoro, cos1 fuori scala rispetto alla tradizione precedente, ma anche altri indizi - tra i quali ad esempio la famosa epigrafe funeraria del mimo Vitale rinvenuta sorprendentemente in una basilica cristiana 33 - portano a ritenere già in atto, almeno parzialmente, quella precisa forma di ambiguità che come vedremo caratterizzerà l'atteggiamento della cultura cristiana lungo tutto il Medioevo, tra anatemi teorici e adattabilità pratica. Ora l'arma principale non è nell'attacco De Speet., 23, 5, pp. 335-37 e 420. De eultu foeminarum, 2, 5; la traduzione è di Maria Tasinato, in Tertulliano, 1987, pp. 46-47. 33 Si veda De Marco, 1983, pp. 154-57. La lastra, datata tra V e VI secolo, 31 32

era collocata nella basilica sulla via Appia dedicata originarimente a Pietro e Paolo e successivamente a San Sebastiano.

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frontale a un nemico che appunto non esiste plU, ma in uno strumento più duttile, in grado di meglio operare in un confronto che da guerra si è trasformato in guerriglia, ossia la rimozione. Può venire cosi rimossa l'idea stessa di teatro, che infatti si perderà per secoli e che già Isidoro all'inizio del VII secolo collocherà in un passato remoto e riporterà in termini ormai irriconoscibili. Ma si tende alla rimozione anche di quelle schegge di teatralità superstite che sono costituite dai mimi e dagli istrioni girovaghi, al di là dell'iterazione quasi senza variazioni delle condanne della tradizione patristica, coniugata tuttavia, come vedremo, con una pratica molto più tollerante di quanto le prese di posizione ufficiali possano far pensare.

Capitolo terzo

DAL TEATRO ALLA TEATRALITA DIFFUSA Lo storico del teatro alto-medievale è costretto sostanzialmente ancora oggi a fare propria la constatazione di partenza del De Spectaculis et Ludis Publicis Mcdii Aevi del Muratori: Quali giochi pubblici, quali magnifici spettacoli e passatempi fossero offerti al popolo italico dopo la caduta dell'Impero romano e prima dell'anno Mille, poco conosciamo, dato che non possediamo se non pochissime storie di quell'epoca. Inoltre si può supporre che quei tempi barbari e quelle genti rudi si prendessero poca cura di quelle cose che con tanta effusione di denaro erano una volta apprestate dai Greci e dai Romani [ ... ]. Tranne che sui giochi militari, che dilettarono i Longobardi, dopo che l'Italia fu conquistata, sul resto interroghiamo inutilmente i documenti. 1

Pur con la specificazione che, per il teatro fuori d' Italia, come vedremo, la situazione è un poco più confortante, in questo brano è riassunto tutto quanto ancora costituisce il punto di partenza per ogni indagine. L'estrema povertà delle fonti (e per di più il loro essere fonti spesso sospette, pesantemente orientate contro il nostro soggetto, come nel caso degli scrittori cristiani ma non solo in essi), una ricostruzione storica dunque fatta soprattutto sulla base di induzioni, la necessità di allargare di non poco i confini della categoria della teatralità per cogliere forme spettacolari sempre più lontane dall'idea forte di teatro. l

Il testo latino è in Muratori, 1739, col. 831.

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Agli inizi del Medioevo, a partire dal V secolo e almeno fino allo strutturarsi del dramma sacro da un lato e all'affermarsi culturale e sociale della teatralità giullaresca, o comunque profana, dall'altro, il teatro in senso proprio non esiste più. Gli edifici teatrali sono abbandonati e vanno in rovina, se è vero che lo stesso teatro di Pompeo a Roma - come abbiamo ricordato - necessitava di restauri già al tempo di Cassiodoro e se, ancora prima, dobbiamo credere alla testimonianza compiaciuta di Agostino: «Quasi in tutte le città cadono i teatri [ ... ] cadono i luoghi o le sedi nei quali si veneravano i demoni. Per quale ragione infatti cadono se non per mancanza di quelle cose per l'uso lascivo e sacrilego delle quali furono costruiti» 2. Dello spettacolo teatrale, poi, sia nelle forme di rappresentazione di testi letterari sia in quelle meno letterarie dell' epoca imperiale come i pantomimi o i mimi, resta forse solo il ricordo negli attacchi degli scrittori cristiani che, rifacendosi spesso alle stesse fonti, continuano a perpetuare antiche condanne e dunque anche antiche descrizioni. Forse, nel V-VI secolo, continuano a sopravvivere certi spettacoli con la donna e l'erotismo come principale centro di attrazione, quelli in cui l'attrice mal si distingue dalla prostituta, e anzi ad essa quasi si riunisce. Del resto era da tempo, dopo l'ostracismo dell'età greca e del teatro classico romano, che la donna era diventata la vera dominatrice della scena, effetto e insieme causa ulteriore di quella degradazione del teatro sul piano dei valori sociali di cui già si è detto nel primo capitolo. Durante il regno di Teodorico, come ci testimonia Cassiodoro, suo funzionario (Variar., 5, 32) - e forse più come strumento di governo che per interesse personale, come sottolinea Muratori 3 - , c'è qualche tentativo di richiamare in vita la teatralità antica e la spettacolarità sontuosa dell'epoca imperiale. Ma si tratta di una restaurazione di breve momento, perché da un lato le forme del teatro in senso stretto erano definitivamente obsolete, e dall'altro la religione cristiana, col suo carico di violenta anti-spettacolarità, andava sempre più affermandosi come cultura egemone. Cultura egemone, è vero, non vuole dire anche pratica uniforme e totalizzante, ed è anzi un mito fuorviante quello del Medioevo cristiano, che vede que2 3

Agostino, De Consensu Evangelistarum, 1, 33, P.L., 34, col. 1068. Muratori, 1739, col. 831.

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sto periodo come epoca di incontrastata cristianità o di progressiva e alla fine vincente penetrazione del cristianesimo sia nella vastità di aree sempre più lontane sia nella profondità delle coscienze anche le meno colte 4. Come cercherò di approfondire più avanti, la coscienza popolare, l'universo culturale e i modelli mentali dei non colti e non nobili, sono ben lontani dall'essere totalmente cristiani, sia nei secoli iniziali che anche in quelli finali del Medioevo. Ma altra cosa, naturalmente, è la politica religiosa e culturale consapevole dei centri di potere (i re barbari, la Chiesa, poi i signori feudali, le comunità cittadine, ecc.), ai quali soli potrebbe spettare la decisione e la cura di istituire o promuovere la grande spettacolarità o addirittura il teatro in senso classico. Quindi, anche coi re barbari il teatro non risorge e al più vengono in qualche modo ri-legittimate, ma anch'esse per breve periodo, le forme della spettacolarità non teatrale, come la corsa degli aurighi. Non sappiamo sostanzialmente che spettacolo contenesse quel circo di cui parla Cassiodoro (Variar., 1, .32). Forse ancora i gladiatori, benché le scuole di addestramento fossero chiuse dalla fine del IV secolo. Nel V secolo infatti abbiamo ancora notizie dirette di combattimenti tra gladiatori e belve, e nel 691 abbiamo una notizia indiretta, e non si sa quanto attendibile per quel che riguarda la situazione del momento in cui fu scritta: si tratta infatti del canone 51 del Concilio Trullano che «proibisce assolutamente i mimi e i loro spettacoli; proibisce inoltre i combattimenti contro le belve e le danze sulla scena » 5. Se questo canone fotografa una situazione contemporanea, e non ripete invece pedissequamente condanne non più attuali, occorre pensare che alla fine del VII secolo si dessero ancora non solo i combattimenti con le belve ma anche le danze su una qualche scena teatrale. Ma di queste fonti conciliari è del tutto lecito diffidare, come ci indica Chambers quando rileva ad esempio che le forme spettacolari condannate dal Concilio di Aquisgrana dell'816 sono solo il frutto della traduzione letterale e non adattata alla realtà contemporanea del canone 54 del Concilio di Laodicea del IV secolo 6. Assai probabilmente, comunque, lo spettacolo di gran lunga più 4 Gurevic, 1986, pp. VIII-IX. Considerazioni utili per un quadro d'assieme sulle categorie della cultura medievale sono anche in Gurevic, 1983. 5 Documenti pontifici sul teatro, 1966, pp. 17 e 19. 6 Chambers, 1903, I, pp. 141-42 .

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popolare e praticato nel periodo tra fine V e VI secolo è la corsa dei carri. Anche questo è uno spettacolo già molto in auge in epoca imperiale, come sappiamo anche da Tertulliano che lo descrive e naturalmente lo condanna (De Spect., 9, 5-6; 16, 1-5), sia per gli aspetti di paganesimo insiti nella identificazione dei colori delle casacche degli aurighi con le stagioni dell'anno sia per la passionalità partecipativa scatenata dalle gare negli spettatori. Quasi svolgendo i medesimi argomenti, ne parla anche Cassiodoro, già dentro al VI secolo (Variar., 3, 51), tanto da lasciar indovinare una derivazione dalle argomentazioni tertullianee, ma anche da permetterci di pensare che lo spettacolo e il suo contesto di fruizione non fossero molto mutati nel frattempo. Del resto, che sul finire dell'età imperiale e all'inizio del Medioevo fossero soprattutto le corse dei carri a costituire la gran parte degli spettacoli circensi è testimoniato anche dalla particolare attenzione che agli aurighi dedicano i Sinodi, nei quali la Chiesa minaccia loro la scomunica e rifiuta il battesimo se, come del resto vale per ogni operatore dello spettacolo, prima non rinunciano alla loro professione. A questa spettacolarità circense, già peraltro molto mutilata e impoverita quanto a grandiosità rispetto all'età imperiale, pare presto succedere, anche per l'innestarsi della cultura barbarica su quella romana, quella forma per certi versi affine ricordata da Muratori nel brano citato in apertura di capitolo, le finte battaglie. Già all'epoca di Teodorico si facevano finte battaglie sia per offrire uno spettacolo al popolo sia per impedire che i soldati stessero in ozio 7. E ancora un'altra testimonianza, di una finta battaglia del finire del VII secolo a Ravenna, terminata tragicamente con numerosi morti 8, ci permette di considerare questi eventi come pratiche abbastanza diffuse. Queste battagliole percorrono tutto l'alto e medio Medioevo, subendo via via trasformazioni vistose a seconda del contesto di cui sono espressione, coniugandosi con la cultura cavalleresca e con la sensibilità cortese, fino a ingentilirsi in gioco di società come quello del 1214 a Treviso, descritto da documenti editi da Muratori: La Corte, ovverossia spettacolo, fu di tal fatta. Imperocché si fece per giuoco un Castello, in cui si posero dame e fanciulle, ch'erano le loro 7 8

Muratori, 1739, col.' 831. Ivi, col. 832.

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donzelle e serventi, con il compito di difendere con ogni attenzione il Castello senza l'aiuto di uomo alcuno. E il Castello fu da ogni parte difeso con fortificazioni di tal fatta, cioè con vasi, broccati, zendali, porpore, sciamiti e crespi, scarlatti e baldacchini ed ermellini. Che dire delle corone d'oro con crisoliti e giacinti, topazi e smeraldi, piropi e perle, e ornamenti di ogni genere, con cui la testa delle Donne si difendeva dall'impeto degli assalitori? Anche il Castello dovette esser preso d'assalto e lo fu con proiettili e artiglierie di questo genere: con mele, datteri, e moscati, tortelli, pere e cotogne, con rose, gigli e viole, ed anche con ampolle di profumo. 9 Ma dall'altro lato, quello che continua a sviluppare l'aspetto para-militare, questa spettacolarità si sedimenta nelle prove agonistiche delle giostre e dei tornei o nelle parate delle armeggerie l0, tutte situazioni che ben testimoniano il volgersi in spettacolo di molte delle pratiche sociali medievali. Questa continua messa in scena della vita pubblica 11, naturalmente ai vari livelli di sontuosità consentiti dalla gerarchia sociale, è del resto l'elemento più macroscopicamente appariscente della rappresentazione dell'esistenza del tempo che le fonti ci offrono. Ma anche a questo riguardo, come sempre, le fonti andrebbero interrogate con prudenza, perché è evidente che non si tratta di specchi neutri. Per questi aspetti, ad esempio, esse sono sufficientemente larghe di informazioni su questa macro-spettacolarità, che coinvolge intere comunità, o comunque i gruppi dominanti, e dunque induce storici e cronachisti a lasciarne spesso ampie descrizioni, con la conseguenza di costringere lo studioso a frequentare questo più di ogni altro luogo, alla ricerca, per l'alto Medioevo, di qualche forma di teatralità affiorata alla memoria. Mentre le stesse fonti restano quasi mute sul tessuto di microspettacolarità specificamente attorale. Tuttavia, qualche traccia ci resta, come meglio apparirà nei prossimi capitoli sui giullari, in quelle scarne notizie già raccolte e interrogate dagli studi classici di Chambers, di FaraI e di Menéndez Pidal fino a quelli più recenti 9 Ivi, col. 837. La arcaizzante e saporosa traduzione è quella riportata da Apollonio, 1981, pp. 141-42. Altri documenti, riferiti al secolo XIV, su queste finte o quasi-vere battaglie sono riportati e analizzati in Manzi, 1818, pp. 9-30. lO Sui tornei si veda Cardini, 1987, pp. 105-14; sulle armeggerie e le giostre fiorentine, Molinari, 1961, pp. 15-18; sulla festività fiorentina in genere, Trexler, 1980, specie pp. 223·61. 11 Duvignaud, 1974, pp. 101-3.

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di Ogilvy o di Zumthor 12. Ma la difficoltà vera è quella di individuare i modi spettacolari in cui queste attività attorali si determinano, una volta uscite dagli edifici teatrali nei quali tanto erano state operanti nella tarda romanità. Sul tipo di spettacolo di cui questi attori sono portatori, naturalmente le fonti ci forniscono pochi elementi, anche perché, al solito, quasi sempre si tratta di scritti cristiani che si preoccupano più di condannare che di descrivere. Una qualche idea, per il periodo più antico, la possiamo avere da uno scritto di un autore non a caso non cristiano, Claudiano, ancora nel IV secolo. In esso vengono menzionate alcune delle tipologie di questi attori tardo-antichi: ci sono quelli più specificamente comici e tragici, in socco e coturno, ma c'è anche il buffone che dice facezie, quello che non parla ed è loquace coi gesti e con le mani, il suonatore di strumenti a fiato o ad arco, !'imitatore che riproduce le innumerevoli voci dei campi, il giovane funambolo che si lancia nel vuoto da una piramide umana 13. Al di là delle reminiscenze del teatro classico, quello rappresentato con socco e coturno su veri palcoscenici, ciò che qui ci interessa è la descrizione delle diverse abilità degli attori, dalle più nobili come il canto, l'uso di strumenti musicali o la pratica del pantomimo, a quelle di tipo circense, da intrattenitore comico, da imitatore o da acrobata. Perché sono queste abilità e non certo quelle di interprete, che sopravviver anno per secoli nel bagaglio tecnico degli attori medievali. La testimonianza più lontana, e che per qualche secolo resterà unica, è infatti quella del planus ac circulator Andrea che, nel 543, fa spettacolo con un cane sapiente: Un ciarlatano girovago, di nome Andrea, venne da contrade italiche portando con sé un cane fulvo e cieco che, dietro suo ordine e ad un suo cenno si produceva in mirabili spettacoli. Il padrone, girando per la piazza in mezzo a una grande quantità di gente, di nascosto al cane toglieva agli spettatori gli anelli d'oro d'argento o di ferro e, dopo averli deposti al suolo, li copriva con della terra. Quindi ad un suo comando, il cane li prendeva ad uno ad uno e restituiva a ciascuno il suo. Allo stesso modo, tirava fuori a una a una e nominativamente delle monete di imperatori diversi, ammucchiate e confuse. Addirittura nel circolo degli 12 Chambers, 1903; Faral, 1910; Menéndez Pidal, 1924-1957; Ogilvy, 1963; Zumthor, 1986. 13 Claudio Claudiano, Carmina, XVII: Panegyricus dictus Manlio Theodori

Consuti, M.G.H., Auct. Antiq., X, pp. 187-88, vv. 311-33.

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astanti, il cane interrogato riconosceva senza sbagliare le donne gravide, donnaioli, gli adulteri, gli avari e gli indigenti, e infine i generosi. 14 Poi, come si diceva, per un paio di secoli almeno, di questi mimi si perdono le tracce, se non nei testi documentariamente poco affidabili dei concili e degli scrittori cristiani. Qualche notizia - qualcuna delle quali peraltro FaraI giudica sospetta 15 - affiora in epoca carolingia, sia con l'eco dell'opposizione alla corte di Carlomagno tra Alcuino, che ai mimi è fortemente contrario, e Agilberto, più tollerante nei loro confronti 16, sia con alcune testimonianze, come questa edita da Muratori: «Avvenne che un giullare (joculatorem) longobardo venne da Carlo, e, ballando davanti ai suoi, cantò una canzoncina da lui stesso composta sul medesimo argomento» 17. Ma si tratta, almeno prima dell'XI secolo, davvero di notazioni molto scarse e sommarie. Insufficienti comunque a farci comprendere ad esempio se i diversi e numerosissimi nomi con cui vengono indicati gli attori e di cui fornirò un catalogo nel prossimo capitolo, indicano o meno specifici generi di spettacolo. Molto probabilmente no, nel senso che, almeno in questi secoli più antichi, questi termini sono in grandissima parte sinonimi, e nel senso anche che spesso questi attori sono polivalenti, ossia dotati di più d'una delle abilità specifiche di affabulatore, suonatore, giocoliere, danzatore, cantante, ammaestratore di animali (cani, come s'è visto, ma anche orsi, ad esempio) 18. Certo, è del tutto probabile che esistano anche attori specializzati, che possiedono solo una o poche di queste abilità, ma in queste epoche remote la specializzazione è certo di segno diverso da quella che troveremo alla fine dell'evoluzione, nei giullari, perché là sarà una conquista di professionalità riconosciuta mentre qui è limitazione di repertorio e dunque di possibilità di lavoro 19. Il testo latino è in Muratori, Rer. Ital. Seript., I, p. 108. FaraI, 1910, p. 18. lvi, pp. 19-21; De Marco, 1983, pp. 158-6l. 17 Il testo latino è in Muratori, 1739, col. 847. 18 Si vedano, per le epoche più antiche, le testimonianze raccolte da FaraI, 1910, ad es. pp. 273-74: dai turpia joea eum urso nominati da lncmaro alla metà del IX secolo, all'episodio narrato nella Vita S. Popponis, nella prima metà dell'XI secolo: «Un uomo si offre nudo agli orsi, con le membra coperte di miele, e teme anche molto per il pericolo che corre, ossia che gli orsi, consumato il miele, non arrivino alle sue ossa ». 19 È, questo della specializzazione, uno dei punti di disaccordo di Menéndez Pidal, 1957, rispetto a FaraI, 1910. FaraI sostiene che quegli attori erano per 14 15 16

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E in generale sarebbe un'operazione indebita, per sopperire alla carenza di informazioni, proiettare su questi attori dispersi l'ombra delle forme con cui opereranno i loro discendenti del pieno e tardo Medioevo, quando, numerosissimi, li troveremo a vagare per l'Europa, tra città, castelli, corti e palazzi. Anche perché, naturalmente, nel primo Medioevo, questi poli di attrazione, che sono anche poli di potere civile e culturale, sono molto meno operanti. Quello che non pare assolutamente in dubbio è la condizione di estrema degradazione sociale in cui si collocano questi attori. Basti ricordare, proprio agli inizi dell'età medievale, quel passo di Cassiodoro che tratta della istituzione del tribunus voluptatum, in cui gli istrioni sono inseriti nella medesima categoria sociale delle prostitute (Variar., 7, lO). E lo troveremo sempre, lungo tutto il Medioevo, questo spogliarsi di ogni dignità della figura dell'attore, questo intrupparsi nella turpitudo dei ceti infimi della società, questo ritrovarsi, fino all'epoca dei giullari compresa, in compagnie socialmente e moralmente poco raccomandabili. È dunque inevitabile, in questo contesto, che cambino non solo le caratteristiche sociali e il repertorio di abilità ma le stesse valenze antropologiche di colui che non possiamo fare a meno di continuare a chiamare attore. Ciò che questa attività attorale sembra perdere, o almeno attenuare, è infatti proprio la specificità teatrale. Quando il teatro come attività strutturata non esiste più, le istanze antropologiche e le capacità tecniche che gli sono peculiari si disseminano in una teatralità diffusa che si inserisce negli altri momenti e negli altri luoghi del vivere sociale. Soprattutto, la teatralità diffusa trova un ambito fecondo nelle occasioni festive, sia quelle comunitarie, che coinvolgono l'intera città, sia quelle più particolari e private delle nozze o dei banchetti. Diversi sono i modi e i processi con cui la teatralità invade la dimensione della festa. C'è innanzi tutto questo situarsi dell'attività attorale negli spazi e nei tempi festivi, con l'individuazione della festa come luogo di aggregazione sociale - e quindi occasione privilegiata per un attore che voglia e debba individuare un pubblico per la sua attività - e insieme come situazione particolare, in cui il tempo è spendibile in attività non produttive come l'assistere agli lo più non specializzati, mentre Menéndez Pidal ritiene che ciò fosse vero solo in casi eccezionali e che la norma fosse la specializzazione. Ma su questo si vedano i prossimi capitoli.

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spettacoli. La partecipazione di attori e intrattenitori ai banchetti e alle feste private, già largamente documentata del resto anche per l'età greca e romana, è certamente un fatto costante durante tutto il Medioevo 20. Per le epoche più remote si può citare la riprovazione di Alcuino, nel 791, per chi introduce histriones et mimos et saltatores nella propria casa 21; ma poi, più si procede nel tempo, più infittiscono le testimonianze e più numerosi sono gli attori che troviamo riuniti in una sola circostanza, fino alle diverse centinaia menzionate nel XIII o XIV secolo. Ancora più rilevante, naturalmente, è la partecipazione di attori alle feste pubbliche offerte da principi e regnanti in occasione di nozze e di incoronazioni o in quelle feste collettive che nell' Italia del XIII e XIV secolo vengono chiamate corti bandite. In questi casi, a dar credito alle fonti, il numero dei giullari assume proporzioni macroscopiche, fino a giungere ai 1.500 per una corte tenuta a Rimini dai Malatesta nel 13 24 22. In quest'epoca, del resto, è l'ambiente cittadino stesso, molto più dinamico e comunque vincente nel confronto con la campagna 23, a costituire una calamita potente per gli attori. E in queste occasioni, la teatralità specializzata dei giullari si mescola alla teatralità festiva della cittadinanza, come ci testimonia ad esempio la Cronaca del Villani per una festa fiorentina del 1283: . Per la qual brigata non s'intendea se non in giuochi e in sollazzi e in balli di donne e di cavalieri e d'altri popolani, andando per la terra con trombe e diversi stromenti in gioia e allegrezza, e stando in conviti insieme, in desinari e in cene. La quale corte durò presso a due mesi, e fu la più nobile e nominata che mai fosse nella città di Firenze o in Toscana; alla quale vennero di diverse parti molti gentili uomini di corte e giocolari, e tutti furono ricevuti e provveduti onorevolemente. 24 Questo stesso esempio della corte fiorentina ci introduce alla considerazione della festa non come mero contenitore o occasione neu20 Si vedano Brugnoli, 1983, De Marco, 1983, e in genere l'intero volume in cui questi studi sono inseriti, che comprende anche una bibliografia ragionata a cura di Romano Tenca. 21 Alcuino, Epistola 175, M.G.H., Ep., IV, p. 381. 22 Muratori, 1739, collo 843-44. 23 Sono Meldolesi, 1973, p. 18, e Mango, 1978, p. 16, a ricordarci che l'unica teatralità medievale tramandata e ricordata è quella cittadina. 24 Cronica di Giovanni Villani, 1. VII, cap. 89, in Villani, 1980, t. II,

p. 281.

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tra di spettacolo, ma come momento specifico, come situazione che offre istituzionalmente le migliori condizioni per il prodursi della teatralità. Festa e teatralità, insomma - e questo non solo nel Medioevo ma proprio come condizione generale - posseggono numerosi tratti comuni e poggiano su una base antropologica che è reciprocamente solidale. Naturalmente non è questa la sede nemmeno per una considerazione superficiale della festa come fatto antropologico 25. Ma è necessario almeno, per la intelligibilità dei discorsi ulteriori, intendere come la festa sia, tra le altre cose, il luogo in cui la comunità si contrae e cementa i vincoli che la fanno appunto comunità, il luogo in cui una società si riconosce in se stessa e si rappresenta a se stessa. Non è necessario insistere allora sul fatto che questo autorappresentarsi è fatto sempre anche e soprattutto di momenti rituali, di gesti, di parole, di cerimonie codificate e in grandissima misura non mutabili. La ragione per cui storicamente sempre - nella Grecia antica come nel Medioevo come nelle civiltà orientali - il teatro si estrae dalla festa, è proprio in questo tasso di teatralità che la festa già istituzionalmente possiede. Quando questa teatralità si trasforma in spettacolo, ossia si raggruma in forme che non sono più rappresentazione di sé a sé - e dunque negazione dei ruoli separati di attore e spettatore - ma rappresentazione di sé ad altri o rappresentazione di altro a sé, allora si istituzionalizzano le categorie degli attori, del pubblico, del teatro. Ovviamente, al di là di questi caratteri antropologici che sono in larghissima parte metastorici, la festa si struttura storicamente in maniere differenti, come differenti sono i modi e i processi con cui in essa la teatralità diffusa si solidifica in teatro. Altra cosa sono naturalmente le feste dei popoli cosiddetti primitivi o quelle altomedievali, in cui per cosi dire il teatro resta intrappolato indefinitamente, in ragione principalmente del fatto che in queste culture il dato fondante è quello della permanenza e non quello dell'innovazione, e altra cosa sono le feste tardo-medievali o rinascimentali, che proprio dalla dinamicità delle culture di cui sono espressione

25 Per una trattazione più generale e per i rimandi bibliografici essenziali, si può vedere la voce Festa, redatta in due distinti saggi da Umberto Galim· berti e da Luigi Allegri, in Strumenti del sapere contemporaneo, II, Torino 1985, pp. 310-16.

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traggono l'impulso a trasformarsi in spettacolo e a produrre forme di teatro istituzionalizzato. Naturalmente, trattando della festività, si tocca non tangenzialmente un nodo concettuale e storiograflco controverso e pure non eludibile, quello della cultura popolare, particolarmente rilevante per un'epoca come quella medievale, in cui questo fenomeno è tutt'altro che marginale come nella cultura contemporanea. Quella di cultura popolare è una nozione tanto facile da evocare quanto poi difficile da definire e da maneggiare. Né si fa un passo avanti determinante se si riconosce in essa, con Propp, la cultura delle classi subalterne 26. Aron G'urevic ha bene espresso il cumulo di domande senza precisa risposta che la nozione di cultura popolare si porta dentro: se nei secoli XV-XVII la cultura popolare acquista un significato abbastanza preciso - è la cultura degli strati sociali inferiori, che si sta secolarizzando, che possiede ormai una propria forma, scritta (o stampata) per fissarsi e un'autocoscienza relativamente elaborata - , il concetto stesso di « cultura popolare », applicato al Medioevo in senso stretto, rimane assai indefinito. È soltanto la cultura delle masse, delle classi sociali oppresse? O è la cultura di tutti gli analfabeti, opposta alla cultura degli uomini istruiti, dei dotti? (Nel Medioevo strati sociali oppressi e analfabeti, com'è noto, non coincidevano, giacché anche un numero considerevole di nobili era analfabeta.) Oppure, in senso ancora più ampio, è un filone della cultura medievale che in un modo o nell'altro era patrimonio di tutti gli uomini di quell'epoca, ma che nell'élite veniva solitamente occultato dalla teologia ufficiale, dell'erudizione, dalla tradizione antica, mentre emergeva negli uomini estranei alla cultura latina? TI

E a questo lungo elenco di domande occorre poi aggiungere: esiste una cultura popolare o non piuttosto culture variegate e diverse? E in che senso queste manifestazioni compongono una o delle culture? E soprattutto quali sono i rapporti tra questa cultura popolare e la cultura dei dotti o delle classi dominanti, e dunque dove, precisamente, flnisce l'una e inizia l'altra? Naturalmente non si potrà qui rispondere compiutamente a queste domande, e ci si dovrà accontentare di indicare alcuni punti su 26

Propp, 1975, p. 144.

27

Gurevic, 1986, pp.

X-XL

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cui poggiare il discorso successivo. Esistono nel corso del Medioevo (naturalmente anche prima e dopo, ma qui è il nostro oggetto) forme di cultura antropologica - e dunque modalità di rapporto dell'uomo con gli altri uomini, con la natura, col sacro, col mondo ultraterreno, col proprio lavoro, con gli oggetti e le tecniche che usa, col tempo e lo spazio, con le attività di simbolizzazione e di rappresentazione - che non sono quelle desumibili direttamente dalle opere e dalle normative con cui ogni società esprime le proprie forme culturali e i propri fini. Nel Medioevo questa cultura forte, consapevole, ufficiale, può essere rappresentata da un lato dalla cultura cristiana, dall'altro, successivamente, da quella cavalleresca, e dall'altro ancora, sul finire del Medioevo, dalla cultura a referente classico, proto-umanistica e umanistica. Naturalmente, quindi, questa cultura ufficiale non è unitaria e omogenea, sia perché i valori di queste che sono le sue tre componenti principali, anche se non uniche, sono non di rado reciprocamente contraddittori, sia perché all'interno di ciascuna componente le forme e i principi sono spesso instabili e disomogenei. Di fronte, o, per usare una immagine geologica, sotto a questa cultura forte, che è quella in cui varie epoche del Medioevo hanno voluto rispecchiarsi e riconoscersi, stanno altri strati culturali, che non affiorano alla memoria storica che per frammenti, probabilmente quando la crosta dura di superficie si spacca per qualche sommovimento. Oppure, fuori di metafora, quando la cultura ufficiale si preoccupa di reprimere le culture sommerse (e da qui vengono molte testimonianze indirette, interrogando al contrario le fonti, ad esempio gli atti dei concili o i trattati teologici) o viceversa ne accetta alcune forme particolari adottandole come proprie, come è il caso ad esempio di tante feste popolari, ma che ormai coinvolgono tutti gli strati sociali, del tardo Medioevo. Naturalmente anche questa cultura sommersa, che continuiamo a denominare al singolare per comodità, è ancora più magmatica, incoerente, disomogenea e contraddittoria della cultura ufficiale. In più, in un'epoca come quella medievale, sia per la estrema esiguità delle classi colte sia per la non rispondenza tra categorie culturali e classi sociali (molti nobili, come si è visto, sono analfabeti), il confine tra la cultura ufficiale e la cultura popolare è molto indefinito, sfrangiato, con penetrazioni profonde e mescolanze di una nell'altra e con l'altra. Non c'è solo l'assedio e il progressivo espandersi della cultura forte, in specie

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della dottrina cristiana, nei confronti di quella popolare, o folklorica, di cui parla Le Goff 28; ci sono anche intrusioni non secondarie del folklore nella cultura alta, ad esempio con forme di superstizione pagana che contaminano certi trattati di teologia cristiana 29. Tuttavia, nonostante queste precauzioni metodologiche, è possibile e anche necessario individuare alcuni tratti generali che la cultura popolare porta in sé e coi quali si contrappone - pur se frammentariamente ed inorganicamente come voleva Gramsci, in un contesto storico diverso, per le sopravvivenze folkloriche contemporanee 30 - alla visione del mondo e alle gerarchie di valori di cui la cultura medievale ha voluto coscientemente dotarsi. Questa cultura impregna di sé ogni momento della vita quotidiana degli uomini, ma il suo punto di maggiore emergenza è quello della situazione festiva, sia perché qui più densamente si concretizzano i segni di questa cultura sia anche perché a situazioni e momenti di festa si riferiscono quasi esclusivamente le testimonianze, anche solo indirette. E in questa prospettiva, sulla festa popolare medievale e protorinascimentale come altra dimensione, in cui le classi subalterne vivono le proprie istanze ribellistiche e le proprie diverse gerarchie di valori, sulla festa dunque nella sua dimensione latamente carnevalesca, basterà rimandare al fondamentale volume di Bachtin 31. In esso lo studioso sovietico individua le modalità della cultura comica popolare (anche se spesso si ha la sensazione che quelle che va individuando siano per lui le caratteristiche della cultura popolare tout court) nel grottesco, inteso soprattutto come mescolanza di generi; nel riso liberatorio, collettivo, come momento anche socialmente eversivo; nella pratica dell'abbassamento per cui soggetti alti vengono degradati e trattati satiricamente o a valenze invertite; nella corporeità come sede dei valori primari (e anche in questo caso con un abbassamento, e dunque con una preferenza per le parti basse del corpo) con le conseguenze che i momenti più rilevanti della corporeità come la nascita, l'agonia e l'atto sessuale sono i luoghi rituali da rivisitare nelle pratiche festive; nella sostanziale ambivalenza di tutti i riti e di tutti i segni, per cui il medesimo atto festivo può avere in sé, contemporaneamente e senza che un 28

29 30 31

Le Goff, Gurevic, Gramsci, Bachtin,

1977, pp. 198-204. 1986, pp. 80 sgg. e 96. 1975, p. 2311. 1979.

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senso prevalga sull'altro, l'idea della morte e quella della nascita, la conservazione del vecchio e l'apertura verso il nuovo; l'assoluta ineliminabilità della dimensione comunitaria dei fenomeni. E proprio su questo tratto della comunitarietà occorre insistere per intendere nel profondo la condizione para-teatrale degli eventi festivi. L'uomo medievale, in assoluto, non percepisce se stesso se non inserito in una comunità; a maggior ragione e più intensamente questo avviene nella festa, che, come si ricordava, è il momento in cui la comunità si riconosce come tale e si autorappresenta. Naturalmente non bisogna mitizzare questo aspetto comunitario, immaginando un momento di attività pura in cui spariscano tutte le divisioni della vita quotidiana e in cui non si formino per nulla divisioni funzionali tra chi agisce e chi guarda. La situazione assoluta, è chiaro, non si dà mai, ma è comunque questa la dimensione in cui si situa, tendenzialmente, la festa. Anche perché la festa, nèlla visione del mondo dell'uomo medievale, è il luogo in cui si saldano, e in qualche modo si pacificano, le due opposte concezioni del tempo, quella lineare della vita umana - che è un segmento con un inizio e una fine - e quella ciclica della natura, che veramente non nasce e non muore mai, o muore solo per rinascere uguale a se stessa. Questo doppio modello di tempo, inconciliabile e dunque insopportabile per la coscienza, ha bisogno di un momento unificato re , o almeno di un momento in cui tutto il tempo si annulli, in cui anche il ciclo della natura, e con esso il percorso della storia, sia spezzato e ricondotto ad un non tempo, o a un tempo aurorale prima di ogni storia. È appunto il momento di azzeramento del tempo e della storia che produce la festa, è il ritorno al caos primordiale, in cui, non essendosi ancora prodotta storia, non si sono nemmeno prodotte le divisioni sociali e nel quale dunque quelle divisioni non esistono, vengono sospese. È questo il senso delle inversioni di gerarchia sociale che si producono in certe feste come i Saturnali romani o le molte forme di feste medievali di tipo carnevalesco, anche se nate prima della nascita del Carnevale strettamente inteso. Si tratta delle varie feste dei folli, o comunque denominate, in cui per un periodo delimitato si stabiliscono nuove e rovesciate gerarchie con l'elezione ad esempio di un vescovo bambino o di un vescovo folle, oppure dei vari re e regine della festa. Ancora una volta le fonti sono quelle ecclesiastiche, che condan47

nano e proibiscono, anche se, a giudicare dalla scarsa efficacia, non si sa con quanta convinzione. Già la tradizione cristiana ha prodotto fin dall'inizio del Medioevo e anche da prima condanne contro i rituali pagani di Capodanno, cui indulgono, come ammonisce Cesario di Arles 32, non solo i pagani ma anche i battezzati. Questi rituali - ed è soprattutto questo che attira riprovazione - comportano travestimenti di uomini in animali o di uomini in donne, oltre a balli, canti e sfrenatezze sessuali e alimentari. Queste stesse componenti si trovano anche nelle feste dei folli, ma con l'aggravante che i riti avvengono dentro la chiesa e comportano una evidente derisione di pratiche e di funzioni ecclesiali. Anche perché, come meglio si vedrà nei prossimi capitoli, se la fruizione di queste feste è anche popolare, la loro origine e la loro organizzazione è radicata ben dentro la cultura ufficiale perché coinvolge uno dei suoi soggetti più istituzionali, la schola. È questa la ragione per cui alla degradazione e all'irrisione partecipa lo stesso clero, come è evidente dalla nota decretale di papa Innocenzo III, del 1207: Frattanto avvengono, nelle chiese stesse, spettacoli teatrali e, non solo si introducono, con fini di scherno, mostruose mascherate ma anche, nei tre giorni di festa che seguono il Natale di Cristo, i diaconi, i presbiteri, i suddiaconi, a vicenda ostentando le bizzarrie della propria follia, con i propri gesti, con oscene esaltazioni alla presenza del popolo, avviliscono il decoro sacerdotale. 33 La persistenza di queste feste, con caratteristiche sostanzialmente immutate, continua ad esserci accreditata anche per i secoli successivi dai canoni dei concili, come quello di Nantes del 1431, che riconosce esplicitamente le caratteristiche attuali - la festa degli innocenti gestita dagli scolari - ma anche la valenza antropologica, nutrita di residui pagani, di queste feste: In tali chiese [ ... ] si è radicata e si mantiene l'usanza [ ... ] che nelle feste di Natale, S. Stefano, S. Giovanni e SS. Innocenti, alcuni eleggono e ordinano, nelle proprie chiese, scegliendolo tra i novizi, un Papa, alcuni un Vescovo, altri un Duca o un Conte o un Principe [ ... ] E tali prati32 Sermo Pseudo-August., CXXIX de Kal. Ian., attribuito a Cesario di Arles, riportato da Chambers, 1903, I, pp. 207-8. 33 Il testo latino è in Chambers, 1903, II, p. 297. La traduzione è quella in Doglio, 1982, p. 115.

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che [ ... J in volgare sono dette feste degli stolti, poiché si crede che siano nate da molto tempo dai residui delle Kalende di Gennaio. 34 Questa persistenza e questa reiterazione delle condanne, molte volte con le stesse parole e comunque sempre con gli stessi argomenti, si potrebbero spiegare con due ordini di ragioni, non necessariamente contrapposti ed anzi probabilmente complementari. Da un lato esse sono la testimonianza di una impotenza sostanziale della Chiesa nei confronti di tradizioni fortemente radicate, a conferma della illusorietà del mito del Medioevo cristiano; mentre dall'altro potrebbero valere come spia di una accettazione di fatto di queste pratiche, proprio per il loro ruolo centrale nei meccanismi sociali. Analizzando astrattamente il modello di funzionamento, la valenza sociopolitica di queste feste è infatti duplice, e duplice è di conseguenza l'interpretazione che se ne può fornire, a seconda dell'elemento della loro intrinseca ambiguità che si privilegia. Si tratta da un lato di momenti rigorosamente circoscritti nel tempo e sufficientemente codificati per quanto riguarda occorrenza stagionale e svolgimento, tali dunque da poter costituire una sorta di valvola di sfogo che il potere nelle sue diverse forme offre al popolo in cambio della sottomissione in tutti gli altri momenti dell'anno. Ma dall'altro lato si tratta anche di spazi in cui le classi subalterne sperimentano modalità di vita, meccanismi di opposizione sociale, forme culturali per molti versi alternative rispetto a quelli delle classi dominanti. La festa, dunque, a seconda della prospettiva, come forma potenziale di opposizione oppure come tranquillante sociale. Quello che è certo, e che del resto più ci può interessare in questa sede, è che questa festa non può non costituirsi in attività ritualizzata. La ritualizzazione, che comporta una persistenza il più possibile uguale a se stessa dei comportamenti, è del resto tratto caratterizzante della cultura popolare e in generale dell'intera cultura medievale. Ma, sotto un altro profilo, può anche costituire un meccanismo di salvaguardia istituzionale per il potere, perché, per le sue stesse caratteristiche, manifesta immediatamente la sua diversità, la sua irriducibilità al mondo quotidiano, la sua separatezza dal tempo profano, che è tempo del lavoro e del rispetto delle gerarchie sociali. 34

Il testo latino è in Chambers, 1903, I, p. 293.

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Questi mondi alla rovescia, questi paesi di cuccagna, evocati in continuazione dall'immaginario medievale, non costituiscono tuttavia solo quel momento di saldatura tra modello lineare e modello circolare del tempo, cui si accennava sopra, ma esprimono anche un'altra sutura, un'altra congiunzione forzosa tra due tempi reciprocamente irriducibili, quello dell'esistenza finita dell'uomo e delle cose del mondo, e quello infinito ed eterno del mondo ultraterreno. Soprattutto le feste legate alla fecondità della terra e che marcano i cambi di stagione, specie l'inizio della primavera, conservano evidentemente una sacralità pagana che neppure la loro cristianizzazione è riuscita ad assorbire. Tutte queste feste sono primariamente cerimonie di propiziazione legate a riti di fertilità, per cui è evidente che l'azzeramento del tempo deve qui servire ad individuare una sorta di momento sospeso, di terreno neutrale ed assoluto in cui il mondo terreno e il mondo ultra terreno , il mondo dei vivi e il mondo dei morti, possano incontrarsi e comunicare. Alla mentalità sostanzialmente pagana dell'uomo incolto medievale questo legame col non visibile deve apparire necessariamente come un rapporto col mondo degli inferi e dei morti. Dovendo salvaguardare la buona crescita di ciò che l'uomo ha posto sottoterra - il seme - , il rito deve di necessità propiziarsi le forze che risiedono e comandano sottoterra, cioè appunto gli dèi inferi e i morti. Nel momento ogni anno rinnovato del ritorno a prima del tempo e a prima di ogni storia, si produce anche a questo riguardo un rovesciamento di funzione e una rottura dell'ordine quotidiano, per cui chi abita sottoterra può, per quel periodo, abitare sulla terra e qui prendere il potere. Così le schiere dei diavoli, le brigate degli Arlecchini, percorrono le campagne senza incontrare resistenza, e così, anche, il diavolo e l'Inferno stesso divengono elementi ineliminabili della festività popolare diffusa ma poi anche dell'immaginario popolare sedimentato nella struttura scenica dei drammi sacri. Certo anche la figura del diavolo mantiene in queste manifestazioni la sostanziale ambiguità di tutti i segni della cultura popolare, per cui da un lato è raffigurazione spaventosa, elemento di deterrenza contro il peccato, ma dall'altro è sottoposto anch'esso a quella forma di abbassamento di cui parla Bachtin, o comunque ad un meccanismo di esorcizzazione, per cui ne risalta soprattutto la dimensione buffonesca e grottesca.

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Il sostrato di paganesimo di questi riti è evidente, anche quando la Chiesa tende a sincretizzare con queste tradizioni i propri culti. È il caso ad esempio delle feste di San Giovanni o dell'Epifania, oppure ancora della Pasqua, che è festa cristiana fra le maggiori ma non ha data fissa e dipende da un calendario naturale come i cicli lunari e che si incrocia con la pratica del risus paschalis 35. A testimoniare ancora una volta che non esiste separatezza tra le due culture, quella cristiana e quella popolare, per cui una cultura popolare allo stato puro, senza influenza cristiana, nel Medioevo non esiste - ma per molti versi è vero anche il contrario. Tuttavia il martellamento ideologico della Chiesa contro le feste e la teatralità diffusa è stato, lungo tutto il Medioevo, veramente costante, tanto che si potrebbe, volendo, rintracciare il filo di una continuità, mai veramente interrotta, tra le violente condanne dei Padri della Chiesa nei confronti degli spettacoli e dei ludì in genere, e gli attacchi altrettanto violenti contro questa festività medievale paganeggiante, fino a ricongiungersi alle condanne, di nuovo, al teatro e agli attori, quando l'uno e gli altri avranno riconquistato una identità solida, con la Commedia dell'Arte 36. Anzi, in certi momenti la battaglia contro feste e riti non cristiani diviene ancor più vitale proprio perché, come s'è visto, queste pratiche sono venute spesso ad insediarsi dentro alle chiese stesse. E questo fin dai primi secoli del Medioevo, se già a cavallo tra fine VI e inizio VII secolo il Concilio di Auxerre stabilisce che «non è lecito in chiesa fare cori di laici o canti di donne, né preparare banchetti» 37. E il Concilio di Roma dell'826 ribadisce: Sui banchetti da non farsi nei giorni festivi (esponiamo i motivi) con queste parole: ci sono alcuni, specialmente donne, che nei giorni festivi e sacri, e nei natali dei Santi, amano venire non per desiderio di quelle cose di cui devono, ma procurano di venire per ballare, cantare ritmi osceni, tenere e guidare danze, comportarsi come pagani. Cosicché questi se son venuti con minori peccati alla chiesa, se ne tornano con maggiori. 38

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38

Bachtin, 1979, p. 89. Se ne vedano le testimonianze in Taviani, 1969. Il testo latino è in Chambers, 1903, I, p. 161. Documenti pontifici sul teatro, 1966, p. 28.

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Ed esempi analoghi si potrebbero rintracciare lungo tutto il Medioevo, fino all' orientamento 2 della Sessione XXI del Concilio di Basilea, Ferrara, Firenze, Roma, stabilito nel 1445: Questo santo concilio detesta anche quel turpe abuso frequente in alcune chiese, per cui in certe festività dell'anno alcuni con mitria pastorale e vesti pontificali benedicono a modo di vescovi, altri si presentano vestiti come re e comandanti, festa che in alcune regioni è chiamata festa dei pazzi o degli innocenti, ovvero dei fanciulli, altri fanno divertimenti in maschera e teatrali, altri vi fanno danze e tripudi di maschi e uomini che si vestono da donna per spettacolo ed eccitano gli sghignazzamenti, altri vi preparano crapule e' banchetti: questo santo concilio ha stabilito e ordina sia agli ordinati che ai decani e ai rettori delle chiese, sotto pena di sospensione di tutti i proventi ecclesiastici per lo spazio di tre mesi, che non permettano più che si esercitino questi e simili ludibri e i mercati fieristici nella chiesa, che deve essere casa di preghiera, e neppure si esercitino nel cimitero, e non trascurino di punire i trasgressori per mezzo di censura ecclesiastica e per mezzo di altri rimedi del diritto. 39

L'accenno, peraltro nient'affatto isolato nei documenti, alle feste e ai riti nei cimiteri potrebbe indurci a considerare un altro tipo di ritualità, a cavallo tra demonologia e paganesimo, quello della stregoneria. Ma in epoca medievale - ed è curioso rilevarlo, perché nel senso comune stregoneria e Medioevo sono spesso legati strettamente - la stregoneria appare molto poco presente. O meglio, dato che le nostre fonti sono sempre quelle cristiane che vanno interrogate al contrario, appare molto poco alla registrazione dei testi, perché in quest'epoca la Chiesa non crede alle streghe e alla stregoneria, ed anzi l'analisi dei penitenziali ad esempio 40, testimonia che essa condanna come superstizione la credenza in questi fenomeni. È solo col Malleus maleficarum, verso la fine del XV secolo, che la strega diviene un personaggio centrale dei rapporti tra cultura cristiana e cultura popolare, e i sabba, i riti stregoneschi, le pratiche di maleficio diventano, almeno nelle descrizioni degli inquisitori e nelle confessioni estorte con la tortura, rituali codificati e spettacolari . Prima, gli atti di stregoneria non si differenziano sostanzialmente 39 40

Ivi, pp. 36-37. Gurevic, 1986, pp. 125-72.

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dai rituali di guarigione dei taumaturghi e dei falsi santi, o dalle pratiche para-teatrali dei mendicanti e falsi o veri storpi, che frequentano paesi e luoghi di aggregazione sociale, in stretta vicinanza con istrioni e giocolieri, assieme ai quali spesso vengono menzionati. Ma si tratta di forme para-teatrali difficilmente documentabili se non in epoca molto tarda e sostanzialmente quindi fuori dai confini del Medioevo, anche se è possibile intenderle come pratiche di tipo medievale per tipologie comunicative e rapporto col proprio pubblico. Sono quindi due le tradizioni di teatralità diffusa che attraversano in certo senso sommersamente il Medioevo alto e medio, per riemergere alla registrazione storica nel tardo Medioevo. Una è quella dei mimi, degli istrioni, dei giocolieri, che si mescola a volte con le pratiche di simulazione dei guaritori e dei mendicanti, che porterà da un lato, prima, alle figure esteticamente e socialmente più consapevoli dei giullari, e dall'altro poi alle forme basse e di piazza della Commedia dell' Arte. La seconda è quella della teatralità sciolta nella festa e nei riti popolari. Questi ludi popolari, che spesso, nonostante le condanne ufficiali, vengono tollerati ed anche a volte organizzati e diretti dal clero 41, produrranno forme codificate di teatro popolare, come ad esempio i maggi, ma ancora a livello di festa è possibile rintracciare elementi para-teatrali - che prevedono un agire ritualizzato e codificato e magari comportano un mascheramento e un travestimento - e che pur nella esperibilità comunitaria contengono tratti di spettacolarità, almeno nel senso minimo di atti costruiti intenzionalmente perché qualcuno li guardi e dunque a questa finalità resi funzionali. Si tratta di tutti quegli elementi che Paolo Toschi individua nel rito-spettacolo, dal corteo al canto alla musica alla danza alla narrazione all'azione in senso lato teatrale con l'assunzione di personaggi 42. La letteratura sul folklore, a cominciare, per l'Italia, proprio dal volume di Toschi, ci ha consegnato una sufficiente massa di informazioni su danze come le moresche e le zingaresche, sui testamenti di Carnevale o di suoi equivalenti (il maiale, l'asino, il tacchino) e sui riti della morte simbolica, con processioni, pianti e uccisione liberatoria; sui contrasti (ad esempio, tra Carnevale e la Quaresima); 41 42

Chambers, 1903, I, p. 93. Toschi, 1976.

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su forme drammatiche più compiute come i bruscelli, i manaZ1 o i maggi, in cui i motivi relativi alla fecondità della terra si coniugano con quelli della fecondità umana, con la celebrazione simbolica e reale di fidanzamenti e matrimoni, danze e canti rituali e azioni drammatiche (ad esempio il contrasto per la mano di una fanciulla). La difficoltà per l'analisi di queste forme drammatiche e para-teatrali è che spesso la documentazione riguarda persistenze moderne o addirittura contemporanee di queste tradizioni, per cui se è lecito supporre una nascita in epoca medievale, e spesso anche alto-medievale (ad esempio le varie forme di testamento), meno lecito è proiettare in quest'epoca le forme che le fonti ci testimoniano. Quel che è certo, ed è ciò che in questa sede dovrebbe maggiormente interessarci, è che queste forme possiedono le caratteristiche che vedremo essere fondanti della teatralità medievale: la situazione tendenzialmente comunitaria, lo scambio di ruoli tra attori e spettatori (specie nelle danze finali delle feste); l'epicità, la tensione più verso il mantenimento delle forme e il rispetto della tradizione che verso la novità; l'intendere questi atti non nella dimensione estetica ma in quella antropologica, con valenze sia ludiche che rituali; in definitiva il qualificarsi di queste feste e di questi riti come evento e solo secondariamente come rappresentazione. E il fatto di essere ripetuto annualmente, lungi dal depotenziare le valenze evenemenziali delle feste, serve a rinsaldarne la ritualità, ad evidenziarne il rapporto col sacro. Di un sacro che ha le sue radici e le sue ragioni soprattutto nel rapporto dell'uomo con la sua comunità e con la natura, e dunque, per la coscienza medievale, non con l'altro da sé ma con ciò che è anche sé. L'uomo medievale, si è detto, non si concepisce che in comunità, ma quello stesso uomo non riesce a sentire la natura, i suoi ritmi e le sue manifestazioni come staccati dalla propria esistenza, come entità separate. È questa la ragione fondamentale per cui quei riti e quelle feste, pur contenendo tante azioni e tanti comportamenti che ad un occhio moderno appaiono spettacolari, non giungono a trasformarsi in teatro, perché manca loro, in misura necessaria a caratterizzare l'evento, quella rappresentazione di altro da sé ad altri da sé che della forma-teatro è costitutiva. E questa è la ragione per cui è difficile riconoscere in certe rappresentazioni che ancora oggi si possono osservare (osservare, appunto, da spettatori staccati), come i maggi dell'appennino tosco-emiliano, le caratteristiche di quella teatralità originaria. Certo alcuni

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rilevanti tratti medievali permangono, come la convenzionalizzazione estrema di quel particolare tipo di recitazione-canto, la disposizione frammentata e non unitaria della scena (di solito ci sono quattro case agli angoli della radura che serve da spazio scenico), l'epicità marcata dalla presenza del suggeritore in scena. Ma è l'intenzionalità ormai solo rappresentativa e il rapporto spettacolare col pubblico che ne fanno altra cosa: teatro, sia pur popolare, in senso moderno.

Parte seconda DALLA TEATRALITÀ AL TEATRO

Capitolo primo

I GIULLARI: I MODELLI TEORICI Naturalmente è del tutto arbitrario il criterio con cui si è voluto distinguere questo capitolo dalla prima parte del capitolo precedente, che tratta dei mimi e degli istrioni dell'alto Medioevo, dispersi per l'Europa alla disgregazione dell'Impero romano. Non c'è un momento di cesura, e per molto tempo non c'è nemmeno una differenza di condizione tra i due gruppi: anche quando gli attori cominceranno ad essere prevalentemente chiamati col nuovo nome non cesseranno per questo di essere soggetti socialmente degradati, moralmente condannati, con un repertorio, una tecnica e uno stile di vita non dissimili da quelli dei loro predecessori. Nella nostra prospettiva, pertanto, è sostanzialmente irrilevante il problema della denominazione, il rintracciare quando compaia il termine joculator o quando compaiano i suoi derivati volgari, tra cui appunto l'italiano giullare 1. Una volta assodato che la comparsa o meglio ancora la generalizzata adozione del nuovo termine non è segno della nascita di un nuovo tipo di attore, come testimonia anche l'assoluta indistinzione con cui i diversi termini per designare gli attori vengono usati, la questione terminologica perde per noi di 1 FaraI, 1910, p. 17, cita un documento dell'836 come il più antico in cui compaia il termine ioculatores, mentre Menéndez Pidal, 1957, p. 6, ricorda come già nel VII secolo appaia joculares. In questi due testi si veda comunque la discussione sul problema con la dettagliata citazione delle fonti (del volume di FaraI è notevole, a questo riguardo, l'Appendice III, che raccoglie antologicamente una grande massa di documenti). Le declinazioni in volgare, joglar, ;ogler, ;uglar, giullare o assimilabili compaiono in genere nell'XI secolo. Sul termine, anche Du Cange, 1954, IV, p. 422.

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rilevanza. Non è senza interesse, invece, rimarcare il fenomeno davvero impressionante della proliferazione delle denominazioni, che può permetterci di illuminare meglio la condizione sociale dell'attore. Un catalogo completo dei termini in qualche modo riferibili all'atti· vità attorale che i testi medievali ci trasmettono - catalogo che si comporrebbe di non poche decine di voci - ci mostrerebbe da un lato il contesto di degrado sociale' dato dalla contiguità di questi termini con quelli che designano il mondo multiforme dei mendicanti, delle prostitute, dei fuorilegge, mentre dall'altro si rivelerebbe con la sua varietà stessa indice sicuro di condanna morale. In una società come quella medievale, infatti, particolarmente attenta alla corrispondenza tra i nomi e le funzioni, preoccupata sempre che le denominazioni rispettino le gerarchie sociali, far mancare ad una categoria di individui un nome che li designi con precisione e dunque con precisione li situi nel sistema dei rapporti della società - e la proliferazione dei nomi, è inutile sottolinearlo, non è che l'altra faccia dell'assenza di denominazione - , equivale evidentemente a spingere quegli stessi individui ai margini e tendenzialmente al di fuori del contesto sociale. E infatti, quando il giullare si porrà con precisione il problema del riconoscimento sociale, porrà contestualmente il problema del nome, come vedremo con chiarezza nella Supplica di Guiraut Riquier. Accontentiamoci solo di qualche esempio di questa proliferazione terminologica, per familiarizzare coi nomi con cui nei documenti troviamo indicati gli attori ma anche per mostrare appunto come questa varietà marchi una sostanziale indeterminatezza definitoria, tanto che non tenterò nemmeno di tradurre questi termini sostanzialmente omologhi per i quali mancherebbe una analoga varietà in italiano. Senza pretese di filologia, nel senso che non ci interessa qui definire quando i termini compaiono per la prima volta, e limitandoci per ora al solo universo delle denominazioni in latino, vediamo ad esempio che nel IX secolo, ai classici mimi, histriones, thymelici, ludiones, si vanno aggiungendo nugatores, manzeres, scurrae 2; poi nel Policraticus di Giovanni di Salisbury, alla metà del XII secolo, l'elenco si allunga: mimi, salii vel saliares, balatrones, aemiliani, gladiatores, palaestritae, gignadii, praestigiatores 3; altri nomi si aggiun2 3

Ansegisus, Capitul., cito da FaraI, 1910, p. 273. Giovanni di Salisbury, Policraticus, I, 8, P.L., 99, col. 406.

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gono in un manoscritto del XIII secolo, mescolati con quelli degli indovini e degli incantator~ funambuli, saltatores, assieme al già diffuso jaculatores 4; ed altri ancora, da circulatores a agyrtae, vengono riportati sparsamente da Muratori 5. Ma il documento più interessante a questo proposito è nella Summa de Arte prosandi, della seconda metà del XIII secolo, in cui gli attori sono menzionati in un multiforme elenco di reietti sociali nel quale riesce difficile distinguere una condizione dall'altra: pauperes, debiles, ceci, claudi, manci, loripedes, vel alias corpore deformati, kalones, joculatores, saltatores, fidicines, tibicines, lyricines, tubicines, cornicines, hystriones, gesticulatores, nebulones, parasiti, umbre, mensivagi, scurre, ribaldi, buflardi, adulatores, carciones, proditores, traditores, detractores, susurrones, filii perditionis apostate, lotrices, publice mulieres quasi syrenes 6. È dunque questo mondo variegato, questo contesto di collocazione e soprattutto di valutazione sociale, questa multiformità di prestazioni professionali che dovremo sempre tenere come sottofondo quando d'ora in avanti si parlerà di questa categoria di persone che sbrigativamente, salvo ulteriori specificazioni, denominerò giullari. Perché questa semplificazione terminologica abbia un senso, tuttavia, è necessaria una definizione preliminare di giullare, che tutte queste attività in qualche modo comprenda. Come utile inquadramento vale ancora l'incipit famoso del volume di FaraI: Un giullare è un essere multiplo; è un musico, un poeta, un attore, un saltimbanco; è una sorta di addetto ai piaceri alla corte di re e principi; è un vagabondo che vaga per le strade e dà spettacolo nei villaggi; è il suonatore di ghironda che, a ogni tappa, canta le canzoni di gesta ai pellegrini; è il ciarlatano che diverte la folla agli incroci delle strade; è l'autore e 1'attore degli spettacoli che si danno i giorni di festa all'uscita della chiesa; è il conduttore delle danze che fa ballare la gioventù; è il cantimpanca, è il suonatore di tromba che scandisce la marcia delle processioni; è 1'afIabulatore, il cantore che rallegra festini, nozze, veglie; è il cavallerizzo che volteggia sui cavalli; l'acrobata che danza sulle mani, che fa giochi coi coltelli, che attraversa i cerchi di corsa, che mangia il fuoco, che fa il contorsionista; il saltimbanco sbrufIone e imitatore; il

4 De septem sacramentis, Bibl. Nat., ms. lat. 14859, citato da Gautier, 1892, II, p. 11. 5 Muratori, 1739, col. 840 e passim. 6 Cuonrado, Summa de Arte prosandi, cito da FaraI, 1910, p. 323.

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buffone che fa lo scemo e che dice scempiaggini; il giullare è tutto ciò e altro ancora. 7 Certo, è altro ancora, soprattutto alla fine del Medioevo, quando la dimensione poetica o quella strettamente attorale, di rappresentazione di un personaggio, diverranno prevalenti rispetto a quelle di tipo circense. Ma è anche naturalmente molto meno, nel senso che questo inventario, peraltro incompleto come vedremo, non è appunto che un catalogo, un repertorio generale di attività entro cui i singoli giullari si ritagliano il proprio repertorio particolare. E rammento quanto già accennavo nel capitolo precedente: se un processo evolutivo c'è stato, a questo proposito, è assai probabile che si sia trattato di un'evoluzione dalla non specializzazione alla specializzazione, come itinerario verso il riconoscimento di una professionalità. La definizione che FaraI trae dal suo elenco, per poter essere onnicomprensiva punta dunque più che sulle abilità o le tecniche attorali sul professionismo e sulla funzione sociale dei giullari, che sono perciò tutti quelli che facevano professione di divertire gli uomini 8, Definizione che sarebbe accettabile, nella sua generalità, se, come osserva giustamente Menéndez Pidal, non mancasse ogni dimensione spettacolare, ogni accenno alla specificità di queste azioni che divertono gli uomini. Menéndez Pidal stesso, quindi, propone una sua definizione, ugualmente generale ma, mi pare, più precisa, secondo la quale i giullari sono tutti coloro che si guadagnavano la vita agendo davanti a un pubblico 9. Come si. vede, dalla genericità di queste definizioni è assente ogni valenza di teatralità. Il problema che si pone allo storico dello spettacolo, infatti, sia davanti a queste definizioni che davanti alle descrizioni del concreto agire dei giullari medievali, è innanzi tutto il riconoscimento della digni~à, di attore a queste figure. Duvignaud, ad esempio, gliela nega: si tratterà magari di mimi particolarmente dotati ma non certo di attori, figure peraltro impossibili in una società come quella medievale priva di teatro in senso pieno l0. E a voler intendere il teatro in questa accezione forte, è chiaro che 7 Faral, 1910, p. 1. In generale sui mimi medievali si veda anche Nicoll, 1963, pp. 135-68. 8 FaraI, 1910, p. 2. 9 Menéndez Pidal, 1957, p. 3. IO Duvignaud, 1965, p. 49_

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questi soUazzi elementari dell'umanità, cui essa ritorna quando è lasciata a se stessa, come scrive con una punta di aristocratico dirigismo Mario Apollonio, non sorpassano quel limite; tanto che lo stesso studioso sottolinea, a sostegno della propria tesi, che il giullare di norma non diventa personaggio e dunque rimane al di qua del teatro, cioè non rappresenta ma espone 11. Naturalmente questo è vero, ma è vero anche che oggi si dovrebbe generalmente essere d'accordo nel riconoscere valenze di te atralità in questi spettacoli, non molto dissimili peraltro da certe operazioni del Dario Fo affabulatore e giullare - appunto - , che a fatica potrebbero definirsi non-teatrali. Il problema vero, in realtà, è un altro, ed è quello dell'individuazione o meno della pertinenza teatrale dello spettacolo giullaresco non tanto nel contesto di oggi, ma all'interno stesso della società medievale. Fino a che punto, cioè, la cultura medievale riconosce nei giullari i portatori - e per molti secoli gli unici portatori - del valore teatro? Lungo tutto il Medioevo un filo di continuità nel riconoscimento diretto o indiretto di questo valore è costituito dalle condanne degli istrioni e dei giullari da parte degli scrittori cristiani e della Chiesa, che individuano con chiarezza in queste figure gli eredi diretti degli attori e dei mimi della classicità romana. Come si è cercato di documentare con ampiezza nei capitoli precedenti, la qualità degli argomenti di queste condanne è assolutamente omologa da Tertulliano alla fine del Medioevo ed oltre. Naturalmente con delle evoluzioni significative: ad esempio vanno via via perdendo consistenza le pur originariamente fondamentali accuse di idolatria e sempre più diventano invece determinanti le caratteristiche che già si erano trovate alla base del discredito sociale e culturale dell'attore tardo-romano, ossia sostanzialmente il dar spettacolo del proprio corpo e il farlo per mestiere. Sul problema del professionismo tornerò più avanti. Per ora è l'altro aspetto, quello del dar spettacolo tramite il proprio corpo, che maggiormente mi preme, anche perché è questo il nodo davvero centrale. Nonostante per noi oggi sia chiaro che il giullare è uno dei primari portatori di oralità del mondo medievale - portatore anzi di un discorso più generale anche se di statuto meno preciso di quello

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Apollonio, 1981, pp. 76 e 80.

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del sacerdote e del giudice 12 - , curiosamente nei testi cristiani esso si trova quasi costantemente deprivato della parola, descritto come pura corporeità. Certo, se questo discorso volesse essere più preciso di quanto qui non occorra, sarebbe necessario fare intervenire delle specificazioni. Da un lato individuando le discriminanti che separano, al riguardo, tra XIII e XIV secolo, gli ordini religiosi, coi domenicani, ad esempio, più ideologicamente ostili ai giullari e i francescani invece come vedremo più compromessi con le tecniche attoriche. E dall'altro riconoscendo delle evoluzioni storiche, perché questa visione del giullare come corpo, e come corpo che si muove scompostamente, che è assoluta per i secoli alto-medievali, tende a relativizzarsi per le epoche più recenti, pur senza tuttavia né scomparire né perdere di pregnanza ideologica. Basterebbe per questo riprendere le fonti già citate nei capitoli precedenti, ma forse questa avversione violenta per l'ostentazione spettacolare del proprio corpo si evidenzia maggiormente quando, intorno al XIII secolo, anche la cultura cristiana comincia ad istituzionalizzare delle distinzioni gerarchiche tra i vari tipi di giullari. Esemplare a questo riguardo è il citatissimo brano dal Penitenziale di Tommaso di Cobham, che riconosce appunto tre generi di istrioni, il cui ordine gerarchico vede all'ultimo gradino coloro che « trasformano e trasfigurano il proprio corpo sia con turpi salti o gesticolazioni sia turpemente denudandosi, sia ancora indossando orribili maschere » 13. Tornerò ancora su questa classificazione, che è naturalmente un documento importantissimo per comprendere sia le specializzazioni degli attori sia la loro collocazione differenziata nel contesto sociale e sulla scala dei valori dell'accettabilità morale. Per ora vorrei solo sottolineare come da quel processo che a partire dal XIII secolo tende a riqualificare socialmente e culturalmente gli attori e il loro mestiere, siano ancora assolutamente esclusi gli istrioni che si affidano alla corporeità. Ma questo aspetto del corpo in movimento e spettacolarizzato come specifico dell'attività dell'attore, si coglie forse ancor meglio, come dimostrano Carla Casagrande e Silvana Vecchio con convincente documentazione 14, con strumenti indiretti,

Zumthor, 1986, p. 26. Tommaso di Cobham, Penitenziale, cito da Chambers, 1903, II, p. 262. Casagrande-Vecchio, 1978, pp. 228-39. Parzialmente rielaborati, gli stessi temi si trovano anche in Casagrande-Vecchio, 1979. 12

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ad esempio nella distinzione sempre operante anche se spesso implicita tra gestualità e gesticolazione - modalità quest'ultima, ovviamente negativa, attribuita al giullare - o nell'essere sempre il modo di comportarsi del giullare, tutto rivolto alla comunicazione amplificata e all'esteriorità, una sorta di carta di tornasole negativa, anche se spesso non nominata, nelle prescrizioni per i buoni cristiani e soprattutto per i religiosi, il cui comportamento deve improntarsi alla misura dei gesti e alla discrezione. Quello del rapporto tra monaci, soprattutto predicatori, e giullari è del resto un tema ricorrente nella trattatistica medievale e anche delle ricostruzioni storiche, nelle quali spesso ritroviamo le due figure protagoniste di un confronto che al di sotto di un apparente reciproco disinteresse mostra non pochi momenti di incontro. Inizialmente, e l'ho appena sottolineato, il rapporto è di opposizione, ma già l'insistenza programmatica su questa opposizione è testimonianza evidente della percezione e del riconoscimento del pericolo di una qualche sovrapposizione di ruoli. Se si raccomanda con tanta frequenza ai predicatori di non comportarsi come giullari, ai monaci di pregare e di cantare con spirito religioso e non con gusto dello spettacolo, vuoI dire probabilmente che queste tendenze sono largamente presenti nella realtà. Del resto, sempre in quel XIII secolo che è per questi processi il momento decisivo, i segni della compenetrazione tra i due universi, con fenomeni di utilizzazione dei giullari a scopi religiosi da un lato 15 e di spettacolazione della predicazione dall'altro, sono evidenti 16. Non si tratta solo di Francesco d'Assisi che si fa giullare di Dio, compiendo con ciò un'operazione duplice, di assunzione di tecniche e insieme di dignificazione del soggetto sociale che di quelle tecniche è portatore. Si tratta di un processo più generale, di occupazione progressiva dello spazio specifico dei giullari - che è lo spazio fisico della piazza, ma anche quello sociale della conquista di un pubblico e quello tecnico della utilizzazione degli strumenti comunicativi da parte di una categoria concorrente di operatori. Alcuni episodi sono riportati da Salimbene nella sua Cronica, ad esempio quello 15 È il caso, come meglio vedremo nel prossimo capitolo, dei giullari che raccontano le vite dei santi, ma anche dell'utilizzazione delle abilità professionali giullaresche all'interno del teatro religioso. 16 Si veda Magli I., 1977, pp. 63-74. Contro le prediche in qualche modo spettacolarizzate prende posizione Dante, Par., XXIX, vv. 85-126.

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della predicazione di fra Gherardo che, nascondendo la testa in un cappuccio, si immerge in una meditazione dalla quale esce con la visione di quanto sta facendo contemporaneamente in un'altra città un confratello col quale aveva preso accordi in precedenza, suscitando cosi stupore e, alla verifica successiva dell'esattezza della visione, procurando si grande credito 17. Nel secolo successivo questa tendenza si estende, fino a giungere a pratiche come quelle di Tommasuccio da Foligno, anch'esso francescano, che si vale di veri e propri trucchi da ciarlatano di piazza, come le candele tenute accese dentro la bocca senza bruciarsi, di cui si serve per attirare la curiosità dei senesi e cosi procurarsi un pubblico per le proprie prediche 18. Ma la geniale operazione carnevalesca di Francesco 19, che porterà poi a queste operazioni mistificatorie molto più grossolane, non fa che assumere con coraggio a fondamento della propria pratica di azione nel mondo un principio cui peraltro la Chiesa è giunta da tempo, secondo cui al popolo, diversamente che ai chierici o ai dotti, occorre rivolgersi più con l'evidenza delle cose mostrate che con la retorica della parola. Questo principio, già messo in atto con la decorazione pittorica o plastica delle chiese, ad esempio, applicandosi al piano della comunicazione personale, della educazione o della persuasione tramite la predica, non può non incontrare le pratiche attorali dei giullari e ad esse attingere. Questo processo di aggiramento della specificità attorale dei giullari, dalla ripulsa ideologica alla condanna sociale alla progressiva anche se parziale legittimazione alla assunzione in qualche modo dello stesso spazio operativo e delle stesse tecniche, acquisisce un punto fermo istituzionale, sempre nel XIII secolo, col riconoscimento da parte di Tommaso d'Aquino della liceità morale e sociale del mestiere di attore, che è un ribaltamento assoluto, anche se raggiunto, come s'è visto, per avvicinamenti progressivi, rispetto alle posizioni tradizionali della cultura cristiana. Col suo intervento, nel contesto di una generale rivalutazione dei ludì come strumenti di sollievo, Tommaso sposta l'attenzione dalla professione in sé ai modi, ai tempi e ai luoghi in cui essa si manifesta, i quali soli possono essere

Salimbene, 1987, p. 108. Il testo latino è in Salimbene, 1966, p. 108. Si veda Miccoli, 1974, pp. 832-33. Ginzburg, 1972, pp. 615-16. Sui rapporti tra il francescanesimo e la teatralità, si veda Il francescanesimo e il teatro medievale, 1984. 17 18 19

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oggetto di valutazione morale, e dunque giudicati buoni o cattivi, opportuni o inopportuni: Il mestiere degli istrioni [ ... ] non è di per sé illecito, né essi sono in stato di peccato, purché si servano dello spettacolo in maniera moderata, cioè non sfruttando per lo spettacolo parole o azioni illecite e non unendo lo spettacolo ad occupazioni e tempi indebiti. 20 Analoga posizione si ritrova, nello stesso giro d'anni, Bonaventura, a proposito della danza:

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Dico pertanto che lo spettacolo di danza non è cattivo in sé [ ... ]; ma diviene cattivo per quattro cause, cioè per il modo, quando è un modo lascivo; per il fine, quando è per provocare libidine; per il tempo, perché non sia in tempo di tristezza; per la persona, perché non venga fatto da un religioso. Al di là di ciò, è ammissibile. 21 Tuttavia, nonostante la loro autorevolezza, si può dire che queste siano posizioni di fatto elitarie e sostanzialmente minoritarie, che hanno semmai il merito di comporre in un onorevole compromesso la scissione che invece è generalmente corrente in tutti gli ultimi secoli del Medioevo, tra una condanna ideologica che sempre più riproduce vecchie formule e una pratica che ad essa è per molti versi contraddittoria. Ciò che, comunque, è sempre ben presente nelle pieghe della cultura cristiana, senza distinzione in questo tra le varie epoche e tra le posizioni teoriche e la prassi, è la consapevolezza della specificità teatrale dell'operare dei giullari. E in questa prospettiva potrebbe spiegarsi anche la sistematica e distorcente riduzione dell'attore a sola corporeità. Privare il giullare della parola vuoI dire da un lato renderlo un bersaglio più agevole da attaccare e un soggetto più facile da tenere a distanza, e dall'altro eliminare tendenzialmente, almeno sul piano del riconoscimento, un pericolosissimo antagonista in quel confronto di discorsi su cui si intesse la cultura medievale. Il chierico, portatore istituzionale della parola, non può 20 Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, II, II, p. 168, a. 3, in Tommaso, 1962, p. 730. 21 Bonaventura, Commentaria in quattuor libros Sententiarum, d. XIII, in Opera Omnia, 1889, p. 401.

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riconoscere ad un altro soggetto sociale, per di più così degradato, una funzione analoga alla propria, e dunque un ruolo la cui portata antropologica non sarebbe a quel punto più dissimulabile. Non a caso, come vedremo, quando la parola sarà gran parte dell'operare dei giullari, e dunque non rimuovibile, come nei cantori di gesta o delle vite dei santi, la strategia delle istituzioni ecclesiastiche sarà più di assorbimento che di contrapposizione, nel tentativo di utilizzare strumentalmente nel proprio contesto ideologico abilità e tecniche che ad esso sarebbero estranee. Perché il perno intorno a cui tutto sembra girare, e rispetto al quale tutte le altre questioni - dall'indecenza degli spettacoli alla cattiva condotta di vita - risultano del tutto secondarie, è quello del riconoscimento dell'attività attorale come attività altra, irriducibile ad una normalizzazione che la possa inserire nei parametri di una quotidianità controllabile. E per questo la funzione antropologica dell'attore è in eliminabile e le sue tecniche, per povere e rudimentali che siano o che possano parere a noi posteri smaliziati, mantengono una specificità in qualche modo iniziatica, della stessa natura, e dunque ad essa concorrente, di quella del sacerdote. E infatti la Chiesa, tra le istituzioni e i centri di potere culturale e civile del mondo medievale prima dell'Umanesimo, è l'unica a cogliere il portato di teatralità vera, con tutte le sue implicazioni sia antropologiche che ideologiche che sociali e culturali, dei giullari. Lo ha colto tanto bene che, paradossalmente, mentre non tralascia mai di parlare degli attori nel contesto dei discorsi di soggetto morale, nella precettistica sul comportamento o nelle condanne dei mali della società, riesce a non parlare di attori, almeno di attori contemporanei a quei discorsi, quando parla di teatro. È il caso, davvero clamoroso, della trattazione sulla theatrica nel Didascalicon di Ugo di San Vittore, nel XII secolo. La theatrica, che è nozione modernissima 22 in quanto raggruppa in un'unica categoria e sottomette ad una trattazione unitaria tutte le attività spettacolari, dimostrando così di comprenderne il fondamento comune appunto di teatralità, è una delle sette scienze meccaniche e per la prima volta entra nell'enciclopedia medievale. Se si considera il contesto - le altre scienze meccaniche sono lanificium, armatura, navigatio, agricultura, venatio, medicina - , e soprattutto la sua collocazione tra 22

Tatarkiewicz, 1965, p. 266.

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le scienze meccaniche, appare chiaro che la theatrica è assunta nel suo valore antropologico, di risposta a un bisogno primario, altrettanto centrale di quelli di difendersi, di coprirsi, di procurarsi il cibo o di curarsi. Per questo la theatrica è intesa in senso molto generale, come scientia ludorum, e dunque riunisce assieme teatro, spettacoli circensi, danze, canti, giochi. Addirittura nell'elenco sono comprese quelle occasioni in cui « all'interno dei templi, nelle feste solenni, si cantavano le lodi degli dèi» 23, che è frase abbastanza curiosa, perché da un lato riecheggia le antiche formulazioni cristiane da Tertulliano in poi sull'origine pagana degli spettacoli, ma dall'altro ha un tono inconsuetamente non spregiativo. È in ogni caso evidente la valenza intrinsecamente antropologica, e dunque di fatto positiva, almeno come remedium all'infirmitas dell'uomo sociale 24, della theatrica. E poiché Ugo dimostra chiaramente come essa non si ritrovi solo nei teatri ma si possa individuare anche nella teatralità diffusa dei cantori, dei suonatori, dei danzatori, degli operatori degli spettacoli circensi, parrebbe naturale il rimando ai detentori a lui contemporanei di quelle tecniche, cioè ai giullari. E invece non solo i giullari o gli attori comunque denominati, che Ugo chiaramente non poteva non conoscere, non sono affatto nominati, ma l'intero discorso riguardante la theatrica è svolto coi tempi al passato, con esempi tratti dall'antichità e una formulazione che denuncia l'uso di fonti cristiane arcaiche, soprattutto Isidoro di Siviglia. Insomma Ugo, volendo in qualche modo legittimare antropologicamente la teatralità ma temendo di legittimare con ciò anche i portatori contemporanei di quelle stesse istanze - operazione che a differenza di quanto faranno Tommaso e Bonaventura qualche decennio più tardi non si sente evidentemente in grado di compiere - , si è risolto ad una grandiosa opera di rimozione, in cui i verbi al passato fanno intendere che, quantunque la teatralità sia cosa accettabile e soprattutto necessaria in quanto antropologicamente centrale, alla sua epoca qualcosa di paragonabile ad essa non esiste più: «la teorizzazione del teatro richiede il sacrificio degli attori» 25. E non vale al proposito la possibile obiezione che anche i tempi della sua fonte, Isidoro, come vedremo nell'ultimo 23 Didascalicon, II, 28, P.L., 176, col. 760. La traduzione italiana è in Ugo di San Vittore, 1987, p. 114. 24 Casagrande-Vecchio, 1978, pp. 208-11. 2S Ivi, p. 212.

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capitolo, sono al passato, perché diverso è l'occhio con cui i due autori guardano al fenomeno. Per Isidoro, nel VII secolo, si tratta di descrivere un modo come quello classico che è davvero passato, mentre Ugo analizza la theatrica, come le altre scienze meccaniche, con una intenzione metastorica e in un contesto che è quello di una ricognizione di concetti rintracciabili e soprattutto spendibili nel vivere contemporaneo. Proprio per questo la rimozione è cosi clamorosa, e il procedimento di rimando al passato è talmente inconsueto rispetto al suo stesso contesto (naturalmente per tutte le altre scienze meccaniche i tempi sono al presente), che risulta in tutta la sua paradossale evidenza la consapevolezza precisa da parte di Ugo e in genere di tutti quelli che alla sua teorizzazione della theatrica si sono rifatti 26, dell'appartenenza dell'azione dei giullari all'area della teatralità. Quella stessa consapevolezza che, in generale, non è mai mancata lungo tutto il Medioevo alla cultura cristiana, che è poi l'unica e mantiene un filo di collegamento con la cultura classica. Anche se poi questi canali interni di trasmissione del sapere ne distorcono i contenuti come è appunto il caso delle trattazioni sugli spettacoli. Gli effetti di questo tramandarsi tendenzioso dei contenuti della cultura romana hanno portato, per quel che riguarda il nostro discorso, alla formulazione di quell'idea di una frattura di teatralità dalla Roma imperiale all'epoca della rinascita del teatro in ambito cristiano che ancora oggi si ritrova nelle idee correnti sulla storia del teatro. I mimi, gli istrioni, i giullari che dall'alto Medioevo all'inizio del teatro liturgico costituiscono, assieme alla festività diffusa, l'unico luogo della teatralità, e ancora fino all'inizio dell'età moderna di questa teatralità sono stati comunque il polo non religioso, sono stati in realtà rimossi, come soggetti teatrali, dalla autocoscienza della cultura medievale. E lo strumento di questa rimozione - che sostanzialmente, oltre alla collocazione in un contesto di moeurs dei discorsi che li riguardano, è la riduzione dequalificante dell'attore a pura corporeità - sarà chiaramente leggibile in epoca successiva, quando i primi tentativi proto-umanistici di ricostruire

26 Si veda la storia della nozione di theatrica dopo Ugo, sia nell'ambito della cultura vittorina che in contesti culturali ed epoche ulteriori, in Tatarkiewicz, 1965.

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il modello del teatro romano sulla base di quegli strumenti conoscitivi porteranno, come meglio vedremo nell'ultimo capitolo, alla completa scissione tra chi è portatore di parola e chi è portatore di gesto. L'ipotesi infatti sarà che, sul pulpito della scena romana, il poeta leggesse a voce alta il proprio testo mentre sotto di lui gli attori, muti, via via mimavano le situazioni e le azioni. Proprio da questo esempio si può vedere, nell'esito finale del processo, quali siano le principali cause del non riconoscimento del giullare come soggetto teatrale, riassumibili sostanzialmente in due privazioni, reali e simboliche al tempo stesso: la privazione di uno spazio specifico e la privazione della parola e, a maggior ragione, della scrittura. Fintanto che l'attore si trova dentro al teatro, collocato in uno spazio che da un lato lo qualifica e dall'altro lo isola dalla quotidianità della vita sociale, chiunque, anche chi lo disprezza, è disposto a riconoscergli la sua qualità, a individuarlo come portatore di teatralità. È ancora Ugo di San Vittore, in questo peraltro interprete fedele delle fonti cristiane arcaiche citate nel secondo capitolo, ad indicare lo spazio teatrale come luogo specializzato ma anche come luogo di segregazione istituzionalizzata di un contagio che non deve toccare gli altri spazi del sociale: «probabilmente gli antichi vollero fissare luoghi ben definiti per gli spettacoli pubblici, ritenuti di tanto in tanto necessari, per impedire che nelle locande si verificassero scandali e delitti» TI. Quando quel contenitore si rompe e il contagio dilaga, non più circoscrivibile e non più controllabile, come avviene con il disperso attore medievale, la linea di difesa è di negare l'esistenza del morbo, perché, se esso non è estirpabile, almeno la gente non lo riconosca per quel che è. Ed è questa appunto la posizione non solo di Ugo ma quella generalizzata della cultura ufficiale. Allora l'attore non otterrà una sua legittimazione culturale, un suo ruolo riconosciuto, in sostanza una sua funzione accettata nel contesto sociale, se non quando ritroverà un suo luogo specifico d'azione. E questo avverrà parzialmente coi menestrelli stabilmente al servizio di una corte, ma soprattutto col ridisegnarsi del teatro in senso forte, nelle diverse evoluzioni del dramma sacro prima e nelle forme di un teatro umanistico alla ricerca di un riaggancio alla classicità poi. L'altra privazione, parimenti decisiva, è quell'interdizione ad 27

Ugo di San Vittore, 1987, p. 114.

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essere portatori di parola su cui già ho insistito e che perdurerà sostanzialmente fino a quando i giullari non si impadroniranno della parola scritta, che è l'unico strumento in grado di farli emergere alla memoria storica senza mediazioni. Quando i giullari avranno raggiunto la padronanza della scrittura,' si porranno tuttavia come il prodotto di un processo che tenderà alloro superamento come attori per sfociare in una figura differente e nuova, quella del trovatore, che è poeta, intellettuale, operatore di cultura ma tendenzialmente non più attore. La tradizionale distinzione scolastica vuole che il giullare sia colui che recita o canta composizioni non sue, mentre il trovatore è appunto il compositore che spesso si serve poi del giullare per far eseguire in pubblico le proprie opere. Testimonianze di questa concezione sono reperibili con abbondanza nei testi medievali, a cominciare dalla Supplica di Guiraut Riquier per finire con una lettera famosa di Petrarca a Boccaccio sull'attività dei giullari come meri esecutori: Tu ben conosci quella razza di uomini divenuta a dì nostri volgare tanto e comune da non poterne cansare il fastidio, i quali campan la vita andando intorno, e ripetendo parole altrui. Dotati di scarso ingegno, ma di buona memoria, pieni di accortezza, ma più di audacia, si aggirano per le corti dei Grandi e dei Re, e nulla recando del proprio, ma facendosi belli de' versi altrui, quanto di meglio seppero procacciarsi scritto da questo o da quel Poeta, spezialmente nel materno idioma, van declamando con artifizio di molta espressione, e dai Signori ne hanno in ricambio favore, danari, vestimenta, ed altri regali de' così fatti. 28

E indubbiamente il risultato finale è questo, con la tendenziale scissione degli operatori dello spettacolo in due figure distinte e con interessi sociali e funzioni culturali contrapposti. Nell'epoca della decisiva emergenza dei trovatori, tra XII e XIII secolo, quasi non si contano infatti le contrapposizioni tra le due categorie, soprattutto per la necessità, ormai divenuta essenziale per la definizione stessa della propria identità, che i trovatori hanno di differenziarsi dai giullari, istituendo una precisa gerarchia tra le due figure. Ma questa stessa insistenza è, al solito, assai sospetta. Anche 28 Il testo latino è in Epist. rerum sen., V, 2. La traduzione italiana è quella in Petrarca, 1869-70, I, p. 270.

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se il problema dell'origine della specificità trobadorica è, come tutti i problemi di origine, oscuro e mal posto, è ormai sufficientemente chiaro infatti che, soprattutto all'inizio, la linea di demarcazione è tutt'altro che netta, e che il trovatore non è figura che nasca all'improvviso dal nulla, non essendo, in generale, che l'ultima declinazione della categoria del giullare. Come scrive FaraI, all'inizio il trovatore non è altra cosa, è solo un nome diverso per designare il giullare 29, e in generale, molto spesso, il trovatore dei primi tempi vive assai più del proprio essere giullare che dell'essere poeta. Ma è chiaro che quella che si va delineando è una figura nuova, molto più consapevole del proprio ruolo. È il risultato di un processo di culturalizzazione cui hanno contribuito l'accostarsi alla giulleria di soggetti di estrazione sociale più elevata e la contaminazione con la cultura dotta ad esempio ad opera dei goliardi, compagni di strada e spesso di mestiere dei giullari. Se si leggono le biografie dei trovatori 30, si può vedere come spesso questi non siano che giullari che, anche, scrivono i propri testi. Ma a questo risultato hanno anche contribuito, in modo quantitativamente marginale ma qualitativamente non prescindibile, gli apporti di quei nobili, come ad esempio il duca francese Guglielmo IX - che è anzi il più antico trovatore di cui ci sia pervenuta l'opera - , che giungono alla scrittura senza la mediazione, per loro socialmente improponibile, della professione giullaresca. Tuttavia, anche se il tratto della nobiltà arriva a segnare ideologicamente contenuti e funzione dell' attività trobadorica 3!, i nobili non vi si sarebbero accostati se un processo storico preciso non ne avesse determinato la praticabilità. E questo processo non poteva avere come motore che l'unico soggetto sociale che di quei meccanismi era padrone, ossia il giullare, operatore di spettacolo e poi di spettacolo e di scrittura. È dalla confluenza di questi due fattori - approdo alla giulleria di individui più colti, e accostamento alla letteratura di soggetti sociali che provengono da ambienti più elevati - che si determina quella situazione apparentemente anomala e che sempre più spesso viene indicata come significante per cui, tra il centinaio di trova tori provenzali di cui si possiede una biografia, una quindicina 29 FaraI, 1910, p. 79. Su questo aspetto della indistinzione sostanziale tra trovatore primitivo e giullare insiste anche Menéndez Pidal, 1957, pp. 8-10. 30 Boutière-Schutz, 1964. 3! Kèìhler, 1976; Antonelli-Bianchini, 1983, pp. 171-81.

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sono figli di borghesi, una ventina rampolli di piccola nobiltà, e poi addirittura cinque sono re, due principi e due vescovi 32. Poi - e si parla di una successione più logica che cronologica, nel senso che si tratta di un processo frastagliato e tutt'altro che uniforme - il poeta che ha potuto dedicarsi solo alla scrittura, grazie soprattutto al fatto di essere economicamente indipendente o per la sua condizione sociale di appartenenza o per essersi messo al servizio di un signore che lo paga per questo, prende bruscamente le distanze da chi è rimasto solo esecutore, reclamando egli stesso una nuova gerarchizzazione tra chi è portatore di scrittura, e dunque di sapere, e chi è solo portatore di tecniche di esecuzione. E di nuovo si riproduce, anche all'interno dell'universo giullaresco e dunque per vie diverse da quelle della cultura cristiana, quel meccanismo di deprivazione della parola, o di dequalificazione di una parola cui manca la qualità ormai discriminante dell'originalità, che relega gli attori ad un ruolo subalterno. Questo processo di rivendicazione di dignità culturale e sociale del poeta ormai non più attore e di contemporanea presa di distanza da chi attore rimane, lo troviamo esplicitato in maniera esemplare nella più volte citata Supplica che Guiraut Riquier indirizza al re Alfonso X di Castiglia nel 1274, seguita l'anno dopo da una risposta firmata dallo stesso re ma in realtà scritta sempre da Guiraut 33. La risposta del re, la Declaratio, costituirà un documento importantissimo quando, nel capitolo prossimo, si tratterà di individuare le categorie dei giullari e le diversità dei loro spettacoli. In questo contesto, invece, è la prima parte, la Supplicatio appunto, che riveste il maggiore interesse, proprio perché in essa sono espressi con chiarezza i motivi della presa di distanza dei trova tori. La questione si presenta sotto una apparenza nominalistica, perché il trovatore Guiraut non sopporta di condividere il nome di giullare con ogni specie di individui anche di pochissimo valore e il cui unico tratto comune è quello di dare spettacolo. Ogni ceto sociale - scrive Guiraut - dai religiosi ai nobili ai borghesi ai mercanti agli artigiani ai contadini, possiede sia un nome generale, che lo definisce come classe, sia una serie di nomi particolari che, Jeanroy, 1934, I, pp. 132-33. Il testo e la traduzione sono quelli pubblicati da Valeria BertolucciPizzorusso, 1966. 32

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designando le attività specifiche, collocano le varie categorie nel contesto sociale: così i religiosi si suddividono in frati, a loro volta specificati dalla condizione, e poi ancora in diaconi, preti, elemosinari, arcipreti, arcidiaconi, prevosti, ecc. a seconda del grado conseguito nella gerarchia; oppure gli artigiani si riconoscono soprattutto in relazione al lavoro specifico che svolgono. E allora anche i giullari devono avere una gerarchia di nomi che ne indichino le diverse attività: Perciò ho stimato che sarebbe conveniente [stabilire una distinzione] di nomi fra i giullari, ché non sta bene che i migliori fra loro non abbiano di nome l'onore che hanno di fatto; ché mal sopporto che un uomo senza cultura, di meschina condotta, purché conosca un poco uno strumento qualsiasi, se ne vada a suonarlo in pubblico, per le strade, chiedendo e mendicando doni [ ... ]. Il fatto è che si sogliano chiamare giullari, senz'altro nome, sia quelli di cui si è detto, sia quelli che usano soltanto giochi di prestigio, sia quelli che esibiscono scimmie e marionette, sia altri ai quali non è dato comportarsi in modo esemplare 34. Naturalmente, per svolgere in modo convincente il proprio di· scorso, Guiraut non esita a ricorrere al topos del decadimento dei costumi, che è paradigma coerente alla sensibilità del tempo, e propone uno schema di sviluppo storico del tutto rovesciato rispetto alla realtà, individuando una mitica età originaria in cui giulleria fu inventata per la prima volta da uomini di senno forniti di alquanta scienza, al fine di mettere i valenti sulla via della gaiezza e dell'onore [ ... ]. In seguito vennero i trovatori a narrare in versi lodevoli imprese per esaltare i prodi e dar loro ardimento nelle nobili azioni [ ... ]. Ma al giorno d'oggi (anzi, da tempo) si è fatta avanti una sorta di persone senza alcuna capacità di fare o di dire cose piacevoli e senza discernimento, che s'impacciano di cantare, di far versi o di suonar stru· menti, senza alcuna creanza, purché possano chiedere, ad emulazione dei valenti 35. Ma è nel finale della Supplica che Guiraut colloca il senso vero del proprio intervento, quando rivendica un nome diverso e dunque un differente riconoscimento sociale e culturale al trovatore-poeta 34 35

Bertolucci-Pizzorusso, 1966, p. 79 (trad.) e pp. 64-65 (testo), vv. 554·587. Ivi, pp. 79 e 65-66, vv. 588-627.

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non solo in quanto portatore della parola ma specialmente in quanto titolare della parola scritta, che è l'unica che resiste al tempo, e che resta anche quando le performances degli altri giullari si sono esaurite nella loro effimerità: il mestiere e il modo di intrattenere di quelli che suonano strumenti o fanno imitazioni o altro è di gran conto, ma soltanto per il tempo in cui li si vede e li si ascolta; mentre si ricordano le composizioni e tutto quello che fanno di buono i poeti colti e avveduti, capaci di buoni versi, la produzione dei quali è valida anche in seguito, quanto a piacevolezza e a senso, benché i poeti siano morti, come se fossero presenti. 36

Questo testo di Guiraut, così netto ed esplicito, mi pare esemplare per intendere il processo che qui si è concluso. La rivendicazione di superiorità culturale che il poeta compie è effettuata attraverso la contrapposizione tra performance effimera e scrittura duratura e soprattutto capitalizzabile, dunque tra evento spettacolare e testo scritto, e quindi in nome della letteratura contro il teatro. Il giullare dunque, unico portatore della teatralità laica per tutto il Medioevo, nella sua declinazione colta del trovato re del XIII secolo, chiede ed ottiene una dignificazione culturale e il riconoscimento di una funzione sociale positiva solo a patto di impadronirsi della parola scritta e di uscire in definitiva dal teatro, abbandonando quest'ul. timo, ancora, a quelle categorie degradate di attori per i quali quel percorso di dignificazione è come se non fosse mai stato compiuto. Il letterato si allontana sempre più dalla professione di dar spettacolo di sé, e per di più egli stesso comincia a considerare disprezzabile quella professione. Ed anzi, da quando si istituiscono differenziazioni gerarchiche, se il giullare che produce testi e dunque accede alla parola anche scritta conquista un più qualificante ruolo nella società, l'attore come professionista dello spettacolo viene ancor più sospinto nella marginalità. Ce lo conferma un manoscritto del XIII secolo, in cui tra i giullari è istituita la medesima distinzione che già abbiamo trovato in Tommaso di Cobham, con la corporeità contrapposta alla parola e alla musica e in più il professionismo contrapposto al dilettantismo e allo scopo didattico:

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Ivi, pp. 81 e 68-69, vv. 734-747.

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Sui giullari bisogna distinguere. Alcuni [ ... ] si procurano da vivere col ludibrio e la turpitudine del proprio corpo, deformando ciò che è immagine di Dio; di questi sono vere le cose che abbiamo detto: l'Apostolo prescrive che tutti costoro debbano essere scomunicati e allontanati dalla Chiesa, poiché mangiano pane procurato con l'ozio. Ma se cantano con strumenti o le canzoni di gesta per divertimento o magari a scopo educativo, sono vicini alla giustificazione. 37 Trattando dei giullari, come, prima, degli attori romani e, dopo, dei comici dell'arte, ci si imbatte sempre nel professionismo come categoria che li definisce e insieme li discrimina. Per quel che riguarda i giullari, il tema è ricorrente, collegato a quello della loro avidità. Chi fa professione d'attore non produce oggetti scambiabili con denaro e dunque, almeno prima che lo spettacolo venga istituito come merce collocabile sul mercato e comprabile col pagamento del biglietto - il che avverrà con le rappresentazioni dei Misteri in piazza da un lato e con la Commedia dell'Arte dall'altro - , deve vivere di donativi. Ed è infatti sempre presente nella cultura medievale il topos del giullare avido di doni, e dunque adulatore o maldicente a seconda della convenienza o della soddisfazione. Questo aspetto, anzi, della richiesta insistente di donativi e della prassi corrente di concederli, diviene in molti testi medievali sufficiente da solo a definire i giullari come categoria. Basti pensare ai versi del Tesoretto di Brunetto Latini, nella seconda metà del XIII secolo: Hacci gente di corte che sono use ed acorte a sollazzar la gente ma domandan sovente denari e vestimenti. 38 Oppure alle numerose autopresentazioni dei giullari, che scrivono componimenti al solo scopo di chiedere la ricompensa, come nel De septem sacramentis, cito da Gautier, 1892, II, p. 24. Brunetto Latini, Il Tesoretto, in Poeti del Duecento, II, a cura di G. Contini, 1960, p. 228, vV. 1495-1499. Brunetto parla ancora della figura del giullare, che disegna come un uomo che deride ogni cosa, compresi se stesso e la propria famiglia, nel Tlesor: Livres dou Tresor, a cura di P. Chabaille, Paris, Imprimerie Impériale, 1843, cap. XXXIV, p. 302. 37 38

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caso famoso del Salv' a lo vescovo senato, che ha per scopo la richiesta di un cavallo 39, o di questo testo di Colin Muset, del XIII secolo, tutto giocato sul tema della ricompensa e di cui riproduco la prima strofa: Signor conte, ho suonato la viola Davanti a voi, nel vostro palazzo, E non m'avete regalato nulla, Né pagato salario: È villania! Per la fede che devo a Santa Maria, Cosi non potrò stare al vostro seguito: La mia scarsella è poco fornita E la mia borsa poco piena. 40 Questa del chiedere ed accettare doni, anzi, diviene un'altra delle linee di demarcazione tra trovatori, che si vogliono disinteressati, e giullari. Significativa, ad esempio, è la tenzone tra Joan d'Albuison e Sordello, in cui quest'ultimo, accusato di essersi fatto giullare per povertà e di accettare doni, sostiene di essere giullare solo in quanto poeta, ma l'avversario gli rinfaccia: Pos joglars non es, com prezes, Sordel, autan draps del Marques?

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E del resto è quasi un luogo comune della trattatistica e della cronachistica medievali rilevare come i giullari di qualsiasi specializzazione accorrano alle corti bandite o alle festività solenni dei signori come ad esempio i matrimoni, col miraggio di ricevere doni e soprattutto vestiti. Numerosi casi li segnala Muratori, e tra essi quello delle nozze di Galeazzo Visconti e Beatrice d'Este nel 1300 a Milano, in cui « furono donati ai giullari più di settemila capi di buon panno » 42. 39 È il famoso Ritmo laurenziano, che si può leggere in Poeti del Duecento, I, pp. 5-6. 40 La traduzione è quella di Roncaglia, 1961, pp. 445-4'1; il testo originale è in Les chansons de Colin Muset, a cura di Joseph Bédier, Paris 1938, p. 9, vv. 1-9. 41 Sordello, Le poesie, a cura di M. Boni, Bologna 1954, pp. 72-75 (n. XIII). 42 Muratori, 1739, col. 843.

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Anche la Chiesa, come si è più volte ripetuto, poggia sul professionismo di istrioni e giullari, associato al loro nomadismo, buona parte dei motivi della propria condanna, tanto che, da Alcuino almeno a San Tommaso, si preoccupa molto spesso di condannare più i fedeli che fanno doni agli attori che gli attori stessi. In tutti i casi è in opera lo stesso meccanismo già individuato nei Padri della Chiesa ed ancor prima nella cultura romana: dar spettacolo di sé è cosa impudica e non dignitosa, farlo a pagamento non è cosa diversa dal prostituirsi. Ma è anche un altro implicito giudizio di valore che agisce, quello che vede nel mestiere dell'attore pane procurato con l'ozio, ossia un'attività che non produce, che non crea beni o ricchezze e anzi ne dilapida: ciò che è appunto la caratteristica fondante della teatralità come categoria, in ogni contesto storico e antropologico 43, come anche la ragione della sua alterità costante riguardo al tessuto sociale e ai principi che lo regolano. E si comprende allora con chiarezza la spendibilità vincente della carta giocata da Guiraut Riquier e la riuscita del meccanismo che si è storicamente innescato: l'attore impegnato in performances effimere e non capitalizzabili, in attività senza prodotto, resta nella marginalità di una noncultura, mentre il trovatore-poeta, che scrive testi che restano e dunque sono a tutti gli effetti prodotti culturalmente capitalizzabili e spendibili, acquista un ruolo sociale e culturale. Ma appartiene ormai alla letteratura e non più al teatro.

43 Ho già affrontato questo tema in Allegri, 1982, cui mi permetto di rimandare.

Capitolo secondo

I GIULLARI: CONDIZIONI E MODI DELLO SPETTACOLO Ormai l'accordo tra gli studiosi è praticamente unanime: l'unico filo di continuità, sul piano della pratica e non della memoria del teatro, tra lo spettacolo romano e quello medievale, non è costituito certo dal repertorio dei testi e dunque dalla letteratura teatrale, ma dall'attività degli attori. Nessun dubbio dunque che l'attore medievale, nelle sue diverse determinazioni fino al giullare, discenda in modo diretto e senza fratture dagli istrioni tardo-antichi, secondo una ricostruzione storica che era già del vecchio Petit de Julleville, oltre un secolo fa: L'interruzione del repertorio comico era assoluta: ma lo era anche nella derivazione degli attori? Se la farsa quando rinasce non deve niente a Plauto, i giullari, questi più antichi attori del Medioevo, non erano gli eredi diretti degli istrioni e dei mimi romani? [ ... ] Razza imperitura e, sotto venti nomi diversi, sempre simile a se stessa, ha attraversato dieci secoli senza molto modificare né i propri costumi né la propria fisionomia 1. Il quesito che ha animato il dibattito tra gli studiosi è stato invece un altro: questa dai mimi romani è l'unica linea di discendenza riconoscibile nei giullari, oppure occorre individuarne un'altra nella tradizione attorica delle culture barbare, quella degli scaldi islandesi e norvegesi e soprattutto degli skops anglosassoni? Gautier, 1

Petit de Julleville, 1889, p. 17.

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De Bartholomaeis e FaraI, ad esempio, ritengono unica la derivazione romana, tanto che quest'ultimo arriva ad ipotizzare una azione inversa, per cui sarebbero gli attori di discendenza tardo-romana ad influire sugli skops, obbligando li ad una mutazione antropologica che porterà alla loro scomparsa: sarebbe accaduto cioè che gli attori barbari, che erano soprattutto cantori epici con un ruolo sociale molto più alto e dignitoso dei loro colleghi proto-giullareschi, per contrastare l'invadenza ed il crescente successo di questi ultimi, si siano fatti giullari essi stessi, adottandone le tecniche basse e dunque degradandosi socialmente fino a scomparire come categoria autonoma 2. Chambers o Menéndez Pidal, invece, e più recentemente Zumthor, danno credito alla doppia discendenza, sia pur con argomentazioni differenti. Zumthor, in realtà, dandola come per scontata 3; Chambers deducendo da questa duplice paternità la doppia natura del giullare medievale che, in quanto figlio del mimo romano, è turpe, socialmente degradato e portatore di tecniche basse, e in quanto figlio dello skop anglosassone è invece cantore e poeta e dunque socialmente e culturalmente più accreditabile 4; e Menéndez Pidal affidandosi in certo modo al buon senso: se il giullare ha, tra le sue altre attività, quella di cantare le gesta epiche della nobiltà barbara, viaggiando di castello in castello, pare naturale che per questo aspetto derivi dai cantori barbari che viaggiavano di corte in corte, cantando come autori o come semplici recita tori narrazioni eroiche, sconosciute ai romani; è impossibile credere che la vita signorile del Medioevo, che contiene tanti elementi di origine germanica, non debba per quanto riguarda i giullari nulla ai costumi degli invasori, dato oltretutto che sappiamo che dal VI secolo al tempo di Carlomagno quei poeti e cantori barbari percorrevano le corti dell'Europa occidentale convivendo coi mimi e con quelli che già erano i nuovi giullari. 5

Ed è questa, credo, l'ipotesi più probabile. Purché sia chiaro che, alla fine di quel processo di omogeneizzazione culturale che ha portato alla riconoscibilità di una cultura medievale riscontrabile con 2 Gautier, 1892, II, p. 6; FaraI, 1910, pp. 4-9 e 23; De Bartholomaeis, 1924, p. 22. 3 Zumthor, 1986, p. 4. 4 Chambers, 1903, I, pp. 65-69. 5 Menéndez Pidal, 1957, p. 7.

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pochi scarti nelle società almeno dell'Europa occidentale, anche la mescolanza tra le due tradizioni attoriche è ormai compiuta. Dunque, quando i giullari sono a pieno titolo tali, dall'XI-XII secolo in poi, le distinzioni, salvo casi particolari, sono di gerarchia all'interno di questa unica categoria, che è il prodotto finale del processo. Non mi sembra condivisibile insomma la tesi secondo cui, semplicisticamente, il giullare colto che si risolverà nel trovatore discende in linea diretta dal cantore barbaro mentre il giullare circense viene dal mimo romano, perché prima si è in realtà compiuto un generale rimesco]amento di pratiche attoriche e di ruoli sociali che ha ricondotto in sé e dunque in qualche modo azzerato le due tradizioni precedenti. Piuttosto, in quest'epoca, mi paiono da tenere in conto maggiore di quanto generalmente non si faccia quelle influenze diverse, che Menéndez Pidal ha avuto modo di constatare nel contesto culturàle che più lo interessa, quello iberico, ma che sono operanti anche in altre zone d'Europa, cioè quelle tartare, ebraiche e soprattutto musulmane 6. Nelle corti spagnole del XIII secolo, ma anche in quella siciliana, i rapporti reciproci tra attori cristiani e attori mori sono intensi: basti pensare, ad esempio, che tra i giullari al servizio della corte di Castiglia, nel 1293, uno era ebreo, 12 erano cristiani e ben 13 erano musulmani 7. Nel concreto, non siamo in grado di stabilire con sicurezza il contributo di queste diverse tradizioni alla formazione del repertorio e del bagaglio di tecniche del giullare cristiano, ma è probabile che l'attività principale degli attori musulmani sia quella di musici, cantanti e soprattutto danzatori, sia che si tratti di uomini che, come sovente accade, di donne. Ma quello del rapporto tra peculiarità culturali regionali e possibilità di generalizzazione, per quanto riguarda specificamente i giullari, è discorso da affrontare in modo non tangenziale. È evidente anche da questi esempi che, soprattutto per le epoche meno remote per le quali possediamo una maggiore documentazione, la figura del giullare si colora di caratteristiche particolari secondo la zona e dunque il contesto politico e sociale in cui opera, e perciò le influenze che si esercitano su di lui. Così appunto il giullare iberico può inte6 I vi, pp. 7-8 e 95-98. Per le danzatrici saracene alla corte siciliana, Meldolesi, 1973, pp. 41-42 e 50. 7 Menéndez Pidal, 1957, p. 97.

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ragire più di ogni altro con quello musulmano o ebreo, mentre ad esempio il giullare francese è l'esecutore primario delle canzoni di gesta. Ma l'aspetto che non bisogna sottovalutare è quello della permeabilità delle culture locali, in un processo di scambio reciproco di cui proprio i giullari sono forse l'elemento più attivo. Da un lato, infatti, è proprio la relativa universalità delle tecniche di base dell'attività giullaresca - la musica, la danza, i giochi - a rendere esportabili questi spettacoli anche al di fuori dell'ambito culturale in cui sono nati. Dall'altro lato, poi, il nomadismo è caratteristica fondante della giulleria, e i giullari infatti viaggiano molto, al seguito di qualche signore o attirati dalle occasioni festive che possano servire da contesto alle loro esibizioni, come ad esempio le corti bandite, e traversano così confini geografici, politici e culturali, esportando tecniche, temi, formule letterarie e musicali. In tal modo, ad esempio, i giullari francesi portano le canzoni di gesta in Spagna, specie lungo il cammino di Santiago, accompagnando i pellegrinaggi verso Santiago di Compostela, e consentono in tal modo anche ai giullari spagnoli di assumere le stesse tecniche e gli stessi temi, magari con l'introduzione di personaggi iberici nelle vicende cantate. Oppure esportano le vicende di Orlando e dei paladini, e l'abilità di raccontarle, in Germania o in Italia, favorendo anche da noi l'interesse e la passione per quei temi di cui resta traccia ad esempio nella decorazione plastica della Cattedrale di Modena ma anche in alcunì documenti. Nel 1288 si registra ad esempio l'interdizione ai giullari francesi a far spettacolo nelle piazze di Bologna, forse come conseguenza di quella condanna all'infamità ipso jure pronunciata qualche decennio prima dal giurista Odofredo nei riguardi dei cantori di gesta professionisti che evidentemente a Bologna erano popolari. Ma ancora più interessante, perché ci fornisce anche un quadro delle modalità approssimative con cui a forza dì tramitazioni e deformazioni successive arriva al popolo lo spettacolo di questi cantori di gesta - giunti evidentemente in Italia al seguito dei pellegrini in viaggio verso Roma ma poi adattatisi a cantare anche per i pubblici italiani - , è una epistola in latino di Lovato dei Lovati, circa della fine del XIII secolo: Passeggiavo a caso per la città ricca d'acque sorgive che prende nome dai tre' vici' [Treviso], ingannando il tempo col camminare senza fretta, quando scorgo su un palco in piazza un cantore che declama le gesta di

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Francia e le imprese militari di Carlo. Pende il popolino intorno, intende le orecchie, affascinato da quel suo Orfeo. Ascolto in silenzio. Egli con pronuncia straniera deforma qua e là la canzone composta in lingua francese, tutta stravolgendola a capriccio senza curare filo di narrazione né arte di composizione. E tuttavia piaceva al popolo. 8

Il nomadismo istituzionale è dunque una caratteristica fondante del giullare come categoria. Il topos del giullare giramondo, alla continua ricerca di un nuovo pubblico o di un signore più munifico, è presente in tutte le descrizioni, a partire dalle prime generazioni di giullari identificabili con un nome - d'arte naturalmente - , come quel guascone del XII secolo che assume il nome indicativo di Cercamon e che appunto ritroviamo attivo in Spagna. Ma il nomadismo del giullare - beninteso al di fuori di quelle. forme di stanzialità che, come vedremo, lo trasformeranno in menestrello e in parte ne cambieranno natura e funzioni - non è che uno dei termini di una costellazione solidale di valori, o forse meglio di disvalori, che caratterizzano il ruolo sociale degli attori. Nomadismo, infatti, significa instabilità, e instabilità vuoI dire festa 9: il denominatore comune di questa costellazione di termini è dunque lo spiazzamento, l'essere continuamente e istituzionalmente fuori posto. Intanto, come si è ampiamente sottolineato nel capitolo precedente, il giullare non ha ruolo sociale: come persona, come soggetto produttivo dunque non esiste, non ha identità. L'unica sua esistenza è su un piano altro rispetto a quello produttivo, ed è il territorio dello spettacolo e della festa. Per questo, spesso, l'unica identità che gli è concessa e con la quale è conosciuto anche da noi, è un'identità fittizia, un nome che non designa una persona ma un'attività, il nome d'arte. Certo non si tratta di una regola fissa, perché a volte il giullare mantiene il proprio nome di battesimo, magari a volte con l'aggiunta della sua qualifica, come ad esempio Boudec le Tabourer, Ricardo Citharistae o Janyn le Citoler, ma è la diffusione del nome d'arte a dare il segno vero del rapporto del giullare con la propria identità sociale. È un nome, questo, che non ricopre un essere concreto ma un vuoto d'identità, che spiazza il soggetto dal territorio 8 Si vedano testo e traduzione in Roncaglia, 1965, pp. 736-37. Sui cantori di gesta a Bologna, Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi, II, col. 844, e Levi, 1914, p. 6. Sulla diffusione dei cantori di gesta in Italia, FaraI, 1910, pp. 261-62. 9 Zumthor, 1986, p. 16.

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economico-sociale a quella dimensione Iudica che da questo territorio è fuori, e di cui è evidente testimonianza l'intenzione autoironica e immediatamente connotante che il giullare gli assegna. Quando non lo identifica metonimicamente col proprio strumento, come Citola o Cornamusa, il nome d'arte consegna infatti con chiarezza il giullare all'universo metaforico di chi si designa non con un nome ma con una funzione, uno stato d'animo, una situazione particolare. Dolcibene, Malanotte, Maldecorpo, Aenvistevoi, Clarinus, Malapareillez, Pelez, Quatuorova, Passerellus, Sauvache, Simples d'amors, Cercamon, Marcabru, Alegre, Saborejo, Pedro Agudo, Bon amis, Corazon, Maria Sotil, Graciosa, Preciosa, Reginaldo Le Menteur, Perle in the eghe, Guillaume sans manière: ecco alcuni nomi di giullari, di epoche diverse, citati quasi a caso tra quelli di cui resta traccia tra Italia, Francia, Spagna, Inghilterra l0. La dimensione metaforica del nome d'arte è tanto lampante che, come ci tramandano diverse testimonianze tra cui un aneddoto molto citato, facendo scivolare questo nome sul piano dei rapporti sociali, allo stesso modo che prendendo alla lettera una metafora, si ottengono effetti grotteschi. È il caso degli scherzi giocati ai giullari da Guidoguerra e riportati da Boncompagno da Signa: Gli istrioni di tal sorta s'impongono nomi scherzosi, sia per acquistar notorietà con nomi fuor dell'ordinario o per trarre dal proprio nome materia di scherno e per trar l'uditorio alle risa. E cosÌ Guidoguerra, conte palatino di Toscana, con l'interpretazione di siffatti motti, beffò molti giullari. Uno aveva in volgare tal nome che letteralmente significava Pica: e lo costrinse a salir su un albero per volare. E così pure due eran venuti insieme da lui, l'uno che si chiamava Malanotte e l'altro Maldecorpo. E perciò lasciò nudo sul tetto quel che si chiamava Malanotte e mentre nevicava e soffiava all'incontro il vento di tramontana; fece poi distendere Maldecorpo ignudo fra due fuochi e gli fece fregare il corpo con sugna di maiale fintantoché disse forte: sono liberato del tutto. Similmente un giullare si chiamava Abbate: e perciò gli fece radere tutto il capo lasciandogli solo una coroncina di capelli. 11 lO Chambers, 1903, II, pp. 234-58; FaraI, 1910, p. 312; Menéndez PidaI, 1957, p. 4. Per un corposo elenco di nomi e di specializzazioni, soprattutto musicali, desunti da un documento inglese degli inizi del XIV sec., si veda BullockDavies, 1978. 11 La traduzione qui utilizzata è quella che del brano dà Apollonio, 1981, p. 101. Si veda il testo latino di Boncompagno, che è del 1218 circa, in FaraI, 1910, p. 305.

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Dunque quest'uomo che spesso non ha un nome se non per metafora, che non ha un luogo fisso di stazionamento, che non ha uno spazio deputato in cui compiere il proprio lavoro, che non ha un posto né nel sistema economico e produttivo né di conseguenza in quello dei ruoli sociali e delle gerarchie di valori, è costretto ad essere sempre fuori luogo, ad essere sempre altro rispetto al contesto con cui entra in contatto. Non c'è posto, come s'è visto nel capitolo precedente, per il giullare nel sistema simbolico della società e dunque non c'è un ruolo sociale e uno spazio reale in cui sia possibile collocarlo: e per questo, nella vita quotidiana e concreta, il giullare è sempre ospite di qualcuno, occupa sempre precariamente e temporaneamente uno spazio altrui, nel quale viene a collocarsi geograficamente come uno straniero e socialmente come un diverso 12. Diverso innanzi tutto per l'aspetto fisico, che deve immediatamente marcare, al solo sguardo, l'estraneità del giullare ai parametri della quotidianità. Così, soprattutto in Francia, si rade la barba e i capelli, e in generale prende a vestirsi in modo anomalo, molto vistoso, specie con quell'abito di seta vergata, di due colori accostati nel senso dell' altezza, che ne diventa l'abbigliamento caratterizzante. In questo modo il giullare compie un'operazione analoga a quella con la quale si sceglie un nome d'arte, rifiutando cioè quell'identità sociale che l'abito da sempre assegna al proprio portatore, e che del resto per il suo caso non è prevista. Così anche per questa via si autoconsegna al territorio degli emarginati, assumendo un'identità vestimentaria fittizia che lo colloca in un universo spiazzato e spiazzante in cui convive col classico rappresentante di chi è senza identità, il matto, col quale spesso tende a confondersi. E questa diversità istituzionale, il giullare la manterrà anche quando si troverà stabilmente al servizio di un signore, intruppato in una squadra di addetti ai divertimenti per i quali è prevista una vera e propria divisa, che ne segni a un tempo l'appartenenza alla categoria professionale e alla scuderia del suo padrone 13. Ma diverso il giullare è anche in quanto portatore di tecniche e soprattutto di una modalità di dispendio improduttivo del tempo e dell'azione che sono incompatibili con le strutture della quotidia12 Istrioni, giullari e stranieri sono messi sullo stesso piano e assoggettati alla medesima normativa limitante ad esempio in uno statuto di Goslar del 1219: Le Goff, 1983, p. 345. 13 Menéndez Pidal, 1957, p. 5.

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nità e che possono essere coerenti solo con un luogo ed un tempo già a loro volta spiazzati rispetto a quelli della quotidianità, cioè con la situazione festiva. Che ha poi, naturalmente, un amplissimo spettro di possibilità concrete, dalla microfestività anche giornaliera del momento del pranzo del signore, alla festa popolare, alla macrofestività delle grandi occasioni o ricorrenze dinastiche. In tutti questi casi il giullare può portare la propria attività, dalla forma minima che lo vede allietare col canto e con la musica un banchetto in un giorno qualsiasi, avendo per compenso solo di sedersi a quella tavola, alle grandiose occasioni che lo vedono concorrere con centinaia o migliaia di suoi colleghi ai grandi avvenimenti. Sempre relegato in un altrove spaziale e sociale - e si pensi, come estremo di questo meccanismo, addirittura all'altrove temporale in cui lo colloca Ugo di San Vittore - il giullare patisce naturalmente la mancanza di luoghi reali e simbolici che gli siano propri, ma proprio per questo ha il privilegio di poter percorrere trasversalmente i territori della società medievale, che per gli altri soggetti, dotati invece di spazi e ruoli, sono rigidamente determinati. Così, come s'è detto, il giullare attraversa confini geografici e politici, toccando paesi e culture lontane e irraggiungibili per gli altri uomini di qualsiasi condizione; così attraversa confini sociali all'interno della stessa comunità, facendo spettacolo indifferentemente per il popolo, per i borghesi ricchi, per i signori, per i vescovi; così infine, e ciò che è per tanti versi più stupefacente in una società rigida come quella medievale, egli stesso come soggetto sociale attraversa le barriere di classe, sia quando da chierico, da borghese o addirittura da nobile si fa giullare e dunque emarginato, sia quando compie il tragitto inverso divenendo attraverso donativi ricco possidente quando non feudatario 14. Per queste ragioni il giullare, privo di luoghi istituzionali, diviene egli stesso un luogo istituzionale, la sede in cui trovano posto una pratica e un meccanismo simbolico che fanno parte a pieno titolo della cultura medievale, quelli del viaggio, dello spostamento. Più del pellegrino, che spesso è tale solo contingentemente e non come categoria sociale, più del soldato che se pure si sposta non ha nel viaggio l'elemento primario che lo definisca, il giullare è l'espressione simbolica e il veicolo concreto della mobilità e dello sposta14

Si vedano ad esempio i casi citati da F3ral, 1910, p. 29.

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mento come valore non secondario della cultura medievale. Non stupirà, allora, rintracciare forme di istituzionalizzazione di questa funzione sociale conquistata proprio viaggiando tra gli interstizi dei ruoli sociali altrui, da un lato con la consuetudine, ampiamente documentata, di assegnare ai giullari compiti di ambasciatore, sia come semplici latori di messaggi sia anche come incaricati di trattative 15. E dall'altro con la prassi delle lettere di presentazione, che costituiscono appunto il trait d'union tra un luogo e l'altro dell'operare del giullare. Per queste lettere esistono addirittura precisi formulari, di cui ci sono state tramandate diverse redazioni, che costituiscono una testimonianza indiretta ma decisiva insieme del riconoscimento, sia pure informale, della professionalità specifica degli attori, e del loro nomadismo istituzionale. In alcuni casi si tratta di lettere di raccomandazione molto dettagliate, che specificano con cura l'abilità o la specializzazione del singolo giullare, altre volte i formulari sono costruiti per presentare un operatore appartenente a una categoria determinata (danzatore, suonatore d'arpa o di viola, imitatore del canto degli uccelli o del verso degli animali, ecc.), altre volte infine sono del tutto generici come questo tratto dal trattato di Boncompagno: Il latore o la latrice della presente, giullaressa o giullare, il quale o la quale ha voluto intervenire alla nostra corte o alle nostre nozze,

raccomandiamo con particolare cura alla vostra cortesia, pregando per riguardo al nostro affetto che lo o la vogliate ricompensare. 16

Del resto, nessun luogo e nessun contesto in cui potremo trovare i giullari dovrà stupirci, perché essi sono davvero presenti ovunque la vita sociale si addensi e dunque presso ogni soggetto sociale e vicino ad ogni nucleo di potere. Li troviamo, ad esempio, malgrado le condanne ufficiali della Chiesa e della tradizione cristiana, in occasioni religiose e anche in spazi religiosi. L'inconsuetamente ricca dotazione di documenti farfensi segnalataci da De Bartholo15 La documentazione al riguardo è numerosa. Si vedano Mila y Fontanals, 1889, p. 263; Bonifacio, 1907, p. 96; Faral, 1910, p. 114; Menéndez Pidal, 1957, p. 56. 16 Il testo latino è in FaraI, 1910, p. 305. Altri di questi formulari, tratti da manoscritti della Bibl. de l'Arsenal, sono pubblicati da FaraI a p. 122. Diverse testimonianze sul fenomeno sono riportate da Menéndez Pidal, 1957, pp. 86-87.

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maeis 17 ci attesta ad esempio che nell'Abbazia di Farfa, non lontano da Roma, già in epoche relativamente antiche come i secoli XI e XII, giullari italiani, tra i primi di cui si abbia notizia, operano con continuità in stretto contatto coi religiosi, coi quali allestiscono spettacoli come la celebre Cena Cypriani, e dai quali ottengono anche donativi di terre. In seguito i giullari entreranno anche dentro alle chiese, trasportando le loro abilità tecniche soprattutto di musici nelle feste liturgiche spettacolarizzate e nel teatro religioso. E più in generale non è affatto infrequente, accostandosi alla vita medievale nella sua quotidianità e fuori dai parametri ideologici, incontrare giullari che siedono alla mensa di vescovi e abati, non diversamente che a quella dei signori laici, e che addirittura li accompagnano nelle visite pastorali alle comunità di fedeli. Per il fedele del resto, proprio come tale e non solo come uomo del popolo, la presenza del giullare è una costante difficilmente prescindibile. Se lo trova infatti a dettare il passo con la musica nelle processioni e, ancor più, a scandire le stazioni dei pellegrinaggi verso i santuari, ricreato dalla sua musica e dalle canzoni di gesta o più spesso educato dal racconto edificante delle vite dei santi. Se lo trova in quelle feste religiose in cui non è facile scindere la festività ritualizzata di tipo sacro da quella profana di cui appunto il giullare è portatore. Se lo trova, a volte, accanto al letto in cui giace malato, come medicina per sollevare l'animo, o addirittura vicino al catafalco a cantare durante la veglia funebre 18. Proprio a causa di situazioni come queste è facile capire come l'uomo del popolo non possa nella sostanza recepire le condanne ufficiali che la Chiesa continua ad emanare, e come dunque accetti, presumibilmente con gioia, la presenza dei giullari in tutte le innumerevoli occasioni in cui ne viene toccato. Cosa che avviene principalmente o quando lo spettacolo è offerto da un qualche potere costituito - signore, vescovo, municipalità - , oppure nella situazione del mercato e della fiera, contenitore naturale, in quanto denso grumo di socialità, dell'attività giullaresca. Le forme più diffuse in queste situazioni popolari sono naturalmente quelle di tipo basso, circense, ma, in Francia soprattutto ma anche in Italia o in Spagna 19,

17 18 19

De Bartholomaeis, 1928, pp. 37-47. Si vedano FaraI, 1910, pp. 97 e 293; Menéndez Pidal, 1957, pp. 75-77. Per quanto riguarda l'Italia si veda la documentazione citata alla nota 8;

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non mancano altri generi, come le canzoni di gesta. La piazza del mercato è tanto il luogo privilegiato dell'incontro tra popolo e giullari che uscire al mercato è espressione tipica per indicare uno spettacolo rivolto al popolo e ai borghesi, così come andar per corte o simili significa naturalmente rivolgersi ai signori. L'altro grande momento di primaria rilevanza nella vita dell'uomo medievale, oltre a quelli che scandiscono la vita religiosa nei luoghi sacri e la vita sociale nella piazza del mercato, è la guerra, momento così drammatico e poco festivo che si fatica ad intravedervi la presenza del giullare. Eppure è assodato da non pochi esempi che varie specie di giullari, dai suona tori ai cantori di gesta, accompagnano i soldati nelle campagne militari. Spesso con finalità ricreative durante le pause dei combattimenti, con modalità dunque non dissimili da quelle ancora utilizzate nelle guerre moderne, ma a volte anche con scopi per così dire operativi. Ci è stato tramandato ad esempio di una banda di saccheggiatori borgognoni dell'XI secolo che, allo scopo di intimidire e di scoraggiare eventuali resistenze, si fa precedere da un giullare che canta le gloriose azioni degli avi accompagnandosi con uno strumento 20. E soprattutto ci è stato consegnato, da numerose fonti, il personaggio di Tagliaferro, che partecipa alla battaglia di Hastings del 1066 dalla parte dei normanni di Guglielmo il Conquistatore. Quella di Tagliaferro è una figura controversa, su cui molto si sono soffermati gli studiosi, perché le fonti al riguardo non sono concordi. Potrebbe trattarsi di un guerriero che si presta a fare l'istrione per disorientare il nemico, così come potrebbe essere un professionista che canta le canzoni di gesta per fortificare i suoi in vista del combattimento. Delle dieci cronache che raccontano la battaglia, tra il 1070 e l'inizio del XIII secolo, sette fanno menzione di questo giullare che, marciando davanti all'armata, dà col suo canto il segnale della battaglia; tre di questi testi lo individuano come Tagliaferro e due specificano che il canto è la Chanson de Roland 21. Forse non è un caso comunque che la versione forse meno eroica e più grottesca, tesa a sottolineare l'aspetto istrionesco più di quello guerresco di Tagliaferro, sia di uno scrittore della parte degli per la Francia, FaraI, 1910, p. 59; per la Spagna, Menéndez Pidal, 1957, pp. 255-58. 20 Menéndez Pidal, 1957, p. 264. 21 Zumthor, 1986, pp. 17-18.

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sconfitti, l'inglese Enrico di Huntingdon, quasi a giustificare con lo spaesamento provocato da qualcosa fuori posto, come appunto un giullare in una battaglia, gli iniziali successi di Tagliaferro: Un tale dell'appropriato nome di Tagliaferro, poco prima che i guerrieri si scontrassero, giocando ad agitare le spade di fronte agli Angli, mentre tutti lo guardavano stupiti, uccise un vessillifero degli Angli, poi ugualmente una seconda volta, e una terza. Alla fine egli stesso fu ucciso. 22

Anche a me piace credere a questa immagine, forse non vera, di un giullare che muore collocando le proprie abilità tecniche e la propria capacità di stupire con lo spettacolo ancora una volta in un contesto improprio, ostentando insomma la funzione di spiazzamento della propria attività e dimostrando con ciò la fecondità potenziale di questo suo essere continuamente altro, o altrove. Questo istituzionale essere fuori ruolo e fuori luogo si attenua ma non si perde del tutto quando il giullare si stanzializza, ponendosi stabilmente al servizio di qualche signore o anche, come spesso accade, di una municipalità. Questo aspetto non scompare, da un lato, anche banalmente, perché il giullare di corte non cessa per questo di viaggiare, come messaggero ma anche proprio come soggetto per lo spettacolo, inviato come dono dal suo signore a qualche suo pari. Ma dall'altro lato, soprattutto, perché l'essere spiazzato è per il giullare in primo luogo essere comunque altro rispetto a qualsiasi luogo, è porsi come bolla di un vuoto sociale che - già lo si diceva - deve comunque risolversi sul piano ludico, che al sociale è al massimo giustapponibile ma non integrabile. E la sola integrazione possibile avverrà quando anche all'attività Iudica professionale saranno riconosciute, come vedremo, una funzione sociale e la liceità di una contropartita economica non occasionale, cioè un salario. Allora il giullare, come stipendiato, avrà anch'esso un luogo specifico di residenza e di azione, delegando la sua differenziazione dagli altri servi tori del signore solo alle sue abilità tecniche, caratterizzanti e 22 Enrico di Huntingdon, Historiae Anglorum, VI, 30 (Rerum britan. Scriptores). Il testo latino è riportato, assieme ad altri brani di autori che citano l'episodio, da FaraI, 1910, pp. 275-76. Il punto sulle ipotesi di credibilità della figura di Tagliaferro cosi come ci è stata consegnata dalle stratificazioni successive è fatto anche in Oldoni, 1978, pp. 30-31.

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per certi versi esclusive, e in grado di renderlo comunque ancora un personaggio anomalo e particolare della corte. Anche quando il giullare si insedia in qualche corte, comunque, o mantiene a grandi linee queste caratteristiche di professionista dello spettacolo, e allora non muta di molto la propria immagine e il proprio repertorio, o tende a divenire, come il trovatore, poeta e intellettuale, abbandonando il piano ludico. Non bisognerà dunque confondere, almeno per quanto ce lo consente la labilità di confini tra le varie figure, l'ospitalità offerta dalle varie corti d'Europa ai trovatori, che anche quando eseguono essi stessi le loro composizioni tendono comunque a porsi primariamente come letterati e come tali sono accolti dai signori, con l'assunzione in servizio di giullari esecutori, specie musici e cantori, destinati alle necessità spettacolari ordinarie della corte. Esempi del primo tipo li troviamo anche in Italia. Non solo in quella corte di Federico II che produrrà con la scuola siciliana uno dei primi momenti di letterarietà romanza in Italia, ma anche in corti minori dell'Italia settentrionale come quelle dei Monferrato, dei Malaspina, degli Este, dei Saluzzo, dei Da Romano, dei Savoia, dei Del Carretto, che, tra XII e XIII secolo, ospitano e si scambiano trova tori provenzali e trovatori italiani, da Raimbaut de Vaqueiras e Aimeric de Peguilhan a Lanfranco Cigala e Sordello 23. Ma è fatto questo, pur importantissimo nell'ambito della storia delle letterature, che è ormai marginale rispetto al discorso sulla teatralità. Più ci deve interessare invece il caso dei giullari di servizio, che è fenomeno assai diffuso ed è causa di un mutamento sociale e professionale importante della figura dell'attore. Dal XIII e soprattutto nel XIV e XV secolo non c'è corte che non abbia giullari fissi in numero plU o meno cospicuo, con compiti di in trattenimento quotidiano e che spesso si trovano in una situazione di notevole familiarità, data dalla consuetudine, col signore. Particolarmente conosciuti, anche per il favore con cui il sovrano guarda al mondo giullaresco, sono ad esempio i giullari della corte di Alfonso X di Castiglia, nel XIII secolo, da quel Citola, identificato col suo strumento musicale, di cui lo stesso re si burla in un componimento perché tenta di riscuotere due volte il salario, a quella giullaressa o soldadera, Maria Pérez la Balteria, la cui popolarità fu grandissima 24. 23 24

Si vedano Bertoni, 1967, pp. 3-35, e Roncaglia, 1982, pp. 105-22. Menéndez PidaI, 1957, pp. 167-72.

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Ma queste assunzioni stabili e dunque istituzionalizzate non possono non portare un mutamento sul piano dell'immagine sociale del giullare. Non dimentichiamo che sino a San Tommaso e a San Bonaventura alla professione del giullare manca un riconoscimento di liceità morale, e che anche in seguito la sua accettazione sociale è sempre più una prassi che contrasta con le enunciazioni teoriche ed anche legislative che non una legittimazione sancita da qual. che norma. Anche il potere civile, infatti, fa a gara con quello religioso nel prendere le distanze dagli attori con ordinanze e leggi che ne marcano continuamente la condizione degradata. Nell'Italia del XIII secolo, ad esempio, Federico II stabilisce che non vada punito chi offende i giullari maldicenti, negli statuti di Ivrea del 1237 gli attori sono accomunati alle prostitute, e negli statuti di Parma si decreta che i giullari non devono pagare tasse, il che, se pure si risolve in un vantaggio economico, è comunque da considerarsi un segno di discredito sociale 25. Anche se poi le municipalità stesse, in Italia e fuori, non si fanno scrupolo di assoldare giullari per occasioni particolari o addirittura di assumerne di stabili 26. Questa situazione di contraddittorietà manifesta dunque la necessità di essere superata, con forme di legittimazione anche istituzionale di quella professione attorica che è ormai patrimonio stabile e, nei fatti almeno, anche socialmente apprezzato, di tutte le corti, ossia nei centri di potere politico e di decisionalità legislativa. E questo avviene anche con atti formali, ad esempio nelle corti spagnole della prima metà del XIV secolo, a iniziare dalle Leges Palatinae del re di Maiorca nel 13 37 : Nelle case dei principi, come tramanda l'antichità, sono permessi mimi ossia giullari, in quanto il loro lavoro porta letizia, che i principi devono sommamente desiderare e con onestà coltivare, per scacciare tristezza e ira e mostrarsi più gradevoli a tutti. Per la qual ragione vogliamo e ordi· niamo che nella nostra corte vi debbano essere cinque giullari, dei quali due siano suonatori di tromba e uno suonatore di timpani. 27

25 Bonifacio, 1907, pp. 20-23. I documenti dell'epoca di Federico II sono pubblicati in Meldolesi, 1973. 26 Gautier, 1892, II, pp. 57-58; Chambers, 1903, I, p. 51; Levi, 1914, pp. 12-18; Menéndez Pidal, 1957, pp. 59-62; Zumthor, 1986, p. 15. 27 Se ne veda il testo latino in Menéndez Pidal, 1957, p. 199.

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Qualche anno più tardi una legislazione simile, tradotta dal latino in catalano quasi parola per parola, è adottata dal re di Aragona, con la sola differenza che i giullari ammessi sono quattro, tutti suonatori di trombe e timpani. Ma il fatto che da documenti del 1352 sappiamo che in quella stessa corte sono in servizio altre tipologie di giullari, come cantanti e suonatori di cornamusa 28, ci conferma nell'ipotesi che quelle leggi valgano soprattutto come affermazione del principio giuridico della liceità della presenza dei giullari a corte, e non come prescrizione delle modalità concrete, che possono cambiare nel tempo, con cui questa presenza si deve manifestare. Come si vede, comunque, il giullare di corte è essenzialmente un musico. Non stupirà dunque che il nuovo nome con cui cominciano a venire chiamati appunto i giullari al servizio stabile di un signore, menestrello o simili a seconda delle diverse lingue, ancora oggi mantenga valenze semantiche quasi esclusivamente musicali. La denominazione menestrello ha particolare fortuna in ambito francese, dove inizia ad essere utilizzata in senso proprio, ossia per designare i giullari di corte, fin dal XII secolo, e già nel XIII secolo è usata in senso lato, per designare tutti i giullari. Ed è con questa accezione allargata che il termine entra anche in altre lingue e in altre culture: in Spagna o in Italia, ma soprattutto in Inghilterra, dove ministrel è appunto termine generale per indicare i giullari. Il meccanismo di questa estensione di senso non è difficile da comprendere. È chiaro che quando il giullare è assunto stabilmente a corte arriva ad una promozione sociale decisiva, ottiene un riconoscimento della propria professionalità dal soggetto sociale più alto che possa fornirglielo, acquisisce anche, sotto la protezione del signore, una sicurezza giuridica ed economica prima sconosciuta. In tal modo tra il menestrello e il giullare che mantiene le vecchie caratteristiche di instabilità sociale e di nomadismo si crea una gerarchia evidente a tutto vantaggio del primo, che trova una rispondenza proprio nella differenza di denominazione. Naturalmente, se il nome menestrello diventa distintivo di una condizione sociale più alta, la finalità di tutti i giullari sarà quella di divenire menestrelli, se non di fatto almeno di nome. CosÌ poco alla volta si produce uno slittamento semantico, con la tendenza a lasciare il termine giullare sempre più ai rappresentanti più degradati e professionalmente meno 28

Menéndez Pidal, 1957, pp. 200-2.

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preparati della categoria. Nel XV secolo, infatti, il percorso è totalmente compiuto, al punto che la strada di Parigi che dalla fine del XIII secolo si chiamava Rue aux Jongleurs, due secoli dopo si chiama Rue des Ménestriers 29. Col risultato tuttavia di vanificare ogni possibilità discriminatoria del nuovo termine e dunque di trasferire su di esso, quando non gli corrisponda la condizione sociale che ne aveva determinato l'uso, tutte le connotazioni negative prima associate al nome giullare. Del resto, la categoria dei giullari, specie quella dei giullari nomadi, proprio per il vuoto di identità sociale e la condizione di reale emarginazione esistenziale che la denominazione serve a coprire, è per tutto il Medioevo un enorme calderone, un contenitore in cui spesso vengono a confluire, per una sorta di contagio sociale, molti generi di soggetti ugualmente sradicati. Un caso tipico è quello della confusione, che è ideologicamente a priori ma anche nelle pieghe della realtà concreta, tra la professione di giullaressa e quella di prostituta. Consideriamo che il fenomeno della diffusione e del successo delle giullaresse è tuttaltro che marginale, specie a partire dal XIII secolo e particolarmente nelle situazioni spettacolari di corte: nel· l'ambito gallego-portoghese cui il Cancioneiro da Ajuda si riferisce, ad esempio, su sedici miniature, ben dodici rappresentano anche la giullaressa, soprattutto in veste di cantante, a fianco del giullare che suona 30. Ebbene questa figura, che non di rado è la moglie del giullare che decide di seguirlo nei suoi viaggi per il mondo, è spesso, specie nelle sue determinazioni meno professionali come la soldadera, confusa con la prostituta. Certo giocano qui diversi fattori, dal tradizionale pregiudizio anche del mondo classico verso le donne attrici alla condizione già degradata e ambigua che le giullaresse hanno ricevuto in eredità dalle mime tardo-romane, all'ostilità ancor più virulenta della cultura cristiana, che in un attore donna non può che vedere il risultato di due principi negativi che si moltiplicano a vicenda. Ma è certo che la presenza costante di donne, a torto o a ragione accusate di esercitare anche la prostituzione, costituisce un ulteriore strumento di degradazione sociale della professione attorica. E comunque, anche quando la figura della giullaressa subisce FaraI, 1910, p. 106. Menéndez PidaI, 1957, pp. 31-36. Sull'argomento si veda anche FaraI, 1910, p. 63. 29 30

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un processo analogo a quello del giullare, con l'accettazione sociale e professionale in seno alle corti, il suo ruolo, salvo rari casi, è comunque sempre subalterno, esecutivo, con le funzioni primarie di danzatrice e cantante. Altro caso esemplare è quello dei goliardi, i chierici vaganti che, abbandonati gli studi o gli ambienti religiosi, prendono a girare il mondo, conducendo una vita da sradicati, da emarginati e molte volte anche da esecutori di spettacolo, come i giullari. Ma quantunque ai giullari spesso siano sovrapposti, soprattutto nelle elencazioni dei soggetti sociali da condannare, i goliardi restano tuttavia altra cosa, sia per la provenienza colta che li porta a scrivere componimenti raffinati come i Carmina burana, sia perché essi non sono primariamente professionisti dello spettacolo, anche se a volte possono mettere le loro abilità e il loro sapere al servizio di quei loro compagni di strada e di taverna che sono i giullari. È l'autorità ecclesiastica, soprattutto, che tende a sovrapporre le due categorie, perché naturalmente quello dei goliardi o addirittura dei chierici che si fanno giullari, è problema costante per la Chiesa, la cui preoccupazione primaria è di tagliare ogni legame, in modo che questi soggetti siano identificati senza ambiguità come estranei all'ambiente ecclesiastico, e diversi da quel che erano. Questa linea di condotta è stabile per secoli, a partire dalle prescrizioni di Gautier de Sens, del X secolo: Stabiliamo che ai chierici ribaldi, soprattutto quelli che dal popolo sono chiamati della famiglia di Golia, sia ingiunto da parte di vescovi, arcidiaconi, ministri e decani, di tagliare i capelli oppure di raderli di modo che in essi non rimanga la tonsura clericale. 31

E questa preoccupazione la ritroviamo identica, quasi quattro secoli dopo, in una decretale di Bonifacio VIII del 1301, che stabilisce che i chierici che si fanno giullari, goliardi o buffoni, se esercitano questa professione per almeno un anno, ipso jure decadano da ogni privilegio clericale 32. Naturalmente sarebbe una forzatura eccessiva vedere in certe operazioni compiute dai giullari a partire dal XIV secolo, come Gautier de Sens, Statuta, 13, P.L., 132, col. 720. Se ne veda il testo in Faral, 1910, p. 327. In generale sul fenomeno dei goliardi, si vedano ancora Faral a p. 43 e Menéndez Pidal, 1957, pp. 28-31, in entrambi i casi con abbondante citazione di documenti, soprattutto di condanne ecclesiastiche. 31 32

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l'associarsi in corporazioni e confraternite 3\ dei meccanismi di difesa della propria identità professionale, minacciata dalla confusione corrente con soggetti sociali contigui. Certo è che le corporazioni, inaugurate a Parigi nel XIV secolo e poi nei due secoli successivi diffuse anche nelle città francesi di provincia e in Inghilterra, costituiscono un tentativo di riconoscer si e di farsi riconoscere come categoria, e una rivendicazione di quel ruolo sociale che al giullare singolo viene negato. Ma sul piano della penetrazione nel tessuto sociale, della integrazione quindi con le altre componenti della società, soprattutto con quella dei borghesi che non può non venire individuata come alleato naturale, sono di certo più importanti le confraternite, come quella famosa di Arras, nelle quali il giullare si trova fianco a fianco col borghese e con esso intraprende imprese sociali, culturali, spettacolari. Come si vede anche dall'approdo finale di questo discorso, sinora si è trattato delle condizioni e del contesto in cui si esplica l'attività del giullare, in un'ottica in sostanza di sociologia dello spettacolo. È tempo ora di provare a descrivere e a comprendere quel che è più difficile ma anche più importante da ricostruire, ossia le modalità e gli strumenti della teatralità giullaresca. Pagato il debito d'uso al riconoscimento della difficoltà istituzionale di conoscere retrospettivamente un fenomeno per definizione effimero come la performance spettacolare, mi pare di poter individuare in due serie di documenti i cardini essenziali per una più approssimata ricostruzione: le fonti iconografiche da un lato - decorazione plastica dei monumenti e soprattutto miniature - e le classificazioni delle tipologie dei giullari dall'altro. Anche se occorre ricordare come, in entrambi i casi, si tratti di fonti in parte sospette, spesso viziate da pregiudizi ideologici o da tesi precostituite da dimostrare. Per quanto riguarda le immagini, ad esempio, specie quelle di committenza ecclesiastica, è visibile ad esempio il riflesso della concezione negativa dei giullari. Intanto, in generale, il giullare raffigurato è quasi sempre un musico, essendo molto più rare, e rintracciabili prevalentemente nelle epoche più antiche, le immagini del giullare circense, che compare sporadicamente sotto forma di acrobata, di giocoliere o di lanciatore di coltelli. E il musico, in pos33 Se ne veda una trattazione ampia in FaraI, 1910, pp. 129-42, e anche in Chambers, 1903, II, pp. 258-62.

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sesso di un'abilità tecnica più specializzata, è da sempre superiore all'acrobata. Ma anche all'interno della categoria dei musici affiorano precise differenziazioni gerarchiche 34. Dapprincipio il musico è usato spesso come figura tipica, come segno per indicare il male e soprattutto il demoniaco:' raramente ad esempio nelle raffigurazioni del Giudizio Universale mancano le figure diaboliche che suonano qualche strumento, prevalentemente a fiato e a percussione. È solo dal XIV secolo che la musica comincia ad essere anche un attributo del mondo divino, con la rappresentazione di angeli che suonano, ma soprattutto strumenti a corde come l'arpa o la viola. Ed è una caratteristica, questa, che testimonia più dell'attenzione a un modello culturale contemporaneo e alle sue determinazioni ideologiche che del rispetto delle Sacre Scritture, le quali propongono con frequenza gli angeli che suonano le trombe. Nell'iconografia è invece prbprio da questa contrapposizione, tra fiati e soprattutto percussioni da un lato e corde e archi dall'altro, che passa una linea di discriminazione che è inizialmente ecclesiastica ma diviene anche generale, tra musica negativa e musica positiva. Non è solo una questione di qualità del suono - anche se la rumorosità ad esempio dei tamburi mal si concilierebbe con la natura celeste degli angeli - , ed è invece soprattutto una questione di specializzazione. Gli strumenti a corda e ad arco prevedono uno studio anche teorico della musica che per gli altri non è necessario e comunque comportano un grado maggiore di competenza e di abilità tecnica: sarà per questo, allora, che nelle raffigurazioni positive e non demonizzanti del suonatore, sarà sempre particolarmente visibile la chiave per gli accordi. Del resto, come vedremo nei prossimi capitoli, proprio la mancanza di musica o la cattiva musica è una delle discriminanti che ghettizzano i diavoli nel teatro religioso. Dalla documentazione iconografica, poi, possiamo ricavare altre informazioni o conferme particolari, come ad esempio l'esibizione in coppia di giullari cristiani e musulmani, il ruolo tuttaltro che secondario delle giullaresse, in veste soprattutto di danzatrici e di can34 Settis Frugoni, 1978, pp. 118-20. Allegata a questo saggio si trova anche una ricca documentazione iconografica, almeno fino al XII-XIII secolo. Sull'iconografia del giullare nei manoscritti si veda anche Leclercq, 1973, e nella decorazione degli edifici in Francia e Italia nel XII secolo, Di Giovanni, 1975. Un corredo di immagini esteso e interessante è poi anche in Menéndez Pidal, 1957.

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tanti, oppure il rapporto di subalternità anche comportamentale e vestimentaria tra giullare e trovatore, il quale ultimo spesso sovrin· tende da seduto alle performances degli attori 35. Ma è l'altra fonte primaria, quella delle classificazioni e delle descrizioni, che ci permette di entrare con maggiore completezza dentro alle forme della teatralità giullaresca e ci fa incontrare una multiformità di prestazioni difficilmente immaginabile. Con un ordine che non è correttamente cronologico, ma che è ad estuario, in quanto procede da descrizioni generali a descrizioni sempre più particolareggiate, mi servirò qui di quattro documenti, tra cui due che già abbiamo incontrato: il brano del Penitenziale di Tommaso di Cobham che gerarchizza i giullari in base alla ammissibilità morale; la Supplica di Guiraut Riquier; il Libro de Buen Amor dell'Arcipre. ste de Hita, Juan Ruiz; il romanzo provenzale Flamenca. Il testo di Tommaso di Cobham, della fine del XIII secolo, citatissimo in quanto, oltre a classificare per generi gerarchizzati gli attori, è documento importante per testimoniare l'accettazione di certi tipi di professionalità da parte della cultura cristiana, è molto preciso nel disegnare i confini delle categorie quanto invece superfidale nella descrizione concreta. Di rilevante interesse, comunque, è il collocare ai due lati estremi della scala di valori, secondo uno schema che si va sempre più riconoscendo come generale, il mimo e il musico: Vi sono tre generi di istrioni. Alcuni trasformano e trasfigurano il proprio corpo sia con turpi salti o gesticolazioni sia turpemente denudandosi, sia ancora indossando orribili maschere, e tutti questi sono condannabili se non abbandonano il loro mestiere. Vi sono poi altri che non lavorano e vivono in maniera criminosa, sono senza domicilio e seguono le corti dei signori, e con spirito calunniatore sparlano degli assenti per piacere agli altri. Anche questi sono da condannarsi, poiché l'Apostolo proibisce di mangiare insieme ad essi, e sono detti buffoni erranti, poiché a nulla sono utili se non alla crapula e alla maldicenza. Vi è poi un terzo genere di istrioni, dotato di strumenti musicali per dilettare gli uomini, e anche questi sono di due specie. Alcuni infatti frequentano le taverne e le compagnie disoneste, e lì cantano diversi canti per muovere gli uomini alla lascivi a, e questi sono condannabili come gli altri. Ma vi sono alcuni, che si chiamano giullari, che cantano 35 Menéndez Pidal, 1957, pp. 34-35, che pubblica anche una miniatura a questo proposito significativa del Cancioneiro da A;uda.

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le canzoni di gesta e le vite dei santi, e portano sollievo agli uomml sia quando sono malati sia quando sono in difficoltà, e non fanno tutte quelle turpitudini che invece fanno i saltatori e le saltatrici e gli altri che si servono di immagini disoneste e fanno apparire come dei fantasmi per magia o in altro modo. Così, se non fanno queste cose ma cantano coi propri strumenti le canzoni di gesta ed altre cose utili per ricreare gli uomini, come abbiamo detto, questi ultimi si possono tollerare. 36 Come si vede, questo brano è coerente col quadro concettuale e storico che siamo andati componendo: c'è il disprezzo per i buffoni di tipo circense, che si affidano solo alla corporeità, c'è il rifiuto del giullare nomade e meno professionalizzato, c'è il privilegio accordato al musico, purché non sia musico da taverna, ma quello che canta le canzoni di gesta e le vite dei santi. Se si considera che solo per quest'ultimo Tommaso di Cobham ritiene legittima la professione, ammettendo che gli si possa dare assistenza e compenso,' non è difficile individuare in questa unica figura legittimata quella che effettivamente si va affermando come categoria più rispettata, quella dei giullari di corte, dei menestrelli. Ed è la stessa direzione in cui va, in quello stesso torno d'anni e con una consapevolezza ancora maggiore perché è una voce che viene dall'interno stesso della giulleria, la Supplica di Guiraut Riquier, o meglio ancora la seconda parte, quella che si finge essere la Declaratio di risposta del re. Anche qui la classificazione lascia all'estremo basso il giullare non specializzato, che si propone di chiamare buffone, mentre al vertice è messo non il musico o il cantore di gesta bensì illetterato senza più alcun rapporto con l'attività spettacolare, quale appunto Guiraut si sente. In sostanza si propone una tripartizione di condizioni - che nel contesto del discorso ci sono anche sommariamente descritte - , con quella generale e più numerosa dei giullari a costituire il variegato corpo intermedio, e quella dei trovatori di corte, dalla corte pagati solo per comporre, chiamati a staccarsi inventandosi una professione diversa. L'esempio per la classificazione è preso dalle denominazioni che usano in Spagna: [tutto ciò] è ordinato molto bene in Spagna, e non vogliamo che venga meno, ma che si continui a dire come si dice, poiché le specialità di 36

Se ne veda il testo latino in Chambers, 1903, II, pp. 262-63.

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ciascuno sono ben distinte da nomi speciali: si chiamano ' joglars' tutti quelli che suonano strumenti, mentre gli imitatori sono detti 'remendadors', e i trovatori sono chiamati in tutte le corti' segriers '; si dicono infine 'cazuros' per loro umiliazione quegli uomini ciechi e sordi, dal punto di vista di una decorosa condotta, che cantano senza garbo e rappresentano maldestramente per vie e per piazze il loro basso repertorio, e si uniscono a gentaglia, vivendo in modo disonorevole. 37 Questa è la situazione nei casi migliori, come appunto in Spagna, scrive Guiraut, ma meglio sarebbe se si facesse ancora maggiore chiarezza, individuando tre categorie e stabilendo per ciascuna compiti e ruoli. La più bassa deve essere quella dei buffoni nomadi e non specializzati : Diciamo quindi e fondatamente affermiamo che ogni indegno, che vive bassamente, sia o no sapiente, non debba presentarsi in alcuna corte di pregio; così quelli che fanno saltare scimmie o caproni o cani, o che fanno i loro giochetti sciocchi, come quello dei burattini, oppure imitano il canto degli uccelli o suonano strumenti e cantano per pochi soldi in bassi ambienti, non devono esser compresi nell'ambito della giulleria; e, come in Italia, si chiamino 'buffoni' quelli che, pur frequentando le corti, si fingono pazzi, e non si vergognano di alcuna abiezione, mentre, al contrario, non apprezzano ciò che è piacevole ed ha valore. 38 La categoria successiva, che già trova una legittimazione, e per la quale si propone di mantenere la denominazione tradizionale, è quella dei giullari di corte, quelli che già in Francia e il secolo dopo anche in Spagna si chiamano menestrelli: E quelli che sanno vivere tra i potenti con cortesia e con decorose capacità, suonando strumenti o raccontando 'novas' di altri autori, o cantando' vers ' e canzoni altrui, ben fatte e piacevoli ad ascoltarsi, pos37 Bertolucci-Pizzorusso, 1966, pp. 111 (trad.) e 103 (testo), vv. 162-183. Occorre tuttavia sottolineare che sul termine segrier e sulla sua interpretazione c'è stata a lungo polemica tra i filologi, alcuni dei quali, traducendo in maniera differente questo brano ed appoggiandosi ad altre testimonianze, hanno inteso il segrier come una figura intermedia tra quella del giullare vagabondo e quella del trovatore: tra questi anche Menéndez Pidal, 1957, pp. 16-18. Si veda comunque l'esposizione del problema, con la difesa della tesi che, qui e altrove, segrier o segrel non designano figure diverse dal trovatore, nell'introduzione di Bertolucci-Pizzorusso, 1966. 38 Ivi, pp. 111 e 104, vv. 198-221.

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sono a buon diritto portare quel titolo di ' giullari'. Egualmente, chi lo preferisca, può designare ognuno di questi per sé; ma poiché tale è ormai l'uso corrente, siano chiamati pure giullari, in quanto a ragione devono stare in corte e non avere preoccupazioni economiche, poiché di tali persone c'è gran bisogno nelle corti, in quanto vi portano molti generi di intrattenimento che ricreano piacevolmente lo spirito. 39 Si sarà notata l'insistenza di Guiraut, oltre che sulle abilità professionali, sulla decenza del comportamento, con una decisa presa di distanza dall'immagine morale e sociale degradata del giullare vagante, che viene abbandonato al suo destino di emarginazione e che anzi viene dipinto in modo non meno fosco di certe condanne ecclesiastiche, pur di salvare per contrapposizione le uniche due figure che a Guiraut interessano, quella del giullare di corte, che è l'esecutore indispensabile delle composizioni di un trovatore che non voglia più essere anche uomo di spettacolo, e il trovatore stesso, che appunto non deve far altro che comporre e che può addirittura sfociare in quel dottore in poesia che lo trasforma definitivamente in intellettuale quasi accademico: [i trovatori] sono coloro che conoscono il modo di far cobbole e danze doppie, sirventesi di valore, albe e 'partimens', e comporre versi e musica, i quali non si occupano mai d'altro nelle corti, ma dicono o trasmettono il proprio sapere ai valenti. Questi è più che giusto chiamare trovatori, e sian detti 'dottori in poesia' quei valenti che fanno 'vers' e canzoni, ed altre valide composizioni profittevoli e piacevoli per i begli insegnamenti che contengono; così la loro condizione [oppure: merito] sarà ben chiarita [oppure: resa illustre]. 4Q Ma accanto a queste classificazioni gerarchizzanti, che hanno una finalità appunto più nelle partizioni che disegnano che nelle descrizioni che accessoriamente forniscono, ci sono poi quelle enumerazioni di attività senza giudizio di valore che costituiscono la primaria fonte di conoscenze degli strumenti e delle modalità di spettacolo. In un brano famoso del Libro de Buen Amor del 1330 41, Juan Ruiz, Ivi, pp. 111-12 e 104-5, vv. 222-245. Ivi, pp. 113 e 108, vv. 356-375. 41 Ruiz, 1973, pp. 473-77, vv. 1225-1234. Per una analisi del brano, oltre alle note del curatore dell'edizione citata, si veda Menéndez Pidal, 1957, pp. 4739 4Q

51, 202-14 e passim.

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religioso e letterato molto vicino all'universo giullaresco per il quale dichiara di aver scritto diversi componimenti, descrive una sorta di corteo giullaresco in cui ognuno è identificato tramite lo strumento che suona e ci dà così modo di conoscere in un sol colpo oltre una ventina di strumenti utilizzati in quell'epoca. Gli strumenti che si trovano in numero maggiore sono quelli a corda, dalla viyuela de penola alla viyuela di! arco, dalla citola alla harpa, dalla rota al rabé (sorta di violino primitivo), dalla cinfonia (accompagnandosi con la quale si cantano le canzoni di gesta) alla guitarra nelle sue due versioni mora e latina, dal salterio (di origine orientale) ai similari medio canon e canon entero (con ben 78 corde), dall'alati! alla baldosa, con una varietà di nomi e di oggetti da cui riesce molto difficile districarsi, distinguendo l'uno dall'altro ed assegnando a ciascuno la propria funzione. Tra gli strumenti a fiato, che sono meno numerosi, troviamo l'albogon, grande flauto a canne parallele, la flauta, la trompa, l'anafil di origine mora e l'odrezillo di origine francese. Solo quattro gli strumenti a percussione, l'atabor, il taborete, l'atabal e il panderete. Ma anche questa enumerazione di strumenti e dunque di strumentisti è incompleta in quanto prende in considerazione solo una categoria di giullari, quella dei musici, la quale tuttavia, pur se è ormai diventata la categoria più rappresentativa, è ben lungi dall'esaurire la molteplicità delle specializzazioni giullaresche. Sotto questo profilo, il documento più interessante e più completo è un'opera di fantasia, il romanzo anonimo Flamenca, della metà del XIII secolo, che in una fittissima pagina descrittiva ci fornisce un affresco impressionante di un dopo-banchetto in cui cinquecento giullari offrono, contemporaneamente, il proprio spettacolo ai signori convenuti. Si tratta di una pagina che nella sua concitata ellitticità può lasciare nell'ombra molte allusioni a specifiche pratiche attoriche, soprattutto quelle che riguardano i racconti, ma che mi piace lasciare così, nella sua forma di affastellamento paratattico, per chiudere con questo elenco che sembra non finire mai un discorso sulle tipologie delle pratiche giullaresche che, comunque, non si riuscirebbe a definire compiutamente: Ed ecco avanzare i giullari. Ciascuno vuole farsi ascoltare. Avreste potuto udire le corde degli strumenti modulate su tutti i toni. Chi conosce una nuova sonata sulla viola, una canzone, un discordo o un ' lai ' si mette 103

in mostra più che può. L'uno suona sulla viola il 'lai' del Caprifoglio, l'altro quello di Tintagel; l'uno canta quello del Fino Amante, l'altro quello che compose Yvain; l'uno trae accordi dall'arpa, l'altro dalla viola; l'uno modula il flauto, l'altro il piffero; l'uno suona la giga, l'altro la rota. L'uno recita i versi, l'altro lo accompagna con la musica; l'uno suona la cornamusa, l'altro la zampogna; l'uno pizzica la mandola e l'altro accorda il salterio e il monocordo. L'uno fa ballare le marionette, l'altro si esibisce coi coltelli; l'uno cammina carponi, l'altro fa capriole; l'uno danza tenendo in mano la propria coppa, l'altro passa attraverso un cerchio, un altro spicca salti. Tutti sono abilissimi. Chi vuole ascoltare racconti di re, marchesi e conti, può udirne a sazietà; nessun orecchio se ne sta in ozio; infatti l'uno narra la storia di Priamo e l'altro di Piramo; l'uno di Elena la bella, come Paride l'amò e la- rapì; l'uno di Ulisse, l'altro di Ettore e di Achille; c'è chi racconta di Enea e Didone che per lui fu dolente e infelice; o di Lavinia che dalla sentinella della torre più alta fece lanciare un messaggio attaccato ad una freccia; alcuno favoleggia di Polinice, di Tideo e d'Eteocle; altri di come Apollonio tenne Tiro e Sidone; c'è chi racconta del re Alessandro, di Ero e di Leandro; chi di Cadmo, che fu esiliato e fondò Tebe; di Giasone e del drago insonne; l'uno esalta il vigore di Alcide, l'altro ricorda come Fillide si diede morte violenta per amore di Demofonte. L'uno racconta come il bel Narciso annegò, specchiandosi nella fonte; l'altro come Plutone rapì ad Orfeo la bella moglie; l'uno ricorda la storia di Golia, ucciso da David con tre pietre, l'altro il sonno di Sansone allorché Dalila gli tagliò i capelli; c'è chi narra di Maccabeo, che combatté per il Signore; chi di Giulio Cesare che, solo, traversò il mare e non invocò l'aiuto di Nostro Signore perché non aveva timore alcuno; chi rievoca della Tavola Rotonda, ove non si presenta alcuno cui il re non dia responso per quanto sa, e dove mai vengon meno valore e pregio; chi di Gauvain e del leone, che fu compagno del cavaliere che liberò Lunete; chi della fanciulla bretone che imprigionò Lancelot perché questi ne rifiutò l'amore; chi di Perceval, che giunse a corte a cavallo; chi d'Erec e d'Enide, d'Ugonet e Peride; di GovernaI, che a cagione di Tristano soffrì tante pene; di Fenice, cui la nutrice diede morte apparente; del 'Bello Sconosciuto' e dello scudo vermiglio che Myras trovò accanto alla posteria; di Guiflet, di Calobrenan; chi racconta come Deliez tenne rinchiuso in prigione Keu il senescalco, che aveva sparlato di lui; chi narra di Mordret; chi riferisce la storia del conte d'I vet che fu cacciato dai Ventres e accolto dal Re Pescatore; chi si rifà alla buona stella di Merlino; chi espone come gli Assassini uccidano, per suggestione del Vecchio della Montagna; chi racconta come Carlo Magno resse l'Alemagna prima di dividerla; chi le vicende di Clodoveo e di Pipino; l'uno ricorda come Lucifero fu per il

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suo orgoglio escluso dalla gloria dei cieli; altri narrano le storie del giovinetto di Nanteuil e di Olivi eri di Verdun; l'uno recita il ' vers' di Marcabru, un altro racconta come Dedalo riuscì a volare e come Icaro annegò per la sua imprudenza. Ognuno dice quanto sa di meglio. La sala risuona per lo strepito dei suonatori di viola e per il vociare dei narra tori. 42

Come si vede, in questo che può considerarsi un esempio adeguato di corte bandita, il catalogo è veramente ampio e multiforme, anche se, c'è da giurarlo, nient'affatto completo. Così ci sono gli acrobati e i giocolieri, i musici di vario tipo e i cantori, e questi ultimi sono indicati con un'ampiezza di repertorio che non troveremo in altre fonti: dalle canzoni di gesta sul ciclo di Carlomagno al ciclo arturiano, dagli episodi biblici ad un numero sorprendente di racconti desunti dalla cultura classica, specie greca. Certamente, trattandosi di un romanzo e non di una cronaca, è legittimo il sospetto di trovarsi di fronte a una sorta di catalogo più che alla descrizione di una situazione verosimile, anche per il fatto di vedere qui riuniti, senza gerarchia alcuna, tutti i tipi di giullari, da quelli circensi ai cantori di gesta, in un'epoca in cui invece gerarchie cominciano a darsi. Ma la situazione qui raffigurata, pur costituendo certamente anche un catalogo astratto, è in realtà credibile, poiché si tratta di una di quelle corti bandite destinate a far corona ad avvenimenti speciali, come in questo caso un grande matrimonio, in cui i giullari accorrono da ogni parte sapendo che c'è spazio e possibilità di spettacolo per tutti, proprio perché il senso primo dell'evento non sta nel contenuto degli spettacoli che presenta ma proprio nel numero e nella varietà. Una corte bandita, insomma, tanto più si qualifica come evento festivo indimenticabile quanti più giullari - o uomini di corte come appunto in Italia sono anche chiamati 43 - riesce ad attirare e a ricompensare. Al di fuori di queste occasioni, o anche di quelle feste di giullari che a volte diventano grandiosi raduni come quello del 1313 a Parigi 42 La traduzione utilizzata è quella dell'edizione italiana Il romanzo di Flamenca, 1971, alla quale si rimanda anche per le note esplicative - peraltro non copiose - e per il testo originale. In generale sulle presenze di suonatori e di danzatori nei banchetti, si vedano Salmen, 1983, e Busch-Salmen, 1983. 43 Si veda Muratori, 1739, col. 842, e in generale Bonifacio, 1907.

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descritto nella Chronique de Geoffroy 44, spesso ogni specializzazione di repertorio si ritaglia anche un proprio pubblico preferenziale. Alcuni specialisti, ad esempio, godono di un privilegio che si traduce in accettazione sociale e dignificazione culturale: soprattutto alcuni generi di giullari di bocca, come vengono chiamati, ossia i cantori delle vite dei santi da un lato, e i cantori di gesta o in genere di repertori alti come i romanzi d'avventura, i lais e i romanzi del ciclo bretone, dall'altro. Differenti sono tuttavia le motivazioni sociali di questa dignificazione. Nel secondo caso essa risiede nel pubblico, cortese e raffinato, nel primo invece nella committenza, che è la struttura ecclesiale. Il destinatario naturale di questi racconti edificanti, infatti, è chiaramente il popolo, tanto che abbiamo segni non equivocabili che in casi di doppia destinazione degli spettacoli giullareschi, è al popolo che sono riservate le vite dei santi e al clero le canzoni di gesta 45. Fenomeno peraltro non sorprendente se si considera che la forma narrativa, quella stessa cui i giullari abituano la gente ad esempio recitando i fabliaux, è spesso individuata dalla Chiesa come forma molto più idonea dell'enunciazione dottrinale a far breccia nella coscienza dei semplici 46. Se cantando le vite dei santi o sfruttando le proprie abilità musicali il giullare perfora le spesse mura della chiesa, aggirando pratiche di secolare ostracismo, se divertendolo coi giochi o raccontandogli storie si rende presente in ogni istante della vita del popolo, se facendosi interprete dei valori della nuova cultura cortese e cavalleresca si insedia nelle corti, come strumento indispensabile perché i signori si vedano rappresentati come vorrebbero e dovrebbero essere, è poi come induttore di danza e di festa che entra in contatto con tutti gli strati sociali. Il giullare è sempre, lungo tutto il Medioevo e in ogni contesto, legato alla danza. Sia in quanto portatore di musica che alla danza è strumento indispensabile, sia in quanto egli stesso danzatore professionista padrone della tecnica dei diversi balli, sia proprio come elemento scatenante della danza e della festa. Non è dunque 44 La chronique métrique attribuée à GeofJroy de Paris, a cura di A. Diverres, Paris 1967, vv. 4703-5098. 45 Si veda Faral, 1910, pp. 45-46. 46 Gurevic, 1986, pp. 80 e sgg., insiste sulle differenze strutturali tra i messaggi indirizzati dalla Chiesa ai dotti e quelli rivolti al popolo, con una accentuazione appunto della dimensione narrativa in quest'ultimo caso.

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solo un fatto tecnico, come quello ad esempio descritto in due versi del Roman des sept Sages, della metà del XII secolo: Mentre i giullari suonano i borghesi ballano. 47 È soprattutto una questione di altro tipo, più generale, per cui è nella danza, è non nella danza virtuosistica del danzatore professionista ma in quella collettiva che si dà nelle situazioni festive, che si può vedere il luogo più preciso per l'individuazione del ruolo antropologico della giulleria, prima almeno che i giullari divengano assennati servitori di un signore. È nella danza, indotta e guidata ed eseguita assieme agli altri, che le valenze della corporeità come strumento per comunicare e per essere, della festività come mezzo per uscir fuori dalla quotidianità, di una azione che lega insieme occasione contingente 4S e pura gratuità non riducibile ad alcuna economia, di un fare che è occupazione abusiva e straniata di uno spazio che nel quotidiano contiene altre valenze, è qui che il giullare trova l'unico vero luogo che gli sia proprio nei meccanismi della società. Per queste e per altre ragioni consimili, l'universo antropologico del giullare e dunque il modo con cui organizza i propri strumenti espressivi e con cui si rapporta al pubblico è popolare, nel senso in cui si intendeva questa nozione, pur fra molte cautele, nei capitoli precedenti, o almeno risponde a delle modalità che sono quelle tipiche della cultura folklorica. Dal punto di vista della delineazione di una figura sociale, di un personaggio, è appunto con queste caratteristiche che il giullare entra tra i protagonisti della novellistica, soprattutto toscana, tra XIII e XIV secolo, dal Novellino, al Trecentonovelle al Decamerone. Si pensi ai vari Dolcibene, Gonnella, Ribi, Pietro Guercio, Agnolo Moronti o Popolo d'Ancona raffigurati nel Trecentonovelle di Sacchetti, o ai Martellino, Stecchi e Marchese dipinti come « uomini li quali, le corti de' signori visitando, di contraffarsi e con nuovi atti contraffacendo qualunque altro uomo, li veditori sollazzavano » (Decameron, II, 1). Si tratta, appunto di un perso47 Il 48 È

testo originale è riportato da FaraI, 1910, p. 285. Zumthor, nel contributo inviato al V' Colloque International de la Société Internationale pour l'étude du Thédtre Médiéval (S.I.T.M.) , svoltosi a Perpignan dal 7 al 12 luglio 1986, a p. 7 del dattiloscritto, a insistere sull'importanza dell'occasione per definire il senso delle performances dei giullari.

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naggio che corrisponde spesso ai canoni del popolare di Bachtin, le cui caratteristiche costanti sono l'irriverenza, il rovesciare di segno le situazioni, il ricorso continuo al grottesco, l'ostentazione della corporeità e delle sue funzioni più basse. Dal punto di vista, invece, dei meccanismi dello spettacolo, questa dimensione popolare si traduce, ad esempio, in una estrema convenzionalità (nel senso evidentemente di non verosimiglianza) dei segni che il giullare utilizza e dei processi che innesca, che è figlia della povertà di mezzi ma anche madre di un rapporto molto più stretto e più complice col pubblico; oppure nella costruzione del proprio prodotto con una tecnica di assemblaggio di frammenti che cura molto poco l'unitarietà e la coerenza dell'opera a tutto tondo, lasciando in vista le fessure semantiche 49, come abbiamo visto ad esempio nel caso dei cantori di gesta a Treviso; oppure ancora nel far riferimento ad un universo culturale comune al proprio pubblico, nell'appoggiarsi più sul già conosciuto che sulla novità 50. È questa la ragione dei rifacimenti innumerevoli di storie che invece restano prevalentemente le stesse, con una gara anzi per accreditare la propria versione come la migliore 51, oppure anche dei meccanismi interni con cui si determinano le stesse opere scritte dei giullari. Quando, ad esempio, in epoche ormai tarde, nel XIV secolo, i giullari, proprio in quanto tali e dunque separati dall'uomo di lettere, accedono anch'essi alla scrittura, lo fanno con meccanismi che indicano la particolare destinazione, popolare appunto, degli spettacoli di cui quegli scritti sono il libretto: si veda ad esempio il caso dello Zaffarino studiato da Ezio Levi 52, che produce drammatizzazioni con rimandi dall'una all'altra, presupponendo un rapporto col proprio pubblico che è di costanza, di complicità, di ripetizione di temi conosciuti. È, naturalmente, l'esatto opposto da cui parte il trovatore, che fa della novità del proprio dire il perno della sua qualità e che anzi utilizza il trobar clus, il poetare difficile che istituzionalizza la distanza di saber tra il poeta e chi lo ascolta, come Mukarovsky, 1973, p. 410. Mi si consenta di rinviare, per una trattazione più estesa di questi temi relativi alla teatralità popolare, a Allegri, 1978, pp. 55-99. 51 Si veda quanto riferisce FaraI, 1910, p. 125, a proposito dei cantori di gesta che ricorrono appunto a questi espedienti. 52 Levi, 1915, p. 57. 49

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strumento per differenziarsi dal giullare e dal suo universo culturale troppo poco staccato da quello del pubblico. Da un certo momento, dunque, dal fiorire almeno della cultura cortese, il giullare restringe il proprio raggio d'azione, è costretto a ritagliarsi il proprio pubblico in quella porzione di società il cui mondo culturale resta sostanzialmente immutato. Ma fintanto che la società medievale si mantiene sufficientemente instabile e produce interstizi discrepanti negli equilibri dei suoi diversi centri di potere, anche l'instabilità istituzionale del giullare riesce a trovare luoghi e momenti generali di ascolto e di azione. Quando la società si stabilizza, poi, e i poteri si definiscono meglio e tendono a riordinare tutti i disequilibri, al giullare come portatore dei valori antropologici della festa e della trasgressione non resta che marginalizzarsi ad operatore popolare, o trasformarsi in menestrello stanziale e stipendiato oppure avviare quei processi di inserimento nelle strutture drammaturgiche che si vanno determinando, quelle del teatro comico o del teatro religioso, e trasformarsi in attore in senso stretto. In quest'ultimo caso, che per la storia del teatro è naturalmente il più rilevante, sarà finalmente interprete, joueur de personnage o player 01 Interludes, lascerà il titolo di giullare solo ai buffoni da fiera, e diventerà in senso pieno operatore di teatro, intrattenendo col proprio pubblico non più rapporti di coinvolgimento ma di alterità spettacolare.

Capitolo terzo

DALLA TEATRALITÀ AL TEATRO Per tutto il tempo che il giullare mantiene la sua identità specifica e piena, esso è un attore particolare e anomalo, che non delega la significazione a quell'altro da sé che è il personaggio. Il giullare racconta, affabula, drammatizza anche, in quelle storie a più personaggi ai quali può prestare volta a volta la voce e l'accenno di azione ma non la propria immedesimazione - ed è ancora l'esperienza moderna di Dario Fo che può indicarci questo modo di essere attore. Il giullare, dunque, è l'azione che compie, è teatralità pura che non rimanda ad altro, a un senso cioè che lo trascende perché risiede nel personaggio di cui l'attore non è che il presentatore, o l'indossatore. Il giullare non rappresenta ma racconta, o espone: brechtianamente si potrebbe dire che non impersona il personaggio o i personaggi che utilizza, ma li cita, e non permetterà a se stesso di scomparire dietro ad essi. L'attore che lo sostituisce si farà invece strumento di rappresentazione, ponendo con questo meccanismo, che è parallelo all' altro che istituisce una alterità spaziale e quasi ontologica tra attore e spettatore, i presupposti teorici del teatro moderno. Naturalmente, come per tutti i momenti di passaggio da una condizione relativamente stabile ad un'altra ugualmente definita ma differente, ci è oggi difficile individuare i meccanismi precisi della mutazione. La ricostruzione corrente vuole ad esempio che il percorso sia dal giullare narratore al giullare drammatizzante che si fa carico da solo di più parti, e da questo alla suddivisione tra persone diverse delle diverse parti, con la embrionale ricomparsa del rapporto attore-personaggio: da qui il meccanismo della rappresenta110

zione si rifonda e dunque il nucleo di base del teatro si ricompone. Ma i punti deboli di questo modello sono i consueti: il rispetto di uno schema di evoluzionismo lineare che denuncia immediatamente la propria astrattezza, e l'eccessiva dipendenza dalle testimonianze della letteratura. Diamo per non accettato lo schema evoluzionistico e riteniamo dunque che in realtà per diversi secoli si sia data la compresenza di differenti tipologie, magari con delle accelerazioni diverse dei processi a seconda dei contesti sociali e antropologici, come si suggeriva alla fine del capitolo precedente. Di più rilevante ingombro e spessore è il dato della dipendenza dai testi letterari. È del resto un dato di fatto con cui è impossibile non misurarsi che l'operare secolare dei giullari affiori alla memoria storica diretta, senza cioè l'intermediazione di una cultura altra che gli parla addosso, solo quando approda alla scrittura. O almeno quando si serve di una scrittura non strumentale ma intenzionalmente letteraria, tale da valere e dunque da essere conservata anche o soprattutto in sé, come prodotto culturale autonomo. Così ad esempio, nella storia della cultura italiana, i giullari cominciano a comparire appunto dal XII e dal XII I secolo, coi testi che si trovano in ogni antologia della letteratura delle origini, dal contrasto di Cielo d'Alcamo Rosa fresca aulentissima al Detto dei villani di Matazone da Caligano, dal Serventese del Maestro di tutte le Arti di Ruggieri Apugliese agli anonimi L'acqua corre alla borrana o Canzone della malmaritata 1. Tutte le congetture dei filologi sui modi della recitazione o della rappresentazione di questi e di altri testi giullareschi, al di là dell'impossibilità di ricostruzioni sicure per carenza di documentazione, rischiano comunque di cozzare contro l'ostacolo di un pregiudizio di fondo, quello della priorità istituzionale del testo rispetto alla sua messa in scena. Mentre invece mi pare che l'interesse primario non stia nello stabilire se questi testi sono recitati con un minimo di scenografia e di attrezzeria, se il giullare cambiando personaggio cambia voce e atteggiamenti o anche qualche elemento del costume o qualche accessorio. Il problema non è dunque quello della ricostru-

1 Se ne vedano i testi, ad esempio, in Il teatro italiano. I. Dalle origini al Quattrocento, a cura di Emilio Faccioli, Torino 1975. Una trattazione sulla dimensione teatrale di questi componimenti è in De Bartholomaeis, 1924, pp. 19-100.

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zione spettacolare di questi testi, che per avventura ci sono stati conservati, ma semmai quello del rapporto generale tra produzione testuale e spettacolo. Dovrebbe infatti essere ormai chiaro che il testo letterario, cui sia riconosciuta una qualità intrinseca che ne permetta la conservazione, rappresenta solo lo stadio finale di un processo che ha per protagonista il rapporto tra performance spettacolare ed elementi pre-determinanti. Il nodo che qui si tocca, cioè, è quello delle modalità istituzionali della spettacolarità giullaresca, e dunque dei modi della recitazione, delle forme di memoria professionale, dei sistemi per la loro conservazione e la loro trasmissione. È evidente che le forme spettacolari degli istrioni quasi sempre di tipo circense dell'alto Medioevo non presuppongono alcun rapporto né di dipendenza né di memorizzazione con un testo scritto. Così come è anche ragionevole supporre che anche quando il giullare si fa aftabulatore e narra o drammatizza monologando storie che non gli appartengono (le vite dei santi, le canzoni di gesta, le vicende desunte dalla tradizione classica o dalle Sacre Scritture di cui abbiamo visto tanti esempi in Flamenca) , nella maggior parte dei casi tanto la memoria che la trasmissione delle parole e degli intrecci sia orale e non scritta. O che comunque, quand'anche sia scritta, non si ponga davvero un problema di rappresentazione spettacolare di un testo, dato che quel testo altro non sarebbe che un deposito di memoria - e di memoria collettiva, per di più - e non certo un copione. Senza contare che, assai probabilmente - come testimoniano del resto le numerose e diverse redazioni di una stessa vicenda che spesso ci sono tramandate - , assolutamente non trascurabili sono le modificazioni che i giullari portano alle storie di cui si fanno interpreti, sia per l'adeguamento a contesti e pubblici diversi sia per l'intervento di processi di improvvisazione che vengono poi a cristallizzarsi e a fare corpo con la vicenda di base. Di modo che è forse individuabile u,n rapporto tra patrimonio di memoria precedente allo spettacolo, spettacolo stesso coi suoi meccanismi di innovazione e di improvvisazione, sedimentazione delle nuove trovate nella memoria scritta o orale che sia, non tanto dissimile da quello che si vedrà nel lavoro dei comici dell'arte. Ed è probabilmente questo, oltre naturalmente al tirocinio di tecniche e abilità specifiche come quelle musicali o acrobatiche, il patrimonio che ogni giullare

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consegna al suo o ai suoi allievi, con una trasmlSSlOne dunque più interna alla professione che istituzionalizzata in scuole 2. Ma non è da credere che all'altezza cronologica che qui Cl mteressa, quella tra XII e XIII secolo, le performances dei giullari siano solo o circensi o musicali o liriche o narrative o di monologhi drammatizzati o di contrasti o di costruzione e di conduzione di danze. Già in quest'epoca di certo si danno anche episodi di micro-drammaturgia con i giullari come attori a pieno titolo, portatori di una funzione mimetica che assume in carico un personaggio, e con l'innesco dunque del meccanismo della rappresentazione. Molto probabilmente, tuttavia, anche in questo caso il processo non è quello classico dell'età moderna - dal testo scritto alla sua rappresentazione bensì quello della messa in scena di una situazione, a svolgimento prefissato naturalmente, ma con spazi lasciati all'improvvisazione e col testo scritto, se mai c'è, destinato a fungere solo da deposito di memoria spettacolare, per sé o per altri. Una traccia di questi primi nuclei di drammaturgia comica elementare, in cui certamente il professionismo giullaresco è implicato anche quando dai temi traspare una mano colta, sono ad esempio quelle micro-storie che Goffredo di Vinsauf introduce con funzione esemplificatrice nella sua Poetria Nova, agli inizi del XIII secolo, come I tre compari \ oppure anche quella vicenda un poco più complicata, che conosciamo in un'edizione coeva col nome di Gli studenti e il contadino 4. Non dovrebbe ingannarci la circostanza che le redazioni che ci sono pervenute di entrambi i testi siano in latino, e dunque in una lingua che sarebbe incompatibile non tanto con la limitata cultura dei giullari (perché ormai, per quanto ne sappiamo, in non pochi casi quell'ignoranza è più un luogo comune che una realtà) quanto piuttosto con l'idea di una larga circolazione e di una diffusa conoscenza di queste storie, in epoche in cui anche non pochi 2 Sulle scuole dei giullari il dibattito è aperto. Jeanroy, 1934, pp. 138-39, ad esempio, ne nega l'esistenza, mentre ricerche più recenti, come Salmen, 1983, pp. 110-13, e Zumthor, lC)86, p. 6, riconoscono la presenza, a cominciare dalla fine del XII secolo e con un infittimento in epoche più tarde, di scuole istituzionali, anche di una certa rinomanza, come quella di un tale Simon, che faceva scuola nel 1313 a Ypres. 3 Il testo italiano è in Franceschini, 1960, p. 87. Il testo latino (vv. 18881909) si può leggere in FaraI, 1924, p. 255. 4 Il testo italiano è in Franceschini, 1960, pp. 79-81; quello latino in Cohen, 1931, II, pp. 245-50. Su questi, come su altri testi analoghi, Vinay, 1952.

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signori ignorano il latino. Ma il fatto sembra essere quello che ormai ben conosciamo, con dei reperti di cultura attorale che affiorano alla memoria storica solo quando vengono trascritti dai dotti, e dunque in latino. Questo, almeno, per I tre compari, perché si indovina facilmente sotto gli esametri con cui lo trascrive Goffredo un materiale non solo più antico ma anche molto noto se è possibile inserirlo in un trattato come esempio paradigmatico di situazione comica. Ma non mi sembra sia una forzatura eccessiva il vedere in questa breve scenetta che compare sotto forma di monologo ma che non è impossibile pensare anche sceneggiata con tre personaggi, un esempio di micro-drammaturgia giullaresca, più che goliardica come spesso si sostiene, forse troppo fidando nel latino delle redazioni superstiti 5. La situazione infatti appare perfettamente consona al mondo giullaresco e ai modi della sua comicità: si tratta di un uomo che, dopo aver rotto la brocca dell'acqua si reca al mercato per comprarne una nuova ma viene insolentito e cacciato dal mercante che teme si tratti di un ladro; per vendicarsi si accorda con un suo compare e torna al mercato, prende in mano due brocche e, al sopraggiungere dell'altro che gli comunica la finta morte del padre, simula sorpresa e rompe le anfore sbattendole l'una contro l'altra, per poi darsela a gambe. Il tema di Gli studenti e il contadino, invece, sembrerebbe rivelare una mano più colta, almeno da studente, non foss'altro che per le nozioni di astronomia e di mitologia che contiene e per quella frase finale, in cui il contadino, che avrebbe dovuto essere giocato dagli studenti e che invece è riuscito ad essere più furbo di loro, risolve in burla la questione degli universali, topos classico della discussione teologica e filosofica. Ed è certo probabile che l'origine di questa piccola pièce, sulla cui natura di copione teatrale più che di testo letterario non ci dovrebbero essere dubbi, sia goliardica, ma mi pare anche difficile non individuare un'impronta giullaresca nella serratezza di quel dialogo iniziale tra i due studenti e il contadino, con l'accordo tra i primi per perpetrare l'inganno, e nella struttura a monologhi alternati della seconda parte in cui ciascuno racconta il sogno che dovrebbe servire a fargli vincere la focaccia in palio, prima di scoprire che nel frattempo il contadino se l'era man5

Franceschini, 1960, p. 65.

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giata, facendola appunto passare dal generale al particolare. E infatti, credo, si fa molta più fatica a immaginare questa scena in un'aula scolastica recitata da studenti (che oltretutto sarebbero poi i perdenti dell'apologo) che non su una piazza rappresentata da giullari. Come è stato scritto, qui « dietro le spalle del chierico si intravvede il giullare» 6; un giullare che, ormai lo sappiamo, non necessariamente - anzi - abita un mondo separato da quello dei goliardi aggiullarati o anche degli studenti regolari. Naturalmente, come già si è visto per la nascita della letteratura lirica coi trova tori, perché nasca, anche per questa via della drammaturgia comica giullaresca, la letteratura drammatica e dunque il teatro in senso pieno, sarà necessario uno scatto ulteriore, cioè l'intervento di una figura sociale e culturale nuova, quella del drammaturgo. Questo avviene già nel XIII secolo, in Francia, con quegli esempi notevolmente maturi di drammaturgia che sono ad esempio Le Jeu de la Feuillée o Le Jeu de Robin et Marion di Adam de la Balle 7, in cui confluiscono le situazioni comiche della micro-drammaturgia giullaresca, le tradizioni della teatralità diffusa nelle feste popolari, e una scrittura che, analogamente a quanto da qualche tempo avveniva in ambito religioso, vuole porsi a priori dello spettacolo, come sede di elaborazione di un testo dotato di per sé sia di qualità letterarie che di potenzialità rappresentative. È da li, da un intervento in certo senso esterno all'operare concreto del teatro, che cambiano le regole del gioco, si invertono i dati della fenomenologia corrente della teatralità, che volevano che lo spettacolo, al più, secernesse un testo che è memoria di situazioni, canovaccio. A ciò si sostituisce la volontà del poeta che produce prima di tutto letteratura e dunque pone le basi per un rivolgimento di funzioni che ritrova, anche per questa via della drammaturgia laica che è almeno parzialmente di tradizione giullaresca, il teatro come istituzione. E qui si ritrovano allora tutte le categorie che siamo soliti riconoscere nel teatro: un testo letterario a priori rispetto allo spettacolo, che prescrive (pre-scrive) l'allestimento scenografico dello spazio, le parole e le azioni degli attori; gli attori che si fanno strumento di rappresentazione vestendo le caratteristiche somatiche, psicoloVinay, 1952, pp. 218-19. Su queste opere, come in genere sulla drammaturgia francese del Medioevo, si veda almeno il classico Cohen, 1931, II, e il più recente Aubailly, 1975. 6 7

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giche e comportamentali dei personaggi; i personaggi che sono chiamati a costituire un universo fittizio, statutariamente altro rispetto a quello quotidiano in cui vivono gli spettatori; gli spettatori istituzionalmente separati e costituiti a destinatario passivo di un processo di fascinazione e di comunicazione. In un tale contesto, si pongono allo studioso moderno problemi nuovi, che sono da un lato quello dell'analisi letteraria e drammaturgica dei testi, che resta peraltro fuori dall'orizzonte del nostro lavoro - ma che del resto è l'aspetto maggiormente indagato dalla critica, anche sul piano generale nei capitoli iniziali delle varie storie delle letterature nazionali - , e dall'altro quello dell'individuazione dei modi ormai del tutto differenti con cui lo spettacolo si organizza. Intanto c'è, appunto, un problema di organizzazione e dunque di una istanza di coerentizzazione interna degli strumenti spettacolari - la costumistica e l'accessoristica, gli elementi di scenografia e di articolazione dello spazio scenico, il rapporto reciproco tra gli attori e tra gli attori e lo spazio, la codificazione della gestualità e della mimica - che con nozione moderna e certo non appropriata all'oggetto potremmo chiamare regia. E poi si attiva una necessità di organizzazione sociale dello spettacolo, che porta alla nascita della compagnia di attori - in questa prospettiva poco importa se ancora dilettanti - come categoria riconoscibile e come soggetto estetico. E se si pensa che le compagnie che in Francia recitano le farse sono composte esclusivamente da giovani uomini, si può agevolmente comprendere come la dimensione comunitaria di queste aggregazioni di attori, anche di quelle dedite ad un repertorio popolare come le farse, sia assolutamente preminente. Del resto, in questa epoca che è ormai quella del tardo Medioevo, intorno al XV secolo, si dà un interscambio notevole tra le diverse categorie di compagnie - quelle laiche, quelle degli scolari, quelle dei Misteri - che sbiadisce la qualificazione peculiare dell'attore e dunque la sua funzionalizzazione solo ad un determinato contesto che ne giustifica l'azione, per far emergere la caratteristica generale ed ormai autosufficiente dell'essere attore 8. Questo in Francia e comunque fuori d'Italia. In Italia, invece, 8 Sui rapporti stretti, ad esempio, tra attori di sotties e recita tori di charivari, si veda Privat, 1984. Sulle associazioni di attori nel Medioevo, prevalentemente tardo, francese, Sadron, 1952.

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come meglio vedremo nell'ultimo capitolo, il viaggio verso la drammaturgia e la rifondazione del teatro percorrerà altre strade, ossia, al di fuori del dramma sacro, quelle umanistiche del recupero del modello teatrale classico, cosÌ che al traguardo della drammaturgia profana giungono meglio le derivazioni senechiane di Albertino Mussato o le commedie classicheggianti e colte di Poliziano e Ariosto che non gli esiti scritti di una teatralità più bassa, come le farse primocinquecentesche o il teatro di Ruzante. Ma, ancora una volta, un simile buco non può che essere tale solo sul piano dell'affioramento alla registrazione e non su quello della realtà. Anche perché, ipotizzando una cosÌ vistosa assenza di micro-drammaturgia giullaresca sotterranea, si faticherebbe non poco, poi, a dar conto della nascita improvvisa e delle stesse modalità spettacolari della Commedia dell'Arte. Certo, oggi sembra abbastanza chiaro che la Commedia dell'Arte nasce avendo già digerito la nuova drammaturgia profana e le sue strutture di intreccio, e che del resto la rappresentazione di testi scritti è parte non secondaria del suo operare, ma è comunque ineliminabile il fatto che i comici sono attori professionisti, e dunque discendenti almeno in questo dei vecchi giullari, e che il meccanismo delle loro macchine spettacolari, che fa perno sulla performance e attiva una memoria sedimentata in canovacci, zibaldoni, lazzi e generici, non è dissimile da quello indicato per la micro-drammaturgia giullaresca. Ma esattamente a questo punto si situa un segno di frattura o comunque un vuoto di elementi di giudizio. Certo sono evidenti queste parentele tra il giullare e il farceur o il sot del teatro francese e il comico dell'arte italiano, fatte di tecniche verbali 9 e gestuali, dell'uso delle maschere - e in fondo anche la faccia infarinata dell'attore di farse è una sorta di maschera - e soprattutto dell'idea di fondo di uno spettacolo basato sulla corporeità IO. Ma è anche necessario non sottovalutare le differenze, che impediscono di disegnare una linea continua di discendenza. Innanzi tutto la diversità delle strutture operative, soprattutto con l'istituzionalizzazione 9 Sulle tecniche verbali dei giullari, basate su meccanismi di manipolazione del linguaggio, si veda Zumthor, 1972. lO Sull'uso della maschera e sulle tecniche gestuali, all'interno di uno schema di interpretazione che vede il giullare non di parola come diretto antecedente, senza fratture, dell'attore rappresentativo, insiste particolarmente Rousse, 1987.

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del gruppo, della compagnia, come sede primaria di elaborazione dei meccanismi spettacolari, e con l'assenza delle donne, che ci sono invece - e non episodicamente - nello spettacolo giullaresco, dalle compagnie del teatro francese e dai primi gruppi di comici dell'arte. E poi la dipendenza sostanziale dell'evento - sia essa basata su un testo scritto o su meccanismi di prede terminazione più generici - da istanze rappresentative e drammaturgiche. Tali diversità non possono non presupporre una frattura, sia sul piano sociologico che su quello tecnico e culturale, anche se i suoi termini non sono documentati. Coniugate assieme, comunque, l'assenza delle attrici e l'assunzione piena della drammaturgia, sembrerebbero testimoniare di un recupero consapevole della forma teatro e delle sue determinazioni tradizionali, che probabilmente proviene da fuori dell'universo giullaresco. Senza questo intervento di consapevolezza, che è esterno ai suoi meccanismi istitutivi, la cultura attorica di cui sono portatori i giullari, tesa come è alla perpetuazione artigianale di meccanismi spettacolari e di abilità tecniche che non prevedono un momento drammaturgico forte, non avrebbe potuto pervenire alla ridefÌnizione di un teatro in senso altrettanto forte. Anzi, come è stato scritto a proposito del contesto spagnolo 11, l'attività della giulleria ha costituito storicamente un ostacolo allo sviluppo della drammaturgia. Ma non perché l'attività dei giullari non sia da considerarsi teatrale, ma semmai per la ragione opposta, che la giulleria presidia ed esaurisce, nell'universo medievale fuori dalla drammaturgia sacra, proprio il territorio della teatralità, con delle forme e una generale idea di spettacolo radicalmente diverse da quelle che fonderanno il teatro moderno. E l'idea è quella, storicamente sempre destinata a soccombere anche se diverse volte ricorrente, di una teatralità non predeterminata dalla scrittura e che fa cardine sull'evento spettacolare come luogo in cui si consuma un rapporto diretto di comunicazione e di fascinazione col pubblico. Tuttavia, a questo riguardo, non bisogna credere che il mutamento sia stato repentino e totale, perché già per il giullare due e trecentesco, il rapporto con lo spettatore si gioca anche sul piano della rappresentazione. È anzi in questo contesto, di un lavoro sui meccanismi della comunicazione teatrale per 11

Lazaro Carreter, 1965, p. 15.

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cui l'affabulatore si fa anche attore rappresentativo, che si potrebbe indicare una delle maggiori eredità che l'interprete medievale consegna a quello moderno. E del resto, oltre che largamente ipotizzabile, è qua e là documentata una partecipazione di attori professionisti a spettacoli in cui la loro azione deve essere di tipo rappresentativo, da quella Cena Cypriani di cui troviamo tracce in epoche diverse, dal IX al XII, a qualche spettacolo umanistico del Quattrocento 12. Naturalmente, e purtroppo, la documentazione su questo tipo di recitazione è scarsissima. Rimandiamo ai prossimi capitoli il discorso sull'attore nei drammi religiosi, ed accontentiamoci qui di indicare all'attenzione quella che è la fonte più importante per l'individuazione dei canoni attorali dell'interprete di personaggi, un noto passo della già citata Poetria Nova di Goffredo di Vinsauf, degli inizi del XIII secolo. In esso il trattatista compendia in poche righe un intero manuale di recitazione, anche se è possibile che questo passo, data la sua collocazione in un trattato di retorica e di poetica, sia più da riferirsi genericamente all'oratore che specificamente all'attore. Anche con questi limiti, tuttavia, questo scritto riesce a fornirci un'idea che è sufficientemente precisa del modo di intendere i meccanismi rappresentativi nel Medioevo: Nella recitazione vi sono tre modi: il primo sia della bocca, il secondo dell'espressione retorica, il terzo del gesto. Nella voce ci sono le leggi, e di queste leggi serviti: la clausola suggerisce le pause e il modo di porgere indica l'accentuazione. Dividi quelle parole che il significato divide, congiungi quelle che congiunge. Imposta in tal modo la voce che non si discosti dall'argomento, né la voce tenda ad uno scopo diverso da quello cui porta lo stesso argomento; entrambi procedano di pari passo. La voce sia l'immagine fedele dell'argomento, cosi come questo si presenta [ ... ] L'ira, genere di fiamma e madre del furore, traendo origine dalla follia, avvelena il cuore e l'anima; punge con la follia, brucia con la fiamma e turba con il furore; viene fuori in questa stessa forma una voce amara, un volto concitato, un gesto turbato; e l'espressione esteriore è specchio di quella interiore e si muovono insieme. Che cosa fai tu che reciti quel personaggio? Imita i veri furori. Non essere, tuttavia, furente; agisci come quello soltanto in parte, non interamente; ed il

12 Sulla Cena Cypriani si veda l'ultimo capitolo; sugli attori professionisti nelle rappresentazioni umanistiche, Stauble, 1968, pp. 196-97, a proposito della Corallaria del Frulovisi.

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tuo gestire non sia lo stesso che nella realtà, ma suggerisca, come si conviene, la cosa. Puoi rappresentare un contadino ed essere faceto. La voce rappresenti la voce, il volto il volto ed il gesto il gesto per accenni. 13 C'è qui tutta una serie di questioni che meriterebbero di essere svolte con maggior approfondimento, ma ne indicherò solo due, apparentemente contraddittorie: l'idea che l'espressione esteriore è specchio di quella interiore e che le due si muovono insieme, e quella che la rappresentazione debba avvenire per accenni e non interamente. La prima prescrizione sembrerebbe tendere verso la verosimiglianza, attraverso il meccanismo per noi oggi consueto dell'immedesimazione psicologica, mentre la seconda ci appare sconvolgentemente moderna, quasi diderotiana o brechtiana, in quel giocare sulla distanza tra l'interprete e il personaggio, tra l'attività produttrice di segni dell'attore e il risultato che esso offre come prodotto all'attenzione dello spettatore. Ma analizzate nella loro relazione reciproca e all'interno della cultura medievale, quelle due idee non sono contraddittorie. Entrambe infatti rimandano ad una concezione estetica generale, che è quella di una convenzionalità comunicativa che non si regga sul principio della mimesi, della copia della realtà. Tutta l'arte e in genere tutta la comunicazione medievale si appoggia ad una rigida convenzionalità delle formulazioni, assai più preoccupata della coerenza interna del sistema simbolico che costruisce che non del riscontro realistico col mondo quotidiano. Per questo, in un tale quadro di riferimento, la recitazione non può denunciarsi che per ciò che è, un'operazione artificiale, simbolica, che pretende credito non in virtù della verosimiglianza ma per la coerenza dei segni che mette in campo. In questa prospettiva, anche l'accenno di Goffredo all'espressione esterna come specchio di quella interna non suona certo come un richiamo alla credibilità psicologica, quasi di tipo naturalistico, del personaggio che si deve costruire, ma come un'esortazione ad approntare una sorta di tavola delle equivalenze, rigidamente convenzionale, tra espressioni e sentimenti. Così l'attore avrà gli strumenti linguistici per imitare i veri furori senza tuttavia

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La traduzione italiana è quella di M. Chiabò in Doglio, 1982, p. 340.

Il testo latino, che riproduce i vv. 2031-2065 della Poetria Nova, è in FaraI, 1924, pp. 259-60.

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costringersi ad essere furente: il gioco dell'attore è tutto artificiale, simbolico, convenzionale. Ma soprattutto abbisogna di tecniche, di una professionalità specifica, che va appresa e coltivata e che dunque costituisce un lavoro. Fare del teatro un'occasione di lavoro (in senso sociale) e lo spazio di un lavoro (in senso estetico): anche questa è un'eredità che, qualche secolo dopo, qualcuno raccoglierà.

Parte terza

DAL NON-TEATRO AL TEATRO

Capitolo primo

LITURGIA E TEATRALITÀ

Abbordando il tema del teatro sacro e dunque dapprima quella forma iniziale, tra X e XI secolo, in latino e all'inizio strettamente legata alla liturgia che viene chiamata ufficio drammatico o dramma liturgico - anche se la terminologia stessa, come vedremo, costituisce un problema - la nostra condizione di studiosi del teatro medievale muta radicalmente. Non si tratta più di ritrovare ed interpretare le tracce di una teatralità marginalizzata e occultata, come nei capitoli precedenti, ma all'inverso di rendersi in qualche modo sordi o diffidenti nei confronti di una teatralità troppo patente in luoghi in cui, anche sulla base dell'esperienza del cammino interpretativo fin qui compiuto, non dovrebbe esserlo. Basta infatti ricordare anche solo qualcuno dei violentissimi attacchi della Chiesa e dei pensatori cristiani al teatro e alla spettacolarità perché l'idea stessa di teatro sacro, o religioso, o addirittura liturgico ci appaia intimamente contraddittoria e paradossale. Eppure con questo paradosso occorre fare i conti, perché un tale teatro non solo esiste ma è addirittura rigoglioso e alla fine dominante al punto da aver prodotto quella diffusissima concezione storico-critica secondo cui, come scrive Tatarkiewicz, « il teatro medievale è esclusivamente religioso» 1. Certo, oggi più nessuno sottoscriverebbe in sede critica questa frase lapidaria, ma resta comunque incontrovertibile che il teatro religioso, inteso nella sua globalità, è il fenomeno più macroscopicamente documentato della teatraHtà 1

Tatarkiewicz, 1979, p. 140.

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medievale. Considereremo in seguito le caratteristiche e i limiti delle fonti che costituiscono questa documentazione; basti per ora constatare che, sulla scorta di una accezione forte di teatro, fino agli esiti drammaturgici profani del tardo Medioevo - e soprattutto in Italia - quello religioso è in effetti l'unico teatro che ci sia dato documentare. Ma di fronte a questo dato storico, non scompare ed anzi si accentua il paradosso concettuale della sua esistenza, che invoca almeno qualche tentativo di spiegazione. Talvolta si è ricorsi, sulla base di una esegesi finalizzata a questa dimostrazione, ad alcuni passi degli stessi Padri della Chiesa, per costruire un modello che preveda la condanna di un teatro cattivo ma anche il vagheggiamento di un teatro buono 2. E certo i materiali per questa costruzione non mancano, fin dalle parole con cui termina il primo trattato contro gli spettacoli pagani, il De spectaculis di Tertulliano: Questi, e non altri, sono i piaceri e gli spettacoli dei Cristiani: e sono santi, eterni, accessibili a tutti. In essi devi vedere i tuoi ludi circensi [ ... ]. Se l'arte della scena diletta, noi abbiamo a sufficienza una letteratura, una poesia, una filosofia, una musica, un canto, e non favole, ma verità, non intrecci inverosimili ma le realtà più semplici [ ... ]. Quale spettacolo, poi, sta per darci l'avvento del Signore, ormai innegabile, ormai glorioso, ormai trionfante! [ ... ] Ma certo restano altri spettacoli, in quel giorno supremo del Giudizio universale [ ... ]. Che tu miri tali spettacoli, che di essi tu esulti, qual pretore o console o questore o sacerdote ti potrà assicurare, con tutta la sua generosità? E nondimeno questi fin da ora, se l'anima se li vuoI raffigurare, li abbiamo come davanti agli occhi. Del resto, quali dovranno essere quelli che « l'occhio mai vide, né l'orecchio udì, né passarono mai per la fantasia del'uomo »? Ben più attraenti, credo, del circo, del teatro e dell'anfiteatro, di tutti gli stadi di questo mondo! 3 Per continuare con Novaziano: Questo è lo spettacolo che si può vedere anche ad occhi chiusi. Questo è lo spettacolo che non è dovuto al pretore o al console, ma a colui che è unico e viene prima di ogni cosa, dal quale anzi viene ogni cosa, 2 Ad esempio il classico D'Ancona, 1891, I, pp. 12-14 e 49-61, oppure il più recente LuiselIi, 1977, pp. 226-28. 3 De Spect., 29·30, in Tertulliano, 1961, pp. 424·26.

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il Padre del nostro Signore Gesù Cristo, cui sia lode e onore nei secoli dei secoli. 4

E per finire, per brevità, con Sant'Agostino: I divini spettacoli hanno tenuto assai impegnato il vostro spmto nel nome di Cristo e vi hanno tenuti sospesi, non soltanto per desiderare certe cose ma anche per fuggirne altre. Questi sono gli spettacoli utili, salutari, che costruiscono non che distruggono; o meglio, che distruggono e che costruiscono: distruggono gli dèi recenti, edificano la fede nel Dio vero ed eterno. 5 Non crediate, o fratelli, che il Signore Dio ci abbia lasciati senza spettacoli. Se non fosse per uno spettacolo, sareste voi oggi convenuti qui? Ecco, ciò che abbiamo detto, voi l'avete visto e avete applaudito con entusiasmo; non avreste applaudito se non aveste veduto. 6 Ma ad un'analisi neutra, che escluda dal proprio orizzonte ogni occasione di indebito confronto con quanto sarebbe accaduto in seguito, appare abbastanza evidente che si tratta qui di formulazioni retoriche, di costruzioni di discorso che polemicamente contrappongono ad uno spettacolo che si vuole negare, un altro spettacolo, inteso stavolta in un'accezione fortemente metaforica, che è da un lato la corretta vita cristiana offerta allo sguardo altrui, e dall'altro la visione mistica, ad occhi chiusi, di Dio e del suo regno. Solo Agostino - e quanto Agostino fosse lucido anche nella considerazione degli spettacoli abbiamo già in precedenza sottolineato sembra intendere come spettacolo l'azione che si dà a vedere ai fedeli convenuti, ma anche in questo caso è avvertibile la grana della figura retorica, costruita per contrasto. Non pare essere questa, dunque - quella che contrappone lo spettacolo buono della fede e delle azioni liturgiche allo spettacolo cattivo dei teatri - , la strada per rintracciare radici legittimanti al teatro religioso. Ma ce ne sono tuttavia altre che, sempre su questa traccia, tendono a verificare il modello della sostituzione. Alcune, a

Spect., 9, in Novaziano, 1871, pp. 12-13. Enarratio in psalmum, 80, 23, 1, in Agostino, 1970, pp. 1146-47. Tractatus in Iohannem, VII, 6, 18, in Agostino, 1968, pp. 160-61. Testimonianze di questo genere sono riportate anche in Casagrande-Vecchio, 1978, p. 246. 4 5 6

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partire dal classico Reich 7, vedono l'accentuazione dell'aspetto coreografico e sfarzoso della stessa liturgia e l'innesto di elementi di teatralità al suo interno, specie nella Chiesa orientale, come una sorta di risarcimento spettacolare al pubblico dei fedeli, in cambio di quegli spettacoli pagani che gli venivano negati. Con ciò dunque la Chiesa si sarebbe collocata su un terreno di diretta concorrenza con quella spettacolarità che pure veniva ideologicamente rifiutata, dunque implicitamente o esplicitamente sostenendo che quel rifiuto era solo questione di contenuti, sostituiti i quali con altri più consoni ai principi del proprio magistero, la Chiesa poteva far proprie le tecniche e l'idea stessa di teatralità. Ma anche questa, se si accettano come valide le conclusioni del capitolo sulla polemica anti-spettacolare della Chiesa, secondo cui quella posizione era contro la spettacolarità stessa in quanto suscitatrice di passioni e non sui suoi contenuti, ci deve apparire come una via sostanzialmente non accettabile. Anche perché una simile impostazione mostra di confondere aspetti che dovrebbero invece rimanere ben distinti, quali la presunta o reale potenzialità intrinsecamente teatrogena della ritualità cristiana e la spettacolarità intesa come ridondanza e ricchezza degli apparati delle pratiche liturgiche. A me pare chiaro che le due questioni sono radicalmente diverse, come radicalmente differenti dovrebbero essere, in questo contesto come in assoluto, le nozioni di teatro e di spettacolo. A questo riguardo, è sostanzialmente scorretto iniziare la trattazione del teatro liturgico, come spesso avviene 8, con la descrizione degli aspetti drammatici o spettacolari - quasi che le due nozioni fossero omologhe - della messa e delle altre funzioni liturgiche, per arrivare, lungo un filo di consequenzialità che sembra lineare ma non è, a trovare normale e coerente la nascita e lo sviluppo di vere e proprie scene teatrali. Ora, è chiaro che, come scrive Apollonio, in ogni ritualità ci sono elementi di rappresentazione cristallizzata 9, e dunque divenuti altra cosa, entrati in un gioco di simbologie che non è più quello della rappresentazione ma quello della celebrazione rituale. Ed è anReich, 1903, pp. 138-41. D'Ancona, 1891, I, pp. 21·27; De Bartholomaeis, 1924, pp. 102-21; Young, 1933, pp. 15-75; De Vito, 1938, pp. 123-27; Toschi, 1976, pp. 641-43, per non citare che i classici. Hardison, 1965, interpreta addirittura la messa stessa come dramma sacro. Naturalmente differente è l'approccio psico.antropologico, alla simbologia della messa in Jung, 1978. 9 Apollonio, 1981, I, p. 20. 7

8

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che possibile che questa rappresentazione cristallizzata venga per così dire risvegliata da un qualche intervento esterno e dunque resa disponibile ad accettare come compatibile un nucleo di rappresentazione reale, attiva, che venga introdotto in essa. Ma da un lato è necessario ipotizzare appunto un intervento esterno e non invece un meccanismo di sviluppo interno e naturale, e dall'altro è comunque impossibile intendere i primi sviluppi drammatici come dotati di intenzionalità e di funzione spettacolare. Per riprendere il modello oppositivo sopra enunciato, quelle scene potranno forse essere teatrali, dunque intese ad approfondire simbolicamente temi e valori come esercizio di crescita spirituale ed esistenziale dei soggetti che partecipano all'azione, ma certo non spettacolari, ossia costruite con la consapevolezza di offrirsi allo sguardo altrui, in funzione del quale assumono la propria forma. Per questa ragione mi sembra illusorio e fuorviante interrogare le fonti con la prospettiva di ritrovare una concezione spettacolare della liturgia. Una cosa è dar credito alla esplicitazione delle simbologie che fa ad esempio in modo anche esagerato e certamente totalizzante Amalario nel X secolo l0, perché simbologie nella ritualità e nei luoghi sacri naturalmente esistono, e altra cosa è tentare di vedere una giustificazione teorica della spettacolarizzazione della liturgia in alcuni testi dei trattatisti, che devono per questo essere tendenziosamente interpretati. È il caso di un passo spesso citato di Onorio di Autun, tra fine XI e inizi XII secolo - di un autore, per di più, che ha contribuito alla condanna senza mediazioni della spettacolarità dei giullari 11 - , che letto senza intenzionalità mostra con evidenza la sua natura di discorso retorico, non dissimile da quello dei Padri della Chiesa sopra riportati: Coloro che recitavano le tragedie nei teatri, rappresentavano al popolo coi gesti scene di combattimento. Così il nostro tragico [il celebrante] rappresenta nel teatro della Chiesa coi suoi gesti la battaglia di Cristo al popolo Cristiano, e gli dimostra la vittoria della sua redenzione. Pertanto, quando il sacerdote dice Pregate, rappresenta [exprimit] Cristo per noi morente, quando chiede agli Apostoli di pregare. 12

lO 11

De Ecclesiasticis Officiis, P.L., 105, colI. 1108-56. Elucidarium, 2,18, P.L., 172, col. 1148: «-Hanno speranza

lari? - Nessuna, perché con ogni zelo sono ministri di Satana ». 12 De gemma animae, P.L., 173, col. 570.

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giul-

Dove anche quell'exprimit, che può valere l'italiano rappresenta, ci parIa certo di una rappresentazione simbolica, cristallizzata come dice Apollonio, e non della rappresentazione di un gesto d'attore che incarna un personaggio. Spogliato di presupposti evoluzionistici che devono servire a legittimare ciò che succederà in seguito, questo percorso d'indagine risulta dunque poco praticabile. CosÌ come poco credibile - anche se, come vedremo, più intrigante in una visione della realtà meno semplicistica - risulta quell' altra concezione in certo senso complementare, che serpeggia qua e là nelle ricostruzioni storiche, secondo cui i nuclei di teatralizzazione della liturgia costituiscono una sorta di antidoto, di elemento buono che scaccia e si sostituisce all'elemento cattivo, nei confronti della festività di tradizione pagana che persiste nonostante tutto da secoli ed anzi ha invaso con le sue pratiche anche gli spazi sacri delle chiese e dei cimiteri. Questo fatto, tuttavia, cui ho già fatto cenno anche nei capitoli precedenti, costituisce un importante elemento di riflessione, sul quale è dunque necessario soffermarsi. Già si è sottolineata la lunga, costante e quasi ossessiva campagna da parte di singoli scrittori cristiani e dell'istituzione ecclesiale stessa, ad esempio nei canoni dei concili, per tentare di sradicare le feste di ritualità pagana cui anche i fedeli cristiani indulgono, ad esempio in occasione delle antiche Kalende di gennaio 13. Quest'opera di demolizione va facendosi col tempo sempre più necessaria quanto più quella festività si ibrida pericolosamente, finendo per far corpo con essa, con la ritualità cristiana. Citerò solo, tra le numerose prese di posizione a questo riguardo, peraltro spesso ripetute per secoli con analoghe argomentazioni, il canone 19 del Concilio di Chalons, del VII secolo, che ci testimonia dell'abitudine, alle stesse cerimonie di dedicazione delle basiliche, di cantare canti profani specie ad opera di donne 14. Ora, queste condanne, che sono generali e onnicomprensive in epoche in cui una spettacolarità cristiana ancora non si è manifestata, cominciano a divenire molto più ambigue nelle epoche successive, quando appunto la Chiesa prende a divenire teatro non solo di festi13 Già si sono riportati documenti nei capitoli precedenti. Si veda comunque in Appendice a Chambers, 1903, II, pp. 294-306. 14 Si veda Chambers, 1903, I, p. 161.

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vità pagana ma anche di situazioni drammatiche di origine e di tema religiosi. Da un lato quando gli oggetti delle condanne divengono soprattutto le feste degli innocenti, che certamente non sono estranee, come vedremo, al fenomeno della nascita e della diffusione della teatralità cristiana, e dall'altro quando l'iterazione dell'ostracismo ai ludi nelle chiese si scontra con la necessità di distinguere - o di non distinguere, spesso - quelli cattivi da quelli buoni. Per quanto attiene al primo aspetto, non ci interessa qui tanto approfondire la condanna degli aspetti degenerativi di queste feste, condanna che non aggiunge certo elementi di novità alle posizioni già più volte rammentate, quanto rilevare le modalità della nascita di queste consuetudini e i loro rapporti col teatro religioso. Le Libertates Decembris, dunque, come ha argomentato De Bartholomaeis documentandone la diffusione in Italia e fuori 15, sono feste che si sviluppano ad iniziativa degli allievi delle scholae, specie in quelle cattedrali visto che la legalizzazione di queste consuetudini si fa risalire ai tre giorni di festività concessi con un diploma di Corrado I di Franconia agli studenti di Costanza nel 911. In queste festività, che trovano la loro collocazione nel calendario in corrispondenza della festa dei SS. Innocenti, il 28 dicembre, si ribaltano le gerarchie e viene eletto tra gli scolari un Episcopus Puerorum, o Innocentium, o Stultorum, ecc., col compito di rappresentare: per quel periodo, l'autorità religiosa. Naturalmente è comune, in questo contesto, rovesciare comicamente le pratiche liturgiche e devozionali consuete ed anche allestire vere scene teatrali, come ci testimonia la descrizione dell'Ordinarium padovano con una grottesca scena di Erode, di cui avrò modo di parlare più avanti, o come si può desumere dai residui che ancora si intravedono in alcuni drammi liturgici, come ad esempio il Festum Asinorum di Rouen. Ma a questa altezza cronologica, diciamo dal XII secolo in poi - e con ciò arrivo ad affrontare il secondo aspetto della questione - , la condanna della festività e della teatralità nelle chiese comincia a dover fare i conti con la realtà dei drammi cristiani. Allora, la famosa decretale di Innocenzo III del 1207, già citata nei capitoli precedenti, che condanna con durezza i ludi theatrales nelle chiese, viene fornita di una glossa interpretativa, qualche decennio dopo, che espressamente permette i drammi liturgici: 15

De Bartholomaeis, 1924, pp. 201-15.

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Con la quale condanna, non si proibisce di rappresentare il presepio del Signore, Erode, i Magi, il pianto di Rachele sui figli, e simili cose, le quali inducono l'animo dei fedeli più a sentimenti di compunzione e di pietà che di lascivia, come a Pasqua si rappresentano il sepolcro del Signore, e altre scene, per eccitare la devozione. 16 E più o meno nel medesimo periodo una simile distinzione compare anche nei decreti di Alfonso X di Castiglia che stabiliscono che nelle chiese i chierici non possano fare juegos por escarnio, poiché la chiesa è fatta per pregare e non per compiervi villanias y desaposturas, ma che tuttavia ammettono: Però vi sono delle rappresentazioni che i chierici possono fare, come la Natività del nostro signore Gesù Cristo, che mostra come l'Angelo si palesò ai pastori e annunciò loro la sua nascita, e altresl come apparve ai Tre Magi che vennero ad adorarlo, e la Resurrezione che mostra come fu crocifisso e resusci tò il terzo giorno, ecc. 17 Tuttavia testi come questi, che sono del tutto omologhi tra loro perché è chiaro che anche le disposizioni del re di Castiglia si modellano su prescrizioni ecclesiastiche, anziché chiarire sembrano portare ulteriori elementi di contraddittorietà. Perché questi documenti, data anche la loro intrinseca autorevolezza - una glossa autorizzata ad una decretale pontificia ed un decreto regale - , parrebbero testimoniare da un lato della precisa coscienza delle caratteristiche teatrali dei drammi liturgici, se si avverte la necessità di istituirli ad eccezione nella condanna generale dei ludi, e dall'altro della accettazione teorica e dell'approvazione fattuale di queste pratiche in seno alla Chiesa. Ma in realtà - e su questo fatto non mi pare si sia mai sufficientemente insistito - quella consapevolezza e quella accettazione sono ben lungi dall'essere provate. O anche accade che quando è presente la prima, quasi automaticamente sia negata la seconda. Il dato da cui mi pare necessario partire è quello di un significativo silenzio della teoria a questo riguardo. In realtà - e se ne accorge alla prima impressione chiunque si accosti criticamente a questi problemi - le testimonianze e le considerazioni sul teatro 16

Se ne veda il testo latino, poi più volte riprodotto, in D'Ancona, 1891,

I, p. 54, che lo attribuisce a Bernardo Bottone da Parma. 17 Anche questo testo, in spagnolo (Partida I, ley 34, tit. VI), è stato

spesso riprodotto. Lo si veda ad esempio in Lizaro Carreter, 1965, pp. 37-38. 132

religioso che gli studiosi sono riusciti finora a rintracciare, nella sterminata produzione medievale di atti ufficiali della Chiesa o nei trr.ttati di teologi, moralisti e filosofi cristiani, sono del tutto esigue. Anche i documenti del tipo citato sopra sono in realtà pochissimi, e infatti sono sempre gli stessi ad essere allegati dagli studiosi. A ben pensarci, dunque, il silenzio dei trattatisti cristiani è fragoroso. Si pensi a tutti gli scrittori, anche qui citati nei capitoli precedenti, che si sono espressi sui mimi o sui giullari - parIa naturalmente di quelli dall'XI secolo in poi - , dunque personaggi che hanno ben presente alla propria riflessione il tema della teatralità, e si consideri come in essi non ci sia parola sui drammi religiosi. Accontentiamoci qui di portare due esempi, ma che mi paiono significativi, quelli di Giovanni di Salisbury e di Ugo di San Vittore. Il Policraticus, scritto dal primo poco oltre la metà del XII secolo, ci ha già fornito materiale per quanto riguarda la considerazione della cultura cristiana per i giullari, ed è dunque un trattato che ha nel proprio orizzonte teorico il problema della spettacolarità. Ma ha anche presente, e in modo inconsuetamente lucido per questa altezza cronologica, il problema del teatro in senso stretto, di concezione classica: E vi furono attori che con movenze del corpo, con l'arte delle parole e con la modulazione della voce rappresentavano pubblicamente storie vere e inventate. Tali storie si trovano in Plauto e in Menandro e per mezzo loro l'arte del nostro Terenzio è divenuta famosa. 18 Mi occuperò più estesamente nell'ultimo capitolo del senso e del valore di questa concezione corretta del teatro, a fronte di una idea corrente ancora due secoli dopo che è molto meno precisa. Ora accontentiamoci di ritenere come per Giovanni di Salisbury l'idea di teatro sia non solo presente ma anche ben definita. Una riprova ulteriore è nel suo insistere sulla metafora del teatro del mondo - metafora che anzi proprio a lui deve una rinnovata fortuna dopo secoli di obsolescenza 19 - , maneggiando la quale dimostra di possedere perfettamente i meccanismi della rappresentazione teatrale: Policraticus, I, 8. La traduzione riportata è quella di Avalle, 1984, p. 24. In realtà la metafora ricompare prima in Bernardo di Chiaravalle (Epist., LXXXVII, P.L., 182, col. 217), ma è soprattutto il grande successo del Policraticus che la impone. Sulla metafora del teatro del mondo, nell'intero corso 18 19

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la vita dell'uomo sulla terra è una commedia in cui ciascuno, dimentico di sé, recita la parte di un altro [ ... ]. Così, per adattare alle pie orecchie le invenzioni dei gentili, si dirà che la fine di tutte le cose è tragica. Ma non ho nulla da obiettare se si vorrà mantenere, come più gradevole, il termine « commedia »; poiché è risaputo anche fra di noi che - come dice Petronio - quasi tutti, sulla terra, si comportano da istrioni. 20 Dove è notevole la capacità di comprendere il ruolo e la funzione dell'attore nel sistema teatrale classico, assieme con la lucidità di accostare espressamente ad esso gli istrioni, che è termine non neutro né puramente storico, perché nel lessico del XII secolo serve sempre a designare spregiativamente i giullari. Eppure, in questo contesto sia di individuazione dei termini della teatralità passata sia di riconoscimento delle valenze teatrali del presente, e in un'epoca in cui il dramma liturgico è ormai largamente praticato in tutta Europa, su questo tipo di teatro non è concessa una sola parola, ed anzi è espressamente affermato che, dopo la scomparsa di commediografi e tragediografi, anche gli attori che del teatro sono interpreti exterminati sunt 21. Sicuramente per un osservatore moderno questo dato è sconvolgente, ma solo perché dà per scontato che la categoria teatro sia ugualmente applicabile sia alla rappresentazione dei testi di Terenzio che alla rappresentazione del dramma religioso medievale. Ma questo - ed è l'unica conclusione che sia possibile trarre da questo silenzio altrimenti inspiegabile - non è evidentemente scontato per un trattatista dell'epoca. . Andiamo in cerca di conferme, accostandoci all'altro esempio, quello di Ugo di San Vittore. Anch'egli si è occupato di teatro e anzi, come abbiamo visto, nel Didascalicon, ha introdotto la theatrica tra le arti meccaniche, dunque istituzionalizzandola e legittimandola come attività antropologicamente centrale. Ebbene, anche Ugo colloca nel passato il teatro e tutto quanto gli attiene e non fa parola della teatralità contemporanea: né, si diceva, di quella dei giullari, né, aggiungiamo ora, di quella religiosa. E se della prima censura

della storia occidentale, si vedano Balthasar, 1980, pp. 127-249: pp. 142-50 per gli ambiti cristiano-antichi e medievali, e anche Fumagalli Beonio Brocchieri, 1987, pp. 63-68. 20 Policraticus, III, 8, in Giovanni di Salisbury, 1985, pp. 43-47. Questo volume contiene in traduzione solo una scelta dei capitoli del trattato. 21 Policraticus, I, 8, P.L., 199, col. 405.

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si è tentato di individuare le ragioni nell'intento coerente con la cultura del tempo di marginalizzare la giulleria e le sue istanze concorrenziali a quelle della Chiesa, per la seconda assenza questa giustificazione naturalmente non vale. E dunque non resta che concludere che anche per Ugo, ciò che per noi è teatro religioso, per lui certo è qualcosa di religioso, ma non teatro. E non si tratta che di due soli esempi di questo vistoso silenzio della teoria, di fronte al quale le poche testimonianze di presa di posizione, quelle che gli studiosi si affannano ogni volta a riportare perché sono le sole ad offrirci frammenti di documentazione, figurano davvero come isolotti sparuti in mezzo all'oceano. Ma questo è solo uno dei termini del discorso; l'altro verte proprio sull'analisi di queste testimonianze superstiti di consapevolezza delle caratteristiche teatrali dei drammi religiosi. Ci sono sì i documenti che riconoscono queste caratteristiche, e anche ne rivendicano la positività, specie a confronto con la teatralità paganeggiante delle feste dei folli e simili, come la glossa a Innocenzo III e il decreto di Alfonso X sopra citati, oppure un canone del concilio provinciale di Sens del 1460 22 • Oppure testi che ancor più nettamente sembrano qualificare come teatro tout court queste cerimonie, come quel commento oraziano tra IX e XI secolo su cui torneremo, oppure la citatissima cronaca del dramma sacro rappresentato a Riga nel 1204, in cui c'è un'esplicita identificazione di questo tipo di spettacoli con la commedia latina: In quello stesso inverno si fece un ben organizzato ludus prophetarum, quello che i Latini chiamano commedia, nel centro di Riga, perché i gentili imparassero i rudimenti della religione cristiana anche per mezzo di una fede che passa attraverso gli occhi. La materia del quale ludus e commedia era diligentissimamente esposta dall'interprete sia ai neofiti che ai pagani. 23 Ma anche considerando queste testimonianze, si ha davvero l'impressione di una macroscopica incongruità tra queste sparse prese di posizione teoriche e la realtà di una diffusione generalizzata del teatro religioso, il quale, per il solo fatto di esistere e di perdurare Young, 1933, II, pp. 418-19. Se ne veda il testo latino, peraltro spesso pubblicato, in Young, 1933, II, p. 542. 22 23

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con successo - e stavolta all'interno e non più all'esterno della cultura ufficiale - , dovrebbe essere supportato da un'elaborazione teorica, o almeno da una presa d'atto, infinitamente maggiore. E questa impressione, che testimonia, almeno, di un disagio della cultura cristiana nei confronti dell'affermarsi di queste cerimonie, viene ancor più valorizzata da un'altra serie di documenti, anch'essi spesso allegati dagli studiosi, in cui la teatralità dei drammi religiosi è certamente riconosciuta ma, proprio per questo e coerentemente con la posizione tradizionale della cultura cristiana, condannata. Sono del resto i testi più diffusamente citati, quello di Gero di Reichersberg, quello di Herrada di Landsberg o quello di Roberto Grossatest«, tra metà del XII secolo e metà del XIII. Gero, che già negli anni Venti del XII secolo aveva manifestato la sua ostilità all'usanza dei monaci di Augsburg di usare il refettorio solo per le scene di Erode e della strage degli Innocenti in spectaculis quasi theatralibus 24, dedica un intero capitolo del suo De Investigatione Antichristi, successivo di una quarantina di anni, a condannare queste cerimonie, per designare le quali il quasi che ne attenuava la teatralità è del tutto sparito: Vi sono sacerdoti che non si dedicano al ministero della chiesa e dell'altare, ma piuttosto alle opere dell'avarizia, della vanità e degli spettacoli; così che le chiese, le quali dovrebbero essere case di orazione, trasformano in teatri e riempiono con mimici spettacoli di rappresentazioni sceniche. Nei quali spettacoli, presenti e spettatrici le donne, talora essi perfino dell'Anticristo non, come credono, una immaginaria figura offrono, ma in verità, per quanto sta in loro, compiono l'iniquo mistero [ ... ]. Che cosa v'è da stupirsi se costoro, ora, simulando nelle loro rappresentazioni l'Anticristo o Erode, non fingono come si suole fare a scopo di divertimento, ma veracemente li pongono sulla scena, come coloro la cui vita non molto differisce dall'ignobile vita dell'Anticristo? Ed è anche accaduto, come siamo venuti a sapere, che colui che nelle loro rappresentazioni avevano figurato come morto da risuscitare per opera di Eliseo profeta, compiuta la simulazione fosse trovato morto per davvero. Così un altro, presentato all' Anticristo per essere da lui risuscitato, la settimana dopo, come siamo venuti a sapere, morì per davvero e fu sepolto. E chi può sapere se anche tutte le altre simulazioni, e cioè le effige dell'Anticristo, i fantasmi dei demoni, la pazzia di Erode, essi non rappresentino veracemente? Rappresentano pure, immaginosamente, anche la 24

Commentarium in Psalmos, P.L., 194, col. 890.

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culla del Bambino Gesù, il suo piccolo vagito, l'aspetto matronale della Vergine Madre, la stella come un astro lucente, la strage degli innocenti, il pianto materno di Rachele. Ma la divinità e la severa faccia della Chiesa aborriscono gli spettacoli teatrali, non vogliono vanità e pazzie false, nelle quali gli uomini si rammolliscono in donne, quasi si vergognino di essere uomini, i chierici si mutano in soldati, gli uomini si mascherano in larve di demoni. 25 La rilevanza teorica di questo passo, ai fini del nostro discorso, è accentuata proprio dall'accenno ad un rapporto di interdipendenza tra ciò che si recita e ciò che può accadere nella vita quotidiana, a quella sorta di maledizione che colpisce l'attore per il solo fatto di essere tale e dunque automaticamente un bestemmiatore, che riprende un motivo tipico della polemica anti-teatrale degli scrittori cristiani di qualche secolo prima. Naturalmente, la lettura che si dà tradizionalmente di questo passo, come degli altri simili, è quella della reazione ad una degenerazione, di una sorta di legittima difesa dei dotti cristiani da quelle intrusioni buffonesche, o quantomeno non religiose e spettacolari in senso spregiativo, che avrebbero intaccato la purezza originaria dei primi drammi liturgici. La pezza d'appoggio più consistente per questa teoria è sempre stata il lungo brano di Herrada di Landsberg, badessa di Hohenburg, alla fine del XII secolo: Spesso avviene che da buone consuetudini ne nascano di cattive [ ... ]. Poiché Dio si fece uomo e apparve visibile agli occhi degli uomini colui che, come Dio, era invisibile, i fedeli della Chiesa antica furono colmi di tanta riconoscenza per la manifestazione della umanità del Cristo che cercarono di fissarla in scritti e in riti ad utilità dei loro posteri. La Chiesa pertanto ridusse a scene visibili alcuni momenti della vita di Cristo: la sua natività, la venuta dei magi con i mistici doni, la circoncisione, l'entrata in Gerusalemme a dorso d'asino fra l'applauso del popolo e uno sventolio di palme, i due vi andanti di Emmaus; e queste scene si rappresentano in alcune chiese con grande pietà e secondo l'antica tradizione, in altre un po' mutate, volontariamente o per necessità, quando non siano cadute in disuso. Ed ecco appunto come dalla radice di buoni esempi possono nascere pessimi frutti. Nel giorno e nell'ottava dell'Epifania fu 25 De inv. Ant., I, 5 (De spectaculis theatricis in ecclesia Dei exhibitis). Il testo latino è stato più volte pubblicato in estratto, ad esempio in Chambers, 1903, II, pp. 98-99, e Young, 1933, II, pp. 524-25. La traduzione italiana qui utilizzata è tratta da Franceschini, 1960, pp. 26-27.

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introdotto dai nostri padri un rito fatto di immagini VlSlve rappresentante i magi guidati dalla stella alla ricerca del Cristo appena nato, la crudeltà e la malizia ingannatrice di Erode, i soldati incaricati della strage degli innocenti, il letto della Vergine, l'angelo che avvisa i magi di non tornare a Gerusalemme, o altri fatti che in quel giorno si ricordano: e tutto ciò perché ne avesse aumento la fede dei credenti, la grazia divina fosse più ricercata, e l'incredulo stesso ne traesse incitamento e sprone a tornare a Dio e alla pratica religiosa. Ma oggi? Che cosa succede in alcune chiese in questi nostri giorni? Non è più un pio rito che si celebra a onore di Dio, ma un'impudicizia irreligiosa e dissoluta che si sfrena. L'abito clericale viene deposto, si introducono usanze militari, preti e soldati non si distinguono più, e in una confusione di chierici e di laici la casa di Dio è profanata; ci si ingozza, ci si ubriaca, si rappresentano scene scurrili, mimi disonesti, giochi ridevoli; e uno strepito d'armi, una confusione da bettole, uno sfrenato manifestarsi di ogni vanità. Si aggiungano le discordie che vengono a turbare un siffatto ambiente: cosÌ che anche quando l'inizio è pacifico, non succede mai che si finisca senza gravi tumulti di risse e di li ti. 26 Ma in realtà, a mio parere, quello che questo scritto testimonia

è proprio il rifiuto del passaggio dalla cerimonia religiosa - in cui le scene sono exempla, come scrive il testo latino, che celebrano alcuni momenti della vita di Cristo - alla rappresentazione teatrale, in cui l'interprete si maschera e in cui l'intervento anche di laici spezza la condizione originaria di cerimonia. Tutto il resto, dal decadimento dei costumi dei partecipanti alle risse, non è che una conseguenza sociologica, ed è perfettamente coerente con la considerazione tradizionale della Chiesa sul clima che ha sempre gravitato intorno agli spettacoli. Questa constatazione, che quando la celebrazione religiosa si fa teatro giunge a non differire in nulla dalla teatralità di tradizione pagana, e dunque va condannata senza eccezioni, emerge con lucidità e con durezza negli scritti di uno degli intellettuali più prestigiosi della cultura cristiana del XIII secolo, il vescovo di Lincoln, Roberto Grossatesta, che, specie in una lettera del 1244 al suo arcidiacono, non distingue tra teatro religioso e festività paganeggiante dei riti primaverili e raccomanda di estirparli entrambi:

26 Si veda il testo latino in Young, 1933, II, pp. 412-14. La traduzione è quella di Franceschini, 1960, pp. 19-21.

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I chierici fanno anche, come abbiamo sentito, certi ludi che chiamano miracoli: e altri ludi che chiamano Introduzione di Maggio o dell'Autunno [ ... ] Fate in modo che, per quanto è in vostro potere, anche i miracoli e i ludi sopra nominati siano estirpati. 17

Quanto la situazione fosse poco lineare e manifestasse amplissimi margini di ambiguità, lo si può arguire proprio dal dato della quasi contemporaneità tra questa presa di posizione di Grossatesta e la glossa alla decretale di Innocenzo III. Per cui non è possibile sostenere, in un tentativo di coerentizzazione, che ci sia stata una evoluzione nella posizione della cultura cristiana, né dall'accettazione alla non accettazione del dramma religioso, dato che condanne importanti datano da ben prima di quella glossa, né dalla non accettazione all'accettazione, se è addirittura possibile rintraccire la sedimentazione dell'atteggiamento di ripulsa nella manualistica divulgativa, a cavallo tra fine XIII e inizio XIV secolo, come nel Manuel des Pechiez di Guglielmo di Wadington, che appunto in questi anni ha notevole diffusione ed è anche tradotto in inglese 28. Quali sono dunque le conclusioni che possono trarsi da questo rapido excursus? Non certo quella che, partendo più o meno dai medesimi documenti, ma diversamente montati e interpretati, propone D'Arco Silvio Avalle, secondo cui molti dei riferimenti al teatro classico che si trovano negli autori cristiani costituiscono una sorta di legittimazione a posteriori di questo nuovo teatro ormai in pieno sviluppo, che va difeso proprio con la nobilitazione di questo accostamento 29. Anche perché, proprio una delle testimonianze che lo stesso studioso acclude a sostegno di questa tesi porterebbe semmai verso altre considerazioni. Si tratta di un commentario ai Fasti di Ovidio del XII secolo, dovuto ad Arnolfo di Or1éans: «I Romani ogni anno convenivano in campo Marzio, e lì rappresentavano quella strage una volta fatta da Silla, allo stesso modo in cui noi rappresentiamo la strage degli Innocenti» 30. Non mi pare, infatti, che il paragone sia istituito col teatro, ma con qualcosa che possiamo chiamare una festività celebrativa, che la Se ne veda il testo latino in Chambers, 1903, I, p. 91. Se ne vedano testo romanzo e traduzione inglese in Chambers, 1903, II, pp. 100-1, e Young, 1933, II, pp. 417-18. 29 Avalle, 1984, pp. 23-27. 30 Il testo latino si può trovare sempre in Avalle, 1984, pp. 26-27. 27 28

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nostra coscienza contemporanea nutrita di antropologia può anche sentire vicina al teatro, ma che ad un dotto del XII secolo probabilmente, quand'anche possieda la nozione di teatro, non può che apparire del tutto diversa. Ed è qui il punto essenziale della questione, non sufficientemente sottolineato finora, e cioè che il tratto della teatralità dei drammi religiosi, che a noi moderni appare con tutta evidenza, con ogni probabilità sfugge invece alla grande parte di un ambiente culturale che proprio della condanna al teatro e alla spettacolarità ha fatto per secoli uno dei punti qualificanti del proprio intervento nel sociale e che ancora censura con accanimento in quello stesso periodo le tracce di teatralità che va scorgendo nell'operare dei giullari. E del resto è proprio il confronto con le argomentazioni utilizzate nella polemica contro i giullari, quel contestare la loro azione tutta risolta in esteriorità spettacolarizzata, a rendere difficilmente credibile l'accettazione pacifica di un identico atteggiamento all'interno della propria cultura. E il confronto in negativo con la gestualità e il modo di porgersi degli istrioni è costante, come abbiamo visto nei capitoli precedenti e come ribadisce con inequivocabile nettezza Aereldo, abate di Rievaulx, in pieno XII secolo, quando deplora gli atteggiamenti troppo teatrali dei cantori durante le funzioni religiose: Talvolta tutto il corpo è agitato con gesti da istrione, si storcono le labbra e gli omeri roteano come per gioco; e ad ogni nota risponde una flessione delle dita. E questa ridicola dissolutezza è chiamata religione! [ ... ] Il volgo è incantato [ ... ], ma guarda le lascive gesticolazioni dei cantanti e l'alternarsi e lo spezzarsi delle voci, come da meretrici, non senza sghignazzamenti e risa, di modo che diresti che sia venuto non in chiesa ma a teatro, non per pregare ma per assistere ad uno spettacolo. 31

L'idea di base che qui sostengo va al di là, o comunque si basa su presupposti differenti, della recente e ormai imprescindibile posizione di Drumbl che il teatro liturgico è nato non favorito dalla ben si malgrado la liturgia 32. Anche per me, come per Drumbl, questo che per i moderni è teatro nasce in realtà come cerimonia, ma a me pare che si debba sottolineare con maggiore insistenza che per lungo tempo nella cultura cristiana quella teatralità rimane se 31 32

Speculum Charitatis, II, 33, P.L., 195, col. 571. Drumbl, 1981, p. 244 e passim.

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non inavvertita certo almeno rimossa. O che quando viene rilevata porta molto spesso, quasi di necessità, ad una condanna. Anche quando la cerimonia, a partire generalmente dall'XI secolo, si spettacolarizza trasformando almeno parzialmente i fedeli in spettatori, la sua funzione deve essere sentita generalmente come vicina all'exemplum dimostrativo, perché solo in questo modo può essere superata la contraddizione altrimenti insostenibile tra teoria e prassi. Quando questa contraddizione appare in tutta la sua evidenza non più censurabile, le uniche due possibilità, tra le quali come si è visto la cultura cristiana esita per secoli, non possono che essere la condanna intransigente o la accettazione pragmatica in nome di una utilità catechetica che giustifica anche il ricorso a pratiche prima osteggiate e che il successo del resto protegge ormai da un'opera di totale sradicamento. Sulla scorta di queste considerazioni preliminari, è ora possibile ripercorrere brevemente la storia della nascita e del primo sviluppo di quello che è stato chiamato dramma liturgico, storia del resto che ha già costituito l'oggetto di numerose e anche ponderose trattazioni, che però raramente si sono preoccupate di contestualizzarla all'interno del panorama generale della cultura cristiana sulla teatralità e lo spettacolo. Per questo la contraddizione su cui ho speso le pagine precedenti rischiava di annullarsi nella rilevazione dei dati oggettivi - i testi, le descrizioni - , letti tuttavia con occhio evoluzionistico e a partire dunque da presupposti ideologici e metodologici che falsavano l'oggetto della ricerca: quella era la nascita del teatro moderno, e dunque quello era senza discussioni teatro, per cui era possibile sovrapporre ad esso tutte le nostre categorie, moderne appunto, di teatro 33. Le teorie tradizionali hanno per lo più sviluppato un modello che, semplificato al massimo, è questo: all'interno della ritualità cristiana, in corrispondenza di momenti liturgici particolarmente importanti, quali dapprima la Pasqua e poi anche le festività natalizie, l'Epifania o l'Ascensione, si sviluppano dei nuclei drammatici che, a partire dal famoso Quem quaeritis pasquale, dramma embrionale di pochissime battute, portano poi a strutture sempre più vaste, 33 Quello di sovrapporre le proprie categorie estetiche e ideologiche all'oggetto della propria ricerca è anche il rimprovero più generale che Drumbl, 1981, rivolge agli studiosi del teatro medievale. Si veda soprattutto il primo capitolo, pp. 19-72, con un'ampia analisi della letteratura critica precedente.

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che a un certo momento devono anche staccarsi dalla liturgia e divenire autonome. Le ragioni della nascita, dello sviluppo e della universale diffusione di questi che saranno chiamati dagli studiosi moderni uffici drammatici, vengono individuate soprattutto nella loro funzionalità catechetica, didattica, in favore di un pubblico di fedeli analfabeta, ignorante, molto più sollecitabile e impressionabile con eXémpla drammatizzati che passano attraverso la visione che non con gli strumenti tradizionali che ormai si rivelano sempre più inadeguati 34. Del resto, si dice anche, quello di educare attraverso la visione è un programma esplicito della Chiesa in quei secoli, perseguito anche con gli affreschi e la decorazione plastica e musiva delle chiese, o più avanti con la diffusione del discorso per immagini della Biblia pauperum, ad esempio. E la ragione, infine, dell'enorme successo di queste rappresentazioni presso i fedeli è ritrovata nella grande e per lungo tempo repressa aspettativa di spettacolarità, che viene finalmente soddisfatta col conforto stesso dell'autorità ecclesiastica, e dunque in modo anche moralmente tranquillizzan te. Ci sono comunque alcuni elementi che devono essere sottovalutati perché questa ricostruzione risulti coerente. Il primo e più rilevante è quello trattato sopra, della contraddittorietà della utilizzazione di uno strumento che viene contestato ad altri; un altro è quello della inadeguatezza allo scopo dello strumento linguistico usato, quel latino che è ormai sempre meno compreso dal popolo; un altro ancora è quello del prestito alla cultura medievale dello schema teorico della progressiva evoluzione che sembra essere in totale contrasto col più evidente meccanismo medievale di trasmissione del sapere e del fare, che è quello della conservazione e del rispetto della tradizione; un altro, infine, è quello di considerare le trascrizioni di questi uffici drammatici sui libri liturgici o sui tropari come testi e non invece, come sarebbe corretto, come significanti di quello che effettivamente sono, ossia cerimonie. Cominciamo, per comprendere meglio, da questo ultimo problema, sulla scorta soprattutto del documentato argomentare di Drumbl 3s • Il compositore di quel Quem quaeritis pasquale cui si fa 34 :E: questa ad esempio la posizione di Kindermann, 1966, I, p. 212. Considerazioni analoghe sono anche nel più recente Kindermann, 1980. 3S Drumbl, 1981, pp. 65, 244 e passim.

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risalire tutto non ha composto un testo e una musica - perché occorre tenere sempre a mente che questo, come tutti gli uffici liturgici è un testo che va cantato 36 - ma un'intera cerimonia liturgica. Dunque le varianti che i filologi riscontrano nella tradizione dei codici, che sono varianti linguistiche o di collocazione all'interno della liturgia, non vanno considerate alla stregua di varianti testuali ma come trascrizione di cerimonie diverse, per cui centrale diventa non tanto il momento della produzione quanto quello della ricezione della cerimonia nei contesti liturgici differenti da quello che ne ha visto la nascita. Il mio intento non è qui primariamente filologico, e dunque posso tralasciare la discussione approfondita delle tesi sul luogo, la data e le condizioni della nascita del Quem quaeritis. La concezione più tradizionalmente accettata lo vuole comunque nato nel monastero benedettino di San Gallo, forse ad opera del famoso musicista TutiIone, nella prima metà del X secolo sotto forma di tropo, che è un tipo di breve testo cantato che appunto a partire da quell'epoca va diffondendosi come introduzione ai diversi momenti liturgici 37. Ma esiste anche una tradizione di studi che lo vuole nato in Italia, sia ancora come tropo 38, sia per sviluppo drammatico delle antifone e dei responsori - che sono modi di cantare i testi dividendoli tra due semicori o tra un cantore e il coro - della liturgia romana 39. Mentre un filone storiografico, ormai peraltro quasi abbandonato, rintraccia le origini, se non del Quem quaeritis specificamente, comunque della teatralità religiosa occidentale nell'imitazione di quella orientale, a partire dall'omelia drammatica 40. Ma l'acquisizione più recente, per non parlare di altre meno credibili che individuano la nascita del Quem quaeritis nei territori longobardi tra VII e VIII 36 Sulla musica del dramma liturgico si veda soprattutto Smoldon, 1980; poi anche Chailley, 1955; Dolan, 1975; Davidson A. E., 1984. 37 La teoria che privilegia il tropo come fon te del teatro sacro medievale è quella classica degli studi di medievistica, da Sepet, 1878, a Gautier, 1886, da Young, 1933, a Contini, 1949, da Frank, 1954, a tutte le innumerevoli volgarizzazioni manualistiche. In De Bartholomaeis, 1924, pp. 123-27, c'è anche la descrizione tradizionale della nascita dei tropi. 38 De Boor, 1967, e parzialmente Lipphardt, 1975-81 e 1977. 39 In parte De Bartholomaeis, 1924, e più decisamente Liuzzi, 1929 e 1930, De Vito, 1938, Toschi, 1940 e 1976. 40 Gli studi canonici sono Cottas, 1931, e, più prudentemente attestato a sostenere la derivazione del teatro occidentale non dal teatro ma dall'omelia bizantina, La Piana, 1912.

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secolo e una sua trasmissione orale fino al X secolo 41, è appunto quella di Drumbl, che anche qui si segue, che individua il monastero di origine a Fleury, oggi St-Benoit-sur-Loire, la data intorno al 930 e una creazione non come tropo ma come cerimonia, forse ad opera di Oddone di Cluny 42. Vediamone il testo, traendolo dal manoscritto più antico, quello famoso di San Gallo del X secolo, anche se probabilmente non è questa la formulazione più arcaica. Il dialogo si intende tra gli angeli e le pie donne, le Marie, che si recano al sepolcro di Cristo dopo la sua resurrezione: It[em] de resurr[ectione] DNI [=Domini] INT [= interrogatio]: Quem queritis in sepulchro [,] christicole [?] R[esponsio] Iesum Nazarenum crucifixum C,] o coelicolae [.] Non est hinc[,] surrexit[ ,] sicut praedixerat[;] ite[,] nuntiate quia resurrexi t de sepulchro [ .] Come sopra [espressione che inserisce il testo nell'elenco dei tropi tra cui si trova] sulla resurrezione del Signore Chi cercate nel sepolcro, o fedeli di Cristo? Noi cerchiamo Gesù di Nazareth crocifisso, o abitatori del cielo. Non è qui; risorse, così come aveva predetto; andate ed annunziate che è risorto dal sepolcro. 43

La parola Resurrexit, scritta in rosso nel manoscritto a seguire il testo, è la prima dell'introito della messa di Pasqua, ed indica dunque la collocazione liturgica di questa cerimonia. In realtà il testo originario doveva consistere di cinque battute, perché la terza del testo sopra riportato va completata con dicentes; cui sono da aggiungere le altre due: Alleluia, resurrexit Dominus. Hodie resurrexit leo fortis, Christus filius Dei. Deo gratias, dicite eia, alleluia. 41 Lipphardt, 1975-81 e 1977. Si veda ad esempio 1977, pp. 36-43. Una breve analisi delle principali teorie in campo, più succinta che in Drumbl, 1981, si trova in Avalle, 1984, pp. 37-89. 42 Drumbl, 1981, pp. 75 e 133-38. 43 Il testo è riportato praticamente da tutti gli studiosi. Qui trascrivo quello di Avalle, 1984, p. 59.

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Alleluia, è risorto il Signore. Oggi è risorto il forte leone, Cristo

figlio di Dio. Dea gratias, dite eia, alleluia.

La ricezione con scansioni diverse è dipesa poi dalle consuetudini liturgiche dei diversi luoghi, e in specie le versioni con battute pari - quattro o sei - trae origine probabilmente dalla necessità di adattare la cerimonia all'uso responsoriale dei due semicori che si alternano 44. Ma ai nostri scopi interessa soprattutto chiarire la natura di questa cerimonia. Se riusciamo a prescindere dalla storia futura di cui essa è il germe e dunque a vederla in sé e non come l'inizio di qualcosa, allora i tratti della sua teatralità sbiadiscono di non poco. Resta una cerimonia che è la rievocazione simbolica di un momento particolarmente carico di significato e di emozione dei racconti evangelici, resta la struttura dialogata che non è tuttavia una novità e che comunque in sé non costituisce dramma e neppure è intrinsecamente teatrogena 45. E resta un uso dello spazio che sembra mostrare anche esigenze di adesione simbolica all'episodio che si rievoca, come ci testimonia ad esempio la diffusione della cerimonia a Montecassino, Benevento, Piacenza, Novalesa, col collocarsi dell'angelo o degli angeli dietro l'altare mentre le donne si collocano davanti, nel coro 46. Ma sembrano mancare proprio le due caratteristiche essenziali, che a volte invece vi sono state individuate, ossia il meccanismo della rappresentazione e della impersonazione, e la funzione spettacolare in funzione di un pubblico. Non c'è impersonazione perché i cantori che si staccano a pronunciare le battute sia degli angeli che delle donne sono portaparola Drumbl, 1981, pp. 107 e 114-15. La lettura del Passio, il venerdì santo, già da secoli si prestava a diverse modulazioni della voce dell'officiante, che identificava così volta a volta i diversi personaggi di cui pronunciava le parole. Ma anche le omelie e le diverse narrazioni da testi religiosi prevedono spesso questa possibilità, quando addirittura non si possa supporre una divisione di ruoli tra il narratore e un altro lettore che si assume la parte dei vari personaggi: Luiselli, 1977, pp. 217223. Ma la spinta verso la struttura dialogica è tutt'altro che generalizzata e vincente, se è vero che - come dimostra Jonsson, 1977, pp. 89 e 91 - ci sono numerosi esempi di tropi che si sarebbero benissimo prestati al dialogo, anche per la forma stessa delle fonti testamentarie da cui sono tratti, e che invece sono composti come narrazione. 46 Se ne vedano i testi in Young, 1933, I, pp. 214-17. 44 45

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del coro e non personaggi: la loro funzione drammatica, se c'è, non è staccata da quella generale del coro - che a sua volta non è un personaggio ma il celebrante di una cerimonia - e ne rappresenta una sorta di specializzazione funzionale. Anche le specificazioni spaziali e temporali - in sepulchro, hinc, hodie - , che parrebbero istituire il meccanismo della rappresentazione perché Il, in quella chiesa e in quel giorno non c'è davvero il sepolcro di Cristo, non dovrebbero bastare, a mio avviso, a trasformare anche embrionalmente in teatro un rito che ha come unico fruitore la comunità dei monaci riunita nel coro. Perché è questo il vero punto dirimente, quello dell'assenza di ogni forma di pubblico, in una cerimonia composta per essere cantata, in latino, da due gruppi di cantori nello spazio tra coro e altare maggiore prima della messa di Pasqua in un monastero benedettino. Per molte di queste cerimonie di alto valore liturgico della Settimana Santa, infatti, anche di quelle rivendicate spesso all'area della spettacolarità, non solo non si fa menzione di partecipanti oltre la comunità dei monaci, ma in alcuni casi, come per la Depositio Hostiae nella tradizione tedesca, i libri liturgici raccomandano espressamente di chiudere le porte ed escludere laici e donne 47. Allora è chiaro che il Quem quaeritis, il nucleo originario da cui si fa discendere tutta la tradizione del dramma liturgico e del teatro religioso in generale, non è nato con funzione catechetica, e dunque con la intenzionalità di exemplum spettacolare. Questa funzione non la possiede all'inizio neppure un'altra cerimonia, che qualche volta viene confusa col Quem quaeritis in quanto utilizza lo stesso testo, che è la Visitatio Sepulchri. La ricostruzione storiografica tradizionale è grossomodo questa: il Quem quaeritis, inteso appunto scorrettamente come testo e non come cerimonia autonoma, viene spostato dall'introito della messa pasquale alla fine del mattutino dello stesso giorno, e qui trova un terreno più fertile per una crescita drammatica, tanto è vero che al nucleo originario si aggiungono per sviluppi successivi altre scene e altri personaggi, dapprima i due apostoli Pietro e Giovanni (ed è la versione che gli studiosi chiamano Visitatio II) e successivamente anche Cristo stesso (Visitatio III). Tuttavia - ormai il meccanismo dovrebbe essere chiaro - la Visitatio non è la stessa cerimonia che si sposta, è un'altra cerimo47

Drumbl, 1981, pp. 256-57.

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nia, perché diversa è la sua funzione liturgica. La fine del mattutino di Pasqua, infatti, è divenuto un momento di estrema importanza nelle celebrazioni liturgiche della Settimana Santa proprio perché spostato dalle prime ore del mattino alla mezzanotte e poi al pomeriggio o addirittura al mattino del sabato, e lì dunque, dato che non preesiste alcuna cerimonia rilevante, trova posto la Visitatio. Rispetto al Quem quaeritis, la Visitatio ha come tratti distintivi lo svolgersi non più presso l'altare ma presso un Sepolcro appositamente costruito o designato, la processione al sepolcro cui partecipa non solo il coro ma tutta la comunità monastica, e l'uso di alcuni accessori, come i linteamina, i lenzuoli che avrebbero dovuto racchiudere il corpo del Cristo morto 48. La data di composizione di questa cerimonia è quasi contemporanea a quella del Quem quaeritis, dunque la prima metà del X secolo - tanto che, di fronte alla quasi totalità degli studiosi che ritiene il contrario, c'è anche chi ipotizza una priorità cronologica della Visitatio 49 - probabilmente in un monastero lorenese. Dunque anche in questo caso, la testimonianza più antica e più frequentemente citata, quella contenuta nella famosa Regularis Concordia del monaco benedettino inglese Ethelwold, degli anni 965-75, non riporta la versione più arcaica, non foss'altro perché questa descrizione riprende dichiaratamente le consuetudini di Fleury, che tuttavia ci sono pervenute in un manoscritto più tardo. Ecco comunque la traduzione del testo della Regularis Concordia: Mentre si legge la terza lezione quattro monaci si rivestano, uno dei quali, indossata la stola bianca, entri, come se fosse occupato da altre faccende, e di nascosto raggiunga il luogo dove è posto il Sepolcro, e là, tenendo in mano una palma, si assieda in silenzio. E mentre si canta il terzo Responsorio, verranno gli altri tre, tutti coperti dalle dalmatiche; recando in mano i turiboli con l'incenso, a passo a passo ad imitazione di chi cerca qualche cosa, giungano di fronte al luogo dove si trova il Sepolcro. Si comportano infatti cos1 ad imitazione dell' Angelo che siede sulla Tomba e delle Donne che vengono con gli unguenti per ungere il corpo di Gesù. Come dunque quello che è seduto avrà veduto accostarsi i tre che sembrano sperduti e cercano qualcosa, inizi a cantare soavemente a voce bassa: «Chi cercate nel Sepolcro, o fedeli di 48 49

Ivi, p. 191. Heitz, 1963; Hardison, 1965.

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Cristo rma il manoscritto, qui come nelle altre battute, abbrevia il testo, che si dà per noto]? »; e dopo aver cantato questa parte fino alla fine, rispondano questi tre all'unisono: «Gesù Nazareno crocifisso, o abitatori del cielo ». Quello (che impersona l'Angelo) risponde loro: «Non è qui, è risorto, come aveva predetto; andate, e annunciate che è risorto dai morti ». E al suono di questo comando si rivolgano quei tre al coro (che sta ad indicare il popolo), dicendo: «Alleluia, il Signore è risorto oggi, è risorto il forte leone, Cristo, figlio di Dio ». Detto ciò, ancora una volta quello che se ne sta seduto, quasi a richiamarli canti l'Antifona: «Venite a vedere il luogo, dove era stato deposto Nostro Signore, alleluia ». Dicendo dunque queste cose, si alzi e tolga il velo e mostri loro il sito privato della Croce, ma (contenente) solamente i lenzuoli che erano stati quivi deposti e nei quali la Croce era stata avvolta. Avendo visto queste cose, depongano gli incensieri che avevano portati con sé, nel Sepolcro, e prendano il lenzuolo e lo stendano verso il clero e come per mostrare che il Signore è risorto e che non è più avvolto in esso, cantino questa Antifona: «È risorto dal Sepolcro il Signore che per noi è stato appeso sulla croce, alleluia ». E lo depongano sull'altare. Finita l'Antifona, l'abate, giubilante per il trionfo del nostro Re, perché risuscitò dopo aver vinta la morte, inizi l'inno Te Deum laudamus. E cominciato questo, tutte insieme suonino le campane. 50

Come si vede, qui la cerimonia possiede una sua complessità, una sua precisione di gesti e una utilizzazione di costumi, di accessori e anche di atti che si potrebbero quasi definire trovate sceniche: quel fingere di essere occupato in altre faccende del primo monaco, che testimonia come di una preoccupazione di non entrare in scena e poi quel suo raggiungere di nascosto il suo luogo di azione; quella intenzione di realismo delle tre donne che devono imitare l'atteggiamento di chi cerca qualcosa; quel togliere il velo con gesto teatrale per scoprire il sepolcro vuoto; quel levare il lenzuolo come per mostrare che il Signore è risorto. Ed è anche evidente che, stavolta, chi canta le battute è personaggio, perché assume la sua identità fittizia prima dell'inizio della scena, e come tale partecipa ad essa. Ma a parte il fatto che questi gesti sono esplicitamente rivolti al clero e che dunque ancora una volta manca un pubblico in senso 50 Anche questo testo, in latino, è largamente riprodotto: si veda ad esempio Young, I, 1933, pp. 249-50. Non mancano anche le traduzioni italiane, come in Rava, 1939, pp. 10-11, Franceschini, 1960, pp. 23-24, e Avalle, 1984, pp. 95-97, che qui riporto.

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moderno, come entità altra rispetto a chi agisce, la questione teorica rimane sempre la stessa sopra discussa: a qualsiasi livello di sviluppo possa collocarsi per noi moderni la soglia del drammatico, il punto nodale è se questa soglia è percepita dai contemporanei. E a questa altezza cronologica la risposta alla questione è certamente negativa: il teatro non è ancora apparso all'orizzonte teorico della cultura cristiana occidentale. Una riprova la si può trovare, ad esempio, nello sdegno che prende Liutprando, inviato a Costantinopoli nella stessa seconda metà del X secolo, quando assiste alla spettacolarità della liturgia bizantina e parla espressamente di chiese trasformate in teatri 51. Ma a questo proposito, occorre discutere brevemente una testimonianza che parrebbe contraddire quanto andiamo dicendo. Si tratta di un testo non religioso - anche se è appena il caso di sottolineare che, in quest'epoca, non esiste separazione tra cultura religiosa e cultura laica, perché ogni espressione di cultura intesa come elaborazione scritta delle élites è necessariamente prodotta in ambito religioso - e che commenta un'opera letteraria classica, l'Ars poetica di Orazio. Il commento ci è pervenuto in un manoscritto dell'XI secolo, ma gli studiosi sono sufficientemente concordi nel ritenerlo di autore anonimo, forse della scuola di Alcuino, del IX secolo. A proposito di un verso di Orazio (aut agitur res in scaenis aut acta re/ertur), il commentatore glossa: «Ogni cosa o è agita in scena ad opera di persone fatte entrare appositamente e raccontata, come nella caena Herodis, e infatti qui e si agisce e si racconta. Oppure raccontano soltanto i fatti» 52. Ora, Drumbl ipotizza con plausibilità, sulla base di una utilizzazione conforme della parola caena qualche passo più avanti, che caena Herodis vada tradotto non con cena di Erode, intendendo con ciò un luogo di qualche dramma latino in cui compaia una cena di Erode, ma con scena di Erode, con allusione dunque a quei drammi del periodo natalizio con Erode protagonista, di cui troveremo numerose testimonianze a partire dall'XI secolo. Su queste basi, lo studioso argomenta da un lato che l'idea corretta di teatro è entrata nella cultura medievale addirittura dal IX secolo, e dall'altro che anche la pratica del teatro si era già affacciata in quello stesso periodo, non a causa dello sviluppo drammatico di 51 52

Relatio de legatione Constantinopolitana, M.G.H., Script., V, 3. Se ne veda il testo latino in Drumbl, 1981, p. 328.

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nuclei liturgici ma ad opera della schola, educata da fonti classiche, e da Il trapiantata poi anche nel contesto liturgico 53. Ma se mi pare condivisibile questa seconda affermazione, pur rimandando a più avanti una discussione meno affrettata, lascia invece non poco perplessi la prima. A parte la semplice obiezione che quell'accenno alla scena di Erode potrebbe essere un'interpolazione del periodo di redazione del manoscritto, dunque dell'XI secolo, di un'epoca cioè in cui quei drammi hanno già una larga diffusione 54, è soprattutto la atipicità di questo documento che non persuade. Anche ammettendo che questo autore del IX secolo possieda una corretta nozione di ciò che era il teatro antico e sia per di più in grado di riconoscerne le caratteristiche in operazioni meno codificate a lui contemporanee - e già questa sarebbe una non trascurabile sorpresa, se è vera l'identificazione di questo commentatore con un allievo di Alcuino, solo che si pensi all'ostilità di Alcuino stesso nei confronti dello spettacolo - , è abbastanza plausibile ritenere che quella nozione non abbia trovato larga diffusione, se l'idea di teatro che circola per tutte le enciclopedie e i trattati fin verso la fine del Medioevo, è del tutto differente e scorretta. E di nuovo, sarebbe sconvolgente che il riconoscimento di una continuità tra il teatro classico, cosi duramente condannato dalla Patristica, e le pratiche medievali inserite nel cuore stesso della cultura cristiana, la liturgia nell'XI secolo ma anche l'attività della schola nel IX secolo, potesse passare pacificamente, espressa da una frase incidentale. Forse quell'autore è particolarmente acuto e conoscitore del teatro antico, ma certo la sua intuizione, per qualche secolo almeno, non è entrata nel circolo della cultura medievale. Non ci è possibile, dunque, allo stato attuale di conoscenza dei documenti - ma è molto dubbio che sia possibile anche in presenza di testimonianze ulteriori - , determinare il momento e i modi con cui la cultura cristiana nella sua generalità, al di là di scoperte sporadiche più o meno precoci, prende coscienza dell'esser teatro delle cerimonie che ha prodotto. Anche perché occorre insistere sul fatto che anche quando, dal XII secolo in poi, i moralisti cristiani riconoscono e deprecano la teatralità dei drammi religiosi, il loro termine di paragone è molto di più la spettacolarità diffusa dei giullari e delle 53 Ibid. 54 È l'ipotesi

d'Jbitativa che avanza Avalle, 1984, p. 26.

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feste paganeggianti che non l'idea classica del teatro della romanità. È dunque non produttivo, a mio parere, affannarsi ad individuare

questo momento, e il ricercatore moderno deve accontentarsi perciò di verificare che, da una certa epoca in avanti, diciamo appunto dal XII secolo, questa coscienza prende ad essere fenomeno diffuso. Altro problema ancora è, poi, la ricostruzione del modello teorico del teatro classico, che è, a dispetto di isolate e improduttive intuizioni precedenti, evento ancor più tardivo, come vedremo nel capitolo conclusivo. Questa impostazione metodologica permette dunque di analizzare la storia delle cerimonie drammatiche sostanzialmente liberi dalla preoccupazione di individuarne volta a volta il grado di teatralità progressiva, sia dal punto di vista di noi moderni - che è inessenziale - sia da quello dei contemporanei - che è impossibile da cogliere. Accontentiamoci dunque di individuare, volta a volta, novità e differenze. Con la diffusione della Visitatio, ad esempio, comincia a comparire un elemento molto importante, che contribuirà notevolmente a determinarne il successo, ossia la presenza di una forma di pubblico, che comporta dunque finalmente quella funzione catechetica che, da inesistente o secondaria che era, comincia a divenire primaria: Nell'ordinamento monastico della Visitatio sepulchri troviamo spesso la processione al sepolcro dove si assisterà al dialogo tra gli angeli e le Marie, conversis utroque latere astantibus. I conversi, i frati incolti che vivevano con i monaci occupandosi dei lavori manuali nel monastero, sono venuti al sepolcro con la propria carica di disponibilità personale a voler rivivere gli episodi centrali delle storie sacre nei momenti in cui essi vengono ricordati dal culto. La funzione originale del Quem quaeritis, i cui partecipanti erano considerati nello loro qualità di confessores della fede cristiana, si trova con ciò eliminata, anzi contraddetta al cento per cento. Il successo della nuova cerimonia non dipendeva più da coloro che assicuravano la sua esecuzione, ma da coloro che vi assistevano. 55 È soprattutto con la Visitatio II che questo effetto si fa evidente e generalizzato. Ormai la critica più recente ha acquisito che, al di fuori di ogni pretesa evoluzionistica, si tratta qui di una cerimonia 55

Drumbl, 1981, p. 240.

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del tutto nuova e non di un ampliamento della prima con inserimento quasi spontaneo di nuove scene 56. Con essa, comincia a determinarsi una più precisa preoccupazione scenografica: come ci testimoniano anche esplicitamente certe descrizioni - ad esempio quella di Bamberga, trasmessa da una Agenda tarda, del XVI secolo - la cerimonia prevede spesso l'apposita costruzione di un Santo Sepolcro dentro la chiesa: Nella chiesa deve essere designato e chiuso con dei teli un luogo che serva a rappresentare il Sepolcro di Cristo, nel quale tra le altre cose sia posto il lenzuolo, ossia il sudario bianco e sottile, che rappresenta la sindone in cui fu avvolto il corpo morto di Cristo. 57 Ma vediamo la traduzione della stesura della V isitatio II nella ricostruzione di Drumbl, che ne situa la nascita nel monastero tirolese di Innichen (San Candido) nella seconda metà dell'XI secolo 58: Coro:

Maria Maddalena e l'altra Maria, sul far del giorno, portavano aromi, cercando il Signore nel sepolcro. Donne: Chi ci toglie dall'ingresso la pietra, che vediamo coprire il santo

sepolcro? Angelo:

Chi cercate, o tremule donne gementi, in questa tomba? Donne:

Cerchiamo Gesù Nazareno crocifisso. Angelo:

Non è qui, colui che cercate, ma presto andate ed annunziate ai suoi discepoli e a Pietro che Gesù è risorto. Donne:

Siamo venute gementi al sepolcro, abbiamo visto l'angelo del Signore seduto che ci diceva che Gesù è risorto. Coro:

Correvano i due insieme, e l'altro discepolo più veloce ha preceduto Pietro, ed è giunto primo al sepolcro, alleluia. Pietro e Giovanni:

56 57 58

De Boor, 1967, pp. 84 sgg.; Drumbl, 1981, pp. 198-208. Se ne veda il testo latino in Young, 1933, I, pp. 323-24. Drumbl, 1981, '::>P. 233, 271 e 289-90.

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Guardate, o compagni, ecco il lenzuolo e il sudario, e il corpo non è stato trovato nel sepolcro. (Gli stessi): Infatti è risorto, cos1 come il Signore aveva detto, e vi precederà in Galilea, alleluia; Il lo vedrete, alleluia, alleluia, alleluia. (Gli stessi): Dicano ora i Giudei, in che modo i soldati che custodivano il sepolcro hanno perso il re. Vicino alla pietra tombale per quale ragione non badavano alla pietra della giustizia? Restituiscano il cadavere, oppure adorino con noi il risorto dicendo alleluia, alleluia. Come si diceva, appare sufficientemente chiaro che, sebbene la storia rappresentata sia sempre la medesima, la formulazione risulta del tutto diversa dal Quem quaeritis e dalla Visitatio I, tanto che è difficile vedervi, come la critica tradizionale ci aveva insegnato, una linea di naturale sviluppo. Anche per questo sono dunque le caratteristiche nuove che devono attirare la nostra attenzione. Ad esempio l'introduzione nella scena dei due apostoli con la specificazione del particolare realistico della maggiore celerità del più giovane, e la descrizione della loro azione, una corsa assai poco liturgica ed evidentemente spettacolare. Poi c'è l'accenno alla Galilea, spesso inteso solo come riferimento geografico e come ripresa delle parole evangeliche, e che invece probabilmente allude ad una parte della chiesa, chiamata appunto cosi, che si era andata qualificando come statio delle processioni pasquali che avevano preceduto la diffusione della Visitatio 59. La cerimonia ci appare cosi come un grumo denso di azione ritualizzata che concentra e irrigidisce in prassi recitativa valenze spettacolari prima diffuse nella processionalità. Ma la Visitatio II rivela anche un'altra importante particolarità, che non è possibile cogliere nel testo che abbiamo riportato perché è un dato che risalta solo confrontando la composizione finale coi testi preesistenti che assembla. Si tratta, semplificando 6

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