Racconti di Natale


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Racconti di Natale

A cura di Fabiano Massimi Introduzione di Nico Orengo

Einaudi

© 2005 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino La casa editrice, esperite le pratiche per acquisire i diritti relativi ai testi e alle traduzioni contenuti nella presente opera, rimane a disposizione di quanti avessero comunque a vantare ragioni in proposito. In copertina: Illustrazione di H.G.C. Marsh (Foto Bridgeman / Alinari). Progetto grafico 46xy

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Introduzione

Vi si narra di Erode, originario di terra straniera, e della duplice profezia di Daniele. In quei giorni era re della Giudea Erode, messo sul trono da Cesare e dai Romani. Non era di stirpe ebraica, affinché si compisse la profezia di Daniele, dove dice: «Quando verrà il Santo dei Santi, avrà termine la vostra nazione», e affinché si verificasse quanto disse il patriarca Giacobbe: «Non sarà tolto lo scettro da Giuda, né l’impero alla sua stirpe, finché venga Colui che deve essere mandato». Triste la religione che non ha una natività, perché non può avere una grande letteratura e non può, quindi, indagare e chiarire le pulsioni interpersonali, i desideri individuali, le dinamiche di quel nucleo, la famiglia, che sta alla base del divenire di una società democratica e libera. I Vangeli che abbiamo, quelli di Luca, di Matteo, di Giacomo, dello Pseudo-Matteo, i racconti di Jacopo da Varazze e quelli di Giovanni da Hildesheim, ci raccontano di una famiglia lontana e speciale, di una famiglia che sta fra terra e cielo, molto concreta nei suoi componenti, un uomo, una donna, un bambino, ma anche, appunto, molto speciale, perché si tratta di un matrimonio in «bianco» fra un uomo anziano e una vergine, e ad affermare

che lo sia, per averlo constatato, è nientemeno che Re Salomone; ma una vergine che è incinta e in fuga dai Romani cerca un angolo di Palestina, un luogo qualsiasi dove dare alla luce quel bambino, invero unico perché ha radici e volontà che gli vengono dal cielo, da Dio e dallo Spirito Santo. Una fuga, una capanna, una mangiatoia, un bue, un asinello, una notte rischiarata da una cometa luminosa, dall’arrivo di tre Re, carichi di doni per festeggiare il neonato e i suoi genitori. È il plot di una Storia destinata, nelle sue innumerevoli varianti, a declinare la nostra esistenza, religiosa e laica, a innervare i nostri comportamenti sociali. La storia del romanzo d’Occidente è una storia di «famiglia»: famiglie che si formano, si rompono, si allargano. E quella lontana «natività», sembra essere, almeno nella forma del racconto, un richiamo ineludibile, che, partendo appunto dai «Vangeli» degli Apostoli, sale, lungo le letterature, al di qua e al di là degli Oceani, fino ai giorni nostri. Decine, centinaia, migliaia di racconti dove c’è un bambino che nasce, dove c’è una vigilia o un giorno di Natale, dove c’è una povertà riscattata, una ricchezza insoddisfatta, dove ci sono regali umili e regali sfarzosi, dove si sente un desiderio di purezza originale, dove c’è un presepe o un albero di Natale. Dove c’è la neve e dove la neve manca. In Palestina la neve non c’era, ma faceva freddo, molto freddo. Tuttavia il nostro stereotipo, alimentato certamente dalle condizioni climatiche, vuole, l’ha visto e letto, quella festa di famiglia con la neve che scende, oltre i vetri, e copre di bianco tetti, alberi, piazze e vie. In questa antologia, il racconto sul Natale offre alcuni esempi di sfaccettature sul tema; ci sono scrittori che seguono i personaggi principali e scrittori che seguono quelli secondari, rivestendoli di altri tempi e climi. Se O. Henry, nel suo Il dono dei magi, preferisce concentrarsi sull’aspetto del dono, fra due innamorati, Louis May Alcott mette in scena l’allegria delle sue ragazze – Jo, Meg, Beth e Amy – in una mattinata natalizia piena di regali e profumi da prima colazione, ma si focalizza sul pensiero di una povera donna che vive a due passi da casa March e che ha appena avuto un bambino. Se

Collodi svolge una lezioncina di risparmio e altruismo per dire che Natale deve essere una festa anche del dare e non solo del ricevere, Truman Capote ci offre un racconto autobiografico di struggente realismo, raccontando Un Natale passato a New Orleans con il padre che non conosce, sperando che nevichi, sperando di ricevere un giocattolo, – un aereo, che desidera – ma soprattutto imparando a conoscere questo padre, giovane, bello e assente. Con Ray Bradbury, ne Il dono, ci si sposta nello spazio, fra le stelle, nella fantascienza, ma per avere ancora una volta la conferma che un padre, una madre e un figlio, nel Natale, hanno gli stessi desideri di sempre e che il sentimento del giorno particolare non può cambiare. Rapporti interpersonali, emozioni, memoria di un avvenimento miracoloso: tuttavia è con Il mio Natale nel Galles, di Dylan Thomas, che avvertiamo la «scenografia» del Natale, la neve, il freddo, l’attesa dell’evento, l’immobilità di una giornata che sotto la sua crosta gelata nasconde una diversità. Il Natale come spaccato di una società rurale lo offre Washington Irving, per raccontare la campagna inglese, i grandi proprietari terrieri, le famiglie della servitú, la festa, i passatempi, il vischio con le sue bacche rosse che va a sostituire sconosciuti presepi e sotto il quale, finché le bacche non finiscono, i ragazzi possono baciare le ragazze. Già, presepe o albero? L’albero è piú nordico, piú laico del presepe. Si possono fare tutti e due? Certamente, assicura Gianni Rodari, che All’ombra di un albero di Natale fa raccontare, come lo avesse preso dal racconto di Irving, i preparativi della giornata da un arguto gattone. Con Paul Auster ci si inoltra nella fiaba metropolitana, in quel realismo quotidiano che nasconde una scintilla di destino e mistero, come se la ricorrenza avesse la forza di creare un gesto di altruismo, una visita inaspettata, ci si potesse ritrovare nei panni di uno dei portatori di doni. Giovanni Guareschi per raccontare la sua Favola di Natale va a rispolverare vecchie usanze contadine, di quelle che volevano che la vigilia di Natale si pensasse anche ai defunti, lasciando qualche piatto per loro in

cucina: un pensiero piú per l’anima che per lo stomaco. Troppo conosciuta per essere inclusa è La ballata di Natale di Charles Dickens e del suo protagonista, l’avaro, il senza etica, il turpe Scrooge, l’usuraio distante dal mondo e dall’umanità, avvolto nel desiderio unico di far quattrini, che sull’orlo di una morte anonima viene però colpito dall’illuminazione di un lontano Natale e il ricordo di una infanzia perduta riesce a salvarlo dal proprio egoismo e a restituirgli un cuore umano. È proprio a Dickens e a Scrooge che si rifà Dino Buzzati, con Lo strano Natale di Mr Scrooge; il ricchissimo e celibe usuraio cerca di sfuggire i sentimenti della festa rifugiandosi nell’anonimato di una città come New York, dove salamelecchi e generosità sono scarsi e di superficie. Ma anche lui, anche qui, come accade al suo prototipo viene raggiunto da uno spirito superiore. Già, volano angeli sui racconti di Natale e volano demoni, e presenze inquietanti, come sanno raccontare Anton Čechov nel suo Il calzolaio e lo spirito maligno o E.T.A. Hoffmann in Schiaccianoci e il Re dei Topi, ma anche Friedrich Dürrenmatt in Racconto di Natale, dove un mondo gelato riassume tutti gli orrori di ogni guerra, passata, presente, futura. Perché il perturbante, il fiato nero che vibra nell’uomo, non conosce e non rispetta alcuna festività, come sa bene Louis Stevenson con il suo magistrale racconto di Markheim in cui la figura del doppio, del male che abita l’uomo, si fa corpo e gesto senza nessun rispetto per il calendario. Ma, forse, anche qui c’è un disegno provvidenziale che tende ad espellere proprio nei giorni dell’Avvento il male dall’essere, ad espellere, come raccontano in modi diversi De Marchi, Pascoli e la Marchesa Colombi, la ferocia dell’uomo, che si allarga fino a diventare lo scenario dei campi di lavoro di Dostoevskij. Certo si rimane piú rassicurati, seduti attorno a un tavolo o in poltrona, con Maupassant e Conan Doyle, anche se solo in apparenza perché il francese riesce a ribaltare futilità in drammaticità e l’inglese a impartire lezioni di moralità. Piú dirette e dure le posizioni dei personaggi di Rigoni Stern che rifiutano un perdono inconcepibile anche sotto le luci di Natale; illusorie

quelle espresse dai poveri di D’Annunzio; assolutamente vertiginosa, nel racconto di Eduardo Galeano, la solitudine del bambino che chiede di esistere; assolutamente contemporanei i sogni natalizi dei derelitti di William Burroughs, fra luci al neon, dosi e buchi in squallide camere d’albergo. Fra i Natali che spingono sul genere del giallo, da Collier a Fitzgerald, e insinuano nella festa una inquietudine maligna, una crepa nel tempo quotidiano, c’è l’ironia anticonsumistica di Calvino con il suo Marcovaldo e ci sono i paradossi di generosità di Sedaris ma anche le elucubrazioni dei personaggi di Vladimir Nabokov, intorno ad un albero con una stella rossa e la neve che cade, sullo sfondo di una eterna lotta di classe. Ma c’è, su tutti i racconti, il dubbio angoscioso, l’interrogativo cosmico di Arthur C. Clarke in La stella, che alla sua spedizione su un’astronave extraterrestre, sperduta anni luce, alla ricerca del perché sia esplosa una «nebula» che consentisse la discesa sulla Terra della Stella Cometa, fa chiedere perché la fine di quel mondo, proprio di quello. Che cosa ha indotto il Signore a quella scelta e non a un’altra? Come dire che non c’è mai fine ad un inizio, ad una vita nuova. NICO ORENGO

Racconti di Natale

Inizi

Vangelo secondo Luca

La nascita di Gesú. In quel tempo fu emanato un editto da Cesare Augusto per il censimento di tutto l’impero. Questo censimento fu il primo che ebbe luogo quando Quirino era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi iscrivere, ciascuno nella propria città. Ed anche Giuseppe salí dalla Galilea, dalla città di Nazaret, per recarsi in Giudea, nella città di David, chiamata Betleem, perché egli era della casa e della famiglia di David, per farsi iscrivere insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. E mentre si trovavano là, si compirono i giorni in cui ella doveva avere il bambino, e diede alla luce il suo figlio primogenito; lo avvolse in fasce e lo adagiò in una mangiatoia, perché non avevano altro posto nella dimora. I pastori al presepio. Vi erano in quella medesima regione dei pastori, che pernottavano in mezzo ai campi per far la guardia al proprio gregge. Ed ecco, un angelo del Signore apparve loro, e la gloria del Signore li avvolse di luce, sicché furono presi da un grande timore. Ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi porto una lieta novella, che sarà di grande gioia per tutto il popolo; oggi vi è nato nella città di David il Salvatore, che è Cristo Signore. Questo vi servirà di segno: voi troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». Poi subito si uní all’angelo una moltitudine della milizia celeste, che lodava Iddio, e diceva: «Gloria a Dio nel piú alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà». E quando gli angeli li ebbero lasciati per tornare in cielo, i pastori si dicevano a vicenda: «Andiamo dunque fino a Betleem a vedere qual è questo avvenimento che è accaduto, e che il Signore ci ha fatto conoscere». Allora se

ne vennero in fretta, e trovarono Maria con Giuseppe, e il bambino adagiato nella mangiatoia. E, dopo aver veduto, fecero conoscere quanto era stato loro detto del bambino. Sicché tutti quelli che li udivano, si meravigliavano di quanto veniva raccontato loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose e vi rifletteva in cuor suo. I pastori intanto se ne ritornarono, glorificando e lodando Iddio, per tutto quello che avevano udito e visto, conforme a quanto era stato loro detto.

Vangelo secondo Matteo

Or di Gesú Cristo la generazione era a questo modo. Che, sposata la madre di lui, Maria, a Giuseppe, anziché convivessero, si trovò incinta di Spirito Santo. E Giuseppe il consorte di lei, giusto essendo e non la volendo manifestare, pensò di nascosto accomiatarla. E avendo lui in animo queste cose, ecco un Angelo del Signore in sogno apparí a lui, dicendo: – Giuseppe, figliuol di Davide, non temere a prenderti Maria in tua consorte: perché il generato in lei è di Spirito Santo. E partorirà un figliuolo, e chiamerai il suo nome Gesú: perché Egli salverà il popolo suo dalle colpe loro. E ciò tutto è avvenuto acciocché si compia la parola del Signore, per il Profeta, dicente: «Ecco la vergine concepirà, e partorirà un figliuolo, e chiameranno il nome suo Emmanuele, che è interpretato: con noi Iddio». Or levatosi Giuseppe dal sonno, fece come gli ebbe ordinato l’Angelo del Signore; e presesi la sua consorte. E non conosceva lei; sinch’ebbe partorito il figliuol suo primogenito. E chiamò il nome di lui, Gesú.

Protovangelo di Giacomo

XVII.

1. Or venne un ordine dell’imperatore Augusto che fossero censiti tutti gli abitanti di Betlemme di Giudea. E Giuseppe pensò: «Io farò iscrivere i miei figli; ma per questa fanciulla, che farò? Come la farò iscrivere? Come mia moglie? Mi vergogno. Allora, come figlia? Ma lo sanno tutti i figli di Israele che non è mia figlia! Il giorno stesso del Signore indicherà qual è la volontà del Signore». 2. Sellò quindi l’asina e vi fece sedere Maria; e suo figlio conduceva la bestia, e Giuseppe li seguiva. Quando furono a tre miglia di distanza, Giuseppe si voltò e vedendola triste disse tra sé: «Probabilmente quello che è in lei la fa star male». E un’altra volta si voltò Giuseppe e vide che essa rideva. Allora le disse: – Maria, che cos’hai, che vedo il tuo viso ora ridente ora accigliato? – E disse Maria a Giuseppe: – È perché vedo con i miei occhi due popoli: uno che piange e si batte il petto, l’altro che è lieto ed esulta. 3. Giunti a metà del cammino, Maria gli disse: – Fammi scendere dall’asina, perché quello che è in me mi fa forza per venire alla luce. Egli la fece scendere dall’asina e le disse: – Dove ti condurrò per nascondere questa tua sconvenienza? Qui il luogo è deserto. XVIII. 1. Ma trovò là una grotta e ve la condusse dentro, lasciando presso di lei i suoi figli, ed egli uscí a cercare una levatrice ebrea nel paese di Betlemme. 2. – E io Giuseppe stavo camminando, ed ecco non camminavo piú. Guardai per aria e vidi che l’aria stava come attonita, guardai la volta del cielo e la vidi immobile e gli uccelli del cielo erano fermi. Guardai a terra e vidi

posata lí una scodella e degli operai sdraiati intorno, con le mani nella scodella: e quelli che stavano masticando non masticavano piú, e quelli che stavano prendendo del cibo non lo prendevano piú, e quelli che stavano portandolo alla bocca non lo portavano piú, ma i visi di tutti erano rivolti in alto. Ed ecco delle pecore erano condotte al pascolo, e non camminavano ma stavano ferme; e il pastore alzava la mano per percuoterle col bastone, e la sua mano restava per aria. Guardai alla corrente del fiume e vidi che i capretti tenevano il muso appoggiato e non bevevano; ... e insomma tutte le cose, in un momento, furono distratte dal loro corso. XIX. 1. Ed ecco una donna che scendeva dalla montagna e mi domandò: – «Uomo, dove vai?» – Ed io le dissi: «Cerco una levatrice ebrea». – Ed ella rispondendo mi disse: «Sei d’Israele?» – E io le dissi: «Sí». – Essa allora domandò: «E chi è quella che sta partorendo nella grotta?» – Dissi io: «La mia promessa sposa». – E lei mi chiese: «Non è tua moglie?» – E io le risposi: «È Maria, che è stata allevata nel Tempio del Signore e io l’ho avuta in sorte come moglie, ma non è mia moglie, ha concepito per opera dello Spirito Santo». Allora la levatrice gli domandò: «È vero questo?» E Giuseppe le disse: – Vieni a vedere –. E la levatrice andò con lui. 2. Si fermarono nel luogo dov’era la grotta, ed ecco una nuvola luminosa adombrava la grotta. E la levatrice esclamò: – Oggi è stata magnificata la mia anima, perché i miei occhi hanno visto un prodigio meraviglioso: che è nata la salvezza per Israele. E subito la nuvola si dissipò dalla grotta e apparve una grande luce nella grotta, tanto che i nostri occhi non la potevano sopportare. Ma a poco a poco quella luce si attenuò, finché non apparve il bambino e andò a prendere la poppa da sua madre Maria. Allora la levatrice diede un grido e disse: – Questo di oggi è un grande giorno per me, perché ho visto questo fatto straordinario!

3. La levatrice uscí dalla grotta e si imbatté in lei Salomè. Ed ella le disse: – Salomè, Salomè, ho da raccontarti un fatto straordinario: una vergine ha partorito, ciò che è contrario alla sua natura! Ma Salomè rispose: – Come è vero che vive il Signore mio Dio, se non introdurrò il mio dito ed esaminerò la sua natura, non crederò mai che una vergine abbia partorito. XX. 1. Allora la levatrice entrò e disse a Maria: – Mettiti giú per bene, poiché c’è intorno a te una non piccola discussione –. E Salomè introdusse un dito nella natura di lei e mandò un urlo e disse: – Maledizione alla mia empietà e alla mia incredulità! poiché ho messo a prova il Dio vivente, ed ecco la mia mano si stacca da me, arsa dal fuoco. 2. E piegò le ginocchia davanti al Signore, dicendo: – O Dio dei miei padri, ricordati di me, che sono della stirpe di Abramo e di Isacco e di Giacobbe: non fare di me un esempio per i figli d’Israele, ma rendimi ai miei poveri: tu sai infatti, o Signore, che nel tuo nome io compivo le mie opere di assistenza e la mia mercede la ricevevo da te. 3. Ed ecco un angelo del Signore le fu presso, dicendole: – Salomè, Salomè, il Signore ti ha dato ascolto: accosta la tua mano al bambino e sollevalo, e sarà per te salute e felicità. 4. E Salomè si avvicinò, e lo sollevò dicendo: – Io mi prosternerò davanti a lui, perché egli è nato per essere grande re di Israele –. Ed ecco subito Salomè fu guarita, e uscí dalla grotta perdonata. Ma ecco una voce che diceva: – Salomè, Salomè, non raccontare i fatti straordinari che hai visto, finché il fanciullo non sia entrato in Gerusalemme. XXI. 1. Ed ecco che Giuseppe si preparò a partire per la Giudea. E una grande agitazione avvenne in Betlemme di Giudea, poiché arrivarono dei magi che chiedevano: – Dov’è il re dei Giudei che è nato? poiché abbiamo visto la sua stella in oriente e siamo venuti per adorarlo. 2. Udendo questo, Erode fu turbato e mandò dei messi ai magi e fece

chiamare i grandi sacerdoti e li interrogò, dicendo: – Che cosa sta scritto riguardo al Cristo? Dove deve nascere? Gli dicono: – In Betlemme di Giudea: cosí infatti sta scritto. Egli allora li congedò. E interrogò i magi, dicendo loro: – Che segno avete visto circa il re che è nato? Dissero i magi: – Abbiamo visto una stella grandissima, che brillava tra queste altre stelle e le oscurava, cosí che le stelle non si vedevano, e noi per questo abbiamo capito che un re era nato per Israele e siamo venuti ad adorarlo. Ed Erode disse: – Andate e cercate; e se lo trovate fatemelo sapere affinché anch’io vada ad adorarlo. 3. I magi se ne andarono., Ed ecco la stella che avevano visto in oriente li precedeva finché giunsero alla grotta, e si fermò in capo alla grotta. E i magi videro il bambino con sua madre Maria, e trassero fuori della loro bisaccia dei doni: oro e incenso e mirra. 4. Ma essendo stati avvertiti dall’angelo di non entrare in Giudea, per altra via se ne tornarono al loro paese.

Vangelo dello Pseudo-Matteo

XII.

1. Avvenne in seguito che si diffuse la voce che Maria era gravida. E Giuseppe arrestato dagli inservienti del Tempio, fu condotto davanti al pontefice, il quale, insieme con i sacerdoti, cominciò a rimproverarlo dicendogli: – Perché hai costretto con l’inganno a congiungersi a te una siffatta vergine, che gli angeli di Dio hanno nutrita nel Tempio come una colomba, che mai non ha voluto nemmeno vedere un uomo, che ebbe un’eccellente istruzione nella legge di Dio? Se tu non le avessi fatto violenza, essa oggi sarebbe stata ancora vergine. Ma Giuseppe si proclamava innocente, giurando che non l’aveva mai toccata. Allora il pontefice Abiathar disse: – Come è vero che vive Dio, io ora ti farò bere l’acqua della bevanda del Signore e subito apparirà il tuo peccato. 2. Si radunò allora tutta la moltitudine di Israele, che non si poteva nemmeno contare, e anche Maria fu condotta al Tempio del Signore. E i sacerdoti e i suoi parenti e conoscenti piangendo le dicevano: – Confessa ai sacerdoti il tuo peccato, tu che eri come una colomba nel Tempio di Dio e ricevevi il cibo dalla mano di un angelo! Poi fu chiamato anche Giuseppe davanti all’altare e gli venne data l’acqua della bevanda del Signore che, se l’avesse bevuta un uomo mentitore e avesse fatto sette volte il giro dell’altare, Dio gli avrebbe fatto comparire qualche segno sul volto. Ma avendola Giuseppe bevuta tranquillamente e avendo girato attorno all’altare, nessun segno di peccato apparve in lui. Allora tutti i sacerdoti e gli inservienti e la folla lo proclamarono innocente, dicendo: – Tu sei beato, perché non si è trovata colpa in te. 3. Chiamata quindi Maria, le dissero: – Tu che scusa potrai avere? e quale

segno apparirà in te piú evidente di questa gravidanza del tuo ventre, che ti tradisce? Questo solamente ti chiediamo: che, siccome Giuseppe è innocente nei tuoi confronti, tu confessi chi è che ti ha sedotta. È meglio infatti che ti riveli la tua confessione piuttosto che ti denunci in mezzo al popolo l’ira di Dio, imprimendo un marchio sul tuo volto. Ma Maria con fermezza e senza paura disse: – Se c’è in me qualche contaminazione o qualche peccato o se c’è stata in me qualche concupiscenza o impudicizia, mi scopra il Signore al cospetto di tutte le genti, affinché io sia per tutti esempio di punizione –. Quindi si avvicinò con fiducia all’altare del Signore, bevve l’acqua della bevanda e girò sette volte attorno all’altare, ma non fu trovata in lei alcuna macchia. 4. E poiché tutto il popolo stava stupito ed esitante, vedendo la gravidanza del suo ventre, ma nessun segno che fosse comparso sul suo volto, incominciarono tra di loro le discussioni, con la volubile loquacità del popolino. Alcuni proclamavano la sua santità, altri la accusavano di malafede. Allora Maria, vedendo il sospetto del popolo che lei non si fosse interamente scolpata, disse ad alta voce, mentre tutti l’ascoltavano: – Come è vero che vive Adonai, il Signore degli eserciti, alla cui presenza io mi trovo, io non ho mai conosciuto uomo e neppure vorrò conoscerne, perché fin dall’età dell’infanzia in questo ho fissato il mio proponimento. E fin dall’infanzia ho fatto questo voto al mio Dio: di rimanere nella mia verginità per lui che mi ha creato, e in essa confido di vivere per lui solo, e per lui solo restare senza contaminazione finché vivrò. 5. Allora tutti la baciavano, pregandola che volesse concedere il perdono ai loro malevoli sospetti. Poi tutto il popolo e i sacerdoti e tutte le vergini, con esultanza e gioia, l’accompagnarono fino a casa sua, gridando e dicendo: – Sia benedetto il nome del Signore, che ha manifestato la tua santità a tutta la gente di Israele! XIII. 1. Avvenne poi, dopo qualche tempo, che si fece un censimento, per decreto di Cesare Augusto, per cui ognuno doveva dichiararsi nel suo luogo di origine. Questo censimento fu fatto dal preside della Siria, Cirino.

Era stato pertanto necessario che Giuseppe partisse con Maria per Betlemme, perché egli era di là, e Maria era della tribú di Giuda, della casa e terra di origine di Davide. Andando dunque Giuseppe e Maria per la strada che conduce a Betlemme, Maria disse a Giuseppe: – Vedo due popoli davanti a me: uno che piange e l’altro che ride –. E Giuseppe le rispose: – Sta seduta e tienti bene sul tuo giumento, e non dire parole vane. Allora apparve davanti a loro un bellissimo fanciullo, che indossava una veste splendente, e disse a Giuseppe: – Perché hai detto che sono parole vane quelle riguardo ai due popoli di cui ha parlato Maria? Essa ha visto il popolo dei Giudei piangente perché si è allontanato dal suo Dio e il popolo dei Gentili ridente perché si è rivolto e avvicinato al Signore, come Egli aveva promesso ai nostri patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe. Infatti è venuto il tempo che per mezzo della discendenza di Abramo sia concessa a tutte le genti la benedizione divina. 2. Ciò detto, l’angelo fece fermare la giumenta, perché era giunto il momento di partorire, e ordinò a Maria di scendere dalla bestia e di entrare in una grotta sotterranea, in cui non c’era mai stata luce, ma sempre tenebre, perché non riceveva affatto la luce del giorno. Ma all’ingresso di Maria tutta la grotta cominciò ad avere splendore e a rifulgere tutta di luce, come se vi fosse il sole. La luce divina illuminava la grotta come se lí fosse l’ora sesta del giorno, e là questa luce divina non venne mai meno, né di giorno né di notte, finché Maria rimase là. E là partorí un maschio, che gli angeli circondarono mentre nasceva e appena nato adorarono, dicendo: – Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà. 3. Già da un po’ di tempo Giuseppe si era avviato a cercare levatrici e quando ritornò alla grotta, Maria aveva ormai messo al mondo il bambino. – Ti ho condotto le levatrici Zelomi e Salomè, – disse Giuseppe a Maria, – che stanno fuori, davanti alla grotta, e non osano entrare qui a causa della troppa luce. Udendo ciò Maria sorrise. Ma Giuseppe le disse: – Non sorridere, ma sii

prudente, che non debba per caso aver bisogno di qualche cura –. E volle che una di quelle due entrasse con lui. Ed entrata Zelomi disse a Maria: – Lascia che io ti tocchi. Avendo Maria permesso di essere toccata, la levatrice esclamò a gran voce: – O Signore, o grande Signore, misericordia! Non si è mai sentito dire né potuto immaginare che le mammelle siano piene di latte e sia nato un maschio, lasciando vergine sua madre! Nessuna perdita di sangue si è avuta sul neonato, nessun dolore nella puerpera. Vergine ha concepito, vergine ha partorito, vergine è rimasta. 4. Nell’udire queste parole l’altra levatrice, di nome Salomè, disse: – Non crederò a quello che odo, se non l’avrò constatato io stessa, – e avvicinatasi a Maria le chiese: – Permetti che io ti palpi e possa constatare se Zelomi ha detto la verità. Avendo Maria permesso che la palpasse, Salomè stese una mano. Ma appena stesa la mano, mentre palpava, d’improvviso la sua mano diventò secca ed essa per il dolore cominciò a piangere vivamente e a lamentarsi e a gridare, dicendo: – Signore, tu sai che io ti ho sempre temuto, e ho avuto cura di tutti i poveri senza alcuna retribuzione per quello che ricevevano: non ho mai accettato nulla da una vedova o da un orfano e non ho mai lasciato andare via da me un povero a mani vuote. Ed ecco sono divenuta una disgraziata per colpa della mia incredulità, perché ho osato dubitare della tua vergine. 5. Mentre cosí diceva, le apparve accanto un giovane tutto risplendente, che le disse: – Accostati al bambino, e adoralo, e toccalo con la mano: egli stesso ti salverà, perché egli è il Salvatore del mondo e di tutti quelli che sperano in lui. Essa subito si accostò al bambino e adorandolo toccò le frange dei pannolini in cui il bimbo era involto e immediatamente la sua mano fu risanata. Allora uscí fuori e cominciò a gridare e a raccontare la grandezza dei prodigi che aveva visto e sperimentato, e come era stata risanata, tanto che molti credettero alle sue affermazioni.

6. Infatti anche dei pastori di pecore asserivano di aver veduto nel cuore della notte degli angeli che cantavano un inno e lodavano e benedicevano il Dio del cielo, annunciando che era nato il salvatore di tutti, che è Cristo Signore, per opera del quale sarà ridata la salvezza ad Israele. 7. Inoltre dalla sera alla mattina splendeva sopra la grotta un’enorme stella, la cui grandezza non si era mai vista dall’origine del mondo. E i profeti che erano stati a Gerusalemme dicevano che questa stella segnalava la nascita del Messia che avrebbe portato a compimento la promessa fatta non soltanto ad Israele, ma a tutte le genti. XIV. Il terzo giorno dopo la nascita del Signore, Maria uscí dalla grotta ed entrò in una stalla: mise il bambino nella mangiatoia e il bue e l’asino lo adorarono. Cosí si adempí ciò che era stato preannunziato dal profeta Isaia, che aveva detto: «Il bue ha riconosciuto il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone». Infatti questi animali, avendolo in mezzo a loro, lo adoravano senza posa. E cosí si adempí ciò che era stato preannunziato dal profeta Abacuc, che aveva detto: «Ti farai conoscere in mezzo a due animali». In quel luogo Giuseppe e Maria rimasero col bambino per tre giorni. XV. 1. Il sesto giorno, quindi, entrarono in Betlemme, dove trascorsero anche il settimo. L’ottavo giorno poi, con la circoncisione del bambino gli fu messo il nome Gesú, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel ventre. Quando poi furono trascorsi i giorni della purificazione di Maria, secondo la legge di Mosè, allora Giuseppe portò il bambino al Tempio del Signore, e siccome il bambino aveva ricevuto la circoncisione offrirono per lui un paio di tortore e due colombi giovani. 2. C’era nel Tempio un uomo di Dio, perfetto e giusto, di nome Simeone, di centododici anni. Costui aveva ricevuto come responso dal Signore, che non avrebbe incontrato la morte prima di aver visto il Messia, figlio di Dio, incarnato. Com’ebbe visto il bambino, egli esclamò ad alta voce: – Dio ha guardato benignamente il suo popolo e il Signore ha mantenuto la sua

promessa –. E si affrettò ad adorare il bambino. Poi, prendendolo nel suo mantello, lo adorò di nuovo, gli baciò i piedi, e disse: – Ora, o Signore, lascia che secondo la tua promessa, il tuo servo se ne vada in pace, perché i miei occhi hanno visto il tuo strumento di salvezza, che hai preparato perché sia, al cospetto di tutti i popoli, luce di rivelazione per tutte le genti e gloria per Israele, tuo popolo. 3. C’era anche nel Tempio del Signore la profetessa Anna, figlia di Fanuele, della tribú di Asser, la quale dopo la sua verginità era vissuta sette anni col marito, e ora era già vedova da ottantaquattro anni: essa non si era mai allontanata dal Tempio del Signore, dedita a digiuni e preghiere. Anche costei, avvicinatasi, adorava il bambino, affermando che in lui stava la redenzione del mondo. XVI. 1. Trascorso poi il secondo anno, dall’Oriente vennero dei Magi a Gerusalemme, portando grandi doni. Essi interrogarono sollecitamente i Giudei, domandando: – Dov’è il re che vi è nato? Infatti abbiamo visto in oriente la sua stella e siamo venuti ad adorarlo. Questa voce pervenne al re Erode, e talmente lo spaventò che mandò dagli scribi, dai farisei e dai rabbini del popolo, per sapere da loro dove avevano predetto i profeti che doveva nascere il Messia. Essi risposero: – In Betlemme di Giuda. Cosí infatti sta scritto: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei certo la minore tra le principali città di Giuda, perché da te uscirà un capo, che guiderà Israele, mio popolo. Allora il re Erode chiamò a sé i Magi e ansiosamente domandò loro quando era loro apparsa la stella. Poi li mandò a Betlemme, dicendo: – Andate, e fate diligenti ricerche del bambino; e quando lo avrete trovato fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo. 2. Ora, mentre i Magi procedevano per la strada, apparve loro la stella e, quasi a far loro da guida, li precedeva, finché giunsero dove era il bambino. Nel vedere la stella, i Magi si rallegrarono di grande gioia, ed entrati nella casa trovarono il bambino Gesú che sedeva in grembo alla madre. Allora aprirono i loro scrigni e offrirono splendidi doni a Maria e a Giuseppe. Al bambino

offrirono ciascuno una moneta d’oro. Dopo di ciò, uno offrí dell’oro, un altro dell’incenso e l’altro della mirra. Volendo quindi essi ritornare dal re Erode, furono ammoniti in sogno da un angelo di non ritornare da Erode. Essi perciò adorarono il bambino, pieni di felicità, e tornarono al loro paese per un’altra via. XVII. 1. Quando il re Erode si accorse che era stato burlato dai Magi, il cuore gli si infiammò d’ira e mandò per tutte le strade, volendo catturarli e ucciderli. Ma non avendo potuto in alcun modo trovarli, mandò a Betlemme a uccidere tutti i bambini dai due anni in giú, secondo il periodo di tempo che era riuscito a sapere dai Magi. 2. Ma un giorno prima che ciò avvenisse, Giuseppe fu avvertito in sogno da un angelo del Signore che gli disse: – Prendi Maria e il bambino e per la via del deserto recati in Egitto –. E Giuseppe, seguendo il consiglio dell’angelo, si mise in cammino. XVIII. 1. Giunti ad una grotta, decisero di riposare sotto di essa, e Maria scese dalla giumenta e si sedette, tenendo in grembo Gesú. Ora, c’erano tre ragazzi che facevano il viaggio con Giuseppe e una ragazza con Maria, Ed ecco che all’improvviso uscirono dalla grotta molti draghi, vedendo i quali i ragazzi si misero a gridare per il grande spavento. Allora Gesú, sceso dal grembo di sua madre, si fermò ritto in piedi di fronte ai draghi, e quelli lo adorarono, e dopo averlo adorato si allontanarono da loro. Cosí si adempí ciò che era stato preannunciato dal profeta Davide, che aveva detto: «Lodate il Signore della terra, o draghi, e tutti voi, o abissi». 2. E il piccolo Gesú, camminando davanti a loro, ordinò che non facessero del male a nessun uomo. Maria e Giuseppe temevano assai che il piccolo venisse aggredito dai draghi, ma Gesú disse loro: – Non temete, e non tenete conto che io sono un bambino, perché io sono stato sempre e sono un uomo fatto ed è inevitabile che tutte le fiere selvatiche si ammansiscano di fronte a me. XIX.

1. Similmente lo adoravano i leoni e i leopardi e si accompagnavano con essi nel deserto: dovunque andavano Maria e Giuseppe, li precedevano indicando la strada e chinando il capo adoravano Gesú. In verità, il primo giorno che Maria vide venirsi intorno i leoni e varie altre specie di animali feroci, si spaventò fortemente. Ma il bambino Gesú, guardandola in faccia con volto sereno, disse: – Non temere, mamma: non già per farti del male, ma per mostrarti ossequio, essi si affrettano a venire –. E con queste parole troncò ogni paura dai loro cuori. 2. Addirittura i leoni camminavano insieme con loro e con i buoi e gli asini e le bestie da soma che portavano le cose loro necessarie, e pur rimanendo con loro non ne aggredivano nessuno, e stavano mansueti in mezzo alle pecore e ai montoni che avevano portato dalla Giudea e che avevano con sé. E questi camminavano tra i lupi e non avevano affatto paura, perché nessuno era molestato da un altro. Cosí si adempí ciò che era stato preannunciato dal profeta: «I lupi pascoleranno con gli agnelli, il leone e il bue mangeranno insieme la paglia». C’erano infatti due buoi e un carro, nel quale portavano le cose necessarie, e i leoni li guidavano nel loro cammino.

Jacopo da Varazze Natività ed Epifania di nostro Signore

La natività secondo la carne di Nostro Signore fu, come sostengono alcuni, 5228 anni dopo Adamo (o secondo altri 6000, o secondo Eusebio da Cesarea, nei suoi Chronica, 5900), al tempo dell’imperatore Ottaviano; un computo di 6000 anni, quale quello di Metodio, ha piú un valore mistico che cronologico in senso stretto. Quando prese carne il Figlio di Dio, il mondo godeva di una pace universale, cui presiedeva pacificamente un solo imperatore romano: si chiamava Ottaviano, che era il suo primo nome; Cesare, dal nome di Giulio Cesare, di cui era nipote; Augusto per come aumentò lo stato; imperatore per la carica che coprí, dato che a differenza degli altri re fu il primo a portare tale titolo. Come Gesú volle nascere per darci la pace nel tempo e la pace nell’eternità, cosí volle che prima la pace del mondo desse luce alla sua nascita. Riprendendo il discorso, Cesare Augusto, che stava a capo del mondo intero, volle sapere quante province, quante città, quanti paesi, quanti centri abitati, quanti uomini ci fossero al mondo, e dette disposizione, come si legge nella Historia scholastica, che tutti andassero nei luoghi di cui erano originari, e che ciascuno desse al governatore della provincia un denaro (che valeva dieci monete correnti: proprio per questo si chiamava «denaro», dichiarandosi suddito dell’impero romano: la moneta portava infatti l’effigie e il nome di Cesare. […] Giuseppe era della stirpe di David, e perciò dovette andare da Nazareth fino a Betlemme. Maria era ormai vicina al parto, e dato che Giuseppe non

sapeva con precisione quando sarebbe tornato, se la portò con sé a Betlemme, non volendo abbandonare in mano d’altri il tesoro che il Signore gli aveva affidato: volle invece lui stesso custodirlo con ogni cura. Essendo ormai vicino a Betlemme (come dice Bartolomeo da Trento nella sua Compilatio, e come si legge nel Liber de infantia Salvatoris), la Vergine vide una parte del popolo festante e una parte triste. L’angelo gliene spiegò la ragione: «La gente festante sono i gentili, che riceveranno la benedizione eterna che fu riservata alla discendenza d’Abramo. La parte triste sono i Giudei, che Dio respinge per le loro colpe». Arrivati a Betlemme, Giuseppe e Maria non riuscirono a trovare alloggio perché erano poveri, e tutti i posti erano già stati occupati da quelli che erano venuti prima di loro per la stessa ragione. Allora si fermarono in un riparo lungo la pubblica via che, come si legge nella Historia scholastica, si trovava tra due case ed era coperto da una tettoia, dove le persone si raccoglievano, o si riparavano, come dice la parola, per discorrere o per mangiare assieme durante le giornate di festa, oppure per ripararsi dal tempo cattivo. Lí Giuseppe mise una mangiatoia per il bue e per l’asino, oppure, come sostengono altri, siccome i contadini quando andavano al mercato vi legavano i loro animali, la mangiatoia era già lí pronta. Proprio lí a mezzanotte della domenica (il primo giorno del Signore!) la Beata Vergine partorí il suo figlio e lo adagiò sul fieno, nella mangiatoia (nella Historia scholastica si dice che sant’Elena portò poi quel fieno a Roma, fieno che miracolosamente l’asino e il bue non avevano mangiato). Appena nato il Signore, i tre Re Magi vennero a Gerusalemme; i loro nomi sono in ebraico Attelius, Amerius, Damascus; in greco Galgalat, Malgalat, Sarathin; in latino Caspar, Balthasar, Melchior. Che tipo di magi fossero lo si può spiegare in tre modi, secondo i sensi della parola «mago»: ingannatori, stregoni e sapienti. Alcuni sostengono che fossero magi nel senso di «ingannatori», in base a quanto essi fecero: essi infatti ingannarono Erode quando non tornarono da lui; per questo si legge di Erode: «Allora Erode, vistosi deluso dai Magi» (Mt 2.16). Mago può anche voler dire «stregone», e

secondo questo significato gli stregoni di Faraone vengono chiamati «magi» (Ex 7.22), e Giovanni Crisostomo ritiene che i Re Magi fossero magi proprio in questo senso: dice infatti che furono stregoni che in seguito si convertirono, ai quali il Signore volle rivelare la sua nascita per ricondurli a sé, mostrando con questo che c’è speranza per i peccatori. Mago però ha pure il significato di «sapiente»: la parola scritta «mago» in ebraico vuol dire «scriba», in greco «filosofo» e in latino «sapiente»; sono perciò chiamati magi, cioè sapienti, come se magi assumesse il valore di magni, «grandi», nella sapienza. Questi tre sapienti, che erano anche re, vennero a Gerusalemme con un gran seguito […] e cominciarono a chiedere dove era nato il re dei Giudei. Non chiedevano se era nato, poiché già lo sapevano, ma dove era nato; e, quasi fosse stato loro chiesto come potessero sapere che quel re era nato, risposero: – Abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo (Mt 2.2) e cioè: «Mentre eravamo in Oriente abbiamo visto la stella che mostrava la sua nascita, l’abbiamo vista sopra la Giudea»; oppure: «Mentre noi stavamo nelle nostre regioni abbiamo visto la sua stella in Oriente, cioè dalla parte dell’Oriente». Con queste parole, sostiene Remigio nel suo Originale, essi professarono Gesú vero uomo, vero re e vero Dio: vero uomo quando dicono: «Dove è colui che è nato?»; vero re quando dicono: «Il re dei Giudei»; vero Dio quando aggiungono: «Siamo venuti ad adorarlo». La Legge infatti prescriveva che soltanto Dio potesse essere adorato. Ma Erode, sentito questo, si preoccupò, e con lui tutta Gerusalemme. Le cause della preoccupazione di Erode furono tre. Primo, che i, Giudei riconoscessero come re quello appena nato, e scacciassero lui come straniero. Dice Giovanni Crisostomo: «Come un ramo d’albero posto in alto può essere mosso anche da una brezza leggera, cosí anche una diceria inconsistente mette in agitazione gli uomini di alto rango, quelli che occupano cariche elevate». Secondo, che i Romani sollevassero accuse contro di lui, se avesse

tollerato che qualcuno si facesse chiamare re in Palestina senza essere nominato da Augusto: era infatti stabilito dai Romani che nessun culto o nessun re potesse essere permesso senza che essi ne concedessero licenza e potestà. Terzo, come dice Gregorio, che il re della terra fu turbato dalla nascita del re del cielo, esattamente come le cose alte della terra sono sconvolte dall’altezza del cielo. Tutta Gerusalemme si preoccupò per tre cause. Primo, perché gli empi non possono rallegrarsi per l’arrivo del giusto. Secondo, per adulare il re mostrandosi turbati delle stesse cose che lo turbavano. Terzo, perché, come quando i venti si scontrano fra loro le onde del mare si smuovono, cosí lo scontrarsi fra i re determina agitazione fra il popolo: il loro timore era di essere coinvolti nello scontro fra il re già insediato e il re che stava per arrivare; quest’ultima spiegazione è di Giovanni Crisostomo. Allora Erode convocò tutti i sacerdoti e gli scribi per chiedere loro dove sarebbe nato il Cristo. Seppe da loro che il luogo doveva essere Betlemme di Giudea; richiamò allora di nascosto a sé i Magi, facendosi dare ragguagli sulle indicazioni di tempo che essi avevano tratto dalla stella. Chiese anche loro che, una volta ritrovato il bambino, gliene dessero notizia, fingendo di voler adorare il bambino che in realtà voleva uccidere. Essendo appena usciti da Gerusalemme la stella li guidava, fin quando non giunse sopra al luogo dove si trovava il bambino. Dopo essere entrati e aver visto il bambino con la madre si inginocchiarono e uno dopo l’altro offrirono l’oro, l’incenso e la mirra. A questo proposito Agostino esclama: «O infanzia cui gli astri sono sottomessi! Quanto è grande, quanto è immensa la sua gloria, se gli angeli vegliano sui suoi pannicelli, se le stelle lo seguono, se i re tremano al suo cospetto, e se i sapienti si inginocchiano davanti a lui! Beata grotta, seconda sede di Dio dopo il cielo, dove non è una lucerna a far luce ma una stella! Palazzo celeste, in cui non risiede un re vestito di gemme, ma un Dio che ha preso un corpo umano, che preferiva ai soffici letti una rude mangiatoia, ai soffitti adorni un tetto

pieno di fuliggine ma ornato dall’ossequio degli angeli! Resto stupefatto quando vedo i tuoi poveri panni e considero i cieli! Mi sento ardere quando ti vedo mendico nella mangiatoia e splendente piú che le stelle!» Cosí dice Bernardo: «Cosa fate, Magi, cosa fate? Adorate un bambino che prende il latte in un tugurio, avvolto di cenci? È un Dio? Cosa fate, perché gli portate l’oro? Dunque è un re? Dov’è allora la corte, dov’è il trono, dov’è tutto il suo seguito? Ma la corte allora è la stalla, il trono è la mangiatoia, il seguito sono Giuseppe e Maria! Essi si sono fatti insipienti per divenire sapienti». A questo proposito dice Ilario di Poitiers nel secondo libro del trattato De trinitate: «La Vergine ha partorito, ma questo parto straordinario è di natura divina. Il bimbo vagisce e gli angeli lo ascoltano cantando le sue lodi. I suoi panni sono sudici, ma lui è adorato come Dio: cosí non è perduta la dignità del suo rango mentre è assunta l’umiltà della carne. Ecco che dunque in Gesú bambino non ci fu soltanto l’umiltà e la debolezza, ma anche la sublimità e l’elevatezza della divinità». Ancora su questo dice Gerolamo nel commento alla Lettera agli Ebrei: «Poni mente alla culla del Cristo: lí vedrai il cielo; guarda il bimbo che vagisce nella mangiatoia e sentirai gli angeli che cantano le sue lodi; Erode lo perseguita ma i Magi lo adorano; i Farisei non lo vogliono riconoscere, ma la stella lo indica; è battezzato dal suo servo, ma dall’alto si sente tuonare la voce di Dio; è immerso nell’acqua, ma la colomba discende su di lui, o meglio lo Spirito Santo in forma di colomba». I Magi, avvertiti in sogno di non tornare da Erode, fecero ritorno alle loro terre passando per un’altra strada. Ecco dunque in sintesi la strada seguita dai Magi nel loro viaggio: arrivarono guidati da una stella, ebbero informazione dagli uomini (anzi, dai profeti), ritornarono guidati dall’angelo e morirono nella fede di Cristo. I loro corpi furono posti in una chiesa di Milano, che ora è tenuta dai Frati Predicatori, ma adesso si trovano a Colonia. I loro corpi furono dapprima portati via da Elena, madre di Costantino, e deposti a Costantinopoli, poi portati da sant’Eustorgio vescovo a Milano, e infine l’imperatore Enrico, dopo aver preso Milano, li trasportò a Colonia sul Reno:

là risplendono dell’omaggio e della devozione che il popolo mostra per loro.

Giovanni da Hildesheim I re magi

Quando fu matura la pienezza del tempo, nel quale Iddio decise di mandare in questo mondo il suo Figliuolo, nato da una vergine, l’impero era governato da Ottaviano Augusto. E, nell’anno XLII dell’impero di lui, come narra Luca, «fu promulgato un editto ecc.». Bisogna sapere che Bethlehem, a quanto pare, non aveva allora grande riputazione e fama. È costruita su un suolo roccioso, nel quale si aprono molte caverne e spelonche sotterranee. Distante da Gerusalemme circa due miglie piccole, secondo le misure del luogo, è, ora, un villaggio non grande. Viene, poi, designata come la città di Davide, perché Davide vi nacque, e nel medesimo luogo nel quale fu la casa di Isai, padre di Davide, e nel quale Davide venne al mondo e fu unto re da Samuele, proprio lí il Cristo nacque; e questo posto era al limite di una platea che, allora, si chiamava la platea coperta, poiché, secondo le consuetudini del paese, era stata coperta con drappi neri ed altre stoffe, per difesa contro l’ardore del sole. E, in questa platea, ogni giorno si teneva mercato di ogni specie di oggetti, in particolare di vesti usate e di ornamenti femminili, anch’essi usati. Una volta alla settimana, vi era, nella platea, la fiera pubblica di varie mercanzie e, soprattutto, di legna. All’estremità, poi, della platea, era la casa di Isai, e vi rimane, tuttora, un tugurio, dinanzi ad una grotta ricavata dalla roccia. Ed essa, adattata a cellare, serve a riparare le vettovaglie dal fervore del sole. È pure opportuno dire che, in tutte le terre e villaggi di oltremare, che abbiano una qualche importanza, fin dall’antichità vi fu, e tuttora vi è, la consuetudine di tenere speciali case, chiamate alchan, nelle quali sono cavalli, muli, asini e cammelli: e, se un pellegrino, o un mercante, ha bisogno di bestie

da soma, prende ivi a nolo l’animale che vuole. Giunto, poi, alla città cui è diretto, riconsegna l’animale al custode di quella casa che, anche lí, si chiama alchan. Questi lo provvede di foraggio e lo rimanda al suo padrone, insieme con il danaro guadagnato, ovvero, se non può farlo accompagnare, riporta l’animale fuori della città e lo lascia sulla via, e quello se ne torna, da solo, a casa dal suo padrone. Questi patti hanno fra loro i custodi di codeste case, e ognuno di loro conosce i nomi degli altri, anche se sono molto lontani, e tutti gli animali sanno riconoscere gli itinerari. Tali case appartengono al re e ai signori di quei paesi, ed essi ne traggono alte gabelle, mentre anche i custodi ne ricavano molto. Proprio una casa di tale genere era una volta nel luogo dove il Signore venne al mondo. Ma, nel tempo della natività del Cristo, essa era andata in completa distruzione, e, dinanzi a quella spelonca, era rimasto soltanto un piccolo tugurio. In piedi erano restati le pareti di mattoni e i muri sconnessi, e sull’aia, che era dinanzi al tugurio, si faceva la vendita del pane. E infatti, secondo il costume di tutte le città di Oriente, il pane si vende in un solo luogo, e i signori delle terre percepiscono, a sera, le decime sulle vendite fatte. Dopo che Davide fu fatto re, la casa di suo padre gli era rimasta ancora assegnata per i suoi usi, ma, in seguito, per i grandi guasti che vi furono nella regione, nessuno ne ebbe piú cura ed essa andò in rovina. E, nel tugurio e nella grotta, si lasciavano in deposito, in attesa di poterle vendere, legna e mercanzie che, portate alla fiera, erano rimaste invendute. Intorno al tugurio e nel suo interno, i villici, che erano venuti al mercato, legavano gli asini e gli altri animali. Ora, poiché tutta la gente, uomini e donne, si dirigeva, in obbedienza all’editto di Cesare, alle città e ai villaggi nei quali erano nati, anche Giuseppe e Maria arrivarono tardi, al crepuscolo, quando già tutte le locande erano occupate e piene di ospiti. Poveri come erano, fecero il giro di tutta la città, e nessuno volle ospitarli. E, specialmente al vedere la giovinetta Maria, seduta su un asino, disfatta dal viaggio, gemente e sospirante, incinta e prossima al parto, non vi fu, nella città, alcuno disposto ad accoglierla. Giuseppe, allora, la condusse in quel tugurio e in quella spelonca.

E, cosí, in quella grotta, nel corso della notte, Iddio nacque, in povertà sí grande, senza dolore, come doveva avvenire. E, in quel tugurio, dinanzi alla grotta, dall’antichità fino ai giorni nostri, è rimasta murata nella parete una piccola mangiatoia di pietra, della grandezza di un’ulna. E pure ad essa fu legato il bue di un mendicante, che nessuno aveva voluto ospitare, e, accanto al bue, Giuseppe legò il suo asino. In quella mangiatoia Maria pose a giacere, sul fieno, il suo bambinello, dopo averlo avvolto in fasce. Invece, il luogo, nel quale l’Angelo apparve ai pastori, dista da Bethlehem circa mezzo miglio, secondo le misure del paese. In quei giorni era re della Giudea Erode, messo sul trono da Cesare e dai Romani. Non era di stirpe ebraica, affinché si compisse la profezia di Daniele, dove dice: «Quando verrà il Santo dei Santi, avrà termine la vostra nazione», e affinché si verificasse quanto disse il patriarca Giacobbe: «Non sarà tolto lo scettro da Giuda, né l’impero alla sua stirpe, finché venga Colui che deve essere mandato». Alla nascita del Cristo, cosí avvenuta, in Bethlehem, sul monte Vaus fu vista levarsi una nuova stella, che raggiava a guisa di sole e illuminava l’intero mondo. E, a poco a poco, si innalzò sopra il monte, come aquila, e rimase immota sopra di esso, sempre nello stesso punto, per tutto un giorno, cosí che, quando il sole, a mezzogiorno, le passò da presso, quasi nulla era la distanza fra il sole e la stella. Non appariva, poi, nella forma che siamo usati a vedere rappresentata in pittura nei nostri paesi, ma aveva molti lunghissimi raggi, piú ardenti che fiaccole, e questi raggi andavano roteando quasi come aquila che voli e batta l’aria con l’ala. E portava in sé l’effige di un bambinello e, al di sopra, il segno della croce. E, dall’interno della stella, fu udita una voce che diceva: «Oggi è nato il re dei Giudei, colui che è l’aspettazione delle genti e il loro dominatore. Andate a cercarlo e a tributargli adorazione!» Allora, uomini e donne di quella regione, a vedere una stella tanto mirabile e ad udire la voce che ne veniva, furono invasi da singolare stupore ed ammirazione, e non ebbero dubbio che fosse proprio quella la stella annunziata dalla profezia di Balaam.

E, nello stesso momento, i tre Re, che regnavano nelle terre dell’India, della Caldea e della Persia, ebbero dagli astrologi e dai profeti notizia della stella, e grandemente si compiacquero che loro era toccato di vederla, mentre erano in vita. Avvenne, cosí, che questi tre Re, pur separati dall’enorme distanza dei loro regni, e del tutto all’oscuro l’uno della decisione degli altri, si prepararono a cercare e ad adorare il Re che era nato, con doni veri e mistici di eccezionale ricchezza, e con gioielli nobilissimi, facendosi accompagnare da numerosa scorta reale. E comandarono che la loro spedizione fosse preceduta da buoi in quantità grande, e da greggi, e da animali da soma, e da lettisterni, e da utensili, e da vettovaglie di ogni specie. Infatti è uso di quelle terre che i principi e i signori, quando viaggiano con grande seguito, facciano trasportare con loro i lettisterni e tutti gli arredi delle camere da letto e gli utensili delle cucine, sopra muli e cammelli. Ora, intorno ai regni e alle terre di questi tre Re, si deve sapere che tre sono le Indie, e che tutti i loro territori sono costituiti, per la maggior parte, da isole, piene di orride paludi, nelle quali crescono canne sí robuste che se ne fanno case e navi. Ed in queste terre ed isole nascono piante e bestie diverse dalle altre, cosí che è fatica e pericolo ben grande passare da un’isola all’altra. Si legge pure che Assuero regnò su centoventicinque provincie dall’India fino all’Etiopia. Nella prima India, dunque, v’era il regno di Nubia, sul quale regnava Melchiar. Ed egli possedeva anche l’Arabia, dove sono il monte Sinai ed il Mar Rosso, attraverso il quale è facile navigare dalla Siria e dall’Egitto (verso l’India). Però il Soldano non permette che al prete Gianni, signore delle Indie, pervenga alcuna lettera dei re Cristiani, per evitare che essi intessano fra loro cospirazioni. Per lo stesso motivo il prete Gianni controlla che nessuno attraversi i suoi territori per andare presso il Soldano. E perciò, chi è diretto in India, è costretto a fare un lungo e laborioso giro attraverso la Persia. La seconda India fu il regno di Godolia, sul quale regnava Balthasar, che offrí l’incenso al Signore. Gli apparteneva anche il regno di Saba, dove crescono, in particolare, molti nobili aromi e l’incenso che stilla da certi alberi

a mo’ di gomma. La terza India è il regno di Tharsis, sul quale regnava Jaspar, che offrí la mirra, e sotto il suo dominio era anche l’isola Egriseula, dove riposa il corpo del beato Tomaso. Vi cresce, piú che in ogni altro posto, la mirra in quantità grande, sopra piante che somigliano a spighe abbrustolite. I tre Re di questi tre regni portarono al Signore tali doni, ricavati dai prodotti delle loro terre, onde il passo di Davide: «I Re di Tharsis e dell’isola offriranno presenti, i Re degli Arabi e di Saba porteranno doni». In tale passo non vengono menzionati i nomi dei regni piú grandi, poiché ognuno dei tre Re possiede due regni. Melchiar è re della Nubia e degli Arabi, Balthasar re di Godolia e di Saba, Jaspar re di Tharsis e dell’isola Egriseula. Ora è menzionato il regno di Tharsis, perché era annesso alla stessa isola, a differenza delle altre città ed isole, i cui nomi sono dichiarati piú avanti. Ma ritorniamo all’argomento. I tre Re si prepararono, dunque, al viaggio, ognuno, come abbiamo detto, all’oscuro dell’impresa degli altri. Uscirono dai loro regni, e la stella precedeva ciascuno di loro, pari pari, con il suo seguito, e avanzava, quando essi avanzavano, e si fermava, quando essi si fermavano. E, durante la notte, raggiando non come luna, ma come sole, illuminava tutto il loro cammino. Quando attraversavano le città e i villaggi, che, allora, per la pace, non chiudevano, di notte, le loro porte, gli abitanti erano invasi da gran stupore e meraviglia, poiché vedevano che, all’approssimarsi di quei Re, la notte si faceva giorno. Si impaurivano, poi, per la moltitudine degli eserciti. Onde, per meraviglia, quegli uomini uscirono quasi di sé, e, con il passare del tempo, continuarono a parlare di tali cose. E tutte le vie sconosciute, i corsi di acqua, le paludi e le montagne, dinanzi a questi tre Re, si trasformarono in vie pianeggianti. Ed essi mai, fosse giorno o notte, facevano sosta, ma, con gli eserciti e gli animali, arrivarono fino a Bethlehem, senza toccare cibo o bevanda, e senza provvedere di foraggio le bestie: e, tuttavia, sembrava loro di aver camminato soltanto una giornata. E, cosí, guidati da Dio e dalla stella, arrivarono a Gerusalemme, quando il Signore era nato da tredici giorni. Ed il sole già si era levato.

Di questo loro viaggio sí rapido molti fanno meraviglia, ma, come dice Gregorio nella sua omelia, «se l’opera di Dio potesse essere compresa dalla ragione dell’uomo, non vi sarebbe piú motivo di meraviglia, né piú la fede costituirebbe un merito in quelle cose che la ragione dell’uomo riesce a sperimentare». E, infatti, Iddio, il quale condusse Abacuc dalla Giudea in Babilonia, e, subito, lo riportò nel suo luogo, ben poteva, nello stesso modo, guidare questi tre Re dall’Oriente, in Bethlehem, senza alcuna difficoltà. E, come Abacuc portò da mangiare a Daniele nella fossa dei leoni, pur rimanendo le sbarre chiuse, cosí il Cristo, nascendo da una vergine, si presentò agli occhi degli uomini dal seno di una madre, che era rimasto chiuso. E, come il fuoco non toccò i tre fanciulli nella fornace, cosí la beata Vergine generò il Signore e rimase intatta. E tutte le cose che Iddio aveva predetto con prodigi, a mezzo dei Profeti, nell’Antico Testamento, egli stesso le adempí, nel Nuovo, a mezzo del parto della Vergine. Quando i tre Re, ciascuno venendo dalla sua strada, furono presso Gerusalemme, circa a due miglia, si levò sopra tutta la terra una nebbia densa, caliginosa e tenebrosa, e, nella caligine, persero la guida della stella. Si spiega, cosí, il passo di Isaia: «Lèvati, sii illuminata, o Gerusalemme, perché la tua luce è venuta, e la gloria del Signore si è levata sopra di te. Perché, ecco che le tenebre copriranno la terra e la caligine coprirà i popoli». Allora Melchiar, per primo, arrivò con i suoi presso Gerusalemme, sul monte Calvario, dove il Signore fu crocifisso. E, nella nebbia e nella caligine, si fermò, secondo la volontà del Signore. Era, allora, il monte Calvario un luogo dove si incontravano i malfattori, e, ai piedi del monte, vi era un trivio. Ivi sostò, dunque, Melchiar, a causa della nebbia, e perché non conosceva la via. E lí, dopo molto tempo, il prete Gianni e gli altri principi della Nubia fecero cavare nella roccia del monte Calvario una piccola cappella, che dedicarono al Cristo, alla sua Madre e ai tre Re, e che si chiama la Cappella dei Nubiani. E, mentre lí si tratteneva Melchiar, come abbiamo detto, nella nebbia e nella caligine, Balthasar, re di Godolia e di Saba, giunse per il cammino che aveva seguito, insieme con il suo esercito, e si fermò, nelle tenebre, presso il

Monte Oliveto, in un villaggio che ivi chiamano Galilea. Ora, mentre questi due Re si trattenevano, circondati dalla caligine, nei luoghi che abbiamo detto, a poco a poco la nebbia si andò dileguando. Ma la stella non si mostrò. Allora, ciascuno dei due Re, ancora ignaro della presenza dell’altro, si accorse di essere presso la città, e vi si diresse. Giunsero al trivio presso il monte Calvario, e, proprio allora, sopraggiunse con il suo esercito Jaspar, re di Tharsis e dell’isola Egriseula: e cosí, proprio in questo trivio, i tre Re si incontrarono. E, sebbene mai si fossero veduti l’un l’altro, per la gioia si precipitarono all’incontro, baciandosi. E, per quanto parlassero lingue diverse, a ciascuno pareva che l’altro parlasse la sua propria lingua. Quando si comunicarono scambievolmente la causa del viaggio, si accorsero di avere lo stesso scopo, e ancora maggiori divennero la loro letizia ed ansia. Ormai la nebbia era del tutto svanita, ed il sole si era levato. Ed essi fecero il loro ingresso nella città di Gerusalemme, e, appena seppero che proprio quella era la Gerusalemme che i loro padri avevano distrutta, si rallegrarono, sperando di trovare in essa il Re. Ma, al loro ingresso, Erode e la città intera furono d’improvviso sconvolti, poiché il loro esercito era cosí sterminato che la città non poteva accoglierlo, e, in gran parte, fu costretto a rimanere fuori delle mura, quasi la circondasse d’assedio. I tre Re, entrati che furono in Gerusalemme, al tempo del re Erode, subito presero a chiedere, a tutti i cittadini, del re dei Giudei appena nato, onde l’Evangelo: «Essendo nato Gesú in Bethlehem di Giudea, al dí di Erode, ecco, dei Magi di Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo: Dove è il Re dei Giudei, che è nato? Poiché abbiamo vista la stella in Oriente, e siamo venuti per adorarlo. E il re Erode, udito questo, fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui». Perché, poi, questi tre Re entrarono in Gerusalemme prima che in Bethlehem, si spiega con varie ragioni. Una ragione è che Erode e i cittadini, all’udire la domanda dei Magi, furono presi da turbamento, perché Erode era un proselito straniero, e quelli venivano dalle piú lontane regioni di Oriente a prestare la loro adorazione: e perciò Erode temette d’essere espulso dal regno dal nuovo e legittimo re; e temette pure che il territorio potesse essere

devastato per qualche accordo fra il re legittimo e quello straniero. Ma la principale ragione fu altra: che gli scribi dei Giudei, i quali già conoscevano e indicavano sulle Scritture il luogo della natività del Signore, non potessero, in seguito, addurre alcuna giustificazione alla loro perfidia, che tutti avrebbero detestato e che avrebbe corroborato la fede dei Gentili. Perciò Gregorio dice nella sua omelia: «Isacco ben prefigurava i Giudei, quando benediceva il figlio Giacobbe». Cosí i tre Re furono bene informati circa il luogo dove era proprio allora nato il Re dei Giudei, da Erode, dagli scribi e dai dottori della Legge. Quindi se ne tornarono indietro e uscirono da Gerusalemme, e subito la stella apparve loro, e li precedette fino a Bethlehem. E, lungo la strada, nei pressi della località in cui l’Angelo aveva annunziato ai pastori la nascita del Cristo, i tre Re videro proprio quei pastori, i quali riferirono che l’Angelo del Signore era apparso in grande fulgore ad annunziare la natività del Signore, e li informarono di tutte le cose che avevano udite dall’Angelo e che avevano visto in Bethlehem: le quali cose i Re ascoltarono con grande interesse e compiacimento, e si rallegrarono molto di tali parole e della testimonianza dei pastori, e non avevano piú dubbio alcuno circa l’apparizione della stella e la voce che da essa li aveva ammoniti. Vogliono, infatti, alcuni libri in Oriente che la voce udita dalla stella fosse la medesima voce dell’Angelo che proprio a quei pastori annunziò la natività del Signore. E alcuni dicono che l’Angelo, il quale, in forma di colonna di fuoco e di nube, precedette i figli di Israele usciti d’Egitto, fosse lo stesso Angelo che precedette i tre Re, in forma di stella. Queste due parti, e cioè i Re e i pastori, furono come due pareti che si mossero da opposto luogo; e la pietra angolare, cementata nel loro mezzo, legò l’una all’altra. Poiché questi, ossia i pastori, furono la primizia dei Giudei, e quelli, cioè i tre Re, furono la primizia dei Gentili. I tre Re si congedarono dai pastori, offrendo loro doni, e, poiché si avvidero di essere presso Bethlehem, vestirono gli abiti e gli ornamenti regali, il piú diligentemente e degnamente possibile. E di nuovo la stella li precedeva, e, piú essi si avvicinavano a Bethlehem, piú l’astro rifulgeva nella sua potenza.

Cosí, in quello stesso giorno, verso l’ora sesta, entrarono in Bethlehem; e subito la stella rimase ferma sopra l’aia che era dinanzi al tugurio, dove si vendeva il pane; e, per breve momento, si abbassò fra mezzo i muri di pietra e mattoni, con chiarità e fulgori sí grandi, che, nel tugurio e nella grotta, ogni cosa ne fu illuminata; e, d’improvviso, nuovamente si levò nell’aria e rimase immobile sul posto. Ma ne restò, immenso, lo splendore nella grotta. E, come dice l’Evangelista, «essi, entrati nella casa, trovarono il bambino con Maria, sua madre; e, gettatisi a terra, lo adorarono; e, aperti i loro tesori, gli offrirono doni: oro, incenso e mirra». E, da quel tempo, è ivi stabilito per consuetudine che nessuno osi presentarsi o parlare al Soldano o a qualsiasi altro re dell’Oriente, avendo le mani vuote o senza baciare la terra: onde i frati mendicanti presentano offerte di mele e di pere, adducendo a scusa che non è loro permesso di possedere oro o argento. E tali donativi sono, tuttavia, accettati da quei re con grande riverenza. Fulgenzio dice, nel suo sermone, che, nei doni di questi tre Re, sono rappresentate la divina maestà e la regale potestà e l’umana mortalità, presenti nell’unico e medesimo Cristo. L’incenso si riferisce al sacrificio, l’oro al tributo, la mirra, infine, alla sepoltura dei morti: e la fede mai tralascerà di presentare tale offerta triplice, fino a quando crederà che l’uno e medesimo Cristo è il vero Dio, il vero Re e il vero Uomo. Ora, quando questi tre Re tributarono la loro adorazione al Cristo, Gesú era un bambinello di circa tredici giorni, ed era abbastanza paffuto, e giaceva sul fieno, nella greppia, avvolto in poveri panni fino alle braccia. E Maria, sua madre, era bene in carne nella persona, e alquanto bruna di capelli e di pelle. Nel momento in cui i tre Re si presentarono, si coprí di un mantello bianco, reggendolo dinanzi a sé con la sinistra; e la sua testa, eccetto il volto, era avvolta completamente in un panno di lino; e sedeva sulla mangiatoia, e reggeva con la destra la testa del bambinello Gesú. E i tre Re, dopo avere umilmente baciato la terra dinanzi alla mangiatoia e la mano del bambinello, gli offrirono, con devozione, i loro doni, e, con

devozione, li deposero nella mangiatoia, presso la testa del bambinello e le ginocchia della madre. Ed era Melchiar il piú piccolo di statura, Balthasar il mediano, Jaspar il piú alto, negro di Etiopia, e di ciò non vi è dubbio. Di qui il passo di Davide: «Dinanzi a lui si prostrino gli Etiopi». E questi tre Re e gli uomini del loro esercito erano molto minuti, e perciò destavano le meraviglie della gente. E, infatti, quanto piú si avanza verso l’oriente del sole, tanto piú piccoli e delicati nascono gli uomini, mentre le erbe sono migliori, piú nobili gli aromi, piú velenosi i serpenti e gli altri rettili, piú grandi e strani tutti gli animali e i volatili selvatici e domestici. E dicono gli esperti della scienza delle terre che, nelle regioni dei tre Re, il sole si leva con sí tremendo fragore che non potrebbe essere sopportato da chi non vi ha l’abitudine. E, al di là di quelle regioni, nascono uomini molto piccoli che vengono al mondo sordi, per il suono prodotto dal firmamento, e comprano, vendono e agiscono per segni, e sono uomini di raffinata astuzia nei commerci mondani, e mercanti ricchissimi. Tali uomini, come molti altri di varie strane stirpi, vengono ogni giorno nei territori della Giudea, della Siria e dell’Egitto. Ora è da sapersi che i tre Re avevano portato con sé, con regale munificenza, doni molteplici e ornamenti di gran pregio, per offrirli al Signore: quelli stessi che Alessandro, figlio di Filippo, re di Macedonia, aveva lasciati in Caldea, in India e in Persia; e quelli che la regina di Saba aveva portati nel tempio di Salomone; e i vasi preziosi della casa del re e del tempio di Gerusalemme, che erano stati asportati dai Caldei nella distruzione di Gerusalemme; e molti altri oggetti in oro, in argento e in pietre preziose. Ma, quando trovarono il bambino Gesú in una povertà sí grande, e quando la stella, come abbiamo detto, scese fra le pareti, facendo che il tugurio e la grotta, per tanto splendore, quasi apparissero in una fornace di fuoco, i Magi, scesi dai loro dromedari, furono invasi da tanto timore che ognuno di loro, di tutte le cose che aveva portate seco, prese soltanto quanto si trovò a portata di mano. E cosí Melchiar presentò a Gesú trenta danari d’oro e un pomo d’oro, di grandezza tale che lo si poteva stringere, per intero,

in una mano. Balthasar offrí l’incenso che gli era capitato sotto mano. E, infine, Jaspar presentò la mirra, profondendo in lacrime. Il loro turbamento e il timore e l’ardore e la devozione che essi posero nell’offerta, furono, poi, tali che, di tutte le parole loro rivolte in quel momento dalla Santa Vergine, niente compresero, se non che, nel momento della presentazione dei doni, la Vergine disse a ciascuno: «Deo gratias!» Il pomo d’oro, che Melchiar offrí con i trenta danari, era già appartenuto ad Alessandro Magno, e poteva essere stretto, per intero, in una sola mano. Esso rappresentava il mondo, poiché egli lo aveva fatto fabbricare con le particelle dei tributi di tutte le province, e sempre lo portò in mano, come se con la mano stringesse l’intero mondo. Il pomo era rimasto in India, quando egli fu costretto ad abbandonare la Persia. La sua forma sferica, che non ha principio né fine, rappresenta, per simbolo, colui il quale, con la virtú della sua potenza, circonda l’intero mondo, e cioè il cielo e la terra. Bisogna pure sapere che, secondo il costume delle regioni d’Oriente, quando il Soldano o un altro re fa il suo ingresso in qualcuna delle sue città, o in qualcuno dei suoi villaggi, oppure vi passa soltanto, gli abitanti accendono, dinanzi alle porte di tutte le case, incenso e mirra, e chi non lo fa è punito come ribelle: onde, in quei luoghi, l’accensione dell’incenso significa soggezione completa e doverosa obbedienza ad un dio, ad un idolo o a un re presente. Perciò i martiri venivano costretti, piú che a venerare gli idoli, a presentare l’incenso: il che, ancora ai nostri giorni, i Saraceni esigono che i Cristiani facciano nei loro templi. Ora, sebbene il Cristo si è fatto povero per noi, egli non aveva bisogno di questi doni, per sollevare la sua inopia, poiché egli è colui «che disse, e le cose furono». Perciò, non appena il pomo d’oro fu consegnato al bambinello Gesú, ecco che esso si frantumò e si ridusse in polvere. E, come la pietra, staccatasi dalla montagna senza opera di mano umana, percosse e spezzò la statua (che era apparsa in sogno) a Nabuchodonosor, cosí questa pietra, che è il Cristo, allora nato da una vergine, – egli, che abbassa i potenti dalla loro sede ed esalta gli umili –, in un attimo, grazie alla sua umiltà e per la grandezza della sua potenza, frantumò e ridusse in niente il pomo, che

è il simbolo dell’universo. I tre Re, dopo aver trovato il Re che avevano cercato, appena ebbero compiuto il dovere dell’adorazione e dell’offerta, furono presi dalla fame, dalla sete e dal sonno, come ogni altro mortale, e, per quel giorno intero, sostarono in Bethlehem e nei dintorni, rinfrancandosi e riposando. E, anche nei luoghi vicini, spiegarono a tutti devotamente il motivo e le circostanze della loro venuta, cosí che ne sorsero una maggiore confusione per gli Ebrei e una fede maggiore per i Gentili. «E, ricevuta in sogno l’ammonizione di non tornare presso Erode, fecero ritorno alle loro terre per un diverso cammino». Ora la stella non apparve piú loro, ma, di notte, si fermavano nelle locande, come ogni altro mortale. E tornarono alle loro terre tutti insieme e nello stesso tempo. E, con i loro seguiti, transitarono per tutte le regioni e province, attraverso le quali, già una volta, era passato Oloferne, cosí che gli abitanti di quei luoghi furono presi da grande terrore, credendo che Oloferne passasse per la seconda volta. E a tutti annunziarono, con umiltà, le cose che erano loro accadute, e tutti trattarono con benignità tale, che mai potrà svanire, in quelle province, la fama delle virtú, della umiltà e dei meriti loro. E, fino a che non rientrarono in patria, nulla venne a mancare delle cose che avevano seco portate per cibo e per foraggio. Ma, per la via che avevano superata, grazie alla guida della stella, in dodici giorni, rimasero, questa volta, per due anni, con molta fatica, e dovettero chiedere l’aiuto di guide e di interpreti, affinché fosse, cosí, evidente la differenza fra l’opera di Dio e quella dell’uomo. Perché, poi, siano chiamati Magi, è variamente spiegato, poiché alcuni vogliono che il loro giusto nome sia Magusei, altri dicono che li si chiami Magi, quasi si volesse dire piú (magis) sapienti, altri, infine, che furono Maghi, cioè pratici di malefizi, poi convertiti. Ma, senza dubbio, furono Re gloriosi e potenti.

Lo spirito del Natale

O. Henry Il dono dei magi

Un dollaro e ottantasette centesimi. Tutto lí. Per di piú sessanta centesimi erano in monetine. Monetine risparmiate una o due alla volta opprimendo droghiere, fruttivendolo e macellaio fino a sentirsi bruciare le guance per la muta accusa di avarizia che negoziazioni cosí accanite implicavano. Della contò i soldi tre volte. Un dollaro e ottantasette centesimi. E il giorno dopo era Natale. Non restava altro che buttarsi sul logoro divanetto a compiangersi. Proprio quello che fece Della. Circostanza degna di riflessione: la vita non è che un susseguirsi di singhiozzi, piagnucolii e sorrisi; con il predominio dei secondi. Lasciamo che la padrona di casa si calmi poco a poco, passando dal primo stadio a quello successivo, e guardiamoci un po’ intorno. Un appartamento ammobiliato, a otto dollari la settimana. Non che valga davvero la pena di descriverlo, ma di certo doveva guardarsi dai plotoni di mendicanti. Nell’atrio al piano terra c’era una buca delle lettere in cui nessuna lettera veniva mai deposta, e un pulsante da cui nessun dito mortale poteva ottenere un suono. La targhetta col nome «MR JAMES DILLINGHAM FIGLIO» era in tono con il resto. Il «Dillingham» era stato esposto alla brezza durante un precedente periodo di prosperità, quando il titolare guadagnava trenta dollari a settimana. Ora che le entrate erano scese a venti dollari meditava seriamente di ridurlo a un «D.» modesto e senza pretese. Ma ogni volta che James

Dillingham figlio tornava a casa e saliva al suo appartamento la signora Dillingham, che già conoscete come Della, lo chiamava «Jim» e lo abbracciava. Ed era tutto molto bello. Della smise di piangere e si ritoccò il trucco con il piumino della cipria. Andò alla finestra e osservò scoraggiata un gatto grigio passeggiare su una palizzata grigia nel cortile grigio. Il giorno dopo sarebbe stato Natale e lei aveva solo un dollaro e ottantasette centesimi per comprare un regalo a Jim. Per mesi aveva messo via ogni monetina che riusciva a risparmiare, e il risultato era quello. Con venti dollari la settimana non si può far molto. Le spese erano state piú del previsto. Lo sono sempre. Solo un dollaro e ottantasette per il regalo di Jim. Il suo Jim. Aveva passato tante ore felici pensando a qualcosa di bello da comprargli. Qualcosa di raffinato, insolito e prezioso – qualcosa degno di appartenere a Jim. Tra le finestre c’era una specchiera. Forse avete presente com’è una specchiera in un appartamento da otto dollari la settimana. Una persona agile e snella potrebbe riuscire, osservandosi riflessa in una rapida sequenza di strisce longitudinali, a farsi un’idea piú o meno verosimile del suo aspetto. Della, sottile, aveva sviluppato una completa padronanza di quell’arte. D’un tratto si allontanò dalla finestra e si mise davanti allo specchio. Gli occhi le brillavano, ma nel giro di venti secondi il viso aveva perso il suo colore. Si sciolse i capelli e li lasciò cadere in tutta la loro lunghezza. Ora, c’erano due cose di cui la famiglia Dillingham era molto orgogliosa. Una era l’orologio di Jim, tramandato di padre in figlio. L’altra erano i capelli di Della. Se la regina di Saba avesse abitato nell’appartamento di fronte, Della avrebbe sciolto i capelli ad asciugare fuori dalla finestra solo per sminuire i gioielli e i doni di Sua Maestà. E se re Salomone fosse stato il custode, col tesoro ammucchiato nello scantinato, Jim avrebbe tirato fuori l’orologio ogni volta che passava solo per vederlo tirarsi la barba per l’invidia. In quel momento i capelli di Della le ricadevano intorno ondulati e scintillanti come una cascata di acqua scura. Arrivavano alle ginocchia e le facevano quasi da abito. Poi li raccolse di nuovo con gesti rapidi e nervosi. Esitò una sola volta, per un istante, e rimase immobile mentre una lacrima

o due cadevano sul logoro tappeto rosso. Indossò il vecchio giaccone marrone e il vecchio cappello dello stesso colore. Con una piroetta della gonna e uno scintillío negli occhi luminosi fluttuò oltre la soglia e giú per le scale, fino in strada. Si fermò davanti a un cartello. «MADAME SOFRONIA. TUTTO PER I CAPELLI». Della salí di corsa una rampa di scale e, col fiatone, cercò di ricomporsi. Madame, una donna grossa, troppo bianca, gelida, non aveva l’aria della Sofronia. – Comprereste i miei capelli? – chiese Della. – Compro capelli, – rispose Madame. – Togli il cappello e fammi dare un’occhiata –. Della liberò la cascata bruna. – Venti dollari, – disse Madame, sollevandoli con mano esperta. – Faccia in fretta. Le due ore successive volarono. Dimenticate la metafora trita e ritrita. Della mise sottosopra i negozi alla ricerca del regalo per Jim. Alla fine lo trovò. Senza dubbio era stato creato apposta per lui, e per nessun altro. In nessun altro negozio avevano qualcosa di simile, e li aveva rivoltati tutti da cima a fondo. Si trattava di una catena di platino per l’orologio da tasca, semplice e disadorna, che traeva il proprio valore dalla pura sostanza e non da vistosi ornamenti – come dovrebbe essere per tutte le cose preziose. Era degna dell’orologio. Non appena la vide seppe che doveva essere di Jim. Gli somigliava. Modestia e valore – la descrizione valeva per entrambi. Le chiesero ventun dollari, e tornò a casa di corsa, con gli ottantasette centesimi. Con quella catena Jim avrebbe potuto preoccuparsi dell’ora con qualsiasi tipo di compagnia. Per quanto splendido fosse l’orologio, a volte lo guardava di nascosto, per via della striscia di cuoio consunta che usava al posto della catenella. Arrivata a casa la sua eccitazione lasciò posto a prudenza e buon senso. Prese l’arricciacapelli, accese il gas per scaldarlo e si mise al lavoro, cercando di porre rimedio ai danni provocati dalla generosità aggiunta all’amore. Che è sempre un compito spaventoso, cari amici, un compito enorme. Nel giro di

quaranta minuti la testa di Della era ricoperta di corti ricci che la facevano sembrare uno scolaro pestifero. Si guardò a lungo allo specchio, con attenzione e occhio critico. «Se Jim non mi uccide prima di darmi una seconda occhiata – disse fra sé e sé – dirà che sembro una ragazza del coro di Coney Island. Ma cosa potevo fare... cosa potevo comprare con un dollaro e ottantasette centesimi?» Alle sette in punto il caffè era pronto e la padella sul fornello, con l’olio già caldo, pronto per le costolette. Jim non tardava mai. Della arrotolò in mano la catenella dell’orologio e sedette sull’angolo del tavolo vicino alla porta da cui sarebbe entrato Jim. Sentí suoi passi sugli scalini al primo piano, e per un istante impallidí. Aveva l’abitudine di pregare in silenzio per le piú piccole cose e in quel momento sussurrò: «Ti prego, Signore, fa che mi trovi ancora carina». La porta si spalancò, Jim entrò e la richiuse alle sue spalle. Era magro e aveva l’aria seria. Povero ragazzo, solo ventidue anni e già il fardello di una famiglia! Aveva bisogno di un cappotto nuovo e non indossava guanti. Si fermò sulla soglia, immobile come un setter che ha annusato la preda. Teneva lo sguardo fisso su Della, con un’espressione che lei non riusciva a decifrare, e questo la terrorizzava. Non era rabbia, né sorpresa, disapprovazione od orrore, né nessun altro dei sentimenti cui era preparata. Non faceva altro che guardarla fissa con quell’espressione particolare in viso. Della si staccò dal tavolo e gli si fece incontro. – Jim, caro, – esclamò, – non guardarmi cosí. Ho tagliato i capelli e li ho venduti perché non potevo lasciar passare Natale senza farti un regalo. Cresceranno di nuovo... non ti importa, vero? Dovevo farlo. I miei capelli crescono tremendamente in fretta. Augurami buon Natale e festeggiamo. Non indovinerai mai che graziosa... che bel regalo ho per te. – Ti sei tagliata i capelli? – chiese Jim, a fatica, come se non riuscisse a capacitarsi di quel fatto evidente nemmeno con uno sforzo. – Tagliati e venduti, – rispose Della. – Non ti piaccio lo stesso? Anche senza i miei capelli sono sempre io, no? Jim si guardò intorno con espressione curiosa.

– Dici che i tuoi capelli sono andati? – chiese ancora, con un’aria quasi idiota. – È inutile che li cerchi, – disse Della. – Li ho venduti ti dico... venduti, spariti. È la vigilia di Natale, tesoro. Perdonami, perché li ho sacrificati per te. Forse i capelli che avevo in testa erano numerati, – continuò, improvvisamente dolce e seria – ma nessuno potrà mai misurare il mio amore per te. Preparo le costolette, Jim? Il ragazzo si risvegliò d’un tratto dalla trance. Strinse fra le braccia la sua Della. Per dieci secondi guardiamo altrove. Otto dollari la settimana o un milione l’anno, che differenza c’è? Un matematico o un uomo spiritoso darebbero entrambi la risposta sbagliata. Ma entrambi non avrebbero mai potuto essere tra i re magi, che portano doni preziosi. Questa affermazione oscura verrà chiarita piú avanti. Jim estrasse un pacchetto dalla tasca del cappotto e lo buttò sul tavolo. – Non fraintendermi, Della. Non esiste pettinatura, taglio o shampo che possano renderti meno attraente ai miei occhi. Ma se apri il pacchetto forse capirai perché all’inizio ho reagito cosí. Dita bianche e agili strapparono il fiocco e la carta. Poi un grido estatico di gioia e subito dopo ancora, ahimè, un rapido passaggio, tutto femminile, a lacrime isteriche e lamenti, che richiesero immediatamente l’impiego di tutta la capacità consolatoria del padrone di casa. Perché davanti a Della c’erano i pettinini. Il set di pettinini e fermacapelli che aveva adorato a lungo in una vetrina di Broadway. Erano belli, in guscio di tartaruga, col bordo ingioiellato – proprio della sfumatura perfetta per gli splendidi capelli ormai scomparsi. Erano costosi, lo sapeva, il suo cuore li aveva bramati e desiderati senza la benché minima speranza di poterli un giorno possedere. Ora erano suoi, ma le trecce cui i tanto agognati ornamenti erano destinati non c’erano piú. Se li strinse comunque al petto, e quando alla fine fu in grado di levare gli occhi offuscati dalle lacrime, disse con un sorriso: – I miei capelli crescono cosí in fretta, Jim.

Dopodiché saltò su di scatto ed esclamò – Oh, oh! Jim non aveva ancora aperto il suo magnifico regalo. Glielo porse con impazienza sul palmo steso. Il metallo prezioso, opaco, sembrò riflettere lo spirito ardente e appassionato della ragazza. – Non è un amore? Ho perlustrato tutta la città per trovarla. D’ora in poi dovrai guardare l’ora centinaia di volte al giorno. Dammi l’orologio. Voglio vedere come sta con la catena. Invece di obbedire, Jim si lasciò cadere sul divano, portò le mani dietro la testa e sorrise. – Della, – disse, – mettiamo via i nostri regali di Natale e conserviamoli per un po’. Sono troppo belli per usarli adesso. Per poterti comprare i pettinini ho venduto l’orologio. Ora metti pure le costolette sul fuoco. I re magi, come sapete, erano uomini saggi – meravigliosamente saggi – che portarono doni al Bambin Gesú nella mangiatoia. L’arte del fare regali a Natale è nata con loro. Erano saggi, e i loro doni saranno stati senza dubbio saggi anch’essi, forse avevano persino il privilegio di poter essere cambiati in caso di doppioni. Qui io ho riportato malamente la storia noiosa di due stupidi ragazzi, in un appartamento, che incautamente hanno sacrificato i beni piú preziosi che avevano l’uno per l’altra. Ma lasciatemi dire un’ultima cosa ai saggi dei nostri tempi: fra tutti coloro che fanno regali, i piú saggi sono stati questi due. Voi tutti che fate e ricevete regali, questi sono i piú saggi. Sono i piú saggi di sempre. Sono loro i re magi.

Louise May Alcott Un lieto Natale

Jo fu la prima a svegliarsi nel grigiore di quella mattina di Natale. Dalla cappa del camino non pendevano calze, e per un istante lei riprovò la stessa disillusione di parecchi anni prima, la volta che la sua calza era caduta, tanto era piena di dolci e di confetti. Poi si ricordò della promessa della mamma e fece scivolare la mano sotto al cuscino cavandone un libriccino rilegato in rosso. Lo conosceva molto bene, poiché era la vecchia bella storia della migliore delle vite vissute in terra, e Jo sentí che era la vera guida per ogni pellegrino durante il suo lungo viaggio. Svegliò Meg con un allegro «Buon Natale» e le disse di cercare sotto al guanciale. Apparve un libriccino rilegato in verde, colle stesse illustrazioni, e poche parole scritte di pugno della mamma che rendevano a ognuna veramente prezioso quel loro solo regalo. Anche Beth ed Amy si svegliarono subito, e trovarono i loro libriccini sotto al guanciale (uno rilegato in grigio e l’altro in azzurro), e le quattro ragazze si misero sedute a sfogliarli e a commentarli qua e là, mentre l’alba tingeva di rosa il cielo ad oriente. Nonostante le sue piccole vanità, Margaret era di natura pia e dolce, e inconsciamente influenzava le sorelle, specialmente Jo che l’amava teneramente e l’ubbidiva perché i suoi consigli erano sempre dati con tanta gentilezza. – Ragazze, – disse Meg seria, facendo scorrere lo sguardo dalla arruffata testa al suo fianco alle due cuffiette da notte nella camera accanto, – la mamma desidera che noi amiamo, leggiamo e meditiamo su questi libri. Dobbiamo cominciare subito. Una volta era un’abitudine che seguivamo fedelmente, ma da quando il babbo è partito ed è cominciato questo

tremendo periodo di guerra, abbiamo trascurato parecchie cose. Voi potete fare come vi pare, ma io il mio Vangelo me lo terrò qui, e ne leggerò qualche pagina tutte le mattine appena sveglia, perché so che questo mi farà bene e mi sarà d’aiuto per tutta la giornata. Aprí il libro e cominciò a leggere; Jo le passò un braccio attorno al collo, ed appoggiando la guancia a quella della sorella lesse con lei, con una espressione seria che raramente si poteva cogliere su quel suo viso mobilissimo. – Quanto è buona Meg! Vieni, Amy, facciamo anche noi come loro. Io ti spiegherò le parole piú difficili, e loro ci spiegheranno quello che noi non possiamo capire, – bisbigliò Beth molto impressionata dai bei libriccini e dall’esempio delle sorelle. – Sono contenta che il mio sia azzurro, – disse Amy, e quindi di nuovo le camere furono immerse nel silenzio, interrotto solo dal fruscio delle pagine voltate. Il sole invernale entrando dalla finestra andava a posarsi sulle quattro testine luminose e sulle faccine serie come un augurio di buon Natale. – Dov’è la mamma? – domandò Meg mentre con Jo correva da basso una mezz’ora piú tardi per ringraziarla dei doni. – Lo sa Dio! È venuto un povero diavolo a chiedere l’elemosina e vostra madre senza dire una parola si è vestita ed è andata a vedere di che cosa c’era bisogno. Non c’è mai stata l’eguale per dar via roba da mangiare, da bere e da vestire, – rispose Anna che stava colla famiglia fin dalla nascita di Meg ed era considerata da tutti loro piú come un’amica che come una persona di servizio. – Credo che sarà subito di ritorno, cosí prepara pure i tuoi dolci e tieni tutto pronto, – disse Meg dando un’occhiata ai regali che avevano messo in un cestino sotto il divano, pronti per essere presentati al momento opportuno. – Ma dov’è il flacone di acqua di Colonia di Amy? – soggiunse, poiché non se ne vedeva traccia. – L’ha preso fuori lei un minuto fa, dicendo che vi andava a mettere un nastrino o qualcosa di simile, – rispose Jo saltellando per la stanza per ammorbidire un poco le pantofole nuove della mamma.

– Come sono bellini i miei fazzoletti, non è vero? Anna me li ha lavati e stirati, e io ci ho ricamato le iniziali da sola, – disse Beth, guardando orgogliosa le lettere un tantino sbilenche che le erano costate tanta fatica. – Che benedetta bambina! ci ha ricamato sopra «Mamma» invece di M.M. Che buffo, – gridò Jo prendendone uno. – Non va bene, forse? Ho creduto meglio cosí, perché, siccome le iniziali di Meg sono M.M., non voglio che nessun altro all’infuori della mamma usi questi fazzoletti, – disse Beth un po’ confusa. – Va benissimo, cara, è stata un’idea bellissima e anche sensata, cosí nessuno si può confondere. Sono sicura che le piaceranno moltissimo, – e Meg fece gli occhiacci a Jo, sorridendo a Beth. – Ecco la mamma, nascondi il cestino, presto, – gridò Jo sentendo aprirsi la porta e risonare dei passi in anticamera. Entrò Amy frettolosa, e rimase un po’ confusa trovando le sorelle in attesa. – Dove sei stata e cosa tieni nascosto dietro la schiena? – domandò Meg, meravigliata di notare, dal cappello e dal mantello, che la pigra Amy era già stata fuori. – Non ridere di me, Jo. Volevo che nessuno lo sapesse finché non fosse giunto il momento. Ho voluto semplicemente cambiare il flacone piú piccolo con uno piú grande e ho speso tutti i miei soldi. Cerco proprio di non essere piú egoista –. E, parlando, Amy mostrò l’elegante flacone che sostituiva quello piú a buon mercato, e aveva una espressione cosí seria e umile nel suo piccolo sforzo di dimenticare se stessa, che Meg non poté fare a meno di abbracciarla, Jo la proclamò «una vera altruista» e Beth corse alla finestra a cogliere la piú bella delle sue rose per adornare il maestoso flacone. – Mi vergognavo del mio regalo, capite, dopo la lettura e i discorsi di questa mattina. Cosí, non appena alzata, sono corsa al negozio qui all’angolo a cambiarlo, e ora sono tanto felice perché il mio regalo è il piú bello di tutti. La porta di strada sbatté di nuovo, il cestino venne ricacciato in fretta sotto al divano e le ragazze si misero a tavola impazienti di far colazione. – Buon Natale, mammina! Cento Natali ancora! Grazie dei bei libri, ne

abbiamo letta qualche pagina, e vogliamo continuare a leggerne ogni mattina, – gridarono le ragazze in coro. – Buon Natale, care figliole. Sono contenta che abbiate cominciato subito. Ma voglio dirvi una cosa prima che ci mettiamo a tavola. Non molto lontano da qui abita una povera donna che ha appena avuto un bambino. Sei altri bambini sono ammucchiati in un letto solo per impedirsi di gelare, poiché non hanno fuoco. Non c’è nulla da mangiare laggiú, e il bimbo piú grande è venuto a dirmi che soffrono la fame e il freddo. Bambine mie, volete ceder loro la vostra colazione come regalo di Natale? Tutte si sentivano un appetito formidabile, avendo atteso per piú di un’ora, e per un istante nessuna parlò, ma per un minuto solo, poiché Jo esclamò impetuosamente: – Sono molto contenta che tu sia arrivata prima che avessimo cominciato! – Posso venire ad aiutare a portar la roba per quei poveri bambini? – domandò ansiosamente Beth. – Io porterò la crema e il pane imburrato, – aggiunse Amy, rinunciando eroicamente a quanto piú le piaceva. Meg, senza far parola, stava già ricoprendo le fette di torta e ammucchiando il pane su un piatto grande. – Ero sicura che mi avreste risposto di sí! – disse la signora March, sorridendo soddisfatta; – verrete tutte con me ad aiutarmi. Al ritorno faremo colazione con pane e latte e ci rifaremo poi col pranzo. Furono subito pronte e il piccolo corteo uscí. Fortunatamente era presto ed esse infilarono stradine secondarie, cosí che solo poche persone le videro e nessuno si permise di ridere alla vista di quella bizzarra processione. Era veramente una misera stamberga, coi vetri rotti, senza fuoco, pochi cenci come coperte, una madre ammalata che teneva un piccino al petto, mentre un gruppo di bimbi smunti e affamati si stringevano sotto una vecchia trapunta cercando di comunicarsi un po’ di calore. Come si spalancarono quegli occhioni e come le piccole labbra livide sorrisero all’entrata delle ragazze. – Ah, Dio mio. Ecco degli angeli buoni che vengono da noi! – esclamò la

povera donna piangendo dalla gioia. – Angeli molto buffi, con cappelli e guanti! – disse Jo, facendoli ridere. Infatti dopo pochi minuti sembrò che effettivamente fossero entrati e si fossero messi al lavoro degli spiriti benefici: Anna, che aveva portato della legna, accese il fuoco e rappezzò alla meglio i vetri rotti con cappelli vecchi e perfino col suo scialle. La signora March diede alla povera mamma un po’ di tè e di minestra, confortandola colla promessa di aiuto, mentre vestiva il neonato con grande tenerezza, come se fosse stato suo. Nel frattempo le ragazze apparecchiarono la tavola, fecero sedere i bambini intorno al fuoco e li imboccarono come fossero tanti uccellini affamati, ridendo, ciarlando e cercando di capirne l’inglese stentato. – Buono! Com’è buono! Che angeli gentili! – gridavano i piccini mangiando e scaldando le manine paonazze alla confortante fiamma del focolare. Le ragazze non si erano mai sentite chiamare «angeli» prima di allora, ed era una esperienza molto piacevole, specialmente per Jo che era stata considerata un «Sancho» fin dal giorno della sua nascita. Fu una colazione veramente allegra, sebbene a loro non ne toccasse un solo boccone, e quando se ne andarono, lasciando il conforto dietro di loro, credo che in tutta la città non ci fossero persone piú felici di quelle quattro bambine affamate, che avevano ceduto la loro succulenta colazione natalizia per accontentarsi di pane e latte. – Questo si chiama amare il prossimo piú di te stesso, e mi fa piacere, – disse Meg mentre, approfittando del momento in cui la mamma era salita a raccogliere un po’ di roba da mandare agli Hummel, metteva in bella mostra i loro regali.

Carlo Collodi La «pasqua» di Natale

La storia che vi racconto oggi non è una di quelle novelle, come se ne raccontano tante, ma è una storia vera, vera, vera. Dovete dunque sapere che la contessa Maria (una brava donna che io ho conosciuta benissimo, come conosco voi) era rimasta vedova con tre figli: due maschi e una bambina. Il maggiore, di nome Luigino, poteva avere fra gli otto e i nove anni; Alberto, il secondo, ne finiva appena sette e l’Ada, la minore di tutti, era entrata appena ne’ sei anni, sebbene a occhio ne dimostrasse di piú a causa della sua personcina alta, sottile e veramente aggraziata. La contessa passava molti mesi dell’anno in una sua villa: e non lo faceva già per divertimento, ma per amore de’ suoi figlioletti, che erano gracilissimi e di una salute molto delicata. Finita l’ora della lezione, il piú gran divertimento di Luigino era quello di cavalcare un magnifico cavallo sauro; un animale pieno di vita e di sentimento, che sarebbe stato capace di fare cento chilometri in un giorno, se non avesse avuto fin dalla nascita un piccolo difetto: il difetto, cioè, di essere un cavallo di legno. Ma Luigino gli voleva, lo stesso, bene, come se fosse stato un cavallo vero. Basta dire che non passava sera che non lo strigliasse con una bella spazzola da panni: e dopo averlo strigliato, invece di fieno o di gramigna, gli metteva davanti una manciata di lupini salati. E se per caso il cavallo si ostinava a non voler mangiare, allora Luigino gli diceva accarezzandolo: – Vedo bene che questa sera non hai fame. Pazienza! I lupini li mangerò io. Addio, a domani, e dormi bene. E perché il cavallo dormisse davvero, lo metteva a giacere sopra una

materassina ripiena d’ovatta; e se la stagione era molto rigida, non si dimenticava mai di coprirlo con un piccolo pastrano, tutto foderato di lana e fatto cucire a posta dal tappezziere di casa. Alberto, il fratello minore, aveva un’altra passione. La sua passione era tutta per un bellissimo Pulcinella, che, tirando certi fili, muoveva con molta sveltezza gli occhi, la bocca, le braccia e le gambe, tale e quale come potrebbe fare un uomo vero; e per essere un uomo vero, non gli mancava che una sola cosa: il parlare. Figuratevi la bizza di Alberto! Quel buon figliuolo non sapeva rendersi una ragione del perché il suo Pulcinella, ubbidientissimo a fare ogni sorta di movimenti, avesse preso la cocciutaggine di non voler discorrere a modo e a verso, come discorrono tutte le persone per bene, che hanno la bocca e la lingua. E fra lui e il Pulcinella accadevano spesso dei dialoghi e dei battibecchi un tantino risentiti, sul genere di questi: – Buon giorno, Pulcinella, – gli diceva Alberto, andando ogni mattina a tirarlo fuori dal piccolo armadio dove stava riposto. – Buon giorno, Pulcinella. E Pulcinella non rispondeva. – Buon giorno, Pulcinella, – ripeteva Alberto. E Pulcinella, zitto; come se non dicessero a lui. – Su, via, finiscila di fare il sordo e rispondi: buon giorno, Pulcinella. E Pulcinella duro. – Se non vuoi parlare con me, guardami almeno in viso, – diceva Alberto un po’ stizzito. E Pulcinella, ubbidiente, girava subito gli occhi e lo guardava. – Ma perché, – gridava Alberto arrabbiandosi sempre piú, – ma perché se ti dico «guardami» allora mi guardi; e se ti dico «buon giorno» non mi rispondi? E Pulcinella zitto. – Brutto dispettoso! Alza subito una gamba! E Pulcinella alzava una gamba.

– Dammi la mano! E Pulcinella gli dava la mano. – Ora fammi una bella carezzina! E Pulcinella allungava il braccio e prendeva Alberto per la punta del naso. – Ora spalanca tutta la bocca! E Pulcinella spalancava una bocca, che pareva un forno. – Di già che hai la bocca aperta, profittane almeno per darmi il buon giorno. Ma Pulcinella, invece di rispondere, rimaneva lí a bocca aperta, fermo e intontito, come, generalmente parlando, è il vizio di tutti gli uomini di legno. Alla fine Alberto, con quel piccolo giudizio, che è proprio di molti ragazzi, cominciò a mettersi nella testa che il suo Pulcinella non volesse parlare né rispondergli, perché era indispettito con lui. Indispettito!... e di che cosa? Forse di vedersi mal vestito, con cappellaccio in capo di lana bianca, una camicia tutta sbrindellata, e un paio di pantaloncini cosí corti e striminziti che gli arrivavano appena a mezza gamba. – Povero Pulcinella! – disse un giorno Alberto, compiangendolo sinceramente, – se tu mi tieni il broncio, non hai davvero tutti i torti. Io ti mando vestito peggio di un accattone... ma lascia fare a me. Fra poco verranno le feste di Natale. Allora potrò rompere il mio salvadanaio, e con quei quattrini, voglio farti una bella giubba, mezza d’oro e mezza d’argento. Per intendere queste parole di Alberto, occorre avvertire che la contessa aveva messo l’uso di regalare a’ suoi figli due o tre soldi la settimana, a seconda, s’intende bene, de’ loro buoni portamenti. Questi soldi andavano in tre diversi salvadanai: il salvadanaio di Luigino, quello di Alberto e quello dell’Ada. Otto giorni la pasqua di Natale, i salvadanai si rompevano, e coi danari che vi si trovavano dentro, tanto la bambina come i due ragazzi erano padronissimi di comprarsi qualche cosa di loro genio. Luigino, com’è naturale, aveva pensato di comprare per il suo cavallo una briglia di pelle lustra con le borchie di ottone, e una bella gualdrappa. L’Ada, che aveva una bambola piú grande di lei, non vedeva l’ora di farle un vestitino di seta, rialzato di dietro, secondo la moda, e un paio di scarpine

scollate per andare alle feste da ballo. In quanto al desiderio di Alberto, è facile immaginarselo. Il suo vivissimo desiderio era quello di rivestire il Pulcinella con tanto lusso da doverlo scambiare per un signore di quelli buoni. Intanto il Natale s’avvicinava, quand’ecco una mattina, mentre i due fratelli con la loro sorellina andavano a spasso per i dintorni della villa, si trovarono dinanzi a una casupola tutta rovinata, che pareva piuttosto una capanna da pastori. Seduto sulla porta c’era un povero bambino mezzo nudo, che dal freddo tremava come una foglia. – Zio Bernardo, ho fame..., – disse il bambino con una voce sottile, voltandosi appena con la testa verso l’interno della stanza terrena. Nessuno rispose. In quella stanza terrena c’era accovacciato sul pavimento un uomo con una barbaccia rossa, che teneva i gomiti appuntellati sulle ginocchia e la testa fra le mani. – Zio Bernardo, ho fame..., – ripeté dopo pochi minuti il bambino con un filo di voce che si sentiva appena. – Insomma, vuoi finirla? – gridò l’uomo dalla barbaccia rossa. – Lo sai che in casa non c’è un boccone di pane: e se tu hai fame, piglia questo zoccolo e mangialo! E nel dir cosí quell’uomo bestiale si levò di piede uno zoccolo e glielo tirò. Forse non era sua intenzione di fargli male; ma disgraziatamente lo colpí nel capo. Allora Luigino, Alberto e Ada, commossi a quella scena, cavarono fuori alcuni pezzetti di pane trovati per caso nelle loro tasche, e andarono a offrirli a quel disgraziato figliuolo. Ma il bambino, prima si toccò con la mano la ferita del capo: poi, guardandosi la manina tutta insanguinata, balbettò a mezza voce piangendo: – Grazie... ora non ho piú fame... Quando i ragazzi furono tornati alla villa, raccontarono il caso compassionevole alla loro mamma; e di quel caso se ne parlò due o tre giorni di seguito. Poi, come accade di tutte le cose di questo mondo, si finí per

dimenticarlo e per non parlarne piú. Alberto solamente non se l’era dimenticato: e tutte le sere, andando a letto, e ripensando a quel povero bambino mezzo nudo e tremante dal freddo, diceva crogiolandosi fra il calduccio delle lenzuola: – Oh, come dev’essere cattivo il freddo! Brrr... E dopo aver detto e ripetuto per due o tre volte «Oh, come dev’essere cattivo il freddo!», si addormentava saporitamente, e faceva tutto un sonno fino alla mattina. Pochi giorni dopo, accadde che Alberto incontrò per le scale di cucina la Rosa, la quale era l’ortolana che veniva a vendere le uova fresche alla villa. – Sor Albertino, buon giorno, signoria, – disse la Rosa, – quanto tempo è passato dalla casa dell’Orso? – Chi è l’Orso? – Noi si chiama con questo soprannome quell’uomo dalla barbaccia rossa, che sta laggiú sulla via maestra. – Dimmi, Rosa, il suo bambino che fa? – Povera creatura, che vuol che faccia?... È rimasto senza babbo e senza mamma, nelle mani di quello zio Bernardo... – Che dev’essere un uomo cattivo e di cuore duro come la pietra, non è vero? – soggiunse Alberto. – Purtroppo! Meno male che domani parte per l’America, e forse non ritornerà piú. – E il nipotino lo porta con sé? – Nossignore; quel povero figliolo l’ho preso con me, e lo terrò come se fosse mio. – Brava Rosa! – A dir la verità, gli volevo fare un po’ di vestituccio, tanto da coprirlo dal freddo... ma ora sono a corto di quattrini. Se Dio mi dà vita, lo rivestirò alla meglio in primavera. Alberto stette un po’ soprappensiero, poi disse: – Senti, Rosa, domani verso mezzogiorno ritorna qui alla villa: ho bisogno di vederti.

– Non dubiti. Il giorno seguente, era il giorno tanto atteso, tanto desiderato, tanto rammentato; il giorno, cioè, in cui celebravasi solennemente la rottura de’ tre salvadanai. Luigino trovò nel suo salvadanaio dieci lire; l’Ada trovò nel suo undici lire, e Alberto vi trovò nove lire e mezzo. – Il tuo salvadanaio, – gli disse la mamma, – è stato piú povero degli altri due; e sai perché? perché in quest’anno tu hai avuto poca voglia di studiare. – La voglia di studiare l’ho avuta, – replicò Alberto, – ma bastava che mi mettessi a studiare, perché la voglia mi passasse subito. – Speriamo che quest’altr’anno non ti accada lo stesso, – soggiunse la mamma; poi volgendosi a tutti e tre i figli seguitò a dire: – Da oggi alla pasqua di Natale, come sapete, vi sono otto giorni precisi. In questi otto giorni, secondo i patti stabiliti, ognuno di voi è padronissimo di fare quell’uso che vorrà dei denari trovati nel proprio salvadanaio. Quello poi, di voialtri, che saprà farne uso migliore, avrà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio. «Il bacio tocca a me di certo!» disse dentro di sé Luigino, pensando ai ricchi finimenti e alla gualdrappa che aveva ordinato per il suo cavallo. «Il bacio tocca a me di certo!», disse dentro di sé l’Ada, pensando alle belle scarpine da ballo che aveva ordinato al calzolaio per la sua bambola. «Il bacio tocca a me di certo!», disse dentro di sé Alberto, pensando al bel vestito che voleva fare al suo Pulcinella. Ma, nel tempo che egli pensava al Pulcinella, sentí la voce di Rosa che, chiamandolo a voce alta dal prato della villa, gridava: – Sor Alberto! Sor Alberto! Alberto scese subito. Che cosa dicesse alla Rosa non lo so: ma so che quella buona donna, nell’andarsene, ripeté piú volte: – Sor Alberto, lo creda a me: lei ha fatto proprio una carità fiorita, e Dio manderà del bene a lei e a tutta la sua famiglia! Otto giorni passarono presto; e dopo otto giorni arrivò la festa di Natale o il Ceppo, come lo chiamano i fiorentini. Finita appena la colazione, ecco che la contessa disse sorridendo ai suoi

tre figli: – Oggi è Natale. Vediamo, dunque, come avete speso i quattrini dei vostri salvadanai. Ricordatevi intanto che quello di voialtri che li avrà spesi meglio, riceverà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio. Su, Luigino: tu sei il maggiore e tocca a te a essere il primo. Luigino uscí dalla sala e ritornò quasi subito, conducendo a mano il suo cavallo di legno, ornato di finimenti cosí ricchi, e d’una gualdrappa cosí sfavillante, da fare invidia ai cavalli degli antichi imperatori romani. – Non c’è che dire, – osservò la mamma, sempre sorridente, – quella gualdrappa e quei finimenti sono bellissimi, ma per me hanno un gran difetto: il difetto, cioè, di essere troppo belli per un povero cavallino di legno. Avanti, Alberto! Ora tocca a te. – No, no, – gridò il ragazzetto, turbandosi leggermente, – prima di me, tocca all’Ada. E l’Ada, senza farsi pregare, uscí dalla sala, e dopo poco rientrò tenendo a braccetto una bambola alta quanto lei, e vestita elegantemente, secondo l’ultimo figurino. – Guarda, mamma, che belle scarpine da ballo! – disse l’Ada compiacendosi di mettere in mostra la graziosa calzatura della sua bambola. – Quelle scarpine sono un amore! – replicò la mamma. – Peccato però che debbano calzare i piedi d’una povera bambina fatta di cenci e di stucco. E che non saprà mai ballare! – E ora, Alberto, vediamo un po’ come hai speso le nove lire e mezzo, che hai trovate nel tuo salvadanaio. – Ecco... io volevo... ossia, avevo pensato di fare..., ossia, credevo... ma poi ho creduto meglio... e cosí ormai l’affare è fatto, e non se ne parli piú. – Ma che cosa hai comprato? – Non ho comprato nulla. – Sicché avrai sempre in tasca i denari? – Ce li dovrei avere... – Li hai perduti? – No.

– E, allora, come li hai tu spesi? – Non me ne ricordo piú. In questo mentre si sentí bussare leggermente alla porta della sala, e una voce di fuori disse: – È permesso? – Avanti. Apertasi la porta, si presentò sulla soglia, indovinate chi? Si presentò Rosa, l’ortolana, che teneva per la mano un bambinetto tutto rivestito di panno ordinario, ma nuovo, con un berrettino di panno, nuovo anche quello, e ai piedi un paio di stivaletti di pelle bianca da campagnolo. – È tuo, Rosa, codesto bambino? – domandò la contessa. – Ora è lo stesso che sia mio, perché l’ho preso con me e gli voglio bene, come un figliuolo. Povera creatura! Finora ha patito la fame e il freddo. Ora il freddo non lo patisce piú, perché ha trovato un angiolo di benefattore, che lo ha rivestito a sue spese da capo a piedi. – E chi è quell’angelo di benefattore? – chiese la contessa. L’ortolana si voltò verso Alberto, e guardandolo in viso e accennando alla sua mamma, disse tutta contenta: – Eccolo là. Alberto diventò rosso come una ciliegia; poi rivolgendosi impermalito alla Rosa, cominciò a gridare: – Chiacchierona! Eppure ti avevo detto di non raccontar nulla a nessuno!... – La scusi: che c’è forse da vergognarsi per aver fatto una bell’opera di carità come la sua? – Chiacchierona! Chiacchierona! Chiacchierona! – ripeté Alberto, arrabbiandosi sempre piú; e tutto stizzito fuggí via dalla sala. La mamma, che aveva capito ogni cosa, lo chiamò piú volte: ma siccome Alberto non rispondeva, allora si alzò dalla poltrona e andò a cercarlo da per tutto. Trovatolo finalmente nascosto in guardaroba, lo abbracciò amorosamente, e invece di dargli a titolo di premio un bacio, gliene dette per lo meno piú di cento.

Truman Capote Un Natale

Anzitutto un breve prologo autobiografico. Mia madre, donna d’intelligenza eccezionale, era la piú bella ragazza dell’Alabama. Lo dicevano tutti ed era vero; e a sedici anni sposò un uomo d’affari di ventotto che veniva da una buona famiglia di New Orleans. Il matrimonio durò un anno. Mia madre era troppo giovane per essere madre o moglie; era anche troppo ambiziosa – voleva andare all’università e farsi una posizione. Lasciò pertanto il marito e mi affidò alle cure della sua numerosa famiglia, nell’Alabama. Negli anni successivi, era raro che vedessi uno dei miei genitori. Mio padre era occupato a New Orleans e mia madre, dopo essersi laureata, stava facendo carriera a New York. Per me, non era una situazione sgradevole. Stavo benissimo dov’ero. Avevo una quantità di affettuosi parenti, zii e zie, cugini e cugine, e in particolare una cugina, una donna anziana, bianca di capelli e leggermente claudicante, che si chiamava Sook. Miss Sook Faulk. Avevo anche altri amici, ma la mia migliore amica era di gran lunga lei. Fu Sook che mi raccontò di Babbo Natale, della sua barba fluente, del suo vestito rosso, della sua stridula slitta piena di regali, e io le credevo, come credevo che tutto fosse la volontà di Dio, o del Signore, come Lo chiamava sempre Sook. Se inciampavo o cadevo da cavallo o prendevo un grosso pesce al ruscello – be’, le cose belle come quelle brutte erano sempre la volontà del Signore. Fu questo che disse Sook anche quando le arrivò da New Orleans la terribile notizia: mio padre voleva che andassi a passare il Natale con lui. Piansi. Non volevo andare. Non ero mai uscito da quella piccola e isolata cittadina dell’Alabama, circondata da foreste e fattorie e fiumi. Non mi ero mai addormentato senza che Sook mi passasse le dita tra i capelli e mi desse il

bacio della buona notte. Per di piú avevo paura degli estranei e mio padre era un estraneo. Lo avevo visto diverse volte, ma ne avevo un ricordo confuso; non sapevo proprio quale fosse il suo aspetto. Ma, come disse Sook: «È la volontà del Signore. E chissà, Buddy, forse vedrai la neve». La neve! Prima che io sapessi leggere per mio conto, Sook mi aveva letto molte storie, e in quasi tutte pareva ci fosse un mucchio di neve. Turbinosi, abbaglianti fiocchi da fiaba. Era una cosa che sognavo spesso; una cosa magica e misteriosa che avevo voglia di vedere e sentire e toccare. Naturalmente non mi era mai accaduto e non era mai accaduto nemmeno a Sook; come sarebbe stato possibile, vivendo in un posto caldo come l’Alabama? Non so come mai pensasse che avrei potuto vedere la neve a New Orleans, che è ancora piú calda. Ma non ha importanza. Cercava solo di incoraggiarmi ad affrontare il viaggio. Avevo un vestito nuovo. Avevo, appuntato al risvolto, un cartoncino col mio nome e indirizzo. Nel caso che mi fossi perso. Perché, vedete, dovevo viaggiare solo. In pullman. E tutti pensavano che con quell’etichetta sarei stato al sicuro. Tutti tranne me. Io ero spaventato a morte; e arrabbiato. Furibondo con mio padre, quell’estraneo, che mi costringeva ad andarmene di casa e a star lontano da Sook per Natale. Era un viaggio di seicentocinquanta chilometri, piú o meno. La prima fermata fu a Mobile. Lí cambiai pullman e continuai a viaggiare all’infinito attraverso terre paludose e lungo il mare, finché non arrivammo in una rumorosa città tintinnante di tram e stipata di pericolosi individui con facce da stranieri. Era New Orleans. E all’improvviso, mentre scendevo dal pullman, un uomo mi prese tra le braccia e mi strinse a sé sino a togliermi il fiato; rideva e piangeva – un uomo alto e di bell’aspetto che rideva e piangeva. Disse: «Non mi conosci? Non conosci il tuo papà?» Ero senza parola. Non aprii bocca fin quando, mentre eravamo su un taxi, gli chiesi: «Dov’è?» «Casa nostra? Non è lontana...»

«Non la casa. La neve». «Quale neve?» «Pensavo che qui ci fosse un mucchio di neve». Mi guardò in modo strano, ma poi si mise a ridere. «A New Orleans non c’è mai stata la neve. Che io sappia. Ma ascolta. Lo senti il tuono? Sta certamente per piovere!» Non so che cosa mi spaventasse di piú, se il tuono, gli sfrigolanti zig-zag dei fulmini che ad esso seguirono – o mio padre. Quella sera, quando andai a letto, stava ancora piovendo. Dissi le mie orazioni e pregai di poter presto tornare a casa da Sook. Non sapevo come avrei fatto ad addormentarmi non essendoci Sook a dirmi il bacio della buona notte. In effetti non riuscivo a dormire e cosí cominciai a chiedermi cosa mi avrebbe portato Babbo Natale. Volevo un coltello col manico di madreperla. E una grande scatola di puzzle. Un cappello da cowboy con relativo lazo. E un fucile ad aria compressa per sparare ai passeri. (Diversi anni dopo, quando ebbi un fucile ad aria compressa, sparai a un tordo e a una quaglia; e non dimenticherò mai il dispiacere che provai, il rincrescimento; non ho mai piú ammazzato nessuno e ogni pesce che prendevo lo ributtavo in acqua). E volevo una scatola di pastelli. E soprattutto una radio, ma sapevo che questo era impossibile: non conoscevo neanche dieci persone che avessero una radio. Non dimenticate che c’era la Crisi e che nel Profondo Sud erano rare le case fornite di radio o di frigorifero. Mio padre li aveva entrambi. Pareva che avesse tutto – un’auto col sedile posteriore ribaltabile, per non parlare di una vecchia e graziosa casetta rosa nel Quartiere Francese, con balconi di ferro traforato e un giardino interno a patio, colorato di fiori e rinfrescato da una fontana a forma di sirena. Aveva anche una mezza dozzina, direi anzi una dozzina intera, di amiche. Come mia madre, mio padre non si era risposato; ma avevano entrambi ammiratori risoluti e, volenti o nolenti, finirono poi per ripercorrere il cammino che porta all’altare – mio padre, di fatto, lo percorse sei volte. Vedete dunque che doveva avere fascino; e di fatto sembrava affascinare quasi tutti – o meglio, tutti tranne me. Questo perché mi metteva in

imbarazzo, trascinandomi sempre qua e là per farmi conoscere i suoi amici, tutti quanti dal suo banchiere al barbiere che lo radeva ogni giorno. E, naturalmente, tutte le sue amiche. Ma c’era anche di peggio: non faceva che abbracciarmi e baciarmi e fare i miei elogi. Mi vergognavo moltissimo. Prima di tutto non c’era niente da elogiare. Io ero un autentico ragazzo di campagna. Credevo in Gesú e dicevo fedelmente le mie preghiere. Sapevo che Babbo Natale esisteva. E a casa, nell’Alabama, non portavo mai le scarpe, se non per andare in chiesa; inverno o estate. Era una vera tortura farsi trascinare qua e là per le strade di New Orleans con quelle scarpe con i lacci stretti, calde come l’inferno, pesanti come il piombo. Non so dire cosa fosse peggio – se le scarpe o il cibo. A casa ero abituato al pollo fritto e ai cavoli ricci e ai fagioli americani e al pane di meliga e ad altre buone cose. Ma i ristoranti di New Orleans! Non dimenticherò mai la mia prima ostrica, fu come se mi scivolasse in gola un brutto sogno; passarono decenni prima che ne ingoiassi un’altra. In quanto poi alla piccante cucina creola – mi bastava pensarci perché mi venisse il brucior di stomaco. No, grazie, io desideravo con tutto il cuore biscotti appena usciti dal forno e latte appena munto dalle vacche e melassa fatta in casa appena versata dal secchio. Il mio povero padre non aveva idea di quanto fossi infelice, un po’ perché non glielo avevo mai fatto capire, né tanto meno glielo avevo mai detto; e un po’ perché, nonostante le proteste di mia madre, era riuscito ad avermi legalmente in custodia per quelle vacanze di Natale. Mi diceva: «Dimmi la verità. Non ti piacerebbe venire a vivere qui con me a New Orleans?» «Non posso». «Come non puoi?» «Mi manca Sook, mi manca Queenie; è una piccola rat terrier, una buffa bestiola. Ma noi le vogliamo bene». Diceva allora: «E a me non vuoi bene?» Io dicevo «Sí». Ma in verità, a parte Sook e Queenie e qualche cugino e la

fotografia della mia bella mamma accanto al letto, io non avevo idea di cosa significasse voler bene. Lo scoprii presto. Il giorno prima di Natale, mentre passeggiavamo in Canal Street, mi fermai di botto, ipnotizzato da un oggetto magico, esposto nella vetrina di un grande negozio di giocattoli. Era un aeromodello abbastanza grande per potercisi sedere e pedalare come su una bicicletta. Era verde con un’elica rossa. Ero convinto che, pedalando con sufficiente energia, avrebbe decollato e preso il volo! Come sarebbe stato bello! Mi pareva di vedere i miei cugini bloccati a terra mentre io volavo tra le nuvole. E va’ a parlare di verde! Risi; e risi e risi. Era la prima volta che facevo qualcosa che facesse piacere a mio padre, anche se lui non sapeva che cosa mi fosse parso cosí buffo. Quella sera pregai che Babbo Natale mi portasse l’aeroplano. Mio padre aveva già comprato l’albero e insieme passavamo molto tempo nei grandi magazzini a scegliere oggetti con cui decorarlo. Poi feci uno sbaglio. Misi sotto l’albero una fotografia di mia madre. Non appena la vide, mio padre si sbiancò e cominciò a tremare. Io non sapevo che fare. Ma lui sí. Aprí un armadietto e tirò fuori un bicchiere alto e una bottiglia. Riconobbi la bottiglia perché tutti i miei zii dell’Alabama ne avevano molte come quella. Whisky di contrabbando del periodo proibizionista. Riempí il bicchiere e lo bevve quasi d’un fiato. Dopo di che fu come se la fotografia fosse sparita. E cosí aspettavo la Vigilia e l’arrivo, sempre eccitante, del grasso Babbo Natale. Naturalmente, non avevo mai visto uno stridulo gigante col ventre gonfio e un pesante sacco sulle spalle piombar giú dal camino ed elargire allegramente la propria generosità sotto un albero di Natale. Mio cugino Billy Bob, che era una carogna di nanerottolo con un cervello come un pugno di ferro, diceva che erano tutte fesserie, che quella creatura proprio non esisteva. «Un corno, – diceva. – Uno che crede in Babbo Natale può anche credere che un mulo è un cavallo». Questa discussione si svolse nella piccola piazza del tribunale. Io dissi: «Babbo Natale esiste perché ciò che lui fa è la volontà di Dio e la volontà di Dio è sempre la verità». E Billy Bob, dopo aver sputato per

terra, si allontanò: «Be’, sembra proprio che c’è capitato tra i piedi un altro predicatore». Giuravo sempre a me stesso che la vigilia di Natale non mi sarei addormentato; volevo sentire la danza saltellante delle renne sul tetto e farmi trovare ai piedi del camino per stringere la mano a Babbo Natale. E in questa particolare vigilia, mi sembrava che non ci fosse niente di piú facile che star sveglio. Nella casa di mio padre c’erano tre piani e sette stanze, molte delle quali enormi, specie le tre che portavano al patio: un salotto, una sala da pranzo e una sala da «musica» per quelli che avevano voglia di ballare e di divertirsi e di giocare a carte. I due piani superiori erano guarniti di balconi traforati e ai loro ghirigori di ferro verde scuro s’intrecciavano buganvillee e ondeggianti viticci di scarlatti formiconi – piante, queste, simili a lucertole con rosse lingue guizzanti. Era di quelle case che fanno la miglior figura se hanno pavimenti laccati e un po’ di vimini qua, un po’ di velluto là. Sarebbe stato possibile scambiarla per la casa d’un ricco; ma era, piú precisamente, la casa di un uomo con una passione per l’eleganza. Per un povero (ma felice) ragazzo scalzo dell’Alabama era un mistero come potesse appagare questo suo desiderio. Non lo era però per mia madre che, dopo essersi laureata, stava sfruttando al massimo le sue grazie di bella sudista e nello stesso tempo s’affaccendava per trovare a New York un fidanzato veramente adatto, in grado cioè di offrirle appartamenti in Sutton Place e pellicce di zibellino. No, le risorse di mio padre le erano ben note, anche se ad esse non fece mai alcun cenno se non molti anni dopo, quando da un pezzo si era procurata fili di perle da far risplendere intorno alla sua gola avvolta nell’ermellino. Era venuta a trovarmi in un collegio snob del New England (dove la mia retta era pagata dal suo ricco e generoso marito) e qui qualcosa che le dissi la fece montare in collera; urlò: «Davvero non sai come fa a vivere cosí bene? A noleggiare yacht e a far crociere nelle isole greche? Sono le sue mogli! Pensa a tutta la lunga filza. Tutte vedove. Tutte ricche. Molto ricche. E tutte molto piú

vecchie di lui. Troppo vecchie perché un giovane equilibrato potesse sposarle. È per questo che sei il suo unico figlio. Ed è per questo che io non avrò mai un altro figlio – ero troppo giovane per aver bambini, ma lui era una bestia, mi distrusse, mi rovinò...» Ridi gigolo, danza gigolo che per questo sei pagato... Luna, luna di Miami... Per me è la prima volta, ti prego sii gentile... Ehi, signore, me lo darebbe un dime?... Ridi gigolo, danza gigolo che per questo sei pagato... Mentre lei parlava (e io cercavo di non ascoltarla perché, dicendomi che la mia nascita l’aveva distrutta, era lei a distruggere me), mi risuonavano in mente queste canzonette o altre dello stesso genere. Mi aiutavano a non udirla e mi richiamavano alla memoria la strana, indimenticabile festa che mio padre aveva dato a New Orleans quella vigilia di Natale. Il patio era pieno di candele e anche le tre stanze che ad esso conducevano. Quasi tutti gli invitati si erano raccolti nel salotto, dove il fievole fuoco del caminetto faceva luccicare l’albero; altri invece ballavano nella sala da musica e nel patio al suono di un grammofono a manovella. Io, dopo essere stato presentato agli invitati ed essere stato oggetto di molti complimenti, ero stato mandato di sopra; ma dalla terrazza davanti alla porta a vetri della mia camera potei assistere all’intera festa e guardare tutte le coppie che ballavano. Vidi cosí mio padre fare un giro di valzer con una graziosa signora intorno allo stagno che circondava la fontana a forma di sirena. Lei era effettivamente graziosa e indossava un diafano vestito argenteo che splendeva al lume delle candele; ma era vecchia – aveva almeno dieci anni piú di mio padre, che ne aveva allora trentacinque. Mi resi improvvisamente conto che mio padre era di gran lunga il piú giovane dei presenti. Nessuna delle signore, per quanto affascinante, aveva un’età inferiore a quella della snella danzatrice di valzer con il fluttuante vestito argenteo. Lo stesso valeva anche per gli uomini, molti dei quali fumavano fragranti sigari Avana; per almeno metà, erano talmente vecchi da poter essere i padri di mio padre. Poi vidi qualcosa che mi fece sussultare. Mio padre e la sua agile partner erano arrivati danzando in una nicchia oscurata da formiconi scarlatti; e si

stavano abbracciando, baciando. Ero cosí sorpreso, cosí arrabbiato, che corsi in camera mia, mi buttai sul letto e nascosi la testa sotto le coperte. Cosa poteva volere il mio giovane e attraente padre da una vecchia come quella? E perché tutta quella gente non se ne tornava a casa e non dava modo a Babbo Natale di fare il suo ingresso? Rimasi sveglio per ore ad ascoltarli andar via, e quando mio padre disse arrivederci per l’ultima volta, lo udii salire le scale e aprire la mia porta per guardarmi; ma io finsi di dormire. Accaddero diverse cose che mi tennero sveglio tutta la notte. Prima di tutto i passi, il rumore di mio padre che correva su e giú per le scale, respirando a fatica. Dovevo scoprire che cosa stava combinando. Mi nascosi quindi sul balcone, tra le buganvillee. Godevo da lí di una visione totale del salotto e dell’albero e del caminetto dove ancora ardeva un pallido fuoco. E vedevo anche mio padre. Stava strisciando intorno all’albero per sistemare una piramide di pacchi. Avvolti in carta purpurea e rossa e dorata e bianca e azzurra, frusciavano ogni volta che lui li spostava. Mi girava la testa perché ciò che vedevo mi costringeva a riesaminare ogni cosa. Se quei regali erano destinati a me, era ovvio che non era stato il Signore a ordinarli né Babbo Natale a consegnarli; no, erano doni comprati e impaccati da mio padre. In altre parole, il mio sporco cuginetto Billy Bob e gli altri sporchi ragazzini del suo stampo non avevano mentito quando mi prendevano in giro e mi dicevano che Babbo Natale non esiste. Ma il pensiero che piú mi angustiava era questo: anche Sook sapeva la verità e mi aveva mentito? No, Sook non mi avrebbe mai mentito. Lei credeva! Solo che – be’, anche se aveva passato i sessanta, sotto certi aspetti era rimasta una bambina, almeno quanto ero un bambino io. Continuai a guardare finché mio padre non ebbe sbrigato tutte le sue incombenze e spento le poche candele che erano ancora accese. Poi aspettai per essere sicuro che fosse a letto e profondamente addormentato. Scesi allora in punta di piedi in salotto, che ancora puzzava di gardenie e di sigari Avana. Mi sedetti lí pensando: «Adesso dovrò essere io a dire la verità a Sook». Una rabbia, una strana malizia salivano a spirale dentro di me: non erano rivolte

contro mio padre, anche se alla fine fu lui che ne rimase vittima. Quando venne l’alba, esaminai i cartellini attaccati ai vari pacchi. Dicevano tutti «per Buddy». Tutti tranne uno, su cui era scritto «Per Evangeline». Evangeline era un’anziana donna di colore che beveva CocaCola dalla mattina alla sera e pesava centotrenta chili; era la governante di mio padre – e gli faceva anche da mamma. Decisi di aprire i pacchi. Era la mattina di Natale e io ero sveglio, e allora perché no? Non mi prenderò la briga di descrivere ciò che contenevano: nient’altro che camicie e maglioni e altre squallide cose della stessa specie. Il solo regalo che apprezzai fu una pistola a capsule di gran classe. Mi venne in mente che sarebbe stato divertente svegliare mio padre sparando. Fu ciò che feci. Bang. Bang, Bang. Si precipitò fuori della sua camera, con gli occhi stralunati. Bang. Bang. Bang. «Buddy – cosa diavolo stai facendo?» Bang. Bang. Bang. «Smettila!» Risi. «Guarda, papà. Guarda che cose meravigliose mi ha portato Babbo Natale». Ormai calmatosi, entrò in salotto e mi abbracciò: «Ti piace quello che ti ha portato Babbo Natale?» Gli sorrisi. E lui sorrise a me. Ci fu un lungo momento di tenerezza, che andò distrutto quando io dissi: «Sí, ma tu cosa mi regali, papà?» Il suo sorriso svaní. I suoi occhi si restrinsero insospettiti – pensava, era chiaro, che io cercassi di fare il furbo. Ma poi arrossí, come se si vergognasse di pensare ciò che stava pensando. Mi accarezzò la testa, tossí e disse: «Be’, avevo pensato d’aspettare per lasciarti scegliere una cosa che volevi. Non c’è niente di particolare che tu desideri?» Gli ricordai l’aeroplano che avevamo visto nel negozio di giocattoli di Canal Street. Il suo viso s’afflosciò. Oh, sí, si ricordava benissimo dell’aeroplano e di quanto era caro. L’indomani tuttavia, mi trovai seduto in quell’aeroplano a sognare che stavo salendo in cielo, mentre mio padre

riempiva un assegno per un commesso tutto contento. Si era discussa l’ipotesi di spedire l’apparecchio in Alabama, ma io fui irremovibile – insistetti per portarmelo dietro sul pullman che avrei preso quel pomeriggio alle due. Il commesso risolse la questione telefonando alla società dei pullman, e la risposta fu che non avrebbero avuto difficoltà a sistemare la faccenda. Ma non mi ero ancora liberato di New Orleans. Il problema era una grande fiaschetta d’argento di whisky di contrabbando; forse fu a causa della mia partenza, ma sta di fatto che mio padre aveva bevuto tutto il giorno e, mentre andavamo alla stazione dei pullman, mi spaventò afferrandomi un polso e sussurrando con voce aspra: «Io non ti lascio partire. Non posso permetterti di tornare da quella famiglia di matti in quella vecchia casa di matti. Guarda come ti hanno ridotto. Un ragazzo di sei anni, quasi sette, che parla di Babbo Natale! È tutta colpa loro, di tutte quelle vecchie zitelle inacidite con le loro Bibbie e i loro ferri da calza e di quegli zii sempre ubriachi. Ascoltami, Buddy. Dio non esiste! Babbo Natale non esiste!» Mi stava stringendo il polso con tanta forza da farmi male. «Certe volte, Dio mio, penso che tua madre e io, tutti e due, dovremmo ammazzarci per aver permesso che succedesse questo...» (Lui non si ammazzò mai, ma mia madre sí: imboccò trenta anni fa la strada del Seconal). «Dammi un bacio. Ti prego. Ti prego. Dammi un bacio. Di’ al tuo papà che gli vuoi bene». Ma io non potevo parlare. Mi terrorizzava l’idea di perdere il pullman. Ed ero preoccupato per il mio aeroplano, legato con una cinghia al tetto del taxi. «Dimmi: Ti voglio bene. Dimmelo. Ti prego, Buddy. Dimmelo». Per mia fortuna il taxista era un uomo di buon cuore. Senza il suo aiuto, infatti, e senza l’aiuto di alcuni efficienti facchini e di un benevolo poliziotto, non so cosa sarebbe successo quando arrivammo alla stazione. Mio padre barcollava al punto da non poter quasi camminare, ma il poliziotto gli parlò, lo calmò, lo aiutò a star dritto, e il taxista promise di riportarlo a casa sano e salvo. Mio padre, però, non volle andar via prima d’aver visto i facchini caricarmi sul pullman. Una volta salito, mi rannicchiai su un sedile e chiusi gli occhi. Sentivo uno

stranissimo male. Un male opprimente che mi doleva dappertutto. Pensai che, se mi fossi tolto le mie pesanti scarpe da città, quei mostruosi strumenti di tortura, la sofferenza si sarebbe placata. Me le tolsi, ma quel male misterioso non mi lasciò. In un certo senso, non mi ha mai lasciato; e non mi lascerà mai. Dodici ore dopo, ero a letto a casa mia. La stanza era al buio. Sook sedeva accanto a me dondolando su una sedia a dondolo, con un rumore rasserenante quanto le onde dell’oceano. Avevo cercato di raccontarle tutto ciò che era accaduto e avevo smesso solo quando ero diventato rauco come un cane che ha troppo ululato. Mi infilò le dita tra i capelli e disse: «Ma certo che Babbo Natale esiste. Solo che non c’è nessuno che possa fare da solo tutto quello che deve fare lui. E allora il Signore ha distribuito i suoi compiti tra tutti noi. Per questo noi siamo tutti Babbo Natale. Io. Tu. Persino tuo cugino Billy Bob. E adesso dormi. Conta le stelle. Pensa a cose piú serene. Alla neve, per esempio. Mi dispiace che tu non abbia potuto vederla. Ma ora la neve sta cadendo attraverso le stelle...» Le stelle sfavillarono, la neve turbinò nella mia testa; l’ultima cosa che ricordai fu la voce pacata del Signore che mi parlava di qualcosa che dovevo fare. L’indomani la feci. Andai con Sook all’ufficio postale e comprai una cartolina da un cent. È una cartolina che c’è ancora. L’hanno trovata l’anno scorso nella cassetta di sicurezza di mio padre dopo la sua morte. Ed ecco cosa gli avevo scritto: Ciao papà spero che tu stia bene io sto bene e sto imparando a pedalare il mio aeroplano cosí svelto che presto sarò in cielo e cosí tieni gli occhi aperti e sí ti voglio bene Buddy.

Ray Bradbury Il dono

L’indomani sarebbe stato Natale, e mentre i tre si avviavano verso il razzoporto, la madre e il padre erano preoccupati. Era il primo volo nello spazio, per il bambino, la primissima volta che saliva su un razzo, ed essi volevano che tutto fosse perfetto. Cosí quando, al banco della dogana, furono costretti a lasciare il dono che superava di poche once il limite di peso e l’alberello con le belle candele bianche, si sentirono defraudati e della festività e del loro amore. Il bambino li aspettava nella sala del Terminal. Mentre avanzavano verso di lui, dopo l’inutile discussione con gli agenti dell’Interplanetaria, la madre e il padre sussurravano fra loro. – Cosa dobbiamo fare? – Niente, niente. Cosa possiamo fare? – Che sciocco regolamento! – E lui desiderava tanto l’albero! La sirena lanciò un grande ululato e la gente salí sul razzo per Marte. La madre e il padre vennero ultimi, e il loro figlioletto pallido stava fra loro, silenzioso. – Penserò io qualcosa, – disse il padre. – Cosa...? – chiese il bambino. E il razzo decollò ed essi vennero scagliati a testa bassa nello spazio buio. Il razzo si mosse e lasciò dietro di sé il fuoco e lasciò dietro di sé la Terra, su cui la data era 24 dicembre 2052, puntando verso uno spazio in cui non v’era né tempo, né mese, né anno, né ora. Dormirono per tutto il resto del primo «giorno». Quasi a mezzanotte, secondo i loro orologi regolati sul

tempo terrestre di New York, il bambino si svegliò e disse: – Voglio andare a guardar fuori dall’oblò. C’era soltanto un oblò, una «finestra» di cristallo immensamente spesso, ed abbastanza grande, su, nel ponte vicino. – Non ancora, – disse il padre. – Ti condurremo lassú piú tardi. – Voglio vedere dove siamo e dove stiamo andando. – Voglio che tu aspetti, per una ragione, – disse il padre. Era rimasto disteso, sveglio, pensando una cosa e un’altra, pensando al dono abbandonato, al problema della festività, all’albero perduto e alle candele bianche. E alla fine, levandosi a sedere, non piú di cinque minuti prima, aveva creduto di aver trovato un piano. Era soltanto necessario che lo potesse realizzare e questo viaggio sarebbe stato veramente splendido e lieto. – Figliolo, – disse, – esattamente fra mezz’ora sarà Natale. – Oh, – disse la madre, sbigottita perché glielo aveva ricordato. In un certo senso, aveva sperato che il bambino lo avesse dimenticato. Il volto del bambino divenne febbrile, le sue labbra tremarono. – Lo so, lo so. Avrò un regalo, vero? Avrò un albero? Avete promesso... – Sí, sí, avrai tutto questo e anche di piú, – disse il padre. La madre trasalí. – Ma... – Dico sul serio, – disse il padre. – Dico proprio sul serio. Tutto e di piú, molto di piú. Scusami, adesso. Tornerò subito. Li lasciò soli per quasi venti minuti. Quando ritornò, sorrideva. – È quasi ora. – Posso tenere il tuo orologio? – chiese il bambino, e quando ricevette l’orologio lo tenne, cosí ticchettante, fra le dita, mentre il resto dell’ora scivolava via nel fuoco, nel silenzio, nel moto inavvertito. – È Natale, adesso! Natale! Dov’è il mio regalo? – Andiamo, – disse il padre, e prese il suo bambino per la spalla e lo guidò fuori dalla stanza, lungo il corridoio, su per una rampa, e la moglie lo seguiva. – Non capisco, – continuava a dire la donna.

– Capirai. Eccoci arrivati, – disse il padre. Si erano fermati davanti alla porta chiusa di una grande cabina. Il padre bussò tre volte e poi due, per un segnale prestabilito. La porta si aprí e nella cabina la luce si spense e vi fu un sussurrío di voci. – Entra, figliolo, – disse il padre. – È buio. – Ti terrò per mano. Vieni, mamma. Entrarono nella stanza e la porta si chiuse, e lí dentro era veramente molto buio. E davanti a loro c’era un grande occhio di cristallo, l’oblò, una finestra alta quattro piedi e larga sei, dalla quale potevano guardare fuori, nello spazio. Il bambino boccheggiò. Dietro di lui il padre e la madre boccheggiarono con lui, e poi nella stanza buia qualcuno cominciò a cantare. – Buon Natale, figliolo, – disse il padre. E le voci nella stanza cantarono i vecchi, familiari canti natalizi, e il bambino avanzò lentamente fino a che il suo viso fu contro il vetro freddo dell’oblò. E rimase lí ritto per molto, molto tempo, guardando e guardando fuori nello spazio e nella notte profonda, dove ardevano e ardevano dieci miliardi di miliardi di bianche e belle candele...

Dylan Thomas Il mio Natale in Galles

Ogni Natale era cosí uguale all’altro, in quegli anni dietro l’angolo di quella cittadina di mare ora priva di qualsiasi rumore salvo quello di voci lontane che parlano e che a volte risento un attimo prima di addormentarmi, che non riesco mai a ricordarmi se è nevicato per sei giorni e sei notti quando avevo dodici anni o se è nevicato per dodici giorni e dodici notti quando ne avevo sei. Tutti i Natali rotolano giú verso il mare dalla doppia lingua, come una luna fredda e impetuosa che si precipita per quel cielo che era la nostra strada; e si fermano sul bordo ghiacciato delle onde che congelano i pesci, e io affondo le mani nella neve e tiro fuori quello che trovo. La mia mano si immerge in quella palla di feste bianca come la lana con la lingua a campana e si ferma sul bordo del mare che canta caròle, e affiorano la signora Prothero e i pompieri. Era il pomeriggio della vigilia di Natale, e io mi trovavo nel giardino della signora Prothero che aspettavo gatti con suo figlio Jim. Stava nevicando. Nevicava sempre a Natale. Dicembre, nella mia memoria, è bianco come la Lapponia, solo che non c’erano renne. Ma c’erano gatti. Pazienti, gelati e insensibili, le mani protette da calzerotti, aspettavamo di prendere i gatti a palle di neve. Lunghi e flessuosi come giaguari, con dei baffi orribili, soffianti e miagolanti, sgattaiolavano bassi sui muretti bianchi dei giardini e i cacciatori dagli occhi di lince, Jim e io, cacciatori della baia dell’Hudson – berretti di pelo e mocassini ai piedi – da dietro via Mumbles, scagliavamo le nostre mortali palle di neve al verde dei loro occhi. Saggi, i gatti non si facevano vedere. Noi eravamo cosí immobili e silenziosi, franchi tiratori artici

con i piedi calzati in pellicce nel silenzio ovattato delle nevi eterne – eterne da mercoledí – che non sentimmo nemmeno il primo richiamo della signora Prothero dal suo igloo in fondo al giardino. Oppure, se l’avevamo sentito, per noi poteva solo essere il lontano richiamo del nostro nemico e preda, il gatto polare dei vicini. Ma ben presto la voce si fece piú forte. – Al fuoco! – gridava la signora Prothero, suonando il gong della cena. E ci mettemmo a correre giú per il giardino, verso la casa con le braccia cariche di palle di neve; e effettivamente, un gran fumo stava nascendo dalla sala da pranzo e il gong stava rintronando e la signora Prothero annunciava rovine come un banditore a Pompei. Tutto questo era meglio dei gatti del Galles in fila indiana su un muro. Ci precipitammo in casa con tutte le palle di nave e ci fermammo davanti alla porta aperta sulla stanza piena di fumo. Altroché se bruciava qualcosa; forse era il signor Prothero che si faceva sempre lí un sonnellino dopo pranzo con un giornale aperto che gli nascondeva la faccia. Ma era in piedi al centro della stanza che diceva: – Un bel Natale davvero! – e schiaffeggiava il fumo con una pantofola. – Chiama i pompieri! – gridò la signora Prothero mentre continuava a suonare il gong. – Non ci saranno, – disse il signor Prothero, – è Natale. Fuoco non se ne vedeva, solo nuvole di fumo con al centro il signor Prothero che muoveva la pantofola come se stesse dirigendo un’orchestra. – Fate qualcosa, – disse. E noi buttammo tutte le nostre palle di neve nel fumo, mancando, credo, il signor Prothero. Poi corremmo fuori verso la cabina telefonica. – Chiamiamo anche la polizia, – disse Jim. – E un’ambulanza. – E Ernie Jenkins, a lui piacciono i fuochi. Ma telefonammo solo ai vigili del fuoco, e dopo poco arrivò il carro con la pompa, e tre uomini alti coi caschi portarono la pompa in casa e il signor Prothero fece appena in tempo a uscire dalla stanza prima che mettessero la pompa in funzione. Nessuno avrebbe potuto passare una vigilia di Natale piú

rumorosa. E quando i vigili del fuoco chiusero la pompa e stavano lí in piedi nella stanza bagnata e piena di fumo, la zia di Jim, la signorina Prothero, scese dal piano di sopra e venne a scrutarli e Jim e io stavamo aspettando in silenzio di sentire cosa avrebbe detto loro. Sapeva dire la frase giusta, sempre. Osservò i tre vigili del fuoco, alti e con i caschi luccicanti, in piedi tra il fumo, la cenere e le palle di neve che si scioglievano, e chiese: – Vorreste leggere qualcosa? Anni e anni e anni fa, quando ero bambino, quando c’erano i lupi nel Galles e uccelli del colore delle sottanine rosse di flanella sfrecciavano oltre le colline che avevano forma d’arpa, quando cantavamo e ci rotolavamo giorno e notte in caverne che avevano l’odore dei pomeriggi della domenica nei tinelli di case di campagna umide, e armati di mascelle di diaconi davamo la caccia agli orsi e agli Inglesi, prima dell’automobile, prima della ruota, prima del cavallo con la faccia da duchessa, quando cavalcavamo senza sella per le folli e felici colline, nevicava e nevicava. Ma a questo punto un bambino dice: – Era nevicato anche l’anno scorso. Avevo fatto un uomo di neve e mio fratello l’ha buttato giú e io ho buttato giú mio fratello e poi abbiamo preso il tè. – Ma non era la stessa neve, – dico io. – La nostra neve non veniva solo giú dal cielo da secchi di intonaco bianco, usciva dalla terra come uno scialle e nuotava e fluiva dalle braccia e le mani e i corpi degli alberi; la neve cresceva nottetempo sui tetti delle case come un muschio puro e bianco come un nonno, si posava minuta sui muri delle case come edera bianca e si posava sul postino, mentre apriva il cancello, come un turbine di stupidi, insensibili, bianchi e strappati auguri di Natale. – C’erano postini anche allora? – Con occhi sprizzanti e nasi-resi-ciliegia-dal-vento, su piedi gelati e ben divaricati scricchiolavano su fino ai portoni di casa e ci guantonavano su maschilmente. Ma i bambini sentivano solo un risuonare di campanelli. – Vuoi dire che il postino toc-toc, bussava e le porte tintinnavano? – Voglio dire che i campanelli che i bambini sentivano erano dentro di loro.

– Io sento solo il tuono a volte, campanelli mai. – C’erano anche le campane delle chiese. – Dentro di loro? – No, no, no, nei campanili neri come i pipistrelli e bianchi come la neve, fatte suonare da vescovi e cicogne. E le campane suonavano la loro novella sulla cittadina bendata, sulla schiuma gelata delle colline di cipria e vaniglia, sul mare che scricchiolava. – Sembrava che sotto la mia finestra tutte le chiese rombassero di gioia; e i galli segnavento a Natale facevano chicchirichí sullo steccato del nostro giardino. – Parlami ancora dei postini. – Erano postini normalissimi a cui piaceva camminare e che amavano i cani e il Natale e la neve. Bussavano alle porte con nocche bluastre... – La nostra ha un batacchio nero... – E poi stavano lí impalati sugli zerbini bianchi Benvenuti nei piccoli portici pieni di neve e soffiavano e sbuffavano creando piccoli fantasmi col fiato, e spostavano il peso da un piede all’altro come bambini piccoli che hanno voglia di uscire. – E poi i regali? – E poi i regali, dopo la mancia di Natale. – E il postino infreddolito, con una rosa sul naso a patata, si sentiva formicolare per il freddo sulla pista che avevamo fatto slittando sui vassoi da tè, giú per la collina gelata che scintillava al sole. – Andava con i suoi stivali coperti di ghiaccio come un nomo sulle lastre di marmo di un pescivendolo. Faceva oscillare il sacco della posta come la gobba di un cammello gelato, girava l’angolo vertiginosamente su un piede solo e, per Dio, era scomparso. – Torna ai regali. – C’erano i Regali Utili: scialli del passato quando si andava in carrozza e che ti sommergevano, e guanti fatti per giganteschi bradipi; sciarpe zebrate fatte di una sostanza simile a una gomma setosa che tirandola, come al tiro

alla fune, si allungava fino alle galosce; berretti scozzesi che ti accecavano come i copri-teiere accecano le teiere e cappelli da ussaro in pelle di coniglio e passamontagna per vittime di tribú di cacciatori di teste; da zie che sulla pelle indossavano solo lana, maglie irsute che graffiavano e ti facevano pensare con stupore come potessero quelle zie avere ancora la pelle; e una volta ricevetti un copri-naso fatto all’uncinetto da una zia che, ahimè, non è piú qui a nitrire tra noi. E libri privi di figure nei quali dei ragazzi, anche se era stato loro detto tra virgolette di non farlo, andavano a pattinare sullo stagno del contadino Giles e annegavano; e libri che mi dicevano tutto sulle vespe salvo perché. – Va’ avanti con i Regali Inutili. – Sacchetti di gelatine umide e multicolori e una bandiera bella ripiegata e un naso di cartapesta e il berretto di un conducente del tram e una macchinetta che forava i biglietti e aveva un campanello che suonava; mai una catapulta; una volta, per sbaglio, sbaglio che nessuno ha mai saputo spiegarsi, una piccola accetta; e un’ochetta di celluloide che faceva, quando la schiacciavi, un suono assolutamente non da ochetta, una specie di muggito miagolante che avrebbe potuto fare un gatto con ambizioni da mucca; e un libro da pitturare nel quale potevo colorare con i colori che volevo l’erba, le piante, il mare e gli animali, e ancora oggi le pecore luminose blu-cielo stanno pascolando l’erba rossa sotto gli uccelli verdi dai becchi arcobalenati. – Uova sode, caramelle mou, liquirizia e di tutto un po’, croccanti, mandorlati, bomboloni, bestioline di zucchero, marzapane e gallette gallesi per i gallesi. – Eserciti di brillanti soldatini di latta che, se non erano in grado di combattere, potevano però sempre correre. E giochi quaranta e scale dell’oca. I semplicissimi giochi istruttivi come Il piccolo ingegnere, completo di istruzioni. – Beh, semplice per Leonardo! E un fischietto per fare abbaiare i cani per svegliare il vecchio vicino di casa per farlo picchiare sul muro col bastone per far cadere il nostro quadro dal muro. – E un pacchetto di sigarette: te ne infilavi una in bocca e ti mettevi

all’angolo di una strada e aspettavi per ore, invano, che una vecchietta ti sgridasse perché fumavi una sigaretta, e poi con un ghigno la mangiavi. E poi c’era la prima colazione sotto i palloncini. – C’erano degli Zii come a casa nostra? – Ci sono sempre Zii a Natale. – Gli stessi Zii. E la mattina di Natale, col fischietto per-dar-fastidio-aicani e con le bionde di zucchero, perlustravo le diverse fette della cittadina alla ricerca di notizie del mondo dei piccoli, e trovavo sempre un uccello morto vicino all’ufficio postale bianco o alle altalene abbandonate; magari un pettirosso, tutti i suoi fuochi spenti, salvo uno. Uomini e donne che guadavano o si spalavano il cammino di ritorno dalla messa, con nasi da osteria e guance battute dal vento, tutti albini, facevano calca con le loro piume rigide, ispide e nere contro la neve irreligiosa. Il vischio pendeva dai bracci delle lampade a gas in tutti i salotti; c’erano sherry e noci e birra in bottiglia e salatini allineati accanto ai cucchiaini per il dolce; e i gatti nei loro pellicciotti fissavano il fuoco; e i ciocchi nel caminetto sfrigolavano, pronti per le castagne e gli attizzatoi per fare il vino caldo. Alcuni uomini pingui, senza i colletti, quasi sicuramente degli Zii, sedevano nei salotti e assaporavano i loro nuovi sigari tenendoli religiosamente in mano a distanza di braccio, riportandoli alla bocca, tossendo e poi di nuovo allontanandoli da sé come in attesa dell’esplosione; e alcune Zie minute, indesiderate in cucina e ovunque – se è per questo – sedevano in punta di sedia, fragili e quasi in bilico, paurose di rompersi, come tazzine e piattini scoloriti. Non molti in quelle mattine camminavano per le strade che stavano riempiendosi di neve: ma un vecchio, sempre, con la tuba fulva, i guanti gialli e, in questo periodo dell’anno, con le ghette di neve, si faceva la sua passeggiatina salutare fino al bianco Bowling Green e ritorno, cosí come l’avrebbe sempre fatta, tempo bello o brutto, sia a Natale che nel giorno del Giudizio; un paio di volte, due giovanotti robusti, con grosse pipe fumanti in bocca, senza soprabiti e con lunghe sciarpe mosse dal vento, si trascinavano, senza parlarsi, giú fino al mare desolato, per farsi venire appetito, per

disperdere i fumi dell’alcol, chi lo sa, per entrare nelle onde finché non rimanesse piú niente di loro salvo le nuvole di fumo inestinguibili delle due radiche bianche. A questo punto io me ne stavo tornando a casa di corsa, spericolatamente, il profumo dei sughi dei pranzi degli altri, quello dei volatili nei forni, quello del cognac, del pudding, del pasticcio di frutta secca che mi arrivavano alle narici, quando, da una piccola strada laterale otturata di neve spuntava un ragazzo che era me sputato, con una sigaretta dal filtro rosa e attorno all’occhio il viola di un vecchio occhio nero, impertinente come un ciuffolotto e che ghignava da solo. Io lo odiai a prima vista, e stavo per portarmi il fischietto dei cani alle labbra per soffiarlo via dalla faccia del Natale, quando di colpo lui, strizzandomi violentemente l’occhio violetto, portava il suo fischietto alle sue labbra, facendo un fischio cosí stridente, cosí alto, cosí squisitamente forte che facce masticanti, le guance piene d’oca, apparivano da dietro le finestre decorate per tutta la lunghezza della strada bianca ed echeggiante. Per pranzo avevamo tacchino e pudding fiammeggiante, e dopo pranzo gli Zii sedevano davanti al fuoco, si sbottonavano tutti i bottoni, appoggiavano le larghe mani umide sopra le catene degli orologi, gemevano un po’ e si addormentavano. Madri, zie e sorelle andavano avanti e indietro con zuppiere e salsiere. Zia Bessie, che era già stata spaventata due volte da un topolino caricato a molla, piagnucolava davanti alla credenza e si beveva dello sciroppo di sambuco. Il cane vomitava. Zia Dosie doveva prendersi tre aspirine, ma Zia Hannah, che amava il porto, se ne stava in piedi, in mezzo al giardino ricoperto di neve dietro casa, a cantare come un tordo da petto gonfio. Io soffiavo nei palloncini per vedere quanto diventassero grossi e quando sarebbero scoppiati, e scoppiavano tutti, gli Zii saltavano sulle sedie rumoreggiando. Nel pomeriggio ricco e greve, con gli Zii che respiravano come delfini e la neve che cadeva, io sedevo sotto i festoni ornamentali e le lampade cinesi mangiucchiando datteri e cercando di costruire una nave da

guerra secondo le istruzioni del Piccolo ingegnere, per finire col creare quello che poteva essere preso per un tram acquatico. Oppure uscivo, gli stivali lucidi e nuovi che scricchiolavano, nel mondo bianco, verso la collina che dà sul mare, a cercare Jim e Dan e Jack per camminare senza far rumore per strade silenziose, lasciando enormi, profonde impronte sui marciapiedi nascosti. – Scommetto che la gente penserà che sono passati gli ippopotami. – Cosa faresti se vedessi un ippopotamo che viene giú per la nostra strada? – Farei Bang! Lo scaraventerei al di là della ringhiera e lo farei rotolare giú per la collina, poi gli farei il solletico dietro l’orecchio e lui scodinzolerebbe. – Cosa faresti se vedessi due ippopotami? Mugghianti e coi fianchi di ferro, ippopotami-maschio, galoppando, caricavano nella neve portata dal vento verso di noi mentre passavamo davanti alla casa del signor Daniel. – Perché non imbuchiamo una palla di neve nella cassetta delle lettere del signor Daniel? – Perché non scriviamo sulla neve? – Perché non scriviamo, «Il signor Daniel assomiglia a un cocker spaniel» sul suo prato? Oppure camminavamo sulla spiaggia bianca: – Secondo te i pesci vedono che sta nevicando? Il cielo silenzioso fatto di una sola grande nuvola si muoveva verso il mare. Ora eravamo viaggiatori accecati dalla neve e persi tra le colline del nord e immensi cani ricoperti di brina, con fiaschette legate attorno al collo, si trascinavano lentamente verso di noi latrando. Tornavamo a casa passando per strade povere dove solo alcuni bambini giocavano con dita rosse, senza guanti, nella neve solcata dalle gomme delle automobili e ci facevano il verso. Le loro voci si facevano sempre piú deboli man mano che camminavamo faticosamente in salita, verso le strida degli uccelli del porto e le sirene delle navi nella baia turbinante. E poi, al tè, gli Zii che si erano ripresi, erano tutti allegri; e la torta glassata incombeva al centro della tavola come una tomba di

marmo. Zia Hannah correggeva il suo tè col rum, perché tanto lo faceva una sola volta all’anno. Racconta un po’ tutte le sbruffonate che ci dicevamo davanti al fuoco mentre le lampade a gas facevano bolle come i palombari. Fantasmi facevano il verso dei gufi in quelle lunghe notti quando io non osavo guardarmi dietro le spalle; animali stavano acquattati nello sgabuzzino sotto le scale dove ticchettava il contatore del gas. E ricordo che una sera andammo a cantare carole, una sera quando in cielo non c’era nemmeno un’unghia di luna che illuminasse le strade ventose. In fondo a una lunga strada c’era un vialetto che portava a una grande casa e ognuno di noi, spaventato, risaliva incespicando il buio di quel vialetto, ognuno di noi con un sasso in mano, non si sa mai... ma tutti noi troppo orgogliosi per aprire bocca. Il vento tra gli alberi faceva rumori come di vecchi uomini sgradevoli e forse coi piedi palmati che ansimassero in una caverna. Raggiungemmo il volume nero della casa. – Cosa gli propiniamo? Ecco l’Araldo del Signore? – No, – disse Jack. – Il buon re Venceslao. Conto fino a tre. Uno, due, tre e attaccammo a cantare, le voci alte e apparentemente distanti nel buio reso come feltro dalla neve lí attorno a quella casa abitata non sapevamo da chi. Stavamo stretti gli uni agli altri davanti alla porta scura. Il giorno di Santo Stefano Il buon re Venceslao guardava... E poi una vocina secca e debole, come la voce di qualcuno che non parlasse da tempo, si uní alle nostre: una vocina secca e piccola, la vocina di un guscio d’uovo al di là del portone: una vocina secca e piccola che veniva dalla serratura. E quando smettemmo di correre ci trovavamo davanti alla nostra casa; l’ingresso era bellissimo; i palloncini fluttuavano sotto le lampade a gas che gorgogliavano come borse dell’acqua calda; tutto era di nuovo buono e risplendeva sulla città. – Forse era un fantasma, – disse Jim. – Forse erano degli gnomi, – disse Dan che leggeva molto. – Entriamo a vedere se è avanzata della gelatina, – disse Jack. E cosí

facemmo. Sempre, la sera di Natale, si faceva musica. Uno zio suonava il violino, un cugino cantava Matura come una ciliegia, e un altro zio cantava Il tamburo di Drake. Faceva molto caldo nella casetta. Zia Hannah, che si era buttata sul vino di pastinaca, cantava una canzone che parlava di morte e di cuori sanguinanti, e poi un’altra dove diceva che il suo cuore era come il nido di un uccello; e poi tutti ridevano di nuovo; e poi io andavo a letto. Guardando dalla finestra della mia stanza la luce della luna e l’infinita neve color fumo, potevo scorgere le finestre illuminate di tutte le altre case della nostra collina e sentivo la musica che da esse saliva verso la lunga notte che scendeva. Abbassavo la lampada a gas, entravo nel letto, dicevo delle parole al buio intimo e santo, e poi dormivo.

Washington Irving La vigilia di Natale

Saint Francis and Saint Benedight, Blesse this house from wicked wight; From the night-mare and the goblin, That is hight good fellow Robin; Keep it from all evil spirits, Fairies, weezels, rats, and ferrets: From curfew time To the next prime. CARTWRIGHT

Era una splendida notte di luna, ma estremamente fredda; il nostro calesse correva sul terreno gelato con la velocità d’un turbine; il cocchiere faceva schioccare incessantemente la frusta spingendo i cavalli quasi di continuo al galoppo. – Sa dove va, – disse ridendo il mio compagno, – ed è impaziente di giungere in tempo per partecipare all’allegria e alla mensa della servitú. Dovete sapere che mio padre è un fanatico seguace della vecchia scuola, e si fa un vanto di tener viva per quanto è possibile la vecchia ospitalità inglese. In breve, è un discreto esemplare di quello che al giorno d’oggi incontrerete ben di rado allo stato genuino – il vecchio gentiluomo di campagna inglese – perché ormai i proprietari trascorrono gran parte del loro tempo in città, e gli usi urbani sono talmente penetrati dovunque che le particolarità veramente signorili dell’antica vita rurale sono state cancellate quasi del tutto.

Comunque mio padre, fin dagli anni della gioventú, prese quale libro di testo il degno Peacham1 invece del Chesterfield, e venne nella determinazione che non vi fosse condizione piú invidiabile e onorevole di quella di un gentiluomo nelle tenute paterne, sí che da allora passò tutto il suo tempo nelle sue proprietà. È uno strenuo propugnatore del ripristino dei vecchi giochi rurali e dell’osservanza delle pratiche dei giorni festivi, e un appassionato lettore degli scrittori antichi e moderni che hanno dissertato su questo argomento. Veramente il suo campo di lettura favorito è quello degli autori che fiorirono almeno due secoli fa; anzi, insiste nel dire che pensavano e scrivevano da veri inglesi, piú di qualsiasi dei loro successori. Talvolta rimpiange perfino di non essere nato qualche secolo prima, allorché l’Inghilterra era veramente se stessa: e manteneva usi e costumi suoi particolari. Poiché abita in una parte piuttosto isolata della campagna, a una certa distanza dalla strada maestra, gode di quella che per un inglese è la piú invidiabile di tutte le benedizioni: la possibilità di indulgere, senza molestie, alle tendenze del proprio temperamento. Poiché è il rappresentante della piú antica famiglia dei dintorni, e la maggior parte dei contadini sono suoi affittuari, è tenuto in grande considerazione e tutti lo conoscono semplicemente come «lo Squire», titolo accordato da tempo immemorabile al capo della casata. Penso che sia bene darvi questi ragguagli sul conto del mio degno genitore per prepararvi a certe piccole eccentricità che, altrimenti, vi sembrerebbero assurde. Da qualche tempo correvamo lungo il muro di cinta d’un parco, e finalmente la carrozza si fermò dinanzi a un magnifico cancello in stile antico, massiccio, formato da sbarre di ferro foggiate in punta, con artistica fantasia, a fiori e arabeschi. Gli enormi pilastri quadrati che lo sostenevano erano sormontati dallo stemma di famiglia. Vi sorgeva accosto la casa del portiere, annidata sotto ombrosi alberi di pino, quasi sepolta tra gli arbusti. Il cocchiere tirò la grossa campana della portineria, che risuonò nell’aria gelida e silenziosa, e a cui fece riscontro da lontano l’abbaiare della guarnigione di cani che vigilavano sul maniero. Immediatamente una donna accorse al cancello. Poi che la luce della luna la illuminava in pieno, vidi

chiaramente una vecchietta all’antica, vestita alla foggia delle nostre nonne, con un lindo fazzoletto e una pettorina, e i capelli d’argento che spuntavano sotto una cuffia candida come la neve. Ci venne incontro tutta sorrisi e riverenze ed espressioni d’ingenuo piacere alla vista del giovane padrone. Suo marito era al castello per trascorrervi la vigilia di Natale nella stanza da pranzo dei domestici; i quali, a quanto pareva, non potevano fare a meno di lui perché era il piú abile di tutti a intonare una canzone o narrare una storia. Il mio amico propose di scendere e di camminare a piedi attraverso il parco fino al castello che si ergeva non molto distante, lasciando proseguire la carrozza. La nostra strada si apriva in un maestoso viale alberato. La luna, veleggiando nella volta profonda di un cielo senza nubi, scintillava sui rami spogli. I prati erano ricoperti da un leggero strato di neve che brillava qua e là ai raggi della luna, e in lontananza, un lieve vapore trasparente strisciava furtivo dalla valle, minacciando di avvolgere a poco a poco tutto il paesaggio. Il mio compagno si guardò attorno con trasporto. – Quante volte, – mi disse, – mi sono precipitato di corsa per questo viale, tornando a casa per le vacanze scolastiche! Quante volte ho giocato sotto questi alberi, quando ero ragazzo! Provo per loro una specie di affetto filiale, come per tutti coloro che ci hanno protetti e vezzeggiati nell’infanzia. Mio padre era sempre molto scrupoloso a proposito delle nostre vacanze, e ci voleva tutti attorno a sé nelle feste di famiglia. Era solito sovrintendere ai nostri giochi con lo stesso zelo con cui certi genitori si dedicano a dirigere gli studi dei loro figlioli. Era suo vivo desiderio che giocassimo ai vecchi giochi inglesi tradizionali, e nella loro forma originale, e per ogni «allegro passatempo» consultava vecchi libri che ne garantivano l’antichità; e tuttavia vi assicuro che non vi fu mai pedanteria piú deliziosa. Il bravuomo mirava a far sí che i suoi figli considerassero la loro casa come il luogo piú felice del mondo; e ritengo che questo delizioso amore del focolare domestico sia uno dei doni piú preziosi che un genitore possa elargire. Fummo interrotti dal clamore di una muta di cani di ogni tipo e dimensione, «bastardi, cuccioli, segugi e cagnolini di nessun pregio», che, disturbati dal suono della campana e dal rumore della carrozza, giungevano a

balzi attraverso il prato, abbaiando tutti insieme. ... The little dogs and all, Tray, Blanch and Sweetheart, see, they bark at me!, gridò Bracebridge ridendo. Al suono della sua voce l’abbaiare dei cani si mutò in un latrato di gioia, e, in un attimo, egli fu circondato e quasi sopraffatto dalle dimostrazioni d’affetto dei fedeli animali. Intanto eravamo giunti in vista del vecchio maniero avito, in parte avvolto da tenebre profonde, in parte illuminato dal freddo splendore della luna. Era una costruzione irregolare, d’una certa imponenza, e sembrava che la sua architettura appartenesse a periodi diversi. Un’ala era, evidentemente, molto antica, con pesanti bow window sporgenti, muniti di pilastrini di pietra, e ammantati d’edera, tra il cui fogliame i piccoli vetri sfaccettati delle finestre scintillavano ai raggi della luna. Il resto dell’edificio era in stile francese dell’epoca di Carlo II, essendo stato riparato e trasformato, come mi disse il mio amico, da un suo antenato che era tornato in patria con quel monarca al tempo della Restaurazione. I giardini attorno alla casa erano disposti nella vecchia maniera tradizionale, con aiuole coltivate, arbusti ben potati, terrazze soprelevate, e massicce balaustre di pietra, ornate da urne, o da una statua di piombo o da uno zampillo d’acqua. Seppi che il padrone di casa poneva una cura straordinaria nel conservare questo tipo d’eleganza sorpassata, in tutto il suo aspetto originario. Un simile tipo di giardinaggio gli piaceva assai perché aveva un’aria di magnificenza, era solenne e maestoso, e ben si addiceva a un’antica e nobile famiglia. Nel giardino moderno infatti, diceva, la tanto vantata imitazione della natura è sorta con le nuove idee repubblicane, e non si conviene a un governo monarchico: sa di piano livellatore. Non potei fare a meno di sorridere per questa mescolanza di politica e di giardinaggio, ed espressi una certa apprensione per l’intollerante professione di fede del vecchio gentiluomo. Tuttavia Frank m’assicurò che era quella una delle rarissime volte in cui aveva udito suo padre parlare di politica, ed era certissimo che avesse attinto quelle idee da un membro del Parlamento, ospitato una volta colà per qualche settimana. Lo Squire, insomma, si serviva

di qualunque argomento per difendere le sue siepi di tasso, e le sue maestose terrazze, che di tanto in tanto erano attaccate dai giardinieri moderni. Avvicinandoci alla casa udimmo ad una delle estremità dell’edificio un suono di musica misto, di tanto in tanto, a scoppi di risa; Bracebridge disse che doveva provenire dalla stanza da pranzo della servitú dove, durante tutti i dodici giorni di Natale, lo Squire permetteva e, perfino incoraggiava, un bel po’ di baldoria, purché tutto fosse fatto conformemente alle antiche usanze. Qui erano in auge vecchi giochi, il ceppo di Yule1 e le candele di Natale erano regolarmente accese e il vischio dalle bacche bianche appeso alla porta, a pericolo immediato di tutte le graziose cameriere2. La servitú era cosí intenta ai suoi giochi che dovemmo picchiare ripetutamente prima di farci udire. All’annuncio del nostro arrivo, lo Squire venne fuori a riceverci, accompagnato dagli altri due figli: un giovane ufficiale dell’esercito, a casa in licenza, e uno studente di Oxford, appena giunto dall’Università. Lo Squire era un vecchio gentiluomo dall’aspetto sano e vigoroso; i suoi capelli d’argento ondeggiavano intorno a un viso decisamente florido, sul quale un fisonomista che, come me, avesse avuto il vantaggio di previ ragguagli, avrebbe potuto scorgere un singolare miscuglio d’estrosità e di benevolenza. L’incontro fu caldo ed affettuoso; poiché la sera era già assai inoltrata, il padrone di casa non ci permise di cambiare gli abiti da viaggio, ma ci annunciò subito alla compagnia riunita in una grande sala addobbata in stile antico. Era composta dai differenti rami di una numerosa parentela, con la solita proporzione di vecchi zii e zie, signore sposate dall’aria soddisfatta, zitellone fuori corso per limiti d’età, fiorenti cugine di campagna, giovincelli ancora implumi, e scolaretti dagli occhi birbi. Tutti erano occupati in vari modi: alcuni facevano una partita a carte; altri conversavano attorno al caminetto; a una estremità della sala v’era un gruppo di giovani, alcuni quasi adulti, altri appena adolescenti, assorti in un gioco che sembrava assai divertente; cavallucci di legno, trombette da un soldo, bambole a brandelli, sparse sul pavimento a profusione, erano le tracce lasciate da una tribú di

graziose creaturine che, dopo aver giocato beatamente tutto il giorno, erano state portate a dormire pacificamente tutta la notte. Mentre il giovane Bracebridge e i suoi parenti si scambiavano a vicenda saluti e convenevoli, ebbi il tempo di dare un’occhiata in giro nel salone. L’ho chiamato salone perché tale era certo nei tempi passati, e lo Squire, nel restaurarlo, si era sforzato di restituirlo al suo aspetto primitivo. Al disopra di un enorme caminetto sporgente era appeso il ritratto di un guerriero tutt’armato, in piedi accanto al suo cavallo bianco, e sulla parete di fronte erano attaccati un elmo, uno scudo e una lancia. A un’estremità, un enorme paio di corna di cervo erano infisse nel muro, e le sue diramazioni servivano per appendere cappelli, scudisci e pellicce. Negli angoli della sala si ammucchiavano fucili da caccia, canne da pesca ed altri attrezzi sportivi. I mobili erano ingombranti capolavori d’arte d’altri tempi; tuttavia erano stati aggiunti alcuni oggetti di comodità moderna; sul pavimento di quercia era stato steso un tappeto, e, nel complesso, la sala presentava un bizzarro miscuglio di salotto e di sala d’ingresso. La grata dell’immenso caminetto era stata rimossa per far posto ad un fuoco di legna, in mezzo al quale troneggiava un enorme ceppo ardente e fiammeggiante che emetteva una quantità enorme di luce e di calore; capii che quello era il ceppo di Yule, che lo Squire aveva tanto caro d’accendere la vigilia di Natale, secondo l’antica tradizione. Era veramente delizioso vedere il vecchio signore che, seduto nella poltrona di famiglia, presso l’ospitale camino degli avi, girava lo sguardo intorno e, come il sole di un sistema di pianeti, irradiava in ogni cuore calore e felicità. Perfino il cane che giaceva disteso ai suoi piedi, di tanto in tanto, mutando pigramente di posizione e sbadigliando, guardava affettuosamente in viso il vecchio padrone, agitava la coda sul pavimento, e si allungava di nuovo a dormire, fiducioso nella benevolenza e protezione godute. Vi è, nella schietta ospitalità, un’intima irradiazione dal cuore che non si può descrivere, ma che si avverte immediatamente, e mette subito l’estraneo a suo agio. Non erano trascorsi che pochi minuti da quando mi ero seduto presso il caminetto del vecchio gentiluomo, e già mi sentivo di casa come se fossi appartenuto alla

famiglia. Poco dopo il nostro arrivo fu annunciato il pranzo, e servito in una sala spaziosa, alle cui pareti, rivestite di pannelli di quercia, accuratamente lucidati a cera, erano appesi diversi ritratti di antenati, adorni d’edera e di agrifoglio. Oltre alle solite lampade, due grandi ceri detti «candele di Natale», anch’essi adorni di ramoscelli verdi, erano stati deposti su una lucidissima credenza fra il vasellame di famiglia. La tavola era sovraccarica di cibi sani e gustosi, ma lo Squire cenò soltanto con una scodella di focacce di grano bollite nel latte con l’aggiunta di ricchi aromi, essendo questo un piatto di prammatica, nei tempi andati, la vigilia di Natale. Proseguendo nel banchetto, fui felice di ritrovarvi una mia vecchia ma sempre gradita conoscenza, la torta di frutta, e, venendo a sapere che era una vivanda perfettamente ortodossa e che non avevo alcun motivo di vergognarmi per questa mia spiccata preferenza, le feci festa con tutto quel calore con cui salutiamo di solito un’antica e cara amicizia. L’allegria della comitiva era provocata in gran parte dalle trovate di un eccentrico personaggio, al quale il signor Bracebridge si rivolgeva sempre con lo strano appellativo di signorino Simon. Era questi un ometto arzillo, azzimato, dall’aria di vecchio scapolo impenitente. Aveva il naso a becco di pappagallo, il viso leggermente butterato dal vaiolo e d’un colorito cosí vivo da sembrare una foglia d’autunno morsa dal gelo, l’occhio acuto e vivace, in cui si appiattava un’espressione di comicità e di furberia addirittura irresistibile. Evidentemente, era il bello spirito della famiglia: tempestava le signore di maliziose allusioni e insinuazioni, e battendo sempre su vecchi tasti suscitava un mondo di risate: purtroppo la mia ignoranza delle vicende del parentado non mi permise di apprezzarne l’arguzia. Durante il pranzo, parve deliziarsi a mandare a male dalle risate una giovinetta che gli sedeva accanto, a dispetto del timore che suscitavano in lei le occhiatacce che le lanciava la genitrice, seduta proprio di fronte. Per di piú, era l’idolo dei giovanissimi della comitiva, che ridevano di tutto ciò che diceva o faceva, e d’ogni suo mutar d’espressione. E non me ne feci meraviglia, perché agli occhi loro doveva essere un prodigio di sapienza. Sapeva imitare Punch e Judi, con l’aiuto di un fazzoletto e di un turacciolo bruciato sapeva fare della propria

mano una vecchierella, riusciva a intagliare in un’arancia una caricatura talmente ridicola che i ragazzi sembravano lí lí per morire dalle risa. La sua storia mi fu raccontata brevemente da Frank Bracebridge. Era un vecchio scapolo, con una piccola rendita personale che, amministrata con prudenza, era sufficiente a tutti i suoi bisogni. Roteava nel sistema familiare come una vagabonda cometa nella propria orbita; facendo ora visita a un ramo prossimo della famiglia, ora a un altro assolutamente remoto, come spesso fanno, in Inghilterra, i gentiluomini che posseggono una vasta parentela e un piccolo patrimonio. Aveva un carattere vivace e bonario, sempre pronto a godere del momento presente; i suoi frequenti cambiamenti di luogo e di compagnia gl’impedivano di arrugginire in quelle abitudini intolleranti che, con sí poca carità, si addebitano agli scapoloni. Era il gazzettino ambulante della famiglia e conosceva a fondo la genealogia, la storia, e tutti i matrimoni avvenuti tra i diversi componenti dell’intero casato dei Bracebridge, il che lo rendeva il beniamino dei piú anziani. Era il cavalier servente delle signore mature e delle zitelle giubilate, le quali generalmente lo consideravano un giovanotto, e maestro di baldorie tra i bambini; cosí che non vi era essere piú popolare del signor Simon Bracebridge nella cerchia in cui si muoveva. Negli ultimi anni era vissuto quasi sempre con lo Squire, di cui era diventato il factotum; sempre pronto, per fargli piacere, a battersi a favore dei vecchi tempi e a cavar fuori una strofetta di qualche vecchia canzone adatta a qualunque circostanza. Di questo suo particolare talento avemmo un saggio di lí a poco, perché non appena terminata la cena e serviti che furono i vini aromatici ed altre bevande tipiche della stagione, tutti si rivolsero al signorino Simon per una ballata di Natale. Egli rifletté un momento e poi, con un lampo negli occhi e una voce che non era affatto brutta, ma che, di tanto in tanto, terminava in falsetto, come le note di una zampogna fessa, diè inizio a una buffa canzoncina: Now, Christmas is come: Let us beat up the drum, And call all our neighbours together; And when they appear,

Let us make them such cheer, As will keep out the wind and the weather, ecc. Il pranzo aveva predisposto ognuno all’allegria: si fece venire dalla sala della servitú un vecchio suonatore di arpa, che già aveva strimpellato tutta la sera il suo strumento, e, a giudicare dalle apparenze, aveva cercato conforto nella birra di produzione propria dello Squire. Venni a sapere che era una specie di parassita del castello, e che, quantunque ostentasse di risiedere al villaggio, era piú facile trovarlo nella cucina dei Bracebridge che in casa propria, dato che al vecchio gentiluomo piaceva immensamente il suono «dell’arpa nel salone». Il ballo, come tutti i balli dopo cena, fu animato; vi presero parte anche alcuni degli anziani, e lo Squire in persona fece coppia diverse volte con una dama che, come affermò lui stesso, da circa mezzo secolo, a Natale, gli era compagna nella danza. Il signorino Simon, che sembrava fungere da anello di collegamento tra i tempi antichi ed i moderni ed era un pochino antiquato nella compitezza delle maniere, si piccava evidentemente di danzare a perfezione, e cercava di farsi onore lavorando di punta e di tacco, ballando il rigadoon ed altre raffinatezze di antica scuola; disgraziatamente la sua dama era una monella di collegiale che, con la sua sfrenata vivacità, lo costringeva ad uno sforzo continuo, rendendo del tutto nulli i suoi sobri tentativi di eleganza: tale è il destino delle coppie male assortite che i vecchi gentiluomini sono disgraziatamente cosí propensi a formare! Il giovane studente di Oxford, invece, faceva da cavaliere a una zia nubile, alla quale il briccone giocava impunemente un’infinità di piccole birbanterie; egli aveva un intero repertorio di scherzi e tormentar zie e cugine era la sua gioia; e tuttavia, come ogni giovane caposcarico, era universalmente il beniamino delle signore. La coppia piú interessante era quella formata dal giovane ufficiale e da una pupilla dello Squire, una bellissima e timida fanciulla di diciassette anni. Da molte occhiate furtive che avevo notate nel corso della serata, già sospettavo che tra loro vi fosse del tenero, e, a dire la verità, il giovane soldato era proprio l’eroe adatto per conquistare il cuore di

una fanciulla romantica. Era un bel giovane, alto, snello, e, come molti ufficialetti inglesi, aveva appreso sul Continente una quantità di piccole raffinatezze: parlava francese e italiano, disegnava paesaggi, cantava bene, ballava divinamente, ma, soprattutto, era stato ferito alla battaglia di Waterloo. Quale diciassettenne, appassionata lettrice di poesie e di romanzi, potrebbe resistere a un simile specchio di cavalleria e di perfezione? Allorché la danza fu terminata, egli afferrò una chitarra e, appoggiandosi al marmo del vecchio camino, in un atteggiamento che sono alquanto propenso a ritenere studiato, cominciò a cantare un’arietta di un trovatore francese. Lo Squire, tuttavia, protestò che alla vigilia di Natale non dovevano cantarsi altro che le vecchie e belle canzoni inglesi: allora il giovane menestrello, levando gli occhi al cielo come in uno sforzo mnemonico, trasse un altro accordo, e, con aria di affascinante galanteria, cantò la Serenata a Giulia di Herrick. Her eyes the glow-worm lend thee The shooting stars attend thee, And the elves also, Whose little eyes glow

Like the sparks of fire befriend thee. No Will o’ th’ Wisp mislight thee; Nor snake nor slow-worm bite thee; But on, on thy way, Not making a stay,

Since ghost there is none to affright thee. Then let not the dark thee cumber; What though the moon does slumber, The stars of the night Will lend thee their light,

Like tapers clear without number. Then, Julia, let me woo thee, Thus, thus, to come unto me; And when I shall meet Thy silvery feet,

My soul I’ll pour into thee.

La canzone poteva e non poteva essere intesa come un complimento alla bella Giulia, perché, come scoprii, cosí si chiamava la sua compagna di danza; tuttavia essa era certamente all’oscuro della possibilità di tale interpretazione, perché non guardò mai il cantore, ma tenne gli occhi ostinatamente fissi sul pavimento. È vero che il suo viso era soffuso di un dolce rossore, e il seno le ansava leggermente, ma questo era dovuto, senza dubbio, all’esercizio della danza. Anzi, la sua indifferenza era cosí grande che ella si divertiva a sfogliare un elegante mazzolino di fiori di serra, e, allorché la canzone fu terminata, il mazzolino giaceva distrutto sul pavimento. Infine la compagnia si sciolse per andare a dormire, con la vecchia e cordiale usanza della stretta di mano. Quando riattraversai il salone, diretto alla mia camera, i tizzoni languenti del ceppo di Natale emettevano ancora un fioco bagliore; e se non fosse stato il periodo in cui «nessuno spirito osa mostrarsi», avrei ceduto alla tentazione di uscir furtivamente dalla mia camera, a mezzanotte, per spiare se mai le fate non tenessero le loro feste attorno al focolare. La mia camera era situata nell’ala vecchia del maniero, ed i suoi mobili sembravano esser stati fabbricati all’epoca dei giganti. Le pareti della stanza erano rivestite di pannelli con cornici intagliate a mano, dove fiori e facce grottesche erano stranamente mescolati. Dalle pareti, una fila di ritratti dall’aria tetra mi fissavano lugubremente. Il letto, con un maestoso baldacchino, era in ricco damasco, un poco stinto, e collocato in una nicchia, di fronte a un balconcino. Mi ero appena messo a letto, che un’onda di musica si alzò in aria, proprio sotto la mia finestra. Ascoltai, e scoprii che proveniva da un’orchestrina, e conclusi che doveva trattarsi di musicanti girovaghi provenienti da qualche villaggio dei dintorni. Fecero il giro della casa, suonando sotto tutte le finestre. Scostai le cortine per sentir meglio. I raggi della luna filtravano attraverso il lato piú alto dell’intelaiatura della finestra, illuminando in parte l’antica stanza. Man mano che i suonatori si allontanavano, i suoni divenivano piú dolci e piú lievi, e sembravano armonizzare con la quiete e il chiarore lunare. Ascoltai ed ascoltai; li udii diventare sempre piú dolci e lontani, e, mentre si spegnevano a poco a poco,

la testa mi cadde sul guanciale e mi addormentai. 1 Honest Peacham, Il perfetto gentiluomo, 1622 [N. d. A.]. 1 Il ceppo di Yule era un grosso tronco d’albero, talvolta la radice, che, alla vigilia di Natale, si portava con grande cerimonia nelle case, si poneva nel fuoco e si accendeva con un tizzone del ceppo dell’anno precedente. Finché durava il suo fuoco, si beveva, si cantava, si narravano storie. Talvolta vi erano anche le candele di Natale; ma nelle casette semplici l’unica luce era quella proveniente dalla fiamma divampante del gran fuoco a legna. Il ceppo di Yule doveva bruciare tutta la notte; se si spegneva, era considerato un segno di malaugurio. Herrick ne parla in una delle sue tante canzoni: «Come, bring with a noise, | My merrie, merrie boyes, | The Christmas Log to the firing; | While my good dame, she | Bids ye all be free, | And drink to your hearts desiring». Il ceppo di Yule si brucia tuttora in molte fattorie e cucine, particolarmente nell’Inghilterra del Nord, e vi sono diverse superstizioni connesse a questa cerimonia, tra la gente di campagna. Se mentre sta bruciando giunge nella casa una persona strabica o scalza, è considerato un cattivo presagio. Il tizzone che rimane del ceppo di Yule viene accuratamente messo da parte per accendere il fuoco del Natale l’anno successivo [N. d. A.]. 2 Il vischio viene appeso tuttora nelle fattorie e nelle cucine, a Natale, e sotto di esso i giovanotti godono del privilegio di poter baciare le ragazze, cogliendo ogni volta una bacca. Allorché tutte le bacche sono colte, il privilegio cessa [N. d. A.].

Gianni Rodari All’ombra di un albero di Natale

Gentilissima signora direttrice, non so se il suo giornale usa pubblicare opere di gatti. In ogni caso, spero che farà eccezione per il presente racconto, perché esso è stato scritto da un gatto di buona, anzi di ottima famiglia. Può chiedere referenze sul mio conto al professor Guido Guidolotti, in casa del quale sono nato due anni or sono, o addirittura al professor Giovanni Maria Martini, noto insegnante di matematica al Liceo Civico, in casa del quale abito attualmente, su una poltrona del tinello che ho scelto per mio domicilio. Non sono un gatto di molte parole e di molti miagolii. Entrerò dunque senz’altro in argomento. L’argomento riguarda, per cominciare, un bisticcio tra i due figli minori del professor Martini: il nominato Antonio Martini, di anni 13, e il nominato Gian Luigi Martini, di anni 8. Dei figli maggiori non mi occupo: essi, dal canto loro, non si occupano mai di me, né per tirarmi la coda né per costringermi a fare difficili esercizi ginnastici, come dare la zampa, star ritto sulle gambe posteriori e simili. Tutte cose che formano invece i miei rapporti quotidiani con i nominati Antonio e Gian Luigi Martini: cose che io tollero perché so che con i ragazzi bisogna avere pazienza. Una sera dei primi di dicembre mi ero da poco appisolato sulla poltrona quando un acuto contrastare di voci mi costrinse a riaprire gli occhi. – Non farò il presepio, no, no, e poi no! – gridava Antonio, agitando un dito sotto il naso del fratello. – Ne ho già fatti una decina in vita mia, ed è sempre la stessa storia. Voglio farmi un albero di Natale, alto fino al soffitto, con cento lampadine almeno, e con una stella a luce intermittente. Lo sai

cos’è la luce intermittente? Lo sai? – La luce «interitente» non mi interessa, – dichiarava Gian Luigi, – puoi metterla al naso e nelle orecchie. E se voglio delle piante vado ai giardini pubblici. Ce ne sono di bellissime. Io ho detto che farò il presepio e non sarai tu a farmi cambiare idea. Tra l’altro non sai nemmeno che l’albero di Natale è un’usanza nordista: lo ha detto la mia maestra. (Immagino, signora direttrice, che il piccolo Gian Luigi avesse tutte le intenzioni di dire «nordica»: egli ha usato distrattamente il termine «nordista» imparato al cinematografo. La prego di perdonarlo e di leggere avanti). – Il presepio è una cosa da bambini, come la favola di Cappuccetto Rosso, – sentenziò il «nordista». – Cappuccetto Rosso sarai tu, – fu la risposta. L’allusione ai capelli rossicci del nominato Antonio era cosí evidente che sentii odore di zuffa. Per fortuna, a questo punto il professor Martini abbassò il giornale dietro il quale si era trincerato, si tolse gli occhiali e si schiarí la voce. – Hm, hm, – fece. Quando il professor Martini fa «hm, hm», non è come quando lo fa qualsiasi altra persona. Tutti possiamo fare «hm, hm», anche noi gatti: ma non a quel modo. Sembrano due colpi di pistola sparati per un segnale. A quel segnale tra le quattro pareti del tinello si crea il perfetto silenzio, ed io posso udire il fruscio della mia coda che si rizza per lo spavento. – Una discussione inutile, – disse invece dolcemente il professor Martini. Con nostra sorpresa egli fissò per qualche istante i suoi due figlioli, e chiuse l’astuccio degli occhiali. Indi si alzò, spinse la sedia sotto il tavolo e concluse: – Non c’è bisogno di litigare. Antonio farà l’albero di Natale e Gian Luigi farà il presepio. Cosí sarete contenti tutti e due. La casa è grande per fortuna. C’è posto per tutti, fin che non ce ne dovremo andare. (Scusi se intervengo di nuovo, signora direttrice: devo informarla che il professor Martini è in causa col padrone di casa che lo vuol sfrattare, per affittare l’appartamento a un prezzo piú conveniente).

– Avremo un Natale doppio, – disse ancora il professor Martini. E senz’altro si diresse verso il suo studio per correggere i compiti di classe, non prima di aver gettato là un – Tu che ne dici, Palletta? (Palletta sarei io: la famiglia Martini si ostina a credere che quello sia il mio nome. Invece non lo è affatto. Non ho alcun nome e non ci tengo ad averne: un nome, capirà, poi magari anche una cartellina delle tasse! Grazie tante, preferisco vivere in incognito. La cosa del resto non ha importanza: mi chiamino come vogliono, io non rispondo mai alle loro domande). Non risposi nemmeno al professore. Non starò a descriverle, signora direttrice, il giubilo che la decisione paterna sollevò nei due piú volte nominati giovanotti: per l’entusiasmo essi si saltarono al collo, dimenticando che erano stati lí per lí per ficcarsi le dita negli occhi. Io pure dovetti partecipare alla festa e fui portato in trionfo da Antonio, come se il merito fosse stato mio; passai quindi alle braccia di Gian Luigi che mi gridava nelle orecchie: – Palletta! Abbiamo vinto, hai sentito? Abbiamo vinto tutti e due. Secondo me si trattava piuttosto di un match pari, ma è noto che non ho l’abitudine di comunicare le mie opinioni al prossimo. Nei giorni successivi mi toccò spesso di passare dalle braccia dell’uno a quelle dell’altro. A turno i due ragazzi si ostinavano a farmi ammirare il loro lavoro natalizio. – Palletta, – mi diceva Gian Luigi mostrandomi il tavolino su cui aveva costruito le sue montagne di cartapesta, – quella è la grotta, la vedi? Ma non là, là c’è la bottega del fornaio: i pastori che vanno a trovare Gesú hanno viaggiato tutta la notte ed hanno fame, perciò occorre un fornaio. Per i piú ricchi c’è anche l’osteria, con il pollo di gesso sul tavolo. Per i piú poveri c’è la vecchia delle ricotte, il caldarrostaio, il venditore di lupini... Vedi le pecorine? Sono piú grandi di te, lo sai? Tu avresti paura se te ne capitasse una davanti. (Tra parentesi, a me le pecore non hanno mai fatto paura, figuriamoci se mi potevano impressionare quelle lí: con una zampata ne avrei sbranate una decina). – Quelli laggiú, sulla collinetta, un po’ in cima, – proseguiva Gian Luigi, –

sono i Re Magi che vengono dall’Oriente. Vedi che bei cammelli? Ti piacerebbe andare sul cammello? A me sí. Vorrei attraversare il deserto, dormire sotto la tenda con i beduini... Cosí a Gian Luigi piaceva fantasticare davanti alle sue statuine. Spesso cambiava di posto ai pastori rimproverandoli gentilmente: – Tu lo hai già visto bene. Adesso lascia venire davanti quest’altro. Ogni giorno faceva fare qualche passettino ai cammelli dei Re Magi. E ogni giorno portava a casa delle novità: del muschio per i prati, della bambagia per fare la neve, perfino la statuina di un cow-boy a cavallo che sollevò le critiche di Antonio. – A quei tempi, – diceva, – i cow-boy non erano ancora inventati. – Un apparecchio a reazione sull’albero di Natale, – ribatteva Gian Luigi, – ci sta peggio che un cow-boy nel presepio. Antonio mi strappava dalle braccia del fratello e mi portava davanti al suo capolavoro, nell’angolo opposto del salotto: – Palletta, sta male quell’apparecchio sull’albero? Ci stava male? Non so. L’albero, in generale, offriva uno spettacolo abbastanza strano: ci avevano fatto il nido, per cosí dire, centinaia di oggetti luccicanti, quali sarebbero palline e palloni, stelline e stellone e in tutto quel bazar spiccavano sagome di modernissimi aeroplani a reazione e addirittura un razzo per il volo interplanetario. Devo infatti comunicarle che Antonio aspira con tutte le sue forze a far parte dell’equipaggio che compirà il primo volo dalla terra alla luna. (Tanti auguri!) Avrei molto apprezzato di essere lasciato in pace sulla mia poltrona, ma, mio malgrado, ero ogni giorno di piú coinvolto in quella guerra fratricida. Una mattina, però, destandomi da un breve pisolino, vidi i due fratelli seduti con aria meditabonda uno accanto all’altro, quasi abbracciati. Erano soli in casa, e l’occasione sarebbe stata propizia per guerreggiare senza essere disturbati da noiosi testimoni. Che cosa avevano mai da dirsi di cosí importante? Decisi di ascoltare attentamente. – Il babbo non deve sapere nulla, – esclamava Antonio, soffocando la voce. – Ha già troppi pensieri.

– Ma è pericoloso! – ribatteva Gian Luigi. – Dobbiamo avvertirlo per forza. O almeno dobbiamo avvertire la mamma. – Già – replicava il maggiore – questa idea te la raccomando proprio. Si metterebbe a piangere e complicherebbe le cose. – E se davvero gli sparano, al babbo? Il verbo «sparare» mi convinse che era necessario saperne di piú. Non volendo disturbare i ragazzi con le mie domande (non faccio mai domande a nessuno, lei lo sa bene) balzai sul tavolo e mi avvicinai silenziosamente. Sul tappeto stava un biglietto spiegazzato, coperto di grossi caratteri a stampatello. So leggere, per fortuna. Non per niente sono un gatto cresciuto in casa di gente istruita. Ed ecco che cosa diceva il biglietto: «Professore, attenzione! Certi quattro sulla pagella del trimestre sarà bene che non li scriva. Altrimenti PIOMBO!!!» Lei forse stupirà, signora direttrice, che io abbia potuto credere anche per un solo momento alla serietà di quella minaccia. Ma, di questi tempi, non sono cose da prendere sotto gamba. Si sono visti ragazzi sparare ai loro professori per un brutto voto. I giornali ne hanno parlato ed io qualche volta leggo anche i giornali. In casa si era parlato di quei brutti episodi. I ragazzi apparivano impressionati. – Nessuno deve sapere di questo biglietto, – dichiarò Antonio. – Non solo. Ma da domani dovremo fare in modo di arrivare sempre per primi ad aprire la cassetta delle lettere. Il babbo è in pericolo, ma ha bisogno di tranquillità. Penseremo noi a proteggerlo. – Ma come? – domandò flebilmente Gian Luigi. Quella sera il professore Martini notò con meraviglia certe strane manovre dei suoi figlioli. Gli giravano attorno senza perderlo di vista un minuto, scambiandosi occhiate piene di significato: Gian Luigi gli si andò perfino a sedere sulle ginocchia, cosa che non faceva da un paio di anni almeno. – Niente guerra, stasera? – domandò sorridendo il professore. Antonio ebbe la prontezza di mettersi a vantare il suo albero, come al

solito. Gian Luigi rispose debolmente, e corse ad abbeverare un gregge di pecore in uno specchio: ma io vidi benissimo la lagrima che gli cadeva dagli occhi e andava a spiaccicarsi sulla superficie liscia e brillante del finto laghetto. Nei giorni seguenti osservai con una certa ansia i movimenti dei ragazzi. Essi si alzavano prestissimo. Forse dormivano a turno, forse si facevano chiamare di nascosto dalla domestica, con il pretesto dei compiti. Di solito mi svegliavo nel momento in cui Antonio o Gian Luigi rientravano dopo l’ispezione alla cassetta della posta. In due occasioni li vidi mostrarsi, in gran segreto, lettere simili alla prima. Udivo i loro discorsi, sempre piú circospetti. – Ma non facciamo nessun passo avanti! – si lagnava Gian Luigi. Il piccino era ogni giorno piú pallido e nervoso: la signora Martini aveva già cominciato a preoccuparsene, gli toccava la fronte per sentirgli la temperatura, gli guardava la lingua... Il passo in avanti si fece per merito mio. Fu una mattina di domenica, lo ricordo benissimo, e nella cassetta s’era trovata un’altra lettera anonima. Antonio la stava mostrando al fratello quando la porta dello studio si aprí e comparve d’improvviso il professore. Nella fretta di ficcarsi in tasca quella roba, Antonio lasciò cadere la busta. Per fortuna il professore non si accorse di nulla: sulla busta mi ci ero seduto io. Uscito il professore, Antonio mi fece sobbalzare con un grido: – Palletta! Che cosa fai, Palletta? Non facevo proprio nulla di strano: rivoltavo la busta tra le zampe, per semplice curiosità. Ma Antonio era eccitatissimo: – Palletta, sei un asso! Ho capito; sí, sí, bravo, ho capito. – Ma che cosa hai capito? – domandava Gian Luigi ansioso. – Guarda, sulla busta non ci sono francobolli. Io non ci avevo mai fatto caso, ma Palletta lo deve aver notato, e ha fatto il possibile per dirmelo. – Vuol dire che l’assassino porta la lettera lui stesso! – gridò Gian Luigi. – Zitto! – gli impose il fratello. – Vuoi che lo sappiano tutti? Ora è chiaro quello che dobbiamo fare. Sorprendere l’assassino e catturarlo. Un’impresa rischiosa, signora direttrice: ma non era il caso di scoraggiare

quei cari ragazzi. Perciò mi tenni i miei dubbi, accontentandomi di intensificare la sorveglianza. Mi spinsi fino ad origliare alla porta della loro camera da letto. – Domani si espongono i voti, – diceva Antonio, – non lasceremo solo papà nemmeno per un minuto. Per fortuna non c’è scuola: lo seguiremo dappertutto. Un buon progetto, giudicai tra me e me, tornando alla mia poltrona. Ma non avevo ascoltato abbastanza. In piena notte – il pendolo segnava le cinque – i due ragazzi si alzarono senza rumore: al buio scivolarono in anticamera, infilandosi il cappotto sopra il pigiama, uscirono sulle scale. Li precedetti con un balzo. – Dentro! Palletta, torna dentro! – mi ordinò Gian Luigi con un bisbiglio. Ma io già scendevo da un pianerottolo all’altro. Nell’atrio, dietro la gabbia dell’ascensore, c’è un vano stretto ed oscuro, dove il portiere tiene le scope. Fu lí che i ragazzi si appiattarono, tremando di freddo e di paura: di lí si potevano tener d’occhio, alla luce di una debole lampadina, le cassette della posta, allineate sulla parete di fianco al portone. Io mi accoccolai sullo stuoino davanti alla portineria per salvarmi dal gelo delle piastrelle. L’attesa fu lunga. Alle sei il portiere tossicchiò nel suo stanzino, uscí ciabattando nell’atrio e andò ad aprire il portone: a quell’ora alza la saracinesca il bar di fronte, e il portiere non può cominciare le pulizie se prima non ha messo il naso nel profumo del caffè espresso. Il portone rimase aperto e incustodito. La nebbia vi soffiò, gelida e rabbiosa: non potei trattenere un miagolio. Immaginavo quei poveri ragazzi, costretti da un’ora a starsene immobili nel vano, soli col loro freddo e la loro paura. Li immaginavo abbracciati stretti stretti, incapaci di aprire bocca, con gli occhi sbarrati. Avrei voluto chiamarli per nome, signora direttrice, per far loro coraggio: – Antonio! Gian Luigi! Una voce stridula e spaventata scendeva per la tromba delle scale: – Antonio! Gian Luigi!

Riconobbi la voce del professore Martini: doveva aver scoperto l’assenza dei figlioli, chissà quali terribili pensieri gli si agitavano in petto. Ecco il suo passo precipitoso. È stata la porta aperta a guidarlo per le scale: i ragazzi debbono essersi dimenticati di richiudere. È al primo piano, lo sento. Sono balzato sulle mie quattro zampe, in allarme. Che faranno i ragazzi? Usciranno piangendo ad abbracciare il babbo o fuggiranno a perdifiato su per le scale? Il professore è agli ultimi gradini. In quel momento Antonio balza dal suo nascondiglio con un urlo: – Attento, papà! Ti spara! Ti uccide! Un giovinetto è entrato furtivamente nell’atrio, è fermo davanti alla cassetta della posta, con una busta in mano. Vorrebbe voltarsi e scappare, ma Antonio gli si lancia addosso furiosamente e lo getta a terra! Il professore è rimasto immobile un istante: ora corre verso i due che si accapigliano sul pavimento, li separa, li rimette in piedi. Nessuno dei tre apre bocca. Nel silenzio si ode un pianto sommesso, disperato. È Gian Luigi, il coraggio gli è mancato all’ultimo minuto. – Gian Luigi, l’abbiamo preso! – grida Antonio trionfante. – Gian Luigi, dove sei? – chiamò a sua volta il professore – E tu Antonelli, che cosa fai qui? Che cos’è quella busta? Gliela strappò di mano, l’aprí nervosamente, lesse. – Guarda, guarda – disse soltanto – roba da cinematografo. Lo dico sempre che a voi ragazzi dovrebbero proibire di andare al cinema. Su, vieni di sopra. E voi due (anche Gian Luigi era uscito dal nascondiglio, senza asciugarsi le lagrime) su, davanti a me. I tre ragazzi salirono lentamente le scale a testa bassa. Io corsi davanti a loro ad accomodarmi sulla mia poltrona per assistere agli sviluppi della situazione. «Ora viene il bello», dicevo tra me. Il professor Martini, nella vita familiare, è uno specialista della cioccolata. Quella mattina ne preparò una tale quantità che i ragazzi ne dovettero bere tre tazze a testa: e guai a ribellarsi.

Il povero Antonelli non levava il naso dalla tazza. Poteva avere sedici anni, ma quella mattina sono sicuro che avrebbe preferito non averne piú di quattro e trovarsi all’asilo, su un cavallo a dondolo. – E cosí, invece di preparare i compiti preparavi il piombo? Ma bene, ma bene. In pillole o in polvere? – Ma io non... – Si capisce che non volevi sparare. Volevi fare come al cinema. E poi, come sapevi che ti avrei dato quattro in matematica? Infatti te l’ho dato, guarda. Però sono sicuro che puoi arrivare al sette, e forse anche all’otto. Tu non te ne sei accorto, ma hai il bernoccolo della matematica. Spero che te ne accorga abbastanza presto. Prima della fine dell’anno. Lo sai che la matematica era anche la mia bestia nera, da piccolo. Per tre anni di fila ho dovuto fare gli esami di riparazione. Alla fine odiavo tanto la matematica che mi misi a sbranarla addirittura. Ed eccomi professore, di matematica per l’appunto. Il professore continuò per un pezzo a versare cioccolata nelle tazze e a chiacchierare. Aveva proibito alle donne di casa di entrare nella sala e parlava, parlava, parlava. Parlò anche di me, chiamandomi, come al solito, con quel buffo nome che io non accetto: Palletta. Il primo a ridere fu Gian Luigi. Dopo un poco anche Antonio sorrise. Finalmente anche Antonelli alzò il capo: non sorrideva, ma era chiaro che la cioccolata era stata di suo gusto. – Santo cielo, – esclamò il professore, – i tuoi non sanno dove sei. Bisogna avvertirli, che non stiano in pensiero. Ci penso io –. Andò in anticamera a telefonare, lo sentimmo parlare a voce bassa. Antonelli approfittò dell’assenza del professore per guardarsi attorno. Studiò attentamente il presepio, osservò scrupolosamente l’albero di Natale fino all’ultimo ramicello, ma non disse la sua opinione. Gian Luigi si alzò, andò a spostare di un poco i Magi, perché era passato un altro giorno. In quel momento egli fece una terribile scoperta: la presa di corrente era nell’altro angolo del salotto! Cosí Antonio avrebbe potuto accendere la stella sull’albero, e lui non avrebbe potuto illuminare il presepio!

– Si può portare un’altra presa vicino al tavolino, – osservò Antonelli, – oppure mettere una presa doppia all’attacco dell’albero. – Una presa doppia? – domandò Antonio. – Ma sí, costano pochi soldi. Potreste anche avvicinare il presepio all’albero, risparmiereste sul filo. Che idea! Avvicinare il presepio all’albero, dopo tutta la guerra che c’era stata. Invece, con mia grande meraviglia, i tre ragazzi si misero subito al lavoro. Pochi minuti dopo il presepe e l’albero formavano un solo paesaggio, l’albero pareva spuntare dalla collinetta dei Re Magi, ed era cosí grande che i suoi rami coprivano fin l’ultimo cagnolino di gesso, in coda al gregge. Un presepio all’ombra dell’albero di Natale! Il peggio accadde dopo quando, rovistando in certi cassetti, Antonio trovò una presa doppia e Antonelli si mise a trafficare dietro ai fili, con un cacciavite. (Si vede che ha anche il bernoccolo dell’elettricità!) Uno due, tre... Due stelle si accesero contemporaneamente: la cometa del presepio gettò la sua luce rossa sugli apparecchi a reazione; la stella dell’albero palpitò, azzurra e magnifica, come una insegna al neon che si accende e si spegne, e i pastori che guardavano in alto parevano pieni di meraviglia. E il professor Martini? Possibile che una telefonata duri tanto? Macché telefonata: eccolo là che mette il naso dentro la porta e sorride. Il suo sguardo paterno riposa sulle tre teste vicine, arruffate e buone. Io solo mi sono accorto del professore e gli strizzo l’occhio. E lui mi risponde, signora direttrice: il professor Martini che strizza l’occhio al gatto Palletta. Si è mai vista una cosa simile? Mi creda, è la pura verità.

Paul Auster Il racconto di Natale di Auggie Wren

Questa storia me l’ha raccontata Auggie Wren. Ma Auggie, dal momento che non ci fa bella figura – o non bella come vorrebbe – mi ha chiesto di non usare il suo vero nome. A parte questo, tutta la faccenda del portafoglio perduto, della nonna cieca e della cena di Natale è la stessa che mi ha raccontato lui. Auggie e io siamo grandi amici da undici anni. Lui lavora nella vecchia Brooklyn, in una tabaccheria di Court Street dove io vado spesso perché è l’unica tabaccheria che ha i miei sigari preferiti. Per molto tempo non gli ho prestato molta attenzione: per me Auggie Wren era l’omino dalla felpa blu col cappuccio, quello che mi vendeva i sigari e le riviste, l’irriverente e caustico tipetto che aveva sempre la battuta pronta sul tempo, sui Mets e sui politici di Washington. Tutto finiva lí. Ma un giorno di molti anni fa Auggie, sfogliando una rivista in negozio, s’è imbattuto nella recensione di un mio libro e mi ha riconosciuto nella foto che accompagnava l’articolo. Da quel giorno fra noi le cose sono cambiate: per Auggie non ero piú cliente qualunque, ero diventato un personaggio illustre. Molta gente mostra un’indifferenza totale per i libri e gli scrittori, ma Auggie si considera un artista e, una volta scoperto il segreto della mia identità, ha cominciato a trattarmi come un alleato, un confidente, un compagno d’armi. A dir la verità io lo trovavo assai imbarazzante. Poi, com’era quasi inevitabile, un giorno mi ha chiesto se volevo vedere la sua collezione di fotografie. E me l’ha chiesto con tanto entusiasmo e con tanta gentilezza che non ho potuto fare a meno di accettare. Chissà cosa mi aspettavo, ma certo non quello che Auggie mi ha fatto

vedere il giorno dopo. Dopo avermi portato in una piccola stanzetta senza finestre nel retro del negozio, Auggie ha aperto uno scatolone e ha tirato fuori dodici album identici di fotografie. Poi mi ha spiegato che quello era il lavoro di una vita. Non gli prendeva piú di cinque minuti al giorno: ogni santo giorno degli ultimi dodici anni Auggie s’era messo all’angolo fra Atlantic Avenue e Clinton Street alle sette in punto del mattino e aveva scattato una foto a colori della stessa scena. Ormai la raccolta ammontava a piú di quattromila fotografie. Ogni album era un anno e tutte le foto erano ordinate in sequenza dal 1° gennaio al 31 dicembre. Sotto ciascuna istantanea c’era scritta scrupolosamente la data. Mentre sfogliavo gli album esaminando le immagini non sapevo cosa pensare. All’inizio ho avuto l’impressione che fosse la cosa piú strana e sorprendente che avessi mai visto. Tutte le foto erano uguali. Per me quella raccolta era un mattone monotono e ripetitivo: la stessa strada e le stesse case all’infinito, un delirio implacabile e ridondante d’immagini. Non sapendo cosa dire continuavo a voltare le pagine annuendo con la testa per fingere un certo gradimento. Auggie, imperturbabile, mi guardava con un largo sorriso, ma dopo alcuni minuti m’ha interrotto dicendo: – Vai troppo svelto. Se non rallenti non riuscirai mai a capire. Naturalmente aveva ragione. Se non ci diamo il tempo di osservare non riusciamo a vedere nulla. Allora ho preso un altro album e mi sono sforzato di stare piú attento ai dettagli, di notare i cambiamenti del tempo, di osservare la diversa angolazione della luce col passare delle stagioni. Infine sono persino riuscito a cogliere le variazioni del traffico e a prevedere la sequenza dei giorni (il trambusto dei giorni lavorativi, la relativa immobilità dei giorni festivi, il contrasto fra il sabato e la domenica). Poi a poco a poco ho cominciato a riconoscere la gente che si vedeva in secondo piano, i passanti che andavano al lavoro, le stesse persone immortalate nello stesso posto dall’istantanea quotidiana di Auggie. Dopo aver imparato a riconoscere le persone mi sono messo a studiarne il portamento, il modo di camminare nei diversi giorni, e a cercar di dedurre da quegli indizi superficiali di che umore erano, quasi potessi immaginare la loro

vita e penetrare l’invisibile dramma murato nel loro corpo. Quando ho preso un altro album non ero piú annoiato e perplesso come all’inizio. Avevo capito che Auggie fotografava il tempo – sia il tempo naturale che quello umano – e che lo faceva piazzandosi in un angolino del mondo con l’intenzione di farlo suo, montando di guardia nello spazio che si era scelto. Vedendomi assorto nell’osservazione del suo lavoro, Auggie ha continuato a sorridere compiaciuto. Poi, quasi mi avesse letto i pensieri, mi ha recitato un verso di Shakespeare. – Domani e domani e domani, – ha mormorato sottovoce, – il tempo scorre a piccoli passi –. A quel punto ho capito che sapeva perfettamente quel che faceva. Tutto questo è successo piú di duemila istantanee fa. Da quel giorno Auggie e io abbiamo discusso piú volte il suo lavoro, ma è soltanto la settimana scorsa che Auggie mi ha detto come si è procurato la macchina fotografica e come ha iniziato a fare fotografie. La storia che mi ha raccontato riguarda proprio questi argomenti, e io sto ancora cercando di coglierne il significato. All’inizio della settimana scorsa un editor del «New York Times» mi ha telefonato chiedendomi se volevo scrivere una novella da pubblicare sul quotidiano di Natale. Il mio primo impulso è stato quello di rifiutare, ma siccome la persona era molto affabile e insistente, alla fine del colloquio gli ho detto che ci avrei provato. Ma quando ho attaccato il telefono m’è venuto il panico. Che ne sapevo di Natale? Che ne sapevo di novelle scritte su commissione? Nei giorni successivi, in preda alla disperazione, ho combattutto con i fantasmi di Dickens, di O. Henry e di altri maestri dello spirito di Natale. Il solo termine «novella di Natale» evocava in me spiacevoli associazioni che mi facevano venire in mente insopportabili effusioni di sentimentalismo ipocrita e sdolcinato. Anche nel migliore dei casi le novelle di Natale non erano altro che sogni dorati e illusori, fiabe per adulti. Mi venisse un colpo se mi mettevo a scrivere una cosa del genere! D’altra parte com’era possibile proporsi di scrivere una novella di Natale priva di sentimento? Era una contraddizione in termini, un rebus irrisolvibile. Era come cercare d’immaginarsi un cavallo da

corsa senza gambe o un passero senz’ali. Poiché non ero venuto a capo di nulla, giovedí sono uscito a fare una lunga passeggiata nella speranza che l’aria fresca mi chiarisse le idee e poco dopo mezzogiorno sono andato in tabaccheria a far provvista di sigari. Come al solito dietro il banco c’era Auggie, e quando lui mi ha chiesto come andava io, senza volerlo, mi sono trovato a confessargli i miei guai. Dopo avermi ascoltato Auggie ha detto: – Una novella di Natale? Tutto qui? Amico mio, se mi offri il pranzo ti racconto la migliore novella di Natale che tu abbia mai ascoltato. E ti garantisco che è vera da cima a fondo. Allora siamo andati alla fine dell’isolato da Jack’s, un posticino affollato e chiassoso dove si mangiano ottimi panini al prosciutto e dove ci sono le foto delle vecchie squadre dei Dodgers appese al muro. Ci siamo seduti a un tavolo della sala interna, abbiamo ordinato da mangiare, e a quel punto Auggie è partito in quarta. Ecco il suo racconto. Era l’estate del ’72. Un bel mattino un giovanotto sui diciannove o vent’anni entra in negozio e si mette a rubare qua e là. Un ladruncolo piú patetico di quello non s’era mai visto. Defilandosi accanto all’espositore dei giornali nell’angolo piú distante, il ragazzo si riempiva di libri le tasche dell’impermeabile. In quel momento al banco c’era gente e quindi non lo vedevo, ma appena l’ho individuato mi sono messo a gridare. Lui è fuggito come una lepre e quando io sono riuscito a schizzare fuori dal banco era già arrivato in Atlantic Avenue. L’ho rincorso per mezzo isolato, ma poi ho smesso perché ero scoppiato. E siccome al ragazzo in fuga era caduto qualcosa per terra, mi sono chinato a vedere cos’era. Era il suo portafoglio. Non c’erano soldi, ma oltre alla patente c’erano tre o quattro fotografie. Avrei potuto chiamare la polizia e farlo arrestare – sulla patente c’era nome e indirizzo – ma non me la sono sentita. Era un povero teppistello, e quando ho guardato le foto non sono riuscito a incazzarmi. Si chiamava Robert Goodwin. Ricordo che in una foto aveva il braccio sulla spalla della madre o della nonna, in un’altra aveva nove o dieci anni, un gran sorriso in faccia ed era vestito da giocatore di baseball. Non me la sono proprio sentita. Probabilmente ormai era drogato. Un miserabile ragazzotto

di Brooklyn senza arte né parte... che me ne fregava in fondo di due tascabili da quattro soldi? Cosí ho tenuto il portafoglio. Ogni tanto mi veniva l’impulso di spedirglielo, ma poi rimandavo sempre e non mi decidevo mai. A un certo punto è arrivato Natale e io mi sono trovato solo senza compagnia. Di solito il capo m’invitava a casa sua, ma quell’anno lui e la moglie erano andati dai parenti in Florida. Cosí quella mattina, mentre ero seduto in casa un poco depresso, ho visto il portafoglio di Robert Goodwin su un ripiano della cucina e mi sono detto: «Che diavolo, perché non fare una buona azione ogni tanto?» Cosí mi sono infilato il cappotto e sono partito per restituire il portafoglio di persona. L’indirizzo era nel quartiere popolare di Boerum Hill. Quel giorno faceva un freddo cane. Ricordo d’essermi perduto piú volte prima di trovare la casa giusta. Da quelle parti sembra tutto uguale e si continua a girare in tondo nello stesso posto convinti di essere altrove. Insomma, alla fine arrivo all’appartamento che cerco e suono il campanello. Silenzio assoluto. Penso che non ci sia nessuno, ma riprovo per esser sicuro. Aspetto un altro po’, e mentre sto per andarmene sento arrivare qualcuno che strascica i piedi. – Chi è? – chiede la voce di una vecchia. Io rispondo che sto cercando Robert Goodwin. – Sei tu, Robert? – dice la vecchia. Poi sento sbloccare una dozzina di serrature e vedo aprirsi la porta. La vecchina ha perlomeno ottant’anni, forse novanta, e immediatamente mi accorgo che è cieca. – Sapevo che saresti venuto, Robert, sapevo che non avresti dimenticato nonna Ethel a Natale, – dice lei, e si fa avanti con le braccia aperte. Non c’era molto tempo per pensare, capisci, dovevo dire qualcosa alla svelta. Cosí, prima di rendermene conto, ho risposto: – Sí, nonna Ethel, sono venuto a trovarti perché è Natale –. Non chiedermi perché l’ho fatto, non ne ho la piú pallida idea. Forse non volevo deluderla, non so. Mi è venuta cosí. Ed eccomi lí a ricambiare il suo abbraccio sulla porta. Non le ho detto che ero il nipote, non in maniera esplicita, perlomeno, ma era implicito. Però non volevo imbrogliarla, era un gioco che entrambi

avevamo deciso di giocare senza discutere le regole. Voglio dire, quella donna sapeva che io non ero il nipote. Era vecchia e svanita, ma non al punto da non accorgersi della differenza fra un estraneo e la carne della sua carne. Tuttavia era felice di fingere, e siccome io non avevo niente di meglio da fare, ero contento di reggere la parte. Cosí siamo entrati in casa e abbiamo passato la giornata insieme. Per inciso l’appartamento era una topaia, ma che altro ci si poteva aspettare da una cieca che doveva fare le pulizie da sola? Ogni volta che mi chiedeva qualcosa sulla mia vita io le mentivo. Le dicevo che avevo trovato un buon lavoro in una tabaccheria e che stavo per sposarmi, le raccontavo varie storielle e lei faceva finta di credere a tutto. – Mi fa piacere, Robert, – diceva annuendo e sorridendo, – l’ho sempre detto che prima o poi le cose si sarebbero aggiustate... Insomma, dopo un po’ mi viene una gran fame, e poiché ho l’impressione che in casa non ci sia granché, vado al negozio piú vicino e compro un sacco di roba: pollo allo spiedo, minestrone, insalata di patate, torta al cioccolato e cosí via. Ethel ha due bottiglie di vino tenute da parte in camera da letto, e cosí fra tutti e due riusciamo a mettere insieme una discreta cenetta di Natale. Ricordo che a forza di bere vino siamo diventati un po’ brilli: cosí quando abbiamo finito di mangiare siamo andati a metterci piú comodi in salotto. Siccome mi scappava la pipí, ho chiesto scusa e sono andato al gabinetto. A quel punto le cose hanno preso una piega completamente diversa. Era già abbastanza pazzesco fare la scena di essere il nipote di Ethel, ma quel che ho fatto dopo è stata una follia che non mi potrò mai perdonare. Appena sono entrato in gabinetto ho visto sei o sette macchine fotografiche accatastate contro il muro accanto alla doccia. Erano macchine 35 millimetri nuove di zecca e di buona marca, ancora confezionate nella scatola. Ho immaginato che fossero di Robert, quello vero, e che fossero il bottino di un colpo recente. Non avevo mai fatto una foto in vita mia né avevo mai rubato nulla, ma quando ho visto quelle macchine in bagno mi è venuto di prenderne una. Cosí, senza motivo. E senza pensarci due volte ne ho presa una e sono tornato in salotto.

Benché fossi stato in gabinetto pochi minuti, nonna Ethel s’era addormentata in poltrona. Troppo Chianti, probabilmente. Fatto sta che, mentre lei dorme di gusto come un bambino, io vado in cucina a lavare i piatti e poi, pensando che fosse inutile svegliarla, decido di tornare a casa. Non potendo nemmeno lasciarle un biglietto di addio perché è cieca, metto il portafoglio del nipote sul tavolo, prendo la macchina fotografica e me la svigno alla chetichella. Fine della storia. – Non sei piú tornato a trovarla? – Una volta, tre o quattro mesi dopo. Mi sentivo cosí turbato per il furto della macchina fotografica che non avevo il coraggio di usarla. Perciò alla fine ho deciso di restituirla, ma nonna Ethel non abitava piú là. Non so che fine abbia fatto. Al suo posto c’era un altro inquilino che non mi ha saputo dire dov’era. – Probabilmente era morta. – Sí, probabilmente. – Questo significa che aveva passato l’ultimo Natale con te. – Suppongo di sí. Non ci avevo mai pensato. – Hai fatto bene, Auggie, è stato un bel gesto verso quella vecchietta. – Le ho mentito e l’ho derubata. Non vedo come si possa chiamare una buona azione. – L’hai resa felice. E la macchina fotografica era comunque rubata: in realtà non apparteneva a chi l’hai presa. – Per l’arte è tutto lecito, eh, Paul? – Non la metterei cosí, però tu almeno hai fatto buon uso di quella macchina. – Ecco, adesso la novella di Natale ce l’hai, vero? – Sí, – ho risposto, – penso di sí. Vedendo Auggie sorridere malizioso con una luce misteriosa e intimamente compiaciuta negli occhi, m’è sorto il dubbio che la storia fosse tutta inventata, ma al momento di chiedergli se mi avesse preso in giro ho capito che non me l’avrebbe mai detto. Era riuscito a farsi prendere sul serio,

e quella era l’unica cosa che contava. Nessuna storia è falsa finché una sola persona ci crede. – Sei grande, Auggie, – gli ho detto. – Grazie per l’aiuto, è stato prezioso. – Non c’è di che, – mi ha risposto lui continuando a guardarmi con quella strana luce folle negli occhi. – D’altra parte, se non potessi confessarti un segreto che amico saresti? – Ti devo un grande favore. – Figurati. Scrivila come te l’ho raccontata e non mi devi un bel niente. –Salvo il pranzo. – Certo, salvo il pranzo. Ricambiando il sorriso di Auggie con un sorriso ho chiamato il cameriere e ho chiesto il conto.

Gli spiriti di Natale

Giovannino Guareschi La favola di Natale

«L’anno venturo non voglio che succeda come quest’anno» si dice ogni volta. «L’anno venturo prepareremo ogni cosa in tempo». Ma ogni volta il Natale ci coglie di sorpresa e noi dobbiamo rimediare a tutto in fretta e furia e alla bell’e meglio. Ma ogni volta il Natale ci porta una nuova favola da raccontare a noi stessi per consolarci del Natale che ci è sfuggito ed è caduto nell’abisso del tempo assieme a un altro degli anni che Dio ci ha concesso. *** – Sparecchia, – disse Margherita alla Giacometta. Ma la Pasionaria intervenne: – No, – affermò, – non si deve sparecchiare. Margherita la guardò perplessa: – Che novità sono queste? – domandò. – Non sono novità, – spiegò la Pasionaria. – Qui usa che, la sera della Vigilia di Natale, non si sparecchia. Nessuno sparecchia in casa delle mie compagne. Lasciano sulla tavola la tovaglia con una micca di pane. – E a che cosa serve questo? – si stupí Margherita. – Serve che, di notte, quando tutti dormono, vengono i morti e si siedono a tavola. Margherita scosse il capo: – I morti non hanno bisogno di mangiare. – Non ho mica detto che i morti mangiano il pane! – replicò risentita la Pasionaria. – Lo toccano soltanto. E allora il pane lo si mette via e dura un anno intero perché non ammuffisce piú.

– Sciocchezze! – commentò Margherita. – Non sono sciocchezze, – le rispose la Pasionaria gravemente. Margherita si spazientí: – È mai possibile, – esclamò, – che i bambini debbano prestar fede soltanto a queste favole sui morti che poi li impressionano? – Io non mi impressiono, – precisò la Pasionaria. – Non vengono mica dei morti forestieri. Vengono i nonni. Anche loro devono fare festa per Natale. La Giacometta intanto aveva ripulito la tovaglia dalle briciole assestandola con cura. Poi aveva posto al centro della tavola un piatto con una micca di pane. Passammo in tinello dove era l’albero di Natale e ci sedemmo davanti al fuoco del caminetto. I ragazzi davano gli ultimi tocchi al loro Presepe, in attesa della mezzanotte. Allora avrebbero acceso le lampadine e avrebbero messo nella capanna il Bambinello. Si sentí scoccare la mezzanotte all’orologio del campanile e il Presepe si illuminò e si accesero le cento lampadine dell’albero mentre Alberto dava il via al disco d’una pastorale. I ragazzi rimasero lí a rimirarsi incantati il loro Presepe; poi, quando non ne poterono piú, andarono a letto a sognarselo. Margherita ruppe alfine il silenzio: – Strana usanza, – osservò, – questa di lasciare la tavola apparecchiata. – Piú che strana è gentile e piena di poesia, – replicai. – Che poi i morti vengano o non vengano non ha importanza: importantissimo è invece il fatto di ricordarsi di loro particolarmente nelle ricorrenze piú liete. Margherita alzò il capo: – Giovannino, dicendo «vengano o non vengano» tu intendi ammettere che i morti possano venire? – No, Margherita, non solo non lo ammetto, ma lo escludo. Però mi fa piacere pensare che essi possano venire. Margherita rabbrividí: – Giovannino, ho paura.

– E perché? Tua figlia te l’ha spiegato chiaramente: si tratta dei nonni, non di morti estranei. Entrò la Giacometta e domandò se avevamo bisogno di qualcosa. – No, vai pure a letto, – le rispose Margherita. Rimanemmo soli e io spensi la luce perché quando si è davanti al fuoco la luce dà fastidio. Suonò l’una all’orologio del campanile. E poco dopo Amleto abbaiò. Margherita sbarrò gli occhi: – Giovannino, – ansimò, – che siano loro? – Ma no, Margherita. Non senti in che modo abbaia? Si tratta di estranei. – Non li ha mai visti: sono estranei per lui. – E cosa vuoi che possa vedere? Sentimmo passare per la strada gente che chiacchierava e Amleto smise di abbaiare. – Si vede che s’erano fermati un momentino davanti al cancello, – spiegai. Margherita si tranquillizzò. – Ho sete, – disse. E io mi alzai per andare a prendere un po’ d’acqua in cucina. – Resta, – esclamò Margherita. – Non ho piú sete. – Il fatto è che adesso ho sete io. – Da sola non ci rimango neanche un minuto qui, – affermò Margherita. – In questo caso non ci resta che andare in cucina assieme. Uscimmo dal tinello semibuio, e ci arrestammo davanti all’uscio di cucina. Dopo qualche istante d’esitazione lo spalancai. La cucina era illuminata soltanto dalla minuscola lampadina-spia del bruciatore che ronzava in cantina e vedemmo il grande rettangolo candido della tovaglia col piatto del pane nel bel mezzo. Accendemmo la luce grossa ed entrammo. Mentre io aprivo la credenza per procurarmi i bicchieri, Margherita seduta al tavolo studiava attentamente la tovaglia e il piatto del pane. Presi posto vicino a lei.

– Spegni la lampada grossa e lascia solo il lumino della spia, – sussurrò Margherita. Rimanemmo lí seduti nella penombra e Margherita s’era aggrappata al mio braccio come se stesse per annegare. – Pensa, – sussurrò d’un tratto, Margherita. – Pensa, Giovannino, se adesso ce li trovassimo lí davanti! – Pensiamoci, – le risposi. Margherita ci pensò tanto intensamente che dopo cinque minuti, abbandonato il mio braccio, reclinò il capo sulla tovaglia e si addormentò. Mi addormentai anch’io e dormii esattamente fino a quando la pendola scoccò le due. Allora alzai il capo e c’erano tutti, seduti attorno alla tavola. Stavano guardandoci dormire e sorridevano. Allungai una mano per svegliare Margherita ed essi mi fecero cenno che la lasciassi dormire. Levarono gli occhi da noi e si guardarono attorno: mio padre mi indicò le due grosse travi di rovere del soffitto e fece segno di sí con la testa. Roba solida, massiccia: aveva sempre seguito quel concetto, nel fabbricare. Anche il padre di Margherita, che da vivo era falegname, fece segno di sí con la testa: si trattava di due travi veramente in gamba. Suonò il quarto d’ora, all’orologio della torre: allora tutti e quattro toccarono il pane, si alzarono e se ne andarono. Mi rimisi a dormire con la testa appoggiata sulla tavola. Ci svegliò alle otto del mattino la Giacometta: io subito presi il piatto col pane e lo riposi nella cristalliera del buffet. – Adesso puoi sparecchiare, – dissi alla Giacometta. – Che strani sogni si fanno quando ci si addormenta cosí spiegazzati, – osservò Margherita. Non era il caso di rispondere e guardai compiaciuto le travi di rovere del soffitto che io avevo voluto cosí grosse e massicce.

Dino Buzzati Lo strano Natale di Mr Scrooge

Da bordo della Michelangelo, dicembre 1965. Allo scopo di evitare il Natale da cui aborriva, il signor Ebenezer W. Scrooge, 62 anni, celibe, ricchissimo, aveva deciso di allontanarsi quanto piú possibile dai fratelli, dai nipoti, dalla propria casa, dalla propria città, ch’era Nuova York, da tutto ciò che costituiva rapporto umano e sociale, non diciamo amicizia perché di veri amici Mr Scrooge non ne aveva avuti mai. E, astutamente, giovedí scorso 23 dicembre, aveva preso imbarco sulla turbonave Michelangelo diretta in Europa. Cosí, allo scoccare del Natale, egli si sarebbe trovato nel mezzo dell’Atlantico, al riparo dall’esecrato contagio. Intendiamoci, non era il Natale delle luci, dei negozi, delle compere, delle corone di agrifoglio, degli abeti, dei cosini lucenti, il Natale che Mr Scrooge odiava e temeva. Anzi. Di anno in anno, quanto piú ingigantiva la frenesia degli auguri e dei regali, Ebenezer W. Scrooge era contento. Perché se aumentavano i lumi, le spese e la furia, aumentavano altresí gli introiti della catena di supermarkets, self-services, cafeterias e automats, di cui era proprietario; ma soprattutto significava che gli uomini e le donne sempre piú sentivano il bisogno di recitare il Natale in quanto avevano sempre meno Natale dentro di loro, cioè diventavano sempre piú simili a lui, Ebenezer W. Scrooge, il quale ne era vuoto nel modo piú integrale e fazioso. No. Quello che lui detestava era il rimasuglio degli antichi autentici Natali, che ancora affiorava qua e là; e gli procurava la nausea. Vale a dire quello speciale intenerimento dell’animo, quella disposizione alla benevolenza e al perdono ch’egli giudicava massimamente nocivi

all’efficienza, alla produttività, al guadagno, al successo, alla conquista, al dominio e a tutte le bellissime cose per le quali era sempre vissuto. Per la verità, Nuova York era un posto dove, relativamente intendiamoci, si poteva sopportare la ricorrenza un po’ meglio che altrove. Non già che a Nuova York il Natale non diventi una festa grande. Anzi, la città è famosa nel mondo per le sue luminarie (gli abeti bianchi della Park Avenue, i festoni sulle cuspidi, le stelle che si accendono e spengono sulle immense pareti, le ghirlande, le cascate, gli zampilli, le corone, i fiori di luce), per la gloria inusitata delle vetrine dove si concentrano le meraviglie del mondo, per gli addobbi natalizi profusi anche nei piú squallidi bar e negozietti, per i babboni natali con la casacca rossa e il barbone bianco che per la via agitano i campanelli, incitando a oblazioni filantropiche, per il delirio complessivo della gente che, incurante del gelo, ribolle pazza nelle strade come un formicaio subito dopo la pedata. Ma non è questo che conta. In realtà a Nuova York non esisteva quasi il pericolo temuto da Scrooge. A Nuova York, in complesso, Scrooge si trovava a vivere bene. A Nuova York non vige la benevolenza verso il prossimo e l’uomo quando incontra l’uomo non si chiede: «Chi sei? Dove vai? Di che cosa hai bisogno?»; l’uomo, il cameriere, il commesso, il fattorino, il bigliettaio non sorride se non ce n’è un motivo preciso, il sorriso gratuito infatti non corrisponde a una sana businesslikeattitude, a forza di sorrisi mai e poi mai sarebbero state elevate le torri, le guglie, i picchi stupendi che al passare delle nuvole bianche spiccano lentamente il volo e vanno, vanno verso gli sconosciuti confini. Ciò piaceva molto a Scrooge il quale dava l’esempio, astenendosi da ogni sorriso ancora piú degli altri. A Nuova York l’interesse dell’uomo per l’altro uomo è limitato alle esigenze familiari, erotiche, lavorative, sociali e tutt’al piú di amicizia, poi basta, gli altri che stanno fuori non esistono, sono meno di niente e, se non fosse cosí, mai si sarebbero costruiti gli inni d’acciaio comunemente denominati ponti, o le terribili muraglie alate, o i castelli, i supremi pinnacoli, le rudi vette dell’uomo.

A Nuova York le automobili non guardano le altre automobili, non litigano, non fanno loro sberleffi – come per esempio in Italia – bensí vanno ciascuna per la propria strada con sorda determinazione e intensa carica nervosa, facendo chissà perché un baccano del diavolo con i clacson, peggio che a Napoli. E la Cadillac nera di Mr Scrooge era capace di non guardare le automobili altrui piú di tutte, e procedeva nella direzione voluta con una determinazione di gran lunga superiore alle altre. A Nuova York la gente per la strada non guarda l’altra gente neppure se passa una ragazza favolosa o Dracula il vampiro, neppure se è tempo di Natale, e si ha l’impressione che il passante non veda altri passanti, bensí veda soltanto delle ombre indifferenziate che gli fluttuano intorno. E questo corrispondeva appunto a quel magnifico disinteresse per il prossimo ch’era per Scrooge uno dei cardini morali. Ma, nonostante queste meravigliose caratteristiche, Nuova York procurava a Scrooge dei Natali difficili. Il fatto è che, da almeno una dozzina d’anni, tutte le notti del 24 dicembre, lo spirito di Natale entrava nella sua camera, lo svegliava bruscamente, lo prendeva per mano e poi se lo trascinava in giro per il mondo, in camicia da notte come si trovava, nonostante il freddo. E purtroppo questo spirito era subdolo e maligno. Ben presto l’insensibile Scrooge non resisteva piú alle cose che quello gli diceva, agli spettacoli che quello gli faceva vedere. Dopo poco, Ebenezer W. Scrooge si sentiva atrocemente intenerire, il cuore cominciava a scaldarsi e perfino a rimbombargli nel petto, gli era capitato anche che delle strane gocce di sapore amaro gli scendessero giú per le guance, improvvisamente aveva provato l’inverosimile quanto stolto desiderio di vedere tutti gli altri contenti anche a costo di un suo grave sacrificio economico. Per fortuna l’aereo spirito di Natale non era qualificato per ricevere un assegno e al termine della scorribanda, quando Scrooge si ritrovava nel suo letto, il pericolo era ormai superato. Non solo: ogni volta Ebenezer W. Scrooge nel giro di poche ore era riuscito a riaversi, a cacciar via l’orribile tentazione di sorridere, scherzare, compatire, voler bene e fare del bene. Tuttavia per alcuni giorni gli rimaneva una sorta di groppo molto penoso

che gli pesava in corrispondenza dello sterno. Finalmente gli era venuta la geniale idea del mare: in mezzo all’oceano il funesto spirito non si sarebbe fatto vivo, garantito. Su un bastimento italiano, poi, ammesso anche che il personaggio fosse venuto a tormentarlo, sarebbe stato uno spirito di lingua italiana, e lui, Scrooge, non avrebbe capito una parola. Certo, quando Ebenezer W. Scrooge è salito a bordo, l’impressione è stata abbastanza secca. Maledizione, il Natale si era installato anche qui. Si era anzi installato in modo specialmente pericoloso perché aveva l’aria di essere un Natale perpetuo, come se quegli uomini della nave non diventassero buoni e gentili solo il 25 dicembre per poi tornare ad essere i duri tangheri di sempre, ma fossero umani e gentili anche prima e anche dopo, umani e gentili tutto l’anno, sorridendo di quel sorriso che Scrooge giudicava nefasto. Che per caso l’Italia piú o meno fosse tutta cosí? E si era chiesto come mai, con questo sistema di prendere la vita, si potessero combinare cose importanti e serie, il conto a prima vista non tornava, eppure la nave era forte, grande e bellissima, le macchine funzionavano, gli stabilizzatori funzionavano, l’aria condizionata funzionava, l’acqua del water funzionava previa una pressione del piede sull’apposita leva, la luce funzionava, funzionavano i rubinetti, la radio, la televisione, il radar, nonché quei piccoli dispositivi magnetici che tengono fermi le porte, le ante e i cassetti, tutto era insomma perfetto ed efficiente, neanche gli States onestamente avrebbero potuto fare di piú. Ma non è successo niente. La sua preoccupazione del resto non era lí, l’importante era di evitare lo spirito famoso, quella peste lacrimevole. Senza eccessiva paura Scrooge ha visto cosí gli addobbi d’occasione, gli alberi con le palline e i lumi, ha ascoltato gli auguri, le musiche e gli inni di circostanza, ha assistito ai festeggiamenti in programma. Cosí il comandante Giuseppe Soletti ha invitato a pranzo tutti gli ufficiali del bastimento e il capo commissario Fiorello De Farolfi si è affannato perché i ventuno abeti natalizi disseminati a bordo trasmettessero un po’ di serenità e di poesia ai pochi passeggeri, ce n’erano centoquaranta nella prima classe, cento nella classe cabina e appena novanta nella turistica. E c’è stata la Santa Messa nella sala feste della prima classe alla presenza

dell’intero equipaggio e di tutti quanti i passeggeri, e da dietro una colonna Scrooge sbirciava la gente, forse un po’ strana come lui, chissà come sbalestrata in mezzo all’Atlantico in una notte come quella. Il cappellano, padre Giuseppe Navone, ha parlato, toccando i cuori, tranne quello di Scrooge naturalmente, anzi lui ringraziava la sorte perché era sommamente improbabile che proprio durante la Messa lo spirito del Natale venisse a prelevarlo. Infatti non è successo niente. Poi, passeggeri ed equipaggio, fra nuovi inesauribili scambi di auguri, si sono sparpagliati per la immensa nave che a poco a poco si è fatta deserta e pericolosamente patetica. Allora è stato giocoforza per Scrooge risalire in cabina e qui egli ha avuto paura perché poteva darsi benissimo, dato il tipo, che il tremendo spirito nel frattempo si fosse introdotto nella cabina e adesso stesse appostato ad aspettarlo. Ma aperto l’uscio, è entrato. Niente. Nessuno negli armadi del corridoio, nessuno nel bagno, nessuno nell’altro armadio di fronte al letto, nessuno nello stanzino dei bagagli, nessuno nelle valige e nei cassetti. Non c’era proprio anima viva. – Posso essere utile in qualche cosa, signore? – Era un cameriere in giacca bianca, affacciato sulla soglia del corridoio. – Oh no, grazie. – Ho visto la porta aperta, signore, ho pensato... Scrooge ha controllato il cartellino affisso sulla parete coi nomi degli addetti alla cabina: – Lei si chiama Giovanni Canese? – No, signore. Canese è un mio collega, io faccio il turno di notte –. Parlava in un inglese fluido e aristocratico, aveva una faccia rosea, sui quarant’anni, due occhi azzurri e vivi. – E cosí è arrivato il Natale. – Già. – Peccato trovarsi lontani. – Lontani da chi? La nave dondolava lentamente.

– Da casa. Silenzio. – La famiglia, signore... – Io non ho famiglia. – Solo, signore? – Solo. Silenzio ancora, il rombo vago lontano delle macchine, lo scricchiolio delicato delle cose intorno, cosí misterioso. L’uomo si è soffermato a chiudere un armadio rimasto socchiuso, si è ancora voltato, come avesse dimenticato una cosa. – Buonanotte, signore. – Buonanotte. In quel momento Scrooge ha notato che sopra la testa dello steward tremolava una luce azzurrognola, come un ciuffetto di fiammelle. Oh, l’aureola dello spirito famigerato. Di colpo una quantità di pensieri confusi ed amari è venuta su dal fondo, con movimento di gorgo. – Dunque... sei ancora tu? – Sí, signore... Io non potevo abbandonarla... Io sono qui per farle del bene... Vuole che andiamo?

Ernst Theodor Amadeus Hoffmann Schiaccianoci e il re dei topi

La sera di Natale. Durante tutta la giornata del 24 dicembre, i bimbi del consigliere sanitario Stahlbaum non avevano assolutamente avuto il permesso di entrare nella camera di mezzo e meno che mai nel salotto attiguo. Fritz e Maria sedevano rannicchiati in un angolo della cameretta sul retro dell’alloggio e già incominciavano a sentirsi piuttosto impauriti perché stava facendosi buio e nessuno era ancora venuto a portare il lume come tutte le altre sere. Fritz confidò sottovoce, in gran segreto, alla sorellina (... sette anni appena compiuti...) che già fin dal mattino presto aveva sentito dei rumori, dei fruscii, dei colpetti nelle camere chiuse; e poco prima un omino scuro era sgattaiolato in corridoio con uno scatolone sotto il braccio... Non poteva trattarsi – Fritz lo sapeva bene – che del padrino Drosselmeier. Allora Maria batté le manine esclamando, tutta felice: – Ah!... Chissà che cosa ci avrà fatto di bello il padrino Drosselmeier!... Il signor Drosselmeier, consigliere alla corte d’appello, non poteva precisamente dirsi un bell’uomo: piccolo, magro, con molte rughe sul viso e al posto dell’occhio destro un grosso cerotto nero; non aveva capelli ma portava, invece, una bellissima parrucca bianca, una parrucca, pensate, di vetro: un vero capolavoro. Non per nulla il padrino era un uomo molto ingegnoso; si intendeva anche di orologi e ne fabbricava perfino qualcuno. Perciò quando una delle belle pendole di casa Stahlbaum era malata e non poteva piú cantare, ecco, arrivava il padrino Drosselmeier: si toglieva la parrucca di vetro, la giacchetta gialla, si infilava un grembiale azzurro e incominciava a stuzzicare l’interno dell’orologio con i suoi ferretti aguzzi, ma senza fargli

male, al contrario, perché l’orologio tornava a vivere, riprendeva a ronzare, a fare tic-tac, a cantare allegramente. E tutti erano contentissimi. Drosselmeier non veniva mai senza avere in tasca qualche bella cosina per i bambini: un ometto che girava gli occhi e faceva la riverenza (... a vederlo c’era da morir dal ridere!...), una scatoletta da cui saltava fuori un uccellino o qualcos’altro del genere. Ma per Natale fabbricava sempre certi giocattoli che erano veri capolavori di meccanica e perciò, subito dopo la distribuzione dei doni sotto l’albero, venivano presi in consegna e custoditi gelosamente dai genitori. – Ah, chissà che cosa ci avrà fatto di bello il padrino Drosselmeier!... – tornò a sospirare Maria. Stavolta, decise Fritz, non poteva essere altro che una fortezza, con tanti bei soldatini di ogni genere che andavano avanti e indietro e facevano le esercitazioni... Poi sarebbero arrivati i nemici per conquistare la fortezza e i soldati, dal di dentro, avrebbero sparato coraggiosamente i cannoni... E che spari, che colpi!... – No, no, – lo interruppe Maria. – Il padrino Drosselmeier mi ha raccontato di un bel giardino con un grande lago e dei magnifici cigni con collari d’oro che nuotano in tondo cantando delle belle canzoncine... Poi una ragazzina si avvicina al lago, chiama i cigni e gli dà da mangiare del marzapane dolce... – I cigni non mangiano il marzapane, – corresse Fritz piuttosto brusco, – e poi il padrino Drosselmeier non può costruire un giardino col lago e tutto... Per dire la verità, dei suoi giocattoli non ce ne sono rimasti molti: ce li prendono subito!... Preferisco ancora quelli che ci regalano papà e mamma, almeno possiamo tenerceli e farne quello che vogliamo! I bambini ricominciarono a far congetture sui probabili doni che avrebbero ricevuto fra poco. Maria si lagnò che madamigella Geltrude (la sua bambola grande), era molto cambiata: non sapeva piú stare in piedi, quella sventata, cadeva tutti i momenti e ogni volta le restavano certi brutti segni sulla faccia... A tenerle puliti i vestitini non c’era nemmeno da pensarci. L’aveva sgridata, e come, ma non era servito a niente!... Però lei aveva detto alla mamma che sarebbe stata tanto contenta di ricevere un parasolino per Geltrude... e la mamma aveva sorriso... – Fritz disse invece che alla sua scuderia mancava proprio un buon sauro... e le sue truppe difettavano

totalmente di cavalleria... Questo, il papà lo sapeva bene... A loro volta, i bimbi sapevano benissimo che i genitori avevano comprato ogni sorta di bei regali ed ora li esporrebbero sotto l’albero; e un’altra cosa era certa: quei doni li aveva guardati il buon Gesú Bambino, e dentro c’era la luce dei suoi santi occhi soavi... Ecco perché i regali di Natale parevano toccati da una mano benedetta e davano gioia come nessun altro. Questo gliel’aveva rammentato la loro sorella maggiore, Luisa; Gesú Bambino, aveva soggiunto, dava sempre ai bimbi, per mano dei genitori, le cose che facevano loro piú piacere. Le conosceva meglio di loro stessi. Perciò i bambini non dovevano (appunto come Fritz e Maria) parlare continuamente dei doni di Natale, desiderare questo o quell’altro, ma aspettare zitti e buoni quello che sarebbe venuto. La piccola Maria si fece tutta pensierosa, ma Fritz continuò a borbottare per conto suo: – Però un bel sauro e una scatola di ussari mi piacerebbero proprio!... Era ormai buio pesto. Fritz e Maria, stretti stretti l’uno all’altra, non osavano piú dire una parola. Pareva loro di sentirsi intorno dei lievi battiti d’ala e una musica sommessa, lontanissima, meravigliosa. Un raggio di luce bianca passò sulla parete: era il Bambino Gesú che stava andando da altri bambini fortunati, sopra una nuvola luminosa. Ed ecco un suono argentino: dlin, dlin dlin!... Le porte si spalancarono e dalla camera grande scaturí un tale bagliore che i bimbi, dopo un «Ah... ah!» di meraviglia si fermarono impietriti sulla soglia, senza osare varcarla. Ma vennero il papà e la mamma, li presero per mano e dissero: – Venite, venite pure, cari bambini! Venite a vedere che cosa vi ha portato il buon Gesú! I doni. Ora mi rivolgo direttamente a te, lettore o ascoltatore mio benevolo – Federico, Teodoro, Ernesto, o comunque tu ti chiami – e ti prego di rievocare agli occhi della memoria l’ultimo tavolo natalizio stracarico di bei doni multicolori di cui tu riesca a ricordarti, cosí potrai immaginare perfettamente l’attonita immobilità, gli occhi scintillanti dei due bimbi di fronte a quello spettacolo. Solo dopo qualche istante Maria trovò fiato per esclamare, quasi in un profondo sospiro: – Ah... che bello... che bello!... – e Fritz fece un paio di

capriole veramente riuscite. Dovevano essere stati buoni davvero durante l’anno quei due bambini, perché mai avevano visto tanti e cosí stupendi doni sul loro tavolo natalizio. Al centro della camera, il grande abete era carico di mele d’oro e d’argento; mandorlati, confetti d’ogni colore e tutte le possibili ghiottonerie spuntavano da ogni rametto come gemme e fiori. Ma la cosa piú bella erano i cento lumini scintillanti come stelle fra i rami scuri, perché cosí illuminato di dentro e di fuori l’albero sembrava invitare affettuosamente i bambini a raccogliere i suoi fiori, i suoi frutti. Anche intorno all’albero tutto era scintillio e colore: chi potrebbe descrivere l’infinità di cose belle poste lí accanto?... Maria vide le bamboline piú graziose e ogni sorta di minuscole suppellettili fatte alla perfezione e – meraviglia delle meraviglie! – un vestitino di seta con nastri colorati appeso a un trespolo, in modo da poter essere osservato da tutte le parti; e Maria lo mirò e lo rimirò infatti da tutte le parti, ripetendo estasiata: – Ah... che bel vestitino... caro il mio vestitino!... E potrò mettermelo per davvero!... – Frattanto Fritz aveva già fatto tre o quattro giri intorno al tavolo, trottando e galoppando, per provare il suo nuovo sauro che, effettivamente, aveva trovato legato per la briglia al tavolo stesso. Era proprio una bestia selvaggia, dichiarò scendendo di sella, ma non importava nulla: ci avrebbe pensato lui a domarlo! Poi subito andò a ispezionare i nuovi squadroni di ussari, nelle sgargianti uniformi rosso e oro, con armi d’argento, e montati su cavalli d’un cosí abbagliante candore da parer quasi d’argento purissimo anch’essi. Calmatisi un tantino, i bimbi passarono ai libri illustrati già aperti, in modo da mettere in mostra una profusione di fiori bellissimi, omini colorati, bimbi coi loro giochi, dipinti con tanta naturalezza da sembrare vivi e parlanti. Proprio cosí: i bambini stavano per mettersi a guardare quei libri meravigliosi quando si udí una seconda scampanellata: Fritz e Maria sapevano che ora il padrino Drosselmeier avrebbe presentato il suo dono e corsero al tavolo addossato alla parete. Venne tolto in fretta il paravento che lo mascherava e... cosa videro i bimbi!... Su un verde prato fiorito sorgeva un mirabile castello con torri dorate e molte finestre di cristallo. Al suono di un carillon porte e finestre si aprirono e si videro passeggiare per le sale piccoli ma graziosissimi cavalieri e damine con cappelli

piumati e lunghi abiti a strascico. Nella sala centrale, che pareva in fiamme tanti erano i lumini accesi nei lampadari a ghirlanda pendenti dal soffitto, danzava a tempo di musica una schiera di bimbi in giubbetti e sottanine corte. Un signore dal manto verde smeraldo si affacciava continuamente alla finestra, faceva un cenno di saluto e poi spariva; e il padrino Drosselmeier in persona (alto però appena come il pollice del papà...), si faceva sulla porta del castello e subito rientrava. Fritz, dopo aver contemplato a lungo, con i gomiti puntati sul tavolo, il bel castello, le figurette deambulanti e danzanti, esclamò: – Padrino Drosselmeier, fammi entrare nel tuo castello!... – Il consigliere gli spiegò che non era assolutamente possibile. E aveva ragione: era assurdo da parte di Fritz pretendere di entrare in un castello alto neppure quanto lui, torri comprese. Fritz se ne rese conto. Dopo un po’, vedendo che i cavalieri e le dame passeggiavano, i bimbi danzavano sempre allo stesso modo, che il signore dal manto verde si affacciava sempre alla stessa finestra e il padrino Drosselmeier appariva sempre sulla medesima porta, Fritz si spazientí: – Padrino Drosselmeier, – disse, – adesso esci un po’ da quell’altra porta, là dietro... – Non è possibile, caro Fritz, – rispose il consigliere d’appello. – Bene. Allora quell’uomo vestito di verde che si affaccia tutti i momenti alla finestra fallo passeggiare un po’ insieme agli altri... – Ma neanche questo è possibile! – tornò a rispondere il padrino. – Allora fa’ scendere i bambini... Falli uscire... Li voglio vedere piú da vicino!... – Ma non si può... non si può!... – spiegò il consigliere seccato. – Una volta fatto, il meccanismo deve restare com’è. – No-o?! – fece Fritz strascicando la voce. – Non si può proprio?... Senti, padrino Drosselmeier, se quei pupazzetti dentro il castello non sanno far altro che sempre la stessa cosa non valgono molto... E io non so che cosa farmene di loro... No, no... preferisco i miei ussari, almeno posso farli manovrare avanti e indietro come voglio e non sono chiusi dentro una casa... – Ciò detto ritornò all’altro tavolo e si sbizzarrí a far trottare avanti e indietro, caracollare, caricare, sparare, il suo squadrone di ussari montati sui cavalli d’argento. Anche Maria era sgusciata via pian pianino: quell’eterno andare, venire, ballare dei pupazzetti aveva annoiato anche lei, senonché, essendo una bimba molto buona e

gentile, non voleva darlo a vedere come invece aveva fatto suo fratello Fritz. – Un oggetto cosí ingegnoso non è fatto per bambini che non capiscono, – disse Drosselmeier alquanto risentito ai genitori. – Mi riprenderò il mio castello –. Ma intervenne la mamma, si fece mostrare l’interno del giocattolo, gli ingegnosissimi congegni d’orologeria che mettevano in movimento i pupazzetti, e il consigliere smontò, rimontò, ritornò di ottimo umore e diede perfino ai bambini alcuni pupazzi – uomini e donne – con i visi, le braccia e le gambe d’oro: erano tutti di Thorn e odoravano gradevolmente di panpepato. Fritz e Maria ne furono felici. La sorella Luisa, per volere della mamma, si era messa il bel vestito ricevuto in dono, e stava deliziosamente. Maria osservò che se anche a lei avessero dato il permesso di mettersi il vestitino nuovo, sarebbe stata quasi altrettanto graziosa... Il permesso le venne accordato senza difficoltà. Il beniamino. Maria non riusciva a distaccarsi dal tavolo natalizio perché ci aveva scoperto una cosa non ancora notata da nessuno: scostando i suoi ussari schierati in parata proprio a ridosso dell’albero, Fritz aveva involontariamente reso visibile un ometto ragguardevolissimo, rincantucciato là in fondo, zitto e modesto, come in tranquilla attesa del proprio turno. Sulla sua corporatura ci sarebbe stato molto da dire perché, a prescindere dal fatto che le brevi gambette non si adattavano perfettamente al tronco piuttosto lungo e robusto, anche la testa appariva sproporzionatamente voluminosa. Certo, la proprietà del vestire aggiustava molte cose: denotava subito l’uomo di gusto, di cultura... Il pupazzo indossava, infatti una bellissima giacchetta di ussaro, color viola squillante con molti bottoni e alamari bianchi, calzoni dello stesso tipo e colore e un paio di stivaletti quali raramente se ne vedono nei piedi d’uno studente o perfino d’un ufficiale; attillati, calzanti a pennello, perfetti. Il comico era che, con un abito cosí elegante, l’omino si fosse gettato sulle spalle un mantelletto scarso, goffo, che pareva di legno, e messo in testa un berrettino di gnomo. Anche il signor Drosselmeier – rifletté Maria – portava un mantello deplorevole e un berretto insopportabile... eppure era un caro padrino lo stesso... D’altronde, se anche si fosse vestito cosí elegante, il

padrino Drosselmeier non sarebbe mai stato grazioso come quell’ometto... Quell’ometto, dunque, l’aveva conquistata al primo sguardo e, osservandolo sempre piú attentamente, Maria si accorse che il suo viso spirava bonomia, gli occhi verdi chiari, un po’ sporgenti, esprimevano soltanto affetto e benevolenza. Una barbetta bianca, bene arricciata, intorno al mento gli stava benissimo, perché accentuava la dolcezza del sorriso e dava risalto al rosso vivo delle labbra. – Ah!... – esclamò finalmente Maria. – Ah, caro papà... di chi è quel bellissimo ometto laggiú, contro l’albero?... – Quello, – rispose il papà. – Dovrà lavorare per tutti voi, cara bambina, dovrà schiacciare coi denti le noci, che sono molto dure... Quindi è di Luisa, come tuo e di Fritz –. E cosí dicendo lo prese con garbo dal tavolo, sollevò il mantelletto di legno e con questa manovra gli fece aprire la bocca in modo spropositato. L’omino mise in mostra due file di dentini bianchi e aguzzi. – Mettici dentro una noce, – disse il papà; Maria ubbidí e – crac! – l’ometto la spezzò, il guscio cadde in frantumi e il dolce gheriglio andò a finire in mano alla bimba. Il grazioso personaggio, dunque – dovevano saperlo tutti, anche Maria – apparteneva alla stirpe degli «schiaccianoci» ed esercitava la professione dei propri antenati. Maria cacciò un grido di gioia. – Dal momento che l’amico Schiaccianoci ti piace tanto, mia cara, – le disse il papà, – lo curerai e lo proteggerai in modo particolare anche se, come ho detto, Luisa e Fritz avranno diritto di usarlo, quanto te –. Maria se lo prese subito in braccio e gli fece rompere tante noci, cercando però sempre le piú piccine in modo da non costringerlo a spalancare troppo la bocca perché la bocca spalancata cosí, per la verità, non gli donava. Si avvicinò Luisa e anche per lei l’amico Schiaccianoci dovette prestare la propria opera; ma parve farlo volentieri perché non smise mai di sorridere, di quel suo sorriso cordiale. Fritz frattanto, stanco di esercitazioni e cavalcate, sentendo quell’allegro scricchiolio di noci, era corso accanto alle sorelle: al vedere il curiosissimo ometto rise di cuore, volle mangiare qualche noce anche lui e cosí lo schiaccianoci passò di mano in mano, aprendo e richiudendo le mandibole senza interruzione. Fritz vi cacciò dentro noci sempre piú grosse finché, ad un tratto – crac – crac – due dentini caddero dalla bocca del pupazzo che rimase con la ganascia inferiore

semisguarnita e tentennante. – Oh... il mio povero caro Schiaccianoci!... – strillò Maria strappandolo dalle mani di Fritz. – Guarda che tonto... che baggiano! – disse il bimbo. – Vuol fare lo schiaccianoci e non ha neppure la dentatura in ordine... Non sa il suo mestiere... Dammelo qui, Maria... Deve romperne ancora di noci, e se perde i denti che gli restano – anche tutti quelli di sopra – poco male... Tanto è un buono a nulla!... – No, no! – strillò Maria piangendo. – Non te lo do piú il mio caro schiaccianoci!... Non vedi come mi guarda triste, con quella boccuccia ferita?... Tu sei un uomo senza cuore... Picchi i cavalli e fai perfino ammazzare i soldati!... – Perché cosí va fatto. E tu non puoi capirlo, – protestò Fritz. – E poi lo schiaccianoci è tanto mio come tuo. Dammelo qui! – Maria riattaccò a piangere disperatamente e avvolse in fretta lo schiaccianoci malato in un fazzolettino. Intervennero i genitori e il padrino Drosselmeier il quale, con grande disappunto di Maria, prese le parti di Fritz. Per fortuna il papà disse: – Ho messo esplicitamente lo schiaccianoci sotto la protezione di Maria; e poiché, a quanto vedo, in questo momento ne ha molto bisogno, lei può farne tutto ciò che vuole, senza che nessuno s’immischi. In quanto a te, Fritz, mi meraviglio che tu pretenda altre prestazioni da chi si è fatto male in servizio. Un buon militare dovrebbe sapere che non si mandano in linea i feriti –. Fritz rimase molto mortificato e, senza piú occuparsi di noci né di schiaccianoci, sgusciò verso l’altro lato del tavolo, dove i suoi ussari, lasciati i posti di guardia nei luoghi opportuni, si erano ritirati nel quartiere notturno. Maria cercò e mise da parte i dentini perduti da Schiaccianoci. Il povero malato era molto pallido e scosso; perciò la bimba, annodatogli intorno al mento un bel nastrino bianco sfilato dal suo vestitino e avvoltolo ancor piú accuratamente nel fazzoletto, ora lo teneva in braccio cullandolo come un bimbo piccino e guardando intanto le belle illustrazioni dei libri nuovi ricevuti in dono. Ma poiché il padrino Drosselmeier non la smetteva di ridere e di domandarle come potesse coccolare cosí quel mostriciattolo, la bimba, quantunque ciò non fosse nella sua natura, si sentí diventare cattiva. Ricordò il curioso paragone venutole in mente appena aveva scorto l’omino, e disse: – Anche se tu fossi elegante come il mio caro Schiaccianoci, con questi begli

stivali lucidi, non credo che saresti grazioso come lui, caro padrino!... – Chissà perché, i genitori scoppiarono a ridere forte, al consigliere d’appello il naso divenne rosso rosso e per contro la sua risata non suonò piú cosí schietta come prima... Chissà perché... Maria non lo capí. Ma un motivo ci doveva pur essere. Prodigi. Nella camera di soggiorno di casa Stahlbaum, appena entrati, a sinistra, contro la parete piú larga, c’era un grande armadio a vetri in cui i bimbi tenevano tutti i giocattoli ricevuti a Natale. Lo aveva fatto costruire il padre, quando Luisa era ancora molto piccola, da un abilissimo falegname, a perfetta regola d’arte, con applicati alle antine certi cristalli tersi come l’aria, di modo che, visti dentro quel mobile, gli oggetti sembravano ancor piú nuovi e fiammanti del vero. Nel piano piú alto, irraggiungibile per Fritz e Maria, c’erano le opere d’arte del padrino Drosselmeier, poi veniva il piano per i libri illustrati e negli ultimi due Fritz e Maria potevano metterci quello che volevano. Era però convenuto che Maria adibisse ad alloggio per le sue bambole il piano piú basso e Fritz acquartierasse le sue truppe nel secondo. Cosí si era fatto anche oggi: Fritz aveva messo i suoi ussari nel piano di sopra e Maria, spinta un po’ in disparte madamigella Geltrude, aveva sistemato la bella bambola nuova nella camera mobiliata, al piano di sotto; e si era quindi invitata da lei a mangiare i confetti. Come ho detto, si trattava di una camera mobiliata, e molto ben mobiliata; perché francamente non so, mia attentissima ascoltatrice Maria, se anche tu come la piccola Stahlbaum (già saprai che anche lei si chiamava Maria...), se anche tu, dicevo, possieda un piccolo sofà a fiorami, un grazioso tavolino da tè e, soprattutto, un cosí bel lettino candido per farci dormire le tue bambole piú belle... Questi mobili erano sistemati in un angolo dell’armadio, tappezzato di figurine colorate; e quindi, come potrai immaginare, madamigella Claretta (la bambola nuova si chiamava cosí: Maria lo aveva appreso la sera stessa), ci si trovava magnificamente. S’era fatto tardi: quasi mezzanotte; il padrino Drosselmeier se n’era andato da un pezzo, ma i bambini, benché la mamma continuasse a chiamarli a letto, non riuscivano ancora a distaccarsi dall’armadio.

– È vero, – convenne Fritz. – Questi poveri ragazzi (... i suoi ussari...), vorrebbero andarsene a riposare un po’; ma finché rimango qui io non osano batter ciglio, lo so –. E se ne andò via. Maria invece insistette a pregare: – Ancora un momento... un momentino solo, cara mamma... Devo fare una cosa... Appena ho finito vengo subito a letto –. Maria era una bimba buona e giudiziosa e la mamma poté lasciarla sola coi suoi giocattoli senza timore. Ma per essere certa che, distratta dalle bambole, non dimenticasse i lumi, preferí spegnerli lei stessa. Lasciò acceso soltanto quello del lampadario centrale, che spandeva una luce dolce, tranquilla, e si ritirò in camera da letto raccomandando ancora: – Vieni presto, cara, altrimenti domattina non potrai alzarti per tempo. Rimasta sola, Maria si affrettò a fare ciò che le stava tanto a cuore; non sapeva neppure lei perché non avesse osato parlarne alla mamma. Teneva ancor sempre in braccio lo schiaccianoci malato bene avvolto nel fazzoletto; ora lo depose con garbo sul tavolo, lo sfasciò accuratamente e ne esaminò le ferite. Schiaccianoci era molto pallido ma continuava a sorridere cosí mesto e affettuoso che Maria se ne sentí tutta commossa. – Ah, Schiaccianocino... – sussurrò, – non prendertela con mio fratello Fritz se ti ha fatto tanto male... forse non voleva... è un po’ duro di cuore per via della rude vita militare... ma in fondo è un bravissimo ragazzo, te l’assicuro... E adesso voglio curarti proprio bene, fino a quando non ritornerai sano e vispo come prima... A rimetterti a posto i dentini e a aggiustarti le spalle ci penserà il padrino Drosselmeier... lui di queste cose se ne intende... –; ma non poté finire perché al solo udire il nome di Drosselmeier l’amico Schiaccianoci aveva fatto una bocca maledettamente storta e nei suoi occhi erano guizzati certi bagliori verdastri e cattivi, molto simili ad aculei... Maria fu lí lí per spaventarsi; ma un attimo dopo Schiaccianoci la guardava già di nuovo con quel suo viso onesto, con quel suo sorriso un po’ triste... Certamente era stato il raggio della lampada, ravvivato da un’improvvisa corrente d’aria, a dargli quella strana espressione. «Che stupida bambina... Mi spavento per niente! – pensò Maria. – Ho perfino creduto che questo bambolotto di legno potesse farmi le smorfie... Ma a Schiaccianoci voglio bene proprio perché è cosí buffo e cosí

buono... Su, curiamolo come si deve!» E, ripreso in braccio il suo ometto, si avvicinò all’armadio a vetri, vi si inginocchiò davanti e disse alla bambola nuova: – Per favore, signorina Claretta, cedi il tuo lettino a Schiaccianoci che è malato e tu aggiustati come puoi sul sofà... Tu sei sana e robusta, altrimenti non potresti avere quelle guance rosse e paffute... E del resto poche bambole, anche fra le piú belle, hanno divani cosí morbidi, ricordatelo! Madamigella Claretta, nel suo fastoso abbigliamento natalizio, rimase lí, con un’aria di maestà offesa, ma non disse: «bah!»... – Ma perché sto a fare tanti complimenti? – disse Maria. Tirò fuori il letto, vi coricò pian piano, con bel garbo, lo schiaccianoci, gli fasciò la schiena malata col bel nastrino che le cingeva la vita e lo coprí ben bene fino al naso. «Claretta è cosí poco gentile, – pensò. – Non posso lasciarlo con lei», e mise il lettino con Schiaccianoci e tutto nel piano di sopra, proprio accanto al bel villaggio in cui erano acquartierati gli ussari di Franz. Poi richiuse l’armadio e fece per andare a letto... Senonché, a questo punto... udite, bimbi, udite!... da ogni angolo della camera, di dietro la stufa, le sedie, gli armadi, si levò un impercettibile coro di sussurri, bisbigli, brusii... La pendola si mise a ronzare sempre piú forte... ma a battere le ore non riuscí... Maria guardò in su e vide che la grossa civetta dorata posta sopra la pendola aveva lasciato ricadere le ali, ricoprendo l’intero orologio, e protesa in avanti la brutta testa felina col becco adunco... Frammiste al ronzio sempre piú rumoroso degli ingranaggi si intesero chiaramente queste parole: – Or, oro, orologio, orolò – ronzate piano, pianino, pianò – Re dei topi, orecchio fine – prr, prr... pum, pum... – vuol sentir le canzoncine – prr, prr... pum, pum... – su, cantà... su cantategli una vecchia canzoncina – prr... pum... – Batti batti pendolina – la sua fine è ormai vicina! – E quel sordo, quel roco «pum – pum» si ripeté per ben dodici volte!... Maria incominciò ad aver paura sul serio; e sarebbe fuggita via terrorizzata se non avesse visto sulla pendola, al posto della civetta, il padrino Drosselmeier, con le lunghe falde della sua gabbana gialla pendenti come due ali... La bimba riuscí ancora a dominarsi e implorò con voce piangente: – Padrino... padrino Drosselmeier, che cosa fai là sopra?... Scendi, scendi... non spaventarmi cosí, cattivo padrino!... – Ed ecco, dietro le pareti, scatenarsi un pandemonio di

squittii, risatine, vocette sibilanti... e lo scalpiccio di mille piedini al trotto... e mille puntini luminosi occhieggiare dalle sconnessure dei tavolati... Ma non erano lumini: erano occhietti scintillanti... topi... topi che sbucavano da tutte le parti... E, dopo qualche istante – hop, hop... – schiere di topi sempre piú fitte si lanciarono al galoppo per la camera, in tutte le direzioni, serrandosi, disponendosi in file ordinate, proprio come i soldatini di Fritz quando si preparavano alla battaglia. Maria trovò assai comico questo spettacolo; e, non avendo quell’istintivo orrore dei topi comune a tanti bambini, era quasi sul punto di deporre ogni timore quando, tutt’a un tratto, udí un sibilo cosí acuto e tagliente che le fece correre un brivido gelido lungo la schiena... Ah, cosa vide!... Eh, no, stimatissimo mio lettore Fritz: so bene che anche tu, come il saggio e valoroso comandante Fritz Stahlbaum, hai il cuore situato al posto giusto... Eppure, se tu avessi visto ciò che vide Maria, sono sicuro che te la saresti data a gambe, per andare a cacciarti in letto e tirarti le coperte fin sopra le orecchie, assai piú del necessario... Maria, ahimè, non poté fare neppure questo perché – udite, bimbi, udite... – proprio davanti ai suoi piedi schizzò un getto di sabbia, pietrisco e calcinacci, come proiettato da una forza sotterranea, e sette teste di topo, con altrettante coroncine scintillanti, sbucarono dal pavimento, squittendo e soffiando orribilmente... E, dopo le teste, sgusciò fuori il corpo cui le teste medesime – e relative corone – appartenevano e tutto l’esercito, salutato con un triplice, stridulo «Hurrà» il grosso topo dalle sette teste e dalle sette corone, puntò diritto verso l’armadio – verso Maria, ancor sempre rannicchiata contro la porta a vetri dell’armadio stesso. Fino a quel momento la bimba aveva creduto che il cuore stesse per schizzarle dal petto e lasciarla morta, tanto le batteva frenetico per la paura e l’orrore; ma adesso il sangue le si arrestò nelle vene. Semisvenuta, indietreggiò barcollando, diede di gomito nel vetro dell’antina e... crr... dlinng... la lastra cadde in frantumi. Maria avvertí una fitta lancinante al braccio sinistro ma subito riprese coraggio perché gli squittii, i sibili si erano zittiti e tutto era ritornato silenzioso. Evidentemente il tintinnio del vetro infranto aveva ricacciato i topi nei loro nascondigli... Ma che cosa stava accadendo di nuovo?... Altri strani rumori – e questa volta provenienti dall’armadio – si

fecero intendere... rumori strani, frammisti a vocette sottili, che chiamavano: – Sveglia, sveglia... alla battaglia! – Questa notte saran botte... – Sveglia, sveglia... alla battaglia!... – e sui richiami si inserí, gentile ed armonioso, il suono di un carillon... – Oh, il mio piccolo carillon!... – esclamò Maria tutta felice, scostandosi in fretta: l’interno dell’armadio le apparve stranamente illuminato, e ancor piú stranamente animato... bambole di tutti i tipi correvano avanti e indietro affannatissime, agitando le braccia... E Schiaccianoci, tutt’a un tratto, gettò via la coperta e balzò dal letto esclamando: – Cric... topaglia... – crac, canaglia... – cric, topaglia maledetta... – cric e crac, aspetta, aspetta!... – Quindi, sguainata e levata in alto la sua piccola spada, chiamò a raccolta i difensori: – Fedeli vassalli, amici, fratelli, volete seguirmi nell’aspra battaglia? – Siamo con voi, sire, decisi e fedeli! – risposero in coro tre Scaramuccia, un Pantalone, quattro Spazzacamini, due suonatori di cetra e un tamburino. – Con voi scenderemo in campo per vincere o morire! – e si lanciarono al seguito dell’animoso condottiero nello spericolatissimo salto dal secondo piano dell’armadio; il salto a loro non riuscí difficile non solo perché indossavano ampi vestiti di panno e di seta, ma avevano i corpi imbottiti di cotone o segatura e perciò caddero come altrettante balle di lana; ma il povero Schiaccianoci si sarebbe certamente rotto braccia e gambe perché il suo corpo era cosí fragile come se fosse intagliato nel legno di tiglio; sí, il nostro eroe con la spada sguainata si sarebbe spezzato braccia e gambe se madamigella Claretta, balzata prontamente dal sofà, non lo avesse raccolto fra le morbide braccia... – Ah, cara, buona Claretta, – singhiozzò Maria, – come ti avevo giudicata male!... Ora sono sicura che avresti ceduto volentieri il letto all’amico Schiaccianoci!... – Ma la signorina Claretta in quel momento stava stringendo il giovane eroe contro il serico seno e gli diceva: – Non vogliate, sire, scendere in campo, esporvi al pericolo, malato e ferito come siete!... Guardate come accorrono animosi, sicuri della vittoria, i vostri fedeli vassalli! Scaramuccia, Pantalone, gli spazzacamini, i suonatori di cetra, il tamburino sono già scesi... Tutte le figurine araldiche del mio piano stanno mobilitandosi... Vogliate, sire, riposare fra le mie braccia... o, se lo preferite, assistere alla vostra vittoria

attraverso il piumaggio del mio cappello! – Ma poiché Schiaccianoci continuava a sgambettare e scalciare in maniera assai poco galante, madamigella Claretta dovette affrettarsi a allentare la presa; allora egli pose molto cavallerescamente un ginocchio a terra e sussurrò: – Signora!... Nell’infuriar della mischia sempre ricorderò la vostra benevolenza –. Claretta si chinò profondamente, lo prese per le braccine e lo rialzò con dolcezza; poi, slacciatasi in fretta la cintura scintillante di lustrini, fece l’atto di metterla al collo del piccolo cavaliere. Schiaccianoci fece due passi indietro, si portò una mano al petto e disse in tono solenne: – Non vogliate, signora, profondere con me le vostre grazie, perché... – e qui esitò, si tolse il nastrino con cui Maria gli aveva fasciato il mento, lo baciò e se lo mise ad armacollo come una fascia di comando; quindi levò in alto lo spadino sguainato e saltò sul pavimento con l’aerea lievità d’un uccello. Avrete notato, lettori miei benevoli ed egregi, che Schiaccianoci, prima ancora di diventar veramente vivo, aveva profondamente sentito la bontà, l’affetto dimostratigli da Maria, preferendo al nastro, pur cosí scintillante e vistoso, di madamigella Claretta, il semplice nastrino della bimba che era stata tanto buona con lui. Ma... e adesso?... Che cosa accadrà?... Come Schiaccianoci toccò terra il coro degli squittii, dei pigolii si riaccese... Ahimè!... Le odiose schiere dei rosicanti innumerevoli erano adunate sotto il tavolo grande e sopra tutti emergeva il mostruoso topo dalle sette teste... Come la andrà a finire?... La battaglia. – Tamburino, fedele vassallo, batti la marcia generale! – comandò Schiaccianoci con voce tuonante; e il tamburino attaccò un rullo cosí magistrale da far tintinnare i vetri dell’armadio. E dentro l’armadio nuovi scricchiolii, nuovi rumori... Maria vide sollevarsi tutti i coperchi delle scatole in cui erano acquartierati i soldatini di Fritz, e i soldati balzarne fuori e saltare al piano di sotto per raggrupparsi in plotoni. Schiaccianoci correva su e giú, rincuorando le truppe con parole infiammate. – Non un cane di trombettiere che si muova!... – gridò incollerito e, rivolgendosi a Pantalone, piuttosto

pallido e col lungo mento tremante, gli disse solennemente: – Generale, conosco la vostra perizia e il vostro coraggio; qui si tratta d’avere colpo d’occhio sicuro e di saper approfittare del momento. Le affido il comando supremo della cavalleria e dell’artiglieria. Di un cavallo non avrà bisogno: lei ha le gambe lunghe e potrà galoppare passabilmente anche con quelle. Ora faccia il suo dovere –. Pantalone si portò immediatamente alle labbra le lunghe dita stecchite ed emise un suono lacerante come quello di cento trombe. Scalpitii, nitriti giunsero dall’armadio, e ne uscirono i corazzieri, i dragoni, gli ussari, gli ussari nuovi fiammanti di Fritz... Bandiere al vento, fanfare in testa, i reggimenti sfilarono uno dopo l’altro davanti a Schiaccianoci, per andare a disporsi in un’ampia fila sulla diagonale del pavimento. Precedevano la cavalleria, con gran fragore di ruote, i cannoni di Fritz, attorniati da cannonieri. E dopo pochi istanti – bum, bum! – una gragnuola di confetti si abbatté sulle fitte schiere dei topi incipriandoli di polvere zuccherina, con loro grande vergogna. Danni particolarmente gravi inflisse al nemico una batteria pesante postata sul poggiapiedi della mamma – pum, pum, pum!... – le noci di panpepato mandavano a gambe all’aria quanti ne toccavano... Tuttavia, i topi continuavano ad avanzare e avevano già perfino travolto alcuni cannoni quando – prr, prr! – si scatenò una mischia tale che Maria quasi non poté piú vedere che cosa stesse accadendo, tanto erano densi il fumo e la polvere. Ma una cosa era certa: tutti i reparti si battevano con disperato accanimento, e le sorti della battaglia pendevano incerte. I topi sviluppavano masse sempre piú imponenti, le loro palline d’argento, scagliate con grande precisione, giungevano già fin dentro l’armadio. Geltrude e Claretta correvano qua e là disperate, torcendosi le manine: – Ch’io debba morire nel fior dell’età?... Io, la piú bella di tutte le bambole?... – gridava Claretta. – Essermi conservata cosí bene per finire cosí, fra queste quattro pareti!... – gemeva Geltrude. E gettatasi fra le braccia della compagna pianse con lei cosí forte da sopraffare il fragore della battaglia. Difficilmente, egregi ascoltatori, riuscirete a farvi un’idea dello spettacolo che ne seguí. Che confusione, che scompiglio!... – prr, prr... puff, piff... zighete, zaghete... bum, bum, burubum, – i topi squittivano, il loro re strillava,

Schiaccianoci impartiva ordini con voce tonante accorrendo presso i battaglioni piú esposti al fuoco. Pantalone si era coperto di gloria effettuando alcune cariche di cavalleria molto brillanti; ma gli ussari di Fritz bersagliati da certe brutte palline puzzolenti, vedendo i bei giustacuori rossi coprirsi di ignobili macchie, non vollero piú saperne di andare avanti. Allora Pantalone li fece ripiegare a sinistra e, nella foga del comando, impartí lo stesso ordine ai corazzieri e ai dragoni; per il che, tutta la cavalleria fece fronte a sinistra e se ne ritornò a casa, lasciando in una situazione assai critica la batteria postata sul poggiapiedi. Infatti, di lí a non molto, un folto drappello di bruttissimi topi la travolse, al completo di cannoni e cannonieri. Schiaccianoci sconcertato e sgomento ordinò all’ala destra di ripiegare. Ora, mio caro ascoltatore Fritz, con la tua esperienza di arte bellica tu sai benissimo che una simile manovra equivale press’a poco a una fuga, e già deplorerai con me la sciagura abbattutasi sull’armata del beniamino di Maria... Ma volgi l’occhio da questo infelice settore e osserva l’ala destra, dove tutto procede ancora assai bene e molti sono i motivi di speranza e per il condottiero e per l’armata... Mentre infuriava il corpo a corpo, grandi masse di cavalleria nemica erano sbucate pian piano di sotto il comò, per gettarsi con furia e stridori selvaggi sull’ala sinistra dell’armata di Schiaccianoci. Ma quale resistenza incontrarono!... Lentamente, come lo consentiva la difficoltà del terreno, poiché si trattava di scavalcare il bordo dell’armadio, erano scese in campo le figurine araldiche, sotto la guida di due imperatori cinesi. Dispostesi «en carré plein», queste splendide e pittoresche truppe, composte di giardinieri, tirolesi, tungusi, parrucchieri, arlecchini, cupidi, leoni, tigri, cercopitechi e scimmie varie, combatterono con fermezza, calma e tenacia. Il valore spartano di questo battaglione «d’élite» avrebbe certamente strappato la vittoria al nemico se un capitano della cavalleria topina, spintosi avanti con folle temerarietà, non avesse addentato e stroncato la testa d’un imperatore cinese, il quale cadendo travolse due tungusi e un cercopiteco. Attraverso la falla cosí prodottasi i topi fecero irruzione, e in un baleno l’intero reparto fu sbocconcellato. Tuttavia da tale atrocità il nemico trasse ben scarso vantaggio perché non appena un topo cavalleggero, assetato di sangue, addentava uno

dei valorosi difensori, cadeva morto all’istante, col collo trafitto da un’asticciola. Ma questo giovava ancora all’armata di Schiaccianoci?... Una volta iniziato il ripiegamento, la ritirata proseguiva inarrestabile, con perdite sempre piú gravi anche se l’infelice condottiero, con un pugno di uomini, resisteva ancora, premuto contro l’armadio. – A me le riserve! – gridò Schiaccianoci nella speranza di veder sortire qualche rinforzo. – Pantalone... Scaramuccia... Tamburino, dove siete?... – Ma dall’armadio uscirono soltanto alcuni omini e donnine di Thurn, quei tali moretti dai visi, gli elmi e i cappelli dorati; guerrieri goffi ed inetti, non riuscirono ad abbattere un solo nemico e poco mancò che non portassero via il berretto di testa al loro stesso comandante; poi, con le gambe stroncate a morsi dai cacciatori nemici, i poveretti ruzzolarono a terra, trascinando nella caduta alcuni compagni d’armi di Shiaccianoci; il quale, circondato ormai da ogni parte, si vide perduto. Tentò di scavalcare il bordo dell’armadio ma le sue gambe corte non glielo permisero. – Claretta e Geltrude, cadute in deliquio, non potevano aiutarlo. – E intanto i dragoni e gli ussari in ritirata gli sfrecciavano intorno, saltando allegramente al riparo. – Un cavallo... un cavallo!... Il mio regno per un cavallo!... – invocò Schiaccianoci disperato. Ma in quell’attimo stesso due fucilieri nemici lo agguantarono per il mantello di legno mentre il re dei topi avanzava trionfante, squittendo con le sue sette gole. Maria perse la testa: – O Schiaccianoci!... Mio povero Schiaccianoci!... – gridò fra i singhiozzi; e, senza neppure rendersi ben conto di ciò che faceva, si sfilò la scarpina sinistra e la scaraventò con tutta forza là dove i topi erano piú fitti, sulle sette teste del re. Istantaneamente tutto parve dileguarsi e svanire. Ma Maria sentí una fitta ancora piú lancinante al braccio sinistro e cadde a terra svenuta. La malattia. Come ridestandosi da un profondo sonno di morte, la bimba si ritrovò nel proprio lettino. Un bel sole radioso entrava nella camera attraverso le finestre orlate di ghiaccio. Accanto al letto sedeva un uomo, in cui Maria quasi subito riconobbe il chirurgo Wendelstern. – Si è svegliata! – disse costui sottovoce; allora si avvicinò la mamma e la scrutò a lungo con occhi pieni di paura e di ansia. – Ah, mamma cara, – bisbigliò la piccola. – Quei brutti

topacci sono andati via?... E Schiaccianoci?... È salvo?... – Non dire sciocchezze, carina, – rispose la mamma. – Che c’entrano i topi con Schiaccianoci?... Tu, piuttosto, cattiva bambina, ci hai tenuti in pena, tutti quanti! Ecco che cosa succede quando i bambini vogliono fare di testa loro e non ubbidiscono ai genitori. Hai voluto giocare fino a tarda notte con le tue bambole, ti è venuto sonno e, chissà, forse ti sei presa paura per un topo... e dire che qui in casa, di solito, non ce ne sono... hai urtato il vetro dell’armadio, e ti sei fatto un bruttissimo taglio nel braccio... Il signor Wendelstern ha finito proprio adesso di estrarti le schegge rimaste nella ferita... Dice che se ti fossi tagliata una vena potevi restare col braccio anchilosato, se non addirittura morire dissanguata!... Grazie a Dio, verso mezzanotte mi sono svegliata e, non vedendoti a letto, sono corsa nella camera di soggiorno. Eri là, accanto all’armadio, per terra, svenuta e insanguinata... Per poco non svenivo anch’io dallo spavento!... Tutt’intorno erano sparsi i soldatini di Fritz... bambole, figurine rotte... omini di panpepato... Schiaccianoci stava appoggiato al tuo braccio ferito. Poco distante ho trovato la tua scarpina sinistra... – Ah, mammina, mammina! – la interruppe Maria. – Lo vedi?... C’erano ancora le tracce della grande battaglia fra le bambole e i topi... Schiaccianoci comandava l’armata delle bambole, e quando ho visto che i topi stavano per prenderlo prigioniero mi sono spaventata tanto, ho gettato la scarpa sui topi e poi... poi non so piú che cosa sia successo... – Il chirurgo Wendelstern fece un cenno d’occhi alla madre, la quale disse alla bimba con grande dolcezza: – Adesso non pensarci piú, mia cara piccina! Sta’ tranquilla: i topi sono scappati e Schiaccianoci è di nuovo sano e allegro nell’armadio –. Entrò il padre, confabulò a lungo col chirurgo, tastò il polso a Maria e Maria sentí parlare di febbre vulneraria... Dovette rimanere a letto, prendere medicine e la cosa durò per alcuni giorni, benché, a parte un po’ di dolore al braccio, non si sentisse veramente ammalata... Sapeva che Schiaccianoci era uscito vivo dalla battaglia; e talvolta, come in sogno, le pareva di udirne la voce... La voce era molto triste, ma le parole chiarissime: – Maria, – le diceva, – mia carissima dama, io le devo già molto ma lei per me può fare ancora di piú –. E Maria si sforzava di pensare ma non

riusciva assolutamente a capire di che cosa potesse trattarsi. Giocare proprio bene ancora non poteva, per via del braccio ferito, e se voleva leggere o sfogliare i libri illustrati, strani vermicelli luminosi le guizzavano davanti agli occhi, costringendola a smettere. Il tempo perciò le sembrava cordialmente lungo e la bimba non vedeva l’ora che si facesse sera perché, all’imbrunire la mamma veniva finalmente a sedersi accanto al suo letto e le leggeva o le raccontava tante belle cose. Quella sera, la mamma aveva giust’appunto finito di raccontarle la magnifica storia del principe Facardino, quando la porta si aperse ed entrò il padrino Drosselmeier dicendo: – Voglio proprio vedere con i miei occhi come va questa Maria, malata e ferita!... Rivedere quell’uomo con la sua giacchetta gialla e rievocare la scena della notte in cui Schiaccianoci aveva perduto la battaglia contro i topi, per Maria fu tutt’uno. – Padrino Drosselmeier, eri proprio brutto, sai!... – esclamò la bimba. – Ti ho ben visto quando stavi sull’orologio e lo coprivi con le ali perché non facesse rumore e non spaventasse i topi... Ti ho ben sentito chiamare il re dei topi!... Perché non sei sceso a aiutare Schiaccianoci e me, brutto padrino Drosselmeier!... Se devo stare a letto ferita, ammalata, è tutta colpa tua!... – Maria, cara... che ti prende?... – le domandò la mamma sgomenta. Ma il padrino Drosselmeier fece una faccia stranissima e incominciò a cantilenare con voce stridula e monotona, dondolando il braccio destro come quello d’una marionetta mossa dal filo: Ronza, ronza il pendolino Ma non vuole far tic-tac Gli orioli han da ronzare Sottovoce, pian pianino Frr, frr, clic, clac La campana batte l’ora Forte, forte, din e dan Clic, cluc, clic, clac Non temere, bamboletta L’orologio suonerà

A scacciare il re dei topi Verrà in fretta la civetta Fluc! In volo scenderà Pic, puc, pic, pac Campanella, bin, bin Oriolo, frr, frr... Ronza, ronza il pendolino Ma non vuole far tic-tac Frr, frr.... prr, prrr... Maria fissava il padrino affascinata, con tanto d’occhi, perché lo vedeva diverso, molto piú brutto del solito: in quel momento Drosselmeier le avrebbe fatto terrore se non ci fosse stata presente la mamma e non fosse saltato fuori Fritz a interrompere la tiritera con una risata: – Ehi, padrino Drosselmeier, – gridò il fanciullo, – oggi sei proprio troppo buffo: sembri tal e quale quel mio burattino che ho gettato dietro la stufa tanto tempo fa! – La mamma invece rimase seria: – Caro signor consigliere, – disse. – Il suo è uno scherzo molto strano... Si può sapere che cosa significa?... – O, santo cielo, – rispose Drosselmeier ridendo. – Non riconosce piú la vecchia canzoncina dell’orologiaio?... La canto sempre quando vado a trovare pazienti come Maria –. E, sedutosi accanto al letto della bimba, le disse: – Non tenermi il broncio se non ho cavato di colpo i quattordici occhi al re dei topi... credimi, non mi è stato possibile... In compenso ora voglio farti contenta –. Si cacciò una mano in tasca e tirò fuori adagio adagio... che cosa?... Schiaccianoci! Schiaccianoci a cui aveva abilmente sostituito i dentini perduti e rimesso a posto la mandibola slogata. Maria gridò per la gioia; e la mamma le disse sorridendo: – Vedi come vuole bene a Schiaccianoci il padrino Drosselmeier?... – Devi ammettere, Maria, – si intromise il consigliere, – devi ammettere che Schiaccianoci non ha una corporatura molto felice... E, di faccia, non può precisamente dirsi... bello... E adesso, se vuoi, ti racconterò come sia entrata e diventata ereditaria nella sua famiglia una tale bruttezza. La sai la storia della principessa Pirlipat, della strega Mauserinks e dell’orologiaio ingegnoso?... – Senti un po’, padrino Drosselmeier, – saltò su Fritz

all’impensata. – I denti, a Schiaccianoci, glieli hai rimessi a posto bene e anche la mandibola non ciondola piú come prima. Ma perché non gli hai fatto una spada?... – Benedetto ragazzo! – rispose il consigliere seccato. – Devi sempre trovare a ridire su tutto... Che c’entro io con la spada di Schiaccianoci?... Io gli ho curato il corpo... e se gli serve una spada ci pensi lui a procurarsela, come gli pare. – È vero, – ammise Fritz. – Se è un uomo in gamba, le armi saprà trovarsele! – Dunque, Maria, – riprese il consigliere. – Dimmi se conosci la storia della principessa Pirlipat. – O no, – rispose Maria. – Raccontamela, caro padrino, raccontamela! – Spero, – osservò la mamma, – che la sua storia non sia orripilante come tutte quelle che ha l’abitudine di raccontare... – Al contrario, cara signora! – rispose Drosselmeier. – Quella che avrò l’onore di presentarvi è una storia divertentissima. – Racconta, racconta, caro padrino! – esclamarono i bimbi. E il consigliere d’appello incominciò: La fiaba della noce dura. – La madre di Pirlipat era la moglie di un re, vale a dire una regina; e Pirlipat, nel momento stesso in cui venne al mondo, si trovò ad essere una principessa di sangue reale. Pazzo di gioia al pensiero di avere nella culla una cosí bella figlioletta, il re si mise a cantare, a ballare, a saltare su una gamba sola, gridando a perdifiato: «Evviva!... Si è mai visto qualcosa di piú bello della mia piccola Pirlipat?...» – Ministri, generali, presidenti, ufficiali di stato maggiore, saltando anch’essi su una gamba sola, ad imitazione del padre della patria, risposero in coro: «No! Giammai!...» – E infatti non si poteva negare che, da che il mondo era mondo, fosse mai nata una bimba piú bella della principessa Pirlipat. Il suo visetto sembrava intessuto di morbida seta, candida come il giglio e rosea come la rosa di maggio, gli occhietti vispi parevano due zaffiri scintillanti, e i riccioli – come le stavano bene quei riccioli!... – un delizioso intreccio di fili d’oro... Inoltre, Pirlipat era venuta alla luce portando con sé, nella boccuccia, due file di dentini simili a perle, coi quali, due ore dopo la nascita, aveva morso un dito al cancelliere del regno che voleva osservare i suoi lineamenti un po’ troppo da vicino. Si diceva che il cancelliere avesse gridato: «O Gesú mio!...», o, secondo altri, semplicemente «Ahii... oh!...»; le voci, al riguardo, sono ancor oggi molto discordi.

Comunque, Pirlipat aveva veramente morso il dito al cancelliere del regno, mandando tutto il paese in visibilio; perché ormai si sapeva per certo che il corpicino dell’angelica piccola Pirlipat albergava uno spirito sensibile e intelligente. Tutti, dunque, erano felici e contenti. Soltanto la regina pareva piena di paura e d’inquietudine, nessuno sapeva perché. Dava nell’occhio soprattutto il fatto che facesse sorvegliare con tanto rigore la culla di Pirlipat. Come se non bastassero le sentinelle alle porte e le due governanti sedute costantemente accanto alla piccina, altre sei donne dovevano vegliare nella camera per tutta la notte e – cosa incomprensibile!... – ognuna di esse doveva tenere un gatto in grembo e accarezzarlo senza interruzione, di modo che non la smettesse mai di fare le fusa... Il motivo di tali precauzioni voi bambini non potreste assolutamente indovinarlo; ma io lo so, e voglio dirvelo subito. Ecco com’erano andate le cose: una volta erano convenuti alla corte del padre di Pirlipat numerosi sovrani assai distinti e principi simpaticissimi, dando occasione a una serie di manifestazioni brillanti, quali tornei, commedie, balli di gala. Il re, per dimostrare a tutti che non mancava d’oro e d’argento, aveva deciso di attingere senza economia al tesoro della corona e organizzare qualcosa di veramente eccezionale. Avvertito in gran segretezza dal capocuoco che l’astronomo di corte aveva annunziato l’insorgere della congiuntura propizia alla macellazione del suino, sua maestà ordinò l’allestimento di un grandioso banchetto a base di salsicce, poi salí in carrozza e si recò personalmente a invitare i re e i principi a mangiare «un piatto di minestra» in casa sua, già pregustando con gioia la sorpresa degli ospiti all’apparire delle prelibate pietanze. Dopodiché, disse molto amabilmente alla regal consorte: «Tu sai, tesoruccio, quanto mi piacciano le salsicce!...» – La regina conosceva benissimo il significato di queste parole. Significavano che, come già aveva fatto altre volte, le sarebbe toccato adattarsi all’incombenza – utilissima, peraltro – di confezionare salsicce. Il maestro della tesoreria dovette consegnare immediatamente alle cucine il grande paiolo d’oro e le casseruole d’argento. Venne acceso un gran fuoco di legno di sandalo e, di lí a poco, dal paiolo fumante già emanavano i dolci aromi della pasta di salsiccia. Il piacevole odore giunse fino alla camera di consiglio e il re, inebriato, non

riuscí a trattenersi: «Col vostro permesso, signori!», esclamò; e corse in cucina, abbracciò la sovrana, rimestò un poco con lo scettro d’oro nel calderone e, tranquillizzato, ritornò alla camera di consiglio. Si era giunti, proprio in quel momento, alla fase piú importante e delicata: quella del taglio del lardo in tanti piccoli dadi da rosolarsi mediante minuscoli spiedi dorati. Le dame di corte si ritirarono; perché quest’operazione la regina intendeva compierla da sola, in segno di devozione e di rispetto al suo regal consorte. Ma non appena il lardo incominciò a rosolare, si intese il bisbiglio di una vocetta sottile sottile: «Da’ un po’ di arrostino anche a me, sorella!... Io pure voglio farmi una bella scorpacciata... sono una regina anch’io... Dammi un po’ di arrostino!...» – La regina comprese al volo: quella era la vocetta della signora Mauserinks. La signora Mauserinks abitava da molti anni nel palazzo del re; si diceva parente della famiglia reale e regina del regno di Mausolia, e, in tale qualità, teneva una corte molto grandiosa, sotto la pietra del focolare. La regina era una donna buona e caritatevole e, pur rifiutandosi di riconoscere alla signora Mauserinks la dignità di regina e sorella, fu ben lieta d’invitarla a partecipare al banchetto, in quel giorno di festa. «Venite pure, signora Mauserinks», rispose. «Certo che potete servirvi del mio lardo!» – La signora Mauserinks uscí vispa e giuliva dal suo buco e saltò sulla pietra del focolare a prendere con le graziose zampine i pezzi di lardo portile dalla regina, uno dopo l’altro. Ma dopo di lei, ecco sbucar fuori tutto il parentado: cugini, cugine, compari e perfino quei monellacci screanzati dei suoi sette figli, e precipitarsi sul lardo senza che la povera regina, spaurita, potesse difenderlo. A scacciare gli ospiti indiscreti sopraggiunse fortunatamente la prima dama di corte. Il poco lardo avanzato venne scrupolosamente suddiviso fra tutte le salsicce, secondo i calcoli e le indicazioni del matematico di corte, chiamato in soccorso. – Al suono di timpani e trombe, potentati e principi, in sgargianti abiti di gala, giunsero al banchetto, alcuni cavalcando cavalli bianchi, altri entro carrozze di cristallo. Il re li ricevette con affettuosa e cordiale benevolenza; e, corona in testa, scettro in mano, sedette subito a capotavola, come voleva il suo rango di sovrano della contrada. Già alla portata delle salsicce di fegato lo

si vide farsi sempre piú pallido, volgere gli occhi al cielo, sospirare angosciato, come se un’atroce pena lo tormentasse. Ma alla portata dei sanguinacci si abbatté gemendo contro lo schienale della poltrona, si coprí il viso con le mani e pianse da far pietà. Tutti balzarono in piedi. Il medico di corte tentò invano di tastare il polso all’infelice monarca, straziato, pareva, da un dolore inenarrabile. Finalmente, a furia di parole persuasive e di rimedi estremamente energici, come penne d’oca abbruciate e via dicendo, il re parve riprendersi un poco e farfugliò con voce appena percettibile: «... Troppo... poco... lardo...!» – Allora la regina gli si prosternò ai piedi singhiozzando sconsolata: «O, povero, infelice mio regal consorte!... Quale dolore ha dovuto subire la vostra regale maestà!... Ma ecco, veda, la colpevole è ai suoi piedi... La punisca... la punisca duramente!... Ahimè, fu la signora Mauserinks, furono i suoi sette figli, i suoi cugini, i suoi compari, a mangiare il lardo!... E poi...» – Ma a questo punto la regina cadde riversa, svenuta. Il re balzò in piedi fremente di collera: «Signora prima dama di corte!» gridò. «Com’è successo?» La prima dama di corte raccontò quanto ne sapeva, e il re giurò di vendicarsi della signora Mauserinks e della sua famiglia, che gli aveva mangiato il lardo per le salsicce. Si convocò il consiglio segreto di stato per processare la colpevole e confiscarle tutti i beni; ma il re, essendo convinto che nel frattempo quella genia avrebbe continuato a rubargli il lardo, passò l’intera pratica all’orologiaio – nonché occultista – della corona, che si chiamava esattamente come me, vale a dire Cristiano Elia Drosselmeier. Costui promise di scacciare per sempre la signora Mauserinks e famiglia dal palazzo, mediante una singolarissima operazione di alta politica. Inventò, infatti, certe piccole, ingegnose macchinette, entro cui si appendevano a un filo dei pezzetti di lardo arrostito, e le fece porre in prossimità dell’abitazione di madama mangialardo. La signora Mauserinks era troppo saggia per non subodorare l’inganno di Drosselmeier, ma a nulla valsero le sue ammonizioni e le sue prediche. Adescati dal dolce odorino del lardo arrostito, i sette discoli e una legione di cugini e compari entrarono nelle macchine di Drosselmeier, addentarono il lardo e rimasero presi in trappola dall’improvvisa caduta di

uno sportello graticolato. Gli infelici vennero ignominiosamente giustiziati nella cucina medesima. La signora Mauserinks lasciò quel luogo d’orrore con un’esigua schiera di sopravvissuti e col cuore traboccante di rancore, disperazione, sete di vendetta. La corte giubilò, ma la regina rimase molto preoccupata: conosceva troppo bene il carattere della signora Mauserinks per illudersi che lasciasse invendicata la morte dei figli e dei parenti. Infatti, un giorno, mentre stava cucinando un bel piatto di coratella per il regal consorte, che ne era ghiottissimo, ecco, saltò fuori la signora Mauserinks e le disse: «I miei figli, i miei cugini, i miei parenti sono stati massacrati... Bada, maestà, che la regina dei topi non abbia a sbranare la tua principessina... Bada!...»; con queste parole scomparve e non si fece piú vedere. La regina rimase talmente spaventata che lasciò cadere la coratella nel fuoco; in tal modo per la seconda volta – e di nuovo per colpa della regina dei topi – andò rovinato uno dei piatti preferiti del re, che se ne adirò moltissimo. – Ma per questa sera basta, – disse Drosselmeier. – Il seguito a domani. Per quanto Maria – che di questa storia si era fatta un’idea tutta sua particolare – insistesse nel pregarlo di continuare, il padrino fu irremovibile: – Il troppo stroppia, – disse alzandosi. Quand’era già sulla porta, Fritz gli domandò ancora: – Ma di’ un po’, padrino Drosselmeier, è proprio vero che hai inventato le trappole per i topi? – Non fare domande sciocche! – esclamò la mamma. Ma il consigliere sorrise in modo assai strano e disse sottovoce: – Io, che sono un cosí bravo orologiaio, non dovrei essere capace di inventare una trappola per topi?... Segue la fiaba della noce dura. – Adesso voi sapete, bambini, – riprese il consigliere Drosselmeier la sera seguente, – perché la regina facesse sorvegliare con tanto rigore la bellissima principessina. Poteva non temere che la signora Mauserinks, mettendo in atto la sua minaccia, venisse a uccidere Pirlipat a morsi?... Contro di lei, la saggia e scaltrissima regina dei topi, le macchine di Drosselmeier non potevano nulla. L’astronomo di corte – e al tempo stesso astrologo e supremo interprete dei segni celesti – fu l’unico a dichiarare con certezza che soltanto la famiglia del gatto Schnurr sarebbe stata in grado di tenere lontana la signora Mauserinks

dalla culla. Ecco perché a ognuna delle governanti era stato ordinato di tenere in grembo un pupillo della famiglia suddetta (a corte ce n’erano parecchi, e tutti impiegati in qualità di consiglieri di legazione), e di addolcirgli il gravoso servizio, con carezze e grattatine sapienti. Mezzanotte suonata. All’improvviso una delle capo-governanti, seduta proprio accanto alla culla si destò di soprassalto: intorno, tutto era immerso nel sonno – niente fusa – silenzio di tomba – soltanto lo stridere di un tarlo nel legno!... Ma immaginate come rimase la capo-governante quando si vide accanto un orribile topo, ritto sulle zampe posteriori e col muso schifoso contro il visino della principessa! Con un grido d’orrore la donna balzò in piedi e istantaneamente la signora Mauserinks (... chi altri poteva essere il grosso topo, se non lei?...) corse verso l’angolo della camera. I consiglieri di legazione si lanciarono all’inseguimento ma... troppo tardi! L’intrusa era già scomparsa in una fessura del pavimento. La piccola Pirlipat, svegliata da quel baccano, si mise a piangere forte. – «Lode al cielo! È viva!...», esclamarono le governanti. Ma grande fu il loro raccapriccio quando videro che cosa ne era diventato della bella, della tenera bimba... Al posto della testina angelica, bianca, rosea, ricciuta e bionda come l’oro, un testone informe poggiava su un minuscolo corpicino rattrappito. Gli occhi color del cielo si erano trasformati in due bocce verdi, sporgenti, dallo sguardo imbambolato, la deliziosa boccuccia in una bocca mostruosa che giungeva da un orecchio, all’altro. La regina parve dovesse morire a furia di gemiti e pianti. Lo studio del re dovette venir tappezzato di coltri imbottite perché sua maestà non faceva piú altro che dar di testa contro le pareti, gridando con voce da far pietà: «O me infelice!... Sventurato monarca!...» – A questo punto chiunque altro al posto suo avrebbe ammesso che sarebbe stato assai meglio mangiare le salsicce senza lardo e lasciare in pace sottoterra la signora Mauserinks e il parentado; ma il regal genitore di Pirlipat, non giunse a tale conclusione e preferí riversare tutta la colpa dell’accaduto sull’orologiaio – nonché occultista – di corte, Cristiano Elia Drosselmeier, da Norimberga. E pertanto emise la seguente saggia ordinanza: se Drosselmeier entro quattro settimane non avesse riportato la principessina Pirlipat allo stato primitivo o, quanto meno, non fosse stato in grado di indicare un

rimedio infallibile per raggiungere lo scopo, sarebbe morto di morte ignominiosa sotto la scure del boia. Sulle prime Drosselmeier si impressionò non poco ma poi, fidando nell’arte sua e nella buona stella, passò a compiere la prima operazione del caso. Con incredibile abilità smontò la principessina da capo a piedi, le svitò le manine, i piedini, ne esaminò la struttura interiore ma giunse, purtroppo, soltanto alla certezza che la bimba, crescendo, sarebbe diventata sempre piú mostruosa. Rimedi, consigli utili, non seppe suggerirne. Rimise insieme con cura la principessa e si accasciò affranto presso la culla, da cui non doveva allontanarsi mai. Si giunse cosí al mercoledí della quarta settimana. Il re, con occhi fiammeggianti di collera, fece capolino dalla porta e disse agitando minacciosamente lo scettro: «Cristiano Elia Drosselmeier, guarisci la principessa o morirai!» – Drosselmeier scoppiò in amarissimo pianto; ma mentre lui piangeva, la principessa schiacciava allegramente noci con i dentini. Per la prima volta, l’occultista fece caso all’eccezionale avidità con cui la piccola mangiava noci... ripensò al fatto che fosse venuta al mondo coi dentini, e la coincidenza lo colpí. Infatti, infatti: subito dopo la mostruosa trasformazione si era messa a strillare ed aveva continuato fino a quando, per caso, non le era capitata fra le manine una noce... una noce che subito aveva stritolato con i dentini per mangiarne il gheriglio; dopodiché si era immediatamente chetata. Da quel momento le governanti non facevano piú in tempo a portarle tutte le noci che consumava. – «O divino istinto della natura!... Eterna, insondabile simpatia che regola i rapporti fra tutti gli esseri viventi!», esclamò Cristiano Elia Drosselmeier. «Tu mi additi la porta del mistero... io busserò e mi sarà aperto!» Chiese immediatamente il permesso di conferire coll’astronomo di corte e venne condotto da lui sotto scorta. I due scienziati, legati da tenera amicizia, si abbracciarono fra le lacrime e, ritiratisi in un gabinetto segreto, consultarono numerosi libri e trattati sugli istinti, le simpatie, le antipatie e altri misteriosi fenomeni. Quando si fece notte, l’astronomo di corte scrutò le stelle e, con l’aiuto di Drosselmeier – versatissimo anche in questo campo – tracciò l’oroscopo della principessa Pirlipat. Fu una fatica enorme, perché le linee sembravano imbrogliarsi sempre piú ma finalmente – o gioia! – finalmente apparve chiaro e manifesto

che, per sciogliere l’incantesimo e ritornare bella come prima, la principessa Pirlipat doveva semplicemente mangiare il dolce gheriglio della noce Krakatuk. – La noce Krakatuk aveva un guscio cosí duro che sarebbe potuto passarci sopra un cannone da quarantotto libbre senza schiacciarlo: eppure questa durissima noce doveva venir spezzata coi denti da un giovane che ancora non si fosse mai raso né avesse mai calzato stivali. E non basta. Il giovane in questione avrebbe dovuto porgere il gheriglio alla principessa tenendo gli occhi chiusi e riaprirli soltanto dopo aver fatto sette passi all’indietro senza inciampare... – Drosselmeier e l’astronomo avevano lavorato ininterrottamente per tre giorni e tre notti. Era sabato; il re sedeva a tavola per il desinare di mezzodí quando Drosselmeier, che avrebbe dovuto venir decapitato l’indomani mattina di buon’ora, si precipitò, pazzo di gioia in sala da pranzo ad annunziare che il rimedio per restituire alla principessa Pirlipat la perduta bellezza era stato trovato. Il re lo abbracciò con impetuosa benevolenza e gli promise una spada di diamante, quattro decorazioni e due abiti da festa nuovi fiammanti: «Appena finito di pranzare», soggiunse affabilmente, «ci si deve mettere all’opera. Faccia in modo, mio caro occultista, che il giovanotto imberbe con le scarpine nei piedi e, naturalmente, anche la noce Krakatuk, siano a portata di mano. E badi bene di non lasciargli bere vino, a quel tale, di modo che non abbia a inciampare quando dovrà fare i sette passi camminando all’indietro come i gamberi. Dopo potrà pure ubriacarsi quanto vorrà». – Drosselmeier rimase senza fiato... Esitando, tremando, balbettando, fece presente al sovrano che il rimedio era, sí, stato trovato, ma che la noce Krakatuk e il giovanotto-schiaccianoci dovevano ancora cercarsi, ed era assai dubbio che potessero trovarsi mai... Fremente di collera, il re si percosse la testa coronata con lo scettro e ruggí, con voce leonina: «E allora confermo l’ordine di decapitarti!» – Nel tragico frangente fu una vera fortuna per il povero orologiaio, angustiato e impaurito, che quel giorno il re avesse particolarmente gustato il pranzetto e fosse pertanto nelle migliori disposizioni di spirito per prestare orecchio alle sensate parole della

magnanima regina, commossa dalla sorte di Drosselmeier. Questi riprese coraggio e finí per obiettare che, indicando il rimedio per guarire la principessa, il suo compito, dopo tutto, lo aveva assolto e la vita se l’era riscattata. «Cavilli... pretesti... chiacchiere senza senso!», brontolò il re e, trangugiato un bicchierino di liquore digestivo, decise che l’orologiaio e l’astronomo partissero insieme – gambe in spalla – e non ritornassero senza portare in tasca la noce Krakatuk. In quanto al giovane destinato a schiacciare la medesima coi denti, la regina suggerí di procurarselo mediante ripetute inserzioni nei gazzettini locali ed esteri –. A questo punto il consigliere d’appello si interruppe di nuovo e promise di terminare la storia l’indomani sera. Si conchiude la fiaba della noce dura. La sera dopo, appena si accesero i lumi, il padrino Drosselmeier si ripresentò puntuale e riprese il racconto: – Drosselmeier e l’astronomo di corte erano in viaggio ormai da quindici anni ma della noce Krakatuk non avevano ancora trovato traccia. Se dovessi descrivervi tutti i luoghi che attraversarono e le straordinarie peripezie di cui furono protagonisti, bambini miei, avrei da raccontarvene per un mese. Non lo farò, ma vi dirò solamente che Drosselmeier, già tanto turbato, a un certo punto incominciò a soffrire d’una terribile nostalgia della sua amata città natale: Norimberga. Tale nostalgia lo colse in forma particolarmente acuta mentre, seduto insieme all’amico in una immensa foresta asiatica, stava fumandosi una pipatina di tabacco canastro. O Norimberga mia, bella città Chi veduta non t’ha Fosse pur ito A Parigi, od a Londra, o in altro sito Avrà sempre di te la nostalgia O Norimberga mia, città celeste Dalle case munite di finestre... – Udendo Drosselmeier gemere questa tristissima nenia, l’astronomo fu preso da compassione e incominciò a piangere, a ululare cosí forte che lo si

sentí da un capo all’altro dell’Asia. Però si riprese quasi subito, si terse le lacrime e disse: «Ma, esimio collega, perché invece di starcene qui seduti a piangere non andiamo a Norimberga?... Tanto, cercarla in un posto o nell’altro, quella maledetta noce Krakatuk, non è la stessa cosa?...» – «Questo è anche vero», ammise Drosselmeier rincuorato. E, detto fatto, si alzarono – tac, tac – svuotarono le pipe e via, tutto d’un fiato, da quel bosco nel cuore dell’Asia, difilato a Norimberga. Appena arrivati, Drosselmeier si precipitò da un suo cugino, fabbricante di bambole, verniciatore e indoratore, di nome Cristoforo Zaccaria Drosselmeier, che non aveva piú visto da molti e molti anni; e subito gli raccontò tutta la storia della principessa Pirlipat, della signora Mauserinks nonché della noce Krakatuk. – «Ah, cugino, cugino», esclamò Cristoforo Zaccaria dopo aver abbondantemente manifestato il proprio stupore con grandi battute di mano. «Che cose!... Che cose inaudite!...» – E Drosselmeier raccontò ancora le peripezie del lungo viaggio: come avesse trascorso due anni presso il re dei datteri – e fosse stato ignominiosamente scacciato dal principe dei mandorli – e avesse invano sottoposto il suo problema alla Società di ricerche scientifiche naturalistiche di Sciuruspoli (la capitale degli Scoiattoli); in breve, come in nessun posto fosse riuscito a scovare la benché minima traccia della noce Krakatuk. Durante questo racconto Cristoforo Zaccaria non aveva fatto altro che schioccare le dita, la lingua, piroettare su un piede solo mugolando: «Hm, hm... Ih... Ahi... Ohh... il diavolo mi porti!»; ma alla fine scagliò in aria la parrucca ed abbracciò con effusione il cugino esclamando: «Cugino, cugino!... Voi siete a posto... siete a posto, vi dico... Perché, se non è tutto un abbaglio, io, io stesso possiedo la noce Krakatuk...»; e corse a prendere una scatoletta dalla quale tirò fuori una noce dorata, di media grandezza. «Guardate...», disse mostrandola al cugino. «Guardate... E state a sentire la storia di questa noce: molti anni fa, durante le feste natalizie, giunse qui un uomo a vendere un sacco di noci. Proprio davanti al mio negozio di bambole, un mercante del posto, irritato dalla concorrenza dello straniero, lo aggredí; e quello, prima di venire alle mani, per difendersi meglio pose il sacco per terra; passava in quel momento un grosso carro carico di merci, travolse il sacco e schiacciò tutte le

noci, tranne questa sola, che lo straniero mi offrí in vendita – con un sorriso curioso – per una svanzica dell’anno 1720. La cosa mi parve strana... mi frugai in tasca... ci trovai proprio una di quelle svanziche, comprai la noce e la indorai. Non sono però mai riuscito a capire perché la pagassi tanto cara e la tenessi tanto da conto, come una cosa preziosa». Gli ultimi dubbi circa l’autenticità della noce Krakatuk caddero, non appena l’astronomo di corte, chiamato in consulto, dopo aver grattato e ripulito ben bene il guscio della noce, vi trovò incisa la parola «Krakatuk», in caratteri cinesi. Grande fu la gioia dei nostri due viaggiatori; e il cugino Cristoforo Zaccaria divenne l’uomo piú felice sotto il sole allorché Drosselmeier gli assicurò che ormai la sua fortuna era fatta. D’ora innanzi, oltre a una cospicua pensione, avrebbe ricevuto gratuitamente tutto l’oro necessario per le sue indorature. L’occultista e l’astronomo, infilatisi le berrette da notte, si disponevano a andare a letto quando questi – l’astronomo – osservò: «Egregio signor collega, le fortune non vengono mai sole. Mi creda: abbiamo trovato non soltanto la noce Krakatuk, ma anche il giovinetto destinato a schiacciarla coi denti e a porgere alla principessa il “gheriglio della bellezza”... Alludo, né piú né meno, che al figliolo del suo signor cugino!... No... Non andrò a dormire», proseguí con foga, «voglio tracciare l’oroscopo del ragazzo questa notte stessa!» – Cosí dicendo si strappò la berretta dal capo e iniziò senz’altro le sue compulsazioni. Il figlio del cugino era, in effetti, un bel ragazzino ben fatto, assolutamente imberbe e privo di stivali. Veramente, da piccolo era stato una marionetta, ma per due Natali soltanto; ora non lo dava assolutamente piú a vedere, tanto lo avevano migliorato gli sforzi educativi del buon padre. Durante le feste natalizie indossava una bella giubba rossa e oro e, spada al fianco, cappello sotto il braccio, parrucca con codino sulla testa, bazzicava nella bottega del padre spezzando noci coi denti per conto delle ragazzine. Quest’atto di innata galanteria gli aveva già fruttato il soprannome di «Schiaccianocino bello» da parte delle ragazzine medesime. – Il mattino seguente l’astronomo, fuor di sé dalla gioia, si gettò al collo dell’occultista esclamando: «È lui!... Lo abbiamo trovato... lo teniamo!... Due cose soltanto non dobbiamo trascurare, collega carissimo; primo: lei dovrà applicare al suo

illustre signor nipote un robusto codino di legno, collegato con la mandibola inferiore in modo tale che tirandolo energicamente si possa raddoppiare la forza dei muscoli zigomatici. Secondo: quando giungeremo a corte non dovremo assolutamente dire di aver portato con noi il giovane schiaccianoci; egli dovrà fingere di arrivare molto dopo di noi. Perché leggo nell’oroscopo che se qualcun altro si spezzerà qualche dente senza risultato, il re prometterà la mano della principessa e la successione al trono a chi riuscirà a spezzare la noce e a restituire alla figlia la bellezza perduta». Il tornitore di bambole rimase estremamente soddisfatto all’udire che il suo figlioletto era destinato a sposare la principessa Pirlipat e a diventare principe e re. Drosselmeier applicò la leva al giovane e promettente nipote in modo ineccepibile; gli esperimenti effettuati anche sui piú duri noccioli di pesca furono brillantissimi. – Poiché i due scienziati avevano immediatamente notificato alla capitale il ritrovamento della noce Krakatuk, anche là si erano subito prese le disposizioni del caso. Cosicché, quando i nostri viaggiatori fecero ritorno in patria recando il miracoloso cosmetico, erano già stati preceduti da numerosi giovani di bell’aspetto – (... c’erano perfino alcuni principi!) – i quali, fidando nelle loro sane dentature, volevano tentare di sciogliere l’incantesimo. Nel rivedere la principessa, l’astronomo e l’occultista inorridirono: Pirlipat era un mostriciattolo, dalle membra striminzite, dal piccolo corpo che pareva reggere a stento l’enorme testa deforme... La bruttezza del viso era ancora accentuata da una barbetta bianca lanugginosa intorno alla bocca e sul mento. L’oroscopo aveva detto il vero! – Uno dopo l’altro, gli sbarbatelli si fiaccarono mandibole e denti contro il durissimo guscio della noce Krakatuk senza, naturalmente, recare alcun vantaggio alla principessa. Vennero portati via semisvenuti dal dentista di servizio, gemendo invariabilmente: «Ahi, ahi, che noce dura!...». – Quando finalmente il re, ansioso e trepidante, promise la figlia e il regno a chi avesse rotto l’incantesimo, il tenero e gentile giovinetto Drosselmeier si fece annunziare e chiese di poter tentare la prova. Nessuno dei competitori era piaciuto tanto alla principessa Pirlipat quanto quel giovinetto; vedendolo

si pose le manine sul cuore e sospirò dal fondo dell’anima: «Ah, fosse lui quello che riuscirà a rompere la noce Krakatuk e a diventare il mio sposo!» – Il giovane Drosselmeier, rivolto un cortese saluto al re, alla regina, alla principessa, ricevette la noce Krakatuk dalle mani del gran cerimoniere, se la mise in bocca, diede di strappo al codino e – crac, crac... – fece saltare il guscio in mille pezzi; ripulí con cura il gheriglio delle residue fibre legnose e lo porse, con un’umile riverenza, alla principessa. Poi chiuse gli occhi e incominciò a camminare all’indietro. La principessa inghiottí senz’altro la noce e – o prodigio!... – al posto del mostriciattolo apparve un’angelica figuretta di fanciulla, dal viso come intessuto di serici fiocchi, candidi come il giglio, rosei come la rosa di maggio, dagli occhi simili a due zaffiri splendenti e i riccioli biondi a un intreccio di fili dorati. Timpani e trombe si unirono al tripudio del popolo; il re e tutta la corte si misero a ballare su un piede solo, come nel giorno della nascita di Pirlipat, ma la regina cadde in deliquio per la troppa gioia e dovettero rianimarla con aspersioni di «eau de Cologne». Il tumultuoso baccano turbò non poco il giovane Drosselmeier, ancor sempre alle prese con i sette passi indietro; ciò nonostante egli riuscí a controllarsi, e già stava posando in terra il piede destro per la settima volta quand’ecco, madama Mauserinks sbucò dal pavimento squittendo e pigolando minacciosa: il piede le si posò addosso, Drosselmeier incespicò, per un pelo non cadde... O, sciagura!... Istantaneamente il fanciullo divenne mostruoso come lo era stata fino a allora la principessa... il suo corpo si contrasse, si rattrappí al punto di non poter quasi piú reggere l’enorme testa deforme, dai grossi occhi sporgenti, dall’orrenda boccaccia spalancata... Al posto del codino, gli pendeva dietro le spalle un breve mantelletto di legno, collegato alla mandibola in modo da poterne comandare i movimenti. L’orologiaio e l’astronomo inorridirono; ebbero tuttavia la soddisfazione di veder la signora Mauserinks contorcersi a terra, nel proprio sangue. Tanta perfidia non era rimasta impunita: il giovane Drosselmeier, calpestandole il collo col tacco aguzzo l’aveva ferita a morte. Negli spasimi dell’agonia essa pigolò ancora pietosamente: O Krakatuk, o dura, dura noce

Tu sei la causa di mia morte atroce Hi-hi, pi-pi, Schiaccianocino caro Presto saprai quanto il morir sia amaro. Il figlio mio, dalle sette corone Ti darà, Schiaccianoci, il guiderdone. Vendicherà la madre: aspetta, aspetta Il figlio mio di me farà vendetta! O vita, addio! Ancor sí fresca e forte Dover chiudere gli occhi nella morte! Quick! Con quest’ultimo gridolino madama Mauserinks spirò e venne spazzata via dal reale intendente alle stufe. – Del povero Drosselmeier non si era curato nessuno. Fu Pirlipat a ricordare al re la promessa, e questi allora ordinò di condurgli subito il giovane eroe; ma quando l’infelice si presentò, in tutta la sua mostruosa deformità, la principessa si coprí il volto con le mani strillando: «Via... via!... Portate via quell’orribile schiaccianoci!...»; e, detto fatto, il maresciallo di corte afferrò il poverino per le gracili spalle e lo scaraventò fuori dalla porta. Il re montò sulle furie – come avevano osato proporgli per genero uno schiaccianoci?... – e riversò tutta la colpa sulla inettitudine dell’orologiaio e dell’astronomo, decretando per entrambi l’esilio perpetuo dalla residenza reale. Questa complicazione, l’oroscopo tracciato a Norimberga non l’aveva prevista; ciò nondimeno l’astronomo non si tenne dal ritentare la prova; e credette di leggere nelle stelle che il giovane Drosselmeier si sarebbe comportato cosí bene nella sua nuova mansione da diventare, alla fine, principe e re, malgrado la sua bruttezza. Di tale bruttezza, però, si sarebbe liberato se fosse riuscito ad uccidere di propria mano il figlio di madama Mauserinks (nato con sette teste, dopo la morte di quei sette figli, e diventato re dei topi), e a conquistarsi la benevolenza di una dama malgrado il suo orribile aspetto. Pare che il giovane Drosselmeier sia poi stato visto a Norimberga, nella bottega del padre: era uno schiaccianoci, sí, ma anche un principe! – Questa, bambini, è la storia della noce Krakatuk. E adesso voi sapete perché la gente dica cosí spesso: «Ah... che noce dura!», e da che cosa

dipenda il fatto che gli schiaccianoci siano tanto brutti. Il consigliere d’appello concluse cosí il suo racconto. Maria deprecò indignata la nera ingratitudine della principessa Pirlipat; Fritz, invece, dichiarò che se Schiaccianoci avesse avuto un briciolo di fegato, avrebbe dovuto sbrigarsela senza tanti complimenti col re dei topi e riconquistarsi la graziosa figura di un tempo. Zio e nipote. Se qualcuno fra voi, lettori o ascoltatori pregiatissimi, ha già avuto la sfortuna di tagliarsi con una scheggia di vetro, saprà per esperienza quanto siano dolorose, e insidiose, e lunghe a guarire simili ferite. Maria aveva dovuto rimanere a letto per quasi una settimana perché se appena si alzava si sentiva girare la testa. Finalmente ritornò a star bene e a correre allegra per la camera come prima. L’armadio a vetri era bellissimo a vedersi, cosí pieno di bambole, casette, alberelli, fiori, giocattoli nuovi fiammanti. Per prima cosa Maria ritrovò il suo caro Schiaccianoci che le sorrideva dal secondo piano, con la dentatura rimessa a nuovo. Ma mentre lo contemplava struggendosi di tenerezza, si rese improvvisamente conto, con sgomento, che tutto il racconto del padrino era la pura e semplice storia del conflitto suo e di Schiaccianoci con madama Mauserinks e suo figlio. – Schiaccianoci – ora lo sapeva di certo – non poteva esser altri che il grazioso e simpatico nipote del padrino Drosselmeier, il fanciullo di Norimberga, stregato, purtroppo, dalla signora Mauserinks. In quanto, poi, all’ingegnoso orologiaio del real padre di Pirlipat – Maria lo aveva capito benissimo già durante il racconto – era, senz’ombra di dubbio, il padrino Drosselmeier in persona... – Ma perché allora tuo zio non ti ha aiutato?... Perché non ti ha aiutato?... – gemeva la bimba, mentre sempre piú chiara e precisa si rafforzava in lei la convinzione che nella battaglia a cui aveva assistito erano in gioco il regno e la corona di Schiaccianoci... Non erano forse tutte sottomesse a lui, le altre bambole?... E ciò non significava che – come giustamente aveva profetato l’astronomo di corte – il fanciullo Drosselmeier era diventato re del regno delle bambole?... Mentre la bimba si sforzava di dipanare nella sua testolina intelligente tali pensieri, si convinse che Schiaccianoci e i suoi vassalli avrebbero preso vita, si sarebbero mossi, per

il semplice fatto che lei li riteneva capaci di tanto. Invece non fu cosí: nell’armadio tutto rimase immobile e Maria, ben lontana dal rinunziare alla propria convinzione, attribuí anche questo fatto all’incantesimo di madama Mauserinks e del suo figliolo dalle sette teste. – Però, – disse, parlando forte a Schiaccianoci. – Anche se lei non è in grado di muoversi e di dirmi una parolina, caro signor Drosselmeier, io so che mi capisce e sa quanto le voglio bene... Conti pure sul mio appoggio, qualsiasi volta le occorra! Proverò almeno a pregare suo zio che le venga in aiuto in caso di bisogno... lui, che è tanto ingegnoso... – Schiaccianoci rimase zitto e tranquillo; ma a Maria parve che un lieve sospiro, un sospiro quasi impercettibile ma delizioso ad udirsi, corresse per l’armadio, e una vocetta limpida come un suono di campanella cantilenasse: – Maria, piccina – angelo mio – tu sarai mia – tuo sarò io – Maria... – Maria provò un brivido freddo e insieme uno strano senso di benessere. – Imbruniva. Il consigliere sanitario entrò col padrino Drosselmeier, Luisa in quattro e quattr’otto apparecchiò il tavolino del tè e la famiglia vi si sedette attorno conversando allegramente. Maria, zitta zitta, era andata a prendere la sua seggiolina per sedersi proprio accanto ai piedi del padrino. In una pausa della conversazione, la bimba sgranò gli occhioni celesti sul viso di Drosselmeier e gli disse: – Adesso so, caro padrino, che il mio Schiaccianoci è tuo nipote... quel giovane signor Drosselmeier di Norimberga... È diventato principe, anzi, re, proprio come aveva predetto il tuo amico astronomo... Tu sai che è in guerra aperta col brutto re dei topi, figlio della signora Mauserinks... Perché non lo aiuti?... – E la bimba raccontò daccapo tutto lo svolgimento della battaglia – cosí come l’aveva vista –, continuamente interrotta dalle sonore risate della mamma e di Luisa. Soltanto Fritz e Drosselmeier rimasero seri. – Ma dove le va a prendere tutte queste idee strampalate, la mia bambina?... – domandò il papà. – Sai, caro, – rispose la mamma, – ha una fantasia molto fervida, ecco tutto... E poi si tratta soltanto di sogni provocati dalla febbre alta, durante la malattia. – Non è vero niente! – protestò Fritz. – I miei ussari rossi non sono dei simili poltroni... Corpo di mille spingarde!... Gliela farei vedere io!... – Ma il padrino Drosselmeier, col suo enigmatico sorriso, prese in grembo la piccola e le disse

piú teneramente del solito: – Eh, sí, cara la mia Maria: a te è stato dato piú che a noi tutti... Tu sei, come Pirlipat, una principessa di sangue reale, perché regni su un regno meraviglioso, candido come la neve... Ma ti toccherà soffrire molto se vorrai continuare a proteggere quel povero schiaccianoci deforme, perché il re dei topi lo perseguita senza dargli quartiere. Non io, carina, tu sola potrai salvarlo: tieni duro e siigli fedele –. Né Maria né nessun altro comprese che cosa intendesse dire Drosselmeier con queste parole; e il papà le trovò cosí strane che volle tastare il polso al consigliere: – Egregio amico, – gli disse, – lei soffre di gravi congestioni cerebrali. Le prescriverò qualche cosa –. Soltanto la mamma rimase sopra pensiero e disse piano, crollando il capo: – Credo di intuire che cosa abbia inteso dire il signor consigliere... ma non saprei ripeterlo con parole chiare... La vittoria. Non molto tempo dopo, Maria, in una notte di luna, fu svegliata da strani rumori che parevano provenire da un angolo della camera... Rumori come di pietruzze smosse e scagliate qua e là, frammisti a sibili, a squittii sgradevolissimi. – Ah!... I topi... i topi ritornano! – gridò Maria spaventata e volle svegliare la mamma: ma il grido le morí in gola e le membra si rifiutarono di ubbidirle quando essa vide il re dei topi aprirsi un passaggio attraverso una fessura del muro, uscirne con gli occhi – con le corone – sfavillanti e balzare d’un salto sul tavolino accanto al suo letto. – Ih... ih... ih... Devi darmi tutti i tuoi confetti... tutto il tuo marzapane, piccina mia... Altrimenti divorerò Schiaccianoci... il tuo Schiaccianoci! – sibilò il re dei topi con un sinistro scricchiolio di denti e poi subito corse via, nel suo pertugio... Il giorno dopo Maria era pallidissima, agitata, taciturna, tanto l’aveva spaventata e scossa l’orribile apparizione. Cento volte fu sul punto di raccontare tutto alla mamma, a Luisa, perlomeno a Fritz... Ma, chi le avrebbe creduto?... E non l’avrebbero presa ben bene in giro, per giunta?... E questo pensiero la trattenne. Convinta, tuttavia, che per salvare Schiaccianoci avrebbe dovuto sacrificare confetti e marzapane, verso sera pose quanto possedeva di tali beni accanto al bordo dell’armadio. La mattina seguente la mamma disse: – Non capisco come mai tutt’a un tratto siano entrati i topi nel

nostro alloggio. Guarda soltanto, povera Maria: hanno mangiato tutti i tuoi dolci –. Era proprio cosí. Il marzapane ripieno, l’ingordo re dei topi non l’aveva trovato di suo gusto, però lo aveva rosicchiato in modo tale che lo si dovette buttar via. Maria non rimpianse minimamente i dolciumi; si rallegrò, anzi, in cuor suo d’aver salvato Schiaccianoci. Ahimè, come rimase quando, la notte stessa, sentí di nuovo fischiare, squittire proprio accanto al suo orecchio... Sí: il re dei topi era ritornato... gli occhi gli scintillavano ancor piú cattivi... la vocetta sibilava fra i denti ancor piú sgradevole che la notte precedente. – Devi darmi tutti i tuoi pupazzetti di zucchero e gomma dragante, altrimenti divorerò Schiaccianoci... il tuo Schiaccianoci... – e balzò via. – La mattina seguente Maria, tutta turbata, si accostò all’armadio a contemplare tristemente le sue bamboline di zucchero e dragante. Il dolore della bimba era giustificato perché tu non puoi credere, mia attenta ascoltatrice Maria, quali deliziose figurette di zucchero possedesse la piccola Stahlbaum. Oltre a un graziosissimo pastorello, con la sua pastorella, il gregge di pecorine bianche come il latte e un bel cagnolino vivace, c’erano due postini con le lettere in mano e quattro elegantissime coppie di giovincelli e ragazze seduti su un’altalena russa. Venivano poi alcuni danzatori e infine il massaro Feldkümmel e la pulzella d’Orléans, a cui Maria non teneva un gran che... Ma nel cantuccio, là in fondo, c’era il suo prediletto: un bambinello roseo e paffuto. – Ah, – esclamò rivolgendosi a Schiaccianoci. – Che cosa non farei per aiutarla, signor Drosselmeier!... Ma questo è molto duro!... – Schiaccianoci la guardò con un viso cosí piagnucoloso, che Maria credette di vedergli accanto il re dei topi, pronto ad addentarlo con le sette fauci spalancate... No: avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di salvare l’infelice fanciullo! Perciò quando fu sera depose tutte le figurine di zucchero presso l’armadio; baciò il pastorello, la pastorella, gli agnellini, poi trasse il suo prediletto – il bimbo roseo e paffuto – dal cantuccio e lo mise con gli altri, ma piú indietro possibile. Il massaro Feldkümmel e la pulzella d’Orléans dovettero invece rassegnarsi a stare in prima fila. – No, questo è troppo! – esclamò la mamma la mattina dopo. – Ci deve proprio essere un brutto topaccio nell’armadio a vetri, perché tutte le belle bamboline di zucchero della povera Maria sono

state rosicchiate, fatte a pezzi... – Maria non poté trattenersi dal piangere ma quasi subito tornò a sorridere pensando: «Pazienza!... Almeno Schiaccianoci è salvo!...» – Quella sera, la mamma riferí al consigliere Drosselmeier il disastro combinato dal topo nell’armadio dei bimbi; e il papà soggiunse: – Quella bestiaccia ha rosicchiato tutte le cosine di zucchero della povera Maria. È mai possibile che non ci sia modo di eliminarla?... – Sí che c’è!... – saltò su Fritz tutto allegro. – Il fornaio qui sotto ha un bellissimo consigliere di legazione grigio... Lo porterò di sopra: penserà lui a farla finita e a papparsi la testa di quel topo, fosse pure madama Mauserinks in persona, o il re suo figlio... – Sí!... E a saltare sulle sedie, sui tavoli, buttar giú tazze, bicchieri e fare chissà quali altri danni! – disse la mamma ridendo. – Ma no, ma no! – protestò Fritz. – Il consigliere di legazione del fornaio è un tipo talmente in gamba... vorrei saper io camminare cosí sicuro sugli spioventi dei tetti! – Per favore, niente gatti di notte! – supplicò Luisa, che i gatti non li poteva soffrire. – Veramente, – disse il papà, – mi pare che Fritz non abbia torto. Potremmo però anche provare a mettere una trappola... Ne abbiamo qualcuna?... – Potrebbe sempre farcela il padrino Drosselmeier, dal momento che è stato lui a inventarle! – propose Fritz, e tutti risero. La mamma dichiarò che trappole, in casa, non ce n’erano e poiché il consigliere ne aveva parecchie mandò subito a prenderne una – eccellente – a casa sua. Allora la fiaba della noce dura ritornò ben viva alla memoria di Fritz e Maria. Quando la cuoca si mise a rosolare il lardo, Maria, totalmente immedesimata nel mondo fantastico del racconto udito dal padrino, disse tutta tremebonda alla buona e ben nota Dora: – Ah... signora regina... si guardi da madama Mauserinks e dalla sua famiglia!... – Fritz invece sguainò la sciabola e proclamò fieramente: – E adesso vengano pure... li concerò io per le feste!... – Finalmente il consigliere Drosselmeier legò il lardo a un filo sottile e andò a deporre piano, con circospezione, la trappola presso l’armadio a vetri. – Attento padrino! – gli gridò il fanciullo. – Bada che il re dei topi non ti faccia qualche brutto scherzo!... – Ah, povera Maria, che angoscia quella notte!... Qualcosa di gelido le picchiettò il braccio... qualcosa di ispido, di schifoso, le si appoggiò sulla

guancia... e poi di nuovo quella orribile vocetta stridente. Il mostruoso re dei topi le sedeva sulla spalla, schiumando sangue dalle sette fauci spalancate, digrignando i denti. .. Maria, paralizzata dal terrore si sentí sibilare all’orecchio: – Me ne infischio... me ne infischio... Non entro in quella casa. Non cado dentro il vischio. Non vado a banchettare Faccio quel che mi pare. Me ne infischio. Fuori, fuori i libri belli Fuori il vestitino nuovo Voglio questo, voglio quelli E se non li ritrovo Tu non avrai piú pace Schiaccianoci perderai Lo sai Io sono vorace Ih, ih... Quick, quick!... Maria rimase profondamente afflitta e turbata. Quando la madre, la mattina dopo, le disse: – Il topo cattivo non lo abbiamo preso, – la vide cosí pallida che pensò si crucciasse ancora per le sue figurine di zucchero e, per di piú, avesse paura del topo; perciò soggiunse subito: – Ma sta’ tranquilla, cara, riusciremo a liberarcene; se le trappole non servono, Fritz ci porterà su il suo consigliere di legazione grigio –. Rimasta sola nella camera di soggiorno, Maria corse all’armadio e disse fra i singhiozzi a Schiaccianoci: – Ah, mio caro e buon signor Drosselmeier... Che cosa posso fare per lei io, povera bambina infelice?... Se anche dessi in pasto all’orribile re dei topi tutti i miei libri illustrati... e perfino il bel vestitino nuovo che mi ha regalato Gesú Bambino... quello continuerebbe a chiedere, a chiedere sempre di piú... E alla fine che cosa mi resterebbe da dargli?... Me stessa, perché mi mangi in vece sua... O povera me... Che cosa, che cosa devo fare?... – Mentre piangeva e si

lamentava cosí, Maria osservò che, da quella famosa notte, una grossa macchia di sangue era rimasta sul collo di Schiaccianoci. Da quando aveva saputo che Schiaccianoci era il giovane Drosselmeier non aveva piú osato prenderlo in braccio, coccolarlo, baciarlo... quasi neppure toccarlo, per un comprensibile senso di soggezione... Ma adesso lo tirò giú con cautela e provò a togliergli la macchia col suo fazzoletto... E immaginate come rimase quando lo sentí intiepidirsi... muoversi fra le sue mani!... In fretta lo ripose nell’armadio, ma quello aprí e richiuse alcune volte la bocca e bisbigliò stentatamente: – Ah... pregiatissima signorina Stahlbaum... impareggiabile amica... quanto, quanto le devo!... No... lei non dovrà piú sacrificare nessun libro illustrato... nessun vestitino... Mi procuri soltanto una spada... una spada!... Al resto ci penso io. Venga pure quel... – A questo punto la voce gli mancò; gli occhi che per un momento gli si erano ravvivati in un’espressione di immensa tristezza ritornarono fissi e senza vita. Maria, per nulla spaventata, si mise a saltellare dalla gioia di aver trovato un mezzo per salvare Schiaccianoci senza nuovi dolorosi sacrifici. Ma dove l’avrebbe presa una spada?... La bimba decise di consigliarsi con Fritz; e, la sera stessa, usciti i genitori e rimasta sola con lui accanto all’armadio dei giochi, gli raccontò tutte le sue peripezie col re dei topi, con Schiaccianoci, gli spiegò che cosa occorresse fare per salvare il poveretto. Nulla lasciò Fritz tanto perplesso quanto il resoconto del pessimo comportamento dei suoi ussari durante la battaglia. Tornò a domandare, serissimo, se le cose fossero andate realmente cosí e uditane la conferma, su parola d’onore, corse all’armadio, tenne un patetico discorso ai soldati colpevoli e, per punirli di tanta viltà, di tanto egoismo, strappò a ciascuno di loro la coccarda dal berretto, facendo perentorio divieto di suonare la fanfara degli ussari per un anno intero. Pronunziata la marziale sentenza, si rivolse di nuovo a Maria: – In quanto alla sciabola, – le disse, – posso procurarla io. Proprio ieri ho messo a riposo un vecchio maggiore dei corazzieri. Della sua bella sciabola affilata, quello d’ora innanzi non avrà piú bisogno –. Il suddetto maggiore era andato a godersi la pensione assegnatagli da Fritz al terzo piano dell’armadio, nell’angolo in fondo. Venne tirato fuori e la sua sciabola – un’arma effettivamente assai

bella, tutta d’argento – fu affibiata alla cintura di Schiaccianoci. La notte seguente Maria non riuscí a prender sonno, per lo spavento. Verso la mezzanotte le parve di udire degli strani rumori nella camera di soggiorno... un frusciar di piedini... un tintinnar di ferri... Poi, tutt’a un tratto: – Quick! – uno strillo. – Il re dei topi!... Il re dei topi!... – gridò Maria e balzò giú dal letto terrorizzata. Nulla. Silenzio. Ma, dopo un attimo «toc, toc...», due leggeri, leggeri colpetti alla porta... e poi una vocina sottile, sottile: – Pregiatissima Demoiselle Stahlbaum, apra pure senza timore... buone... liete notizie!... – Maria riconobbe la voce del giovane Drosselmeier, si infilò in fretta il vestitino e corse ad aprire: sulla soglia c’era Schiaccianoci con la spada insanguinata nella destra e una candelina accesa nella sinistra. Come vide Maria poggiò un ginocchio a terra e parlò cosí: – Voi, o dama, foste l’unica a rinsaldare il mio cavalleresco coraggio, a rafforzare il mio braccio, rendendolo capace di combattere il tracotante che osò farsi beffa di voi. Il perfido re dei topi è stato abbattuto e si contorce nel proprio sangue!... Non vogliate, o dama, disdegnare i trofei della vittoria dalla mano del vostro cavaliere, fedele fino alla morte –; cosí dicendo si sfilò dal braccio sinistro le sette corone d’oro del re dei topi e le porse a Maria che le prese, raggiante di gioia. – O, mia carissima Demoiselle Stahlbaum, – proseguí Schiaccianoci alzandosi, – quante cose meravigliose potrei mostrarle, ora che ho abbattuto il mio nemico, se lei soltanto avesse la compiacenza di seguirmi per pochi passi!... O, venga, carissima Demoiselle, venga!... Il regno delle bambole. Io credo che nessuno di voi, bambini miei, avrebbe esitato un attimo a seguire il buono e onesto Schiaccianoci, il quale non poteva certamente essere animato da alcuna cattiva intenzione. Tanto piú volentieri lo seguí Maria, convinta com’era di poter contare sulla sua gratitudine e sulla sua parola; se le aveva promesso di mostrarle tante cose belle lo avrebbe fatto, senza dubbio. Perciò gli rispose: – Verrò con lei, signor Drosselmeier, ma spero che non andremo molto lontano e ritorneremo presto, perché non ho ancora dormito niente. – Appunto per questo, – rispose Schiaccianoci, – sceglierò la via piú breve, anche se è un po’ disagevole... – E si avviò in anticamera, seguito da

Maria, verso l’antico, monumentale armadio guardaroba. L’armadio, contrariamente al solito, era spalancato – Maria lo notò con stupore – e la pelliccia da viaggio del papà pendeva bene in vista, in prima fila. Schiaccianoci si arrampicò agilmente su per i bordi e le guarnizioni, raggiunse la grossa nappina, fermata da un cordoncino sul dorso del soprabito, la afferrò, la tirò forte; e, immediatamente, dall’interno della manica venne giú una graziosa scaletta in legno di cedro. – Voglia salire, per cortesia, carissima signorina, – disse Schiaccianoci, e Maria ubbidí; ma non appena, dall’interno della manica sbucò fuori per l’apertura del colletto, si trovò all’improvviso immersa in una luce abbagliante, su un prato profumatissimo, costellato di miriadi di punti scintillanti come pietre preziose. – Eccoci sul Prato Candito, – disse Schiaccianoci. – Ma ora dovremo passare attraverso quella porta –. Maria guardò e vide, lí a pochi passi una porta meravigliosa che pareva tutta di marmo bianco con variegature color cannella. Avvicinandosi, Maria si avvide che era invece un sol blocco di mandorle zuccherate e uva passa. Si chiamava, infatti, la Porta del Torrone, le spiegò Schiaccianoci, anche se la gente ordinaria l’aveva soprannominata «La greppia degli Studenti». In una galleria, apparentemente di zucchero d’orzo, applicata al frontone del portale, sei scimmiette in giubbettini rossi suonavano una musica militare turca cosí bella, che Maria quasi non si avvide di stare camminando non già su piastrelle di marmo variegato, bensí su ben lavorate stiacciatelle. – Ed ecco, i due amici furono investiti da un’ondata di aromi dolcissimi, provenienti dal meraviglioso boschetto in cui stavano addentrandosi. Sotto la volta frondosa era tutto uno scintillio di luci, di frutti d’oro e d’argento appesi a steli colorati... i tronchi, i rami addobbati di nastri e mazzi di fiori davano agli alberi l’aspetto di sposi vestiti per la cerimonia o di allegri convitati a una festa di nozze; e quando una folata di profumo d’arancio passava come uno zefiro facendo stormire le fronde e tintinnare le laminelle indorate, l’aria si riempiva d’una musica gioiosa, al cui suono le mille piccole luci si mettevano a saltare, a danzare... – Ah, com’è bello qui!... – esclamò Maria estasiata. – Siamo nel bosco natalizio, mia cara signorina, – spiegò Schiaccianoci. – Ah, se potessi fermarmi ancora un pochino, –

continuò Maria. – Qui è proprio troppo bello!... – Schiaccianoci batté le manine e subito accorsero alcuni pastorelli, pastorelle, cacciatori, cacciatrici, cosí delicati, cosí candidi che si sarebbero detti di purissimo zucchero. Maria non li aveva ancora notati, benché stessero passeggiando per il bosco già fin da prima. Le gentili figurette portarono una bella poltroncina dorata, vi posero sopra un cuscino di liquirizia e invitarono molto ossequiosamente Maria a sedersi. Maria sedette e i pastori e le pastorelle eseguirono un grazioso balletto, mentre i cacciatori davano garbatamente fiato ai loro strumenti. Poi subito scomparvero tutti quanti nella boscaglia. – Perdoni, – disse Schiaccianoci. – Perdoni, egregia demoiselle se la danza è riuscita cosí scadente... Ma i ballerini sono tutti elementi del nostro teatro di marionette e fanno sempre la stessa cosa perché non sanno fare nient’altro. I cacciatori, poi, hanno suonato cosí fiacchi e sonnacchiosi perché sugli alberi di natale hanno sí i cestelli di zucchero appesi davanti al naso, ma sempre un po’ troppo in alto... E adesso vogliamo passeggiare ancora un po’?... – Ah, è stato tutto cosí carino... a me è piaciuto moltissimo!... – disse Maria alzandosi e seguendo la sua guida. Costeggiarono un ameno ruscelletto gorgogliante, da cui parevano provenire i deliziosi aromi che riempivano il bosco. – Questo è il Rio d’Aranciata, – spiegò Schiaccianoci. – A parte il buon profumo, non può paragonarsi per grandiosità e bellezza al fiume Limonata, che sfocia nel lago di Latte di Mandorle –. Infatti poco dopo Maria intese un piú forte rumoreggiare di acque e vide l’ampia superficie color cannella del maestoso fiume Limonata serpeggiare fra cespugli scintillanti come smeraldi. Da quelle acque saliva una frescura veramente ristoratrice. Non lontano scorreva pigramente una gora gialla, limacciosa, emanante però dolcissimi aromi, e sulle cui sponde sedevano tanti graziosi bambinelli intenti a pescar con la lenza: non appena tiravano su un pesce se lo cacciavano in bocca e lo mangiavano. Maria aguzzò gli occhi: i pesci erano noci di panpepato!... Poco piú oltre, sempre sulle sponde di quel fiume, sorgeva un ameno villaggio: le casette, la chiesa, la casa parrocchiale, i fienili, tutti i fabbricati, insomma, avevano il tetto dorato e le mura esterne di color bruno scuro, ma ravvivate da variopinti mosaici di mandorle e scorzette di limone candito. – Quello è

Borgo Panforte, – disse Schiaccianoci. – È situato sul torrente Miele ed è abitato da gente molto carina... Peccato siano quasi sempre di malumore perché soffrono terribilmente di mal di denti... Andiamo a dare un’occhiata –. In quel mentre Maria notò un’altra cittadina, graziosissima a vedersi, tutta di case colorate e trasparenti. Andando in quella direzione, udirono un baccano, un cicaleccio gioioso: intorno ad alcuni carri stracarichi, fermi sulla piazza del mercato, si era radunata una folla di personcine minuscole, graziose, indaffarate a scaricare i carri e a esaminarne il carico, consistente in carte colorate e tavolette di cioccolato. – Siamo a Pieve di Chicche, – disse Schiaccianoci. – È arrivata proprio in questo momento una spedizione da Papiropoli e dal re del cioccolato. I poveri abitanti di questo paesello hanno subito una grave minaccia da parte dell’ammiragliato dei moscerini ed ora sono costretti a ricoprire le loro case con la carta stagnola ricevuta in dono da Papiropoli e ad allestire solide fortificazioni con i materiali inviati dal re del cioccolato. Ma, cara Demoiselle Stahlbaum, non possiamo visitare tutte le cittadine, tutti i villaggi di questo paese! Alla capitale, alla capitale!... – e si avviò di buon passo, seguito da Maria sempre piú incuriosita. Non avevano ancor fatto molta strada quando un inebriante profumo di rose li investí e tutti gli oggetti apparvero circonfusi di aloni rosati: questo fenomeno era il riflesso d’una distesa d’acqua color di rosa che si stendeva dinnanzi a loro aprendosi sempre piú, come un grande lago; lievi onde dai riflessi argentei e rosati ne increspavano la superficie, venendo a rompersi sulla sponda con uno sciacquio armonioso, musicale... Sul lago nuotavano superbi cigni argentati con collari d’oro, cantando canzoni una piú bella dell’altra, mentre pesciolini di diamante guizzavano fuori dall’acqua e si rituffavano, in una specie di danza gioiosa. – Ah! – esclamò Maria estasiata. – Questo è il lago che voleva costruire per me il padrino Drosselmeier... E io sono la bambina che va a accarezzare i cigni!... – Schiaccianoci abbozzò un sorriso cosí sprezzante quale Maria non gli aveva mai visto. – Una cosa simile, – disse, – lo zio non potrà farla mai... Lei, piuttosto, signorina Stahlbaum... Ma non stiamo a almanaccare su queste cose; pensiamo piuttosto ad attraversare il lago e raggiungere la capitale.

La capitale. Schiaccianoci batté di nuovo le manine e subito la superficie del lago incominciò ad agitarsi; le onde si sollevarono piú alte, rumoreggiarono piú forte. Di lontano, Maria vide venire un vascello in forma di conchiglia, tempestato di gemme multicolori splendenti come il sole e tirato da due delfini ricoperti di squame dorate. Dodici deliziosi moretti, con berrettini e sottanine di penne di colibrí, balzarono a riva e, scivolando dolcemente sulle onde, condussero prima Maria e poi Schiaccianoci a prender posto nella conchiglia che subito si mosse. Ah, che bellezza navigare cosí, su quelle acque rosate, accarezzati da venticelli odoranti di rose!... I due delfini dalle squame d’oro ersero la testa e spruzzarono dalle narici due altissimi zampilli che, ricadendo come archi di pioggerella iridescente, parvero emettere il canto di due vocette sottili, argentine: Chi vien navigando Sull’acqua rosata? La fata! Moscerini! bim, bim... Pesciolini!... sim, sim, Cigni, cigni! ci, ci... Uccellino dorato! tra-rà! Su, ondette, muovete Suonate, cantate, soffiate, A ritmo di danza La bella fatina, vedete? Avanza, sull’acque rosate Ondette, giocate, sciacquate, spruzzate Sprizzate zampilli Di perle, di gemme color del cobalto Spruzzate piú in alto Piú in alto! Ma i dodici negretti, balzati anch’essi sul vascello-conchiglia, parvero prendere assai male la canzoncina delle gocce d’acqua, perché si misero a

scrollare i loro parasolini di foglie di dattero fino a stazzonarli tutti, e a battere i piedi su un ritmo assai strano, cantando: Clipp, clapp, su e giú La tribú dei moretti è loquace E non tace Su, muovetevi pescetti Su, muovete cigni belli Su, conchiglia Fila, fila sulla chiglia Taglia l’acqua, clipp, clapp Anche tu, su e giú! – I mori sono gente allegra, – disse Schiaccianoci un po’ seccato. – Ma mi metteranno in subbuglio tutto il lago –. Infatti dopo un attimo si scatenò un brusio sconcertante: l’aria, il lago parvero riempirsi di voci inaudite; ma Maria non ci badò perché era intenta a fissare una gentile figuretta di fanciulla che le sorrideva dalle onde rosee e profumate. – Ah!... – esclamò, battendo le manine tutta felice. – Guardi... guardi soltanto, caro signor Drosselmeier!... Laggiú c’è la principessa Pirlipat che mi sorride!... Guardi... guardi com’è graziosa, caro signor Drosselmeier!... – Schiaccianoci sospirò, quasi corrucciato: – Quella non è la principessa Pirlipat, egregia signorina Stahlbaum! – disse. – Quella è lei, è sempre e soltanto lei... è il suo bel visino che le sorride, riflesso nell’acqua –. Maria ritrasse in fretta la testa, chiuse gli occhi e si vergognò moltissimo. Ma, proprio in quel momento, i dodici moretti la sollevarono dalla conchiglia e la portarono a terra. Maria si ritrovò in un boschetto quasi ancor piú bello del bosco natalizio. Particolare meraviglia: gli alberi erano carichi di frutti non soltanto stranamente multicolori ma anche profumatissimi. – Siamo nel bosco delle confetture, – disse Schiaccianoci. – E la capitale è laggiú –. Ah, che cosa non vide Maria!... Da che parte incomincerò, bambini miei, a descrivervi tutte le mirabilia della città che si presentò, adagiata su un prato fiorito, agli occhi di Maria?... Non soltanto i colori vivacissimi delle mura, delle torri, ma anche le forme delle costruzioni erano di una bellezza mai vista al mondo. Le case, anziché di tetti,

erano ricoperte di graziose ghirlande intrecciate, e le torri di fronde multicolori. Quando passarono sotto la porta, tutta fatta di amaretti e frutta caramellate, un reparto di soldatini d’argento presentò le armi e un ometto in vestaglia di broccato si gettò al collo di Schiaccianoci esclamando: – Benvenuto, serenissimo principe, benvenuto a Confettoburgo! – Sentendo dare del principe a Schiaccianoci da un personaggio cosí distinto Maria si stupí non poco. Ma subito un cicalare, un intrecciarsi di vocine ridenti, festanti, frammiste a canti e a musiche, la lasciò ancor piú sbalordita. – Non è niente di speciale, – si affrettò a spiegarle Schiaccianoci. – Confettoburgo è una città piena di gente allegra... Tutti i giorni è cosí... Ma venga avanti, per favore!... Dopo pochi passi furono sulla piazza del mercato, di fronte a uno spettacolo stupendo: le case circostanti erano tutto un merletto di zucchero filato, galleria su galleria, loggia su loggia; e al centro della piazza si ergeva come un obelisco un immenso dolce piramidale spolverato di zucchero e circondato di artistiche fontane. Le fontane zampillavano orzate, limonate ed altre squisite bibite dolci, ma nelle vasche scorreva crema: una crema che ti saresti mangiata a cucchiaiate. La cosa piú piacevole a vedersi erano però quelle deliziose personcine che si affollavano a migliaia, testa a testa, vociando, ridendo, scherzando, cantando, facendo insomma quel gioioso frastuono che Maria aveva già udito di lontano. C’erano signore, signori eleganti, armeni, greci, ebrei, tirolesi, ufficiali, soldati, religiosi, pastori, pagliacci; in breve, l’intero campionario delle popolazioni terrestri. In un settore della piazza si vide la folla ondeggiare tumultuando ed aprirsi: passava il Gran Mogol, in palanchino, seguito da novantatre grandi del regno e settecento schiavi; contemporaneamente dall’angolo opposto stava avanzando in corteo la corporazione dei pescatori, forte di cinquecento uomini e, per una disgraziata coincidenza, al sultano di Turchia era venuto il ghiribizzo di fare un giretto a cavallo per la piazza insieme a tremila giannizzeri; da un’altra parte ancora veniva, fra potente clangore d’ottoni, la grande processione della «Festa sacrificale interrotta», cantando: «Orsú, ringraziate il sole potente!» e puntando diritto verso l’obelisco di pandolce. Ah, che confusione, che pigia-

pigia, che strilli!... Strilli, intendiamoci, anche di dolore perché in quella calca un pescatore aveva portato via la testa a un bramino e il Gran Mogol per un pelo non era stato travolto da un pagliaccio. Il baccano si faceva sempre piú indiavolato e la gente già incominciava a picchiarsi quando l’uomo in vestaglia di broccato, che aveva salutato Schiaccianoci sulla porta dandogli del principe, si arrampicò sull’obelisco, suonò tre volte una campanella squillante e tre volte gridò con quanto fiato aveva in corpo: – Confettiere! Confettiere! Confettiere! – Il tumulto si placò all’istante: i cortei si districarono e ognuno cercò di rabberciarsi alla meno peggio: il Gran Mogol si fece spazzolare le vesti insudiciate, il bramino si riappiccicò la testa e tutti ripresero a vociare, allegri come prima. – Che cosa significa questa storia del confettiere?... – domandò Maria. – Eh, carissima Demoiselle Stahlbaum, – rispose Schiaccianoci. – La gente di qui chiama «Confettiere» una potenza ignota e tremenda, arbitra assoluta dei destini umani. È il «Fato» che incombe su questo piccolo popolo allegro, ed è cosí temuto che, al solo sentirlo nominare, si placa qualsiasi tumulto, come appunto ci ha dimostrato il signor borgomastro. Tutti smettono immediatamente di pensare alle cose terrene, ai colpi ricevuti nelle costole, per esempio, o ai bozzi in testa, e meditano: «Che cos’è mai l’uomo? Quale sarà la sua sorte?...» – Maria non poté reprimere un grido di meraviglia quando, all’improvviso, si vide dinnanzi un castello con cento torri aeree, svettanti, circonfuso di bagliori rosati... Le mura erano cosparse di mazzi di violette, narcisi, tulipani, violaciocche, i cui colori caldi, scuri accentuavano ancora il candore abbagliante, i rosei riflessi dello sfondo. La grande cupola dell’edificio centrale, i tetti piramidali delle torri erano disseminati di miriadi di stelline scintillanti, d’oro e d’argento. – Siamo davanti al castello di Marzapane, – disse Schiaccianoci. Maria era totalmente smarrita nella contemplazione del palazzo incantato, tuttavia non le sfuggí che una grande torre mancava del tetto; alcuni omettini, arrampicati su impalcature di cannella, stavano tentando di ricostruirlo. Prevenendo la domanda della bimba, Schiaccianoci proseguí: – Poco tempo fa questo bel castello ha corso il rischio di venir devastato, se pur non totalmente distrutto. È capitato qui il gigante Ghiottone e in un attimo si è divorato il tetto di

quella torre. Anche alla cupola grande ha dato qualche morso. I confettoburghesi hanno dovuto sacrificargli un intero quartiere della città e una vasta zona del bosco confettato, perché se li mangiasse e se ne andasse via –. In quel momento si udí una musica dolce e piacevolissima; le porte del castello si aprirono e ne uscirono dodici paggetti con in mano un chiodo di garofano acceso, come una fiaccola. Avevano, al posto della testa, una perla, i corpi di rubini e smeraldi, i piedini d’oro purissimo finemente cesellato; seguivano i paggi quattro dame alte, press’a poco, come la Claretta di Maria, ma vestite e acconciate cosí sfarzosamente che la bimba non esitò un solo istante a riconoscere in loro altrettante principesse. Le dame abbracciarono teneramente Schiaccianoci esclamando felici, anche se con un’ombra di tristezza nella voce: – O, mio principe!... Ottimo principe!... Fratello mio!... – Schiaccianoci parve molto commosso; si terse le copiose lacrime poi prese Maria per mano e dichiarò pateticamente: – Questa è la signorina Maria Stahlbaum, figlia d’un eminente consigliere sanitario e mia salvatrice: se non avesse scagliato la scarpina al momento giusto e non mi avesse procurato la sciabola del maggiore in congedo, a quest’ora giacerei nella tomba, sbranato dall’esecrabile re dei topi... Ditemi: osereste paragonarla per bellezza, bontà, virtú, a Pirlipat, che pure è principessa di sangue reale?... No, no vi dico!... – No!... – proclamarono in coro le quattro dame e si gettarono al collo di Maria esclamando fra i singhiozzi: – O nobile salvatrice del principe, nostro amato fratello... Impareggiabile Demoiselle Stahlbaum!... Le dame condussero quindi Maria e Schiaccianoci dentro il castello e precisamente in una sala dalle pareti di purissimo cristallo, colorato, splendente. Ma piú di tutto piacquero a Maria le graziosissime seggioline, i tavoli, i comò, i «secrétaires», i mobili, insomma, di cedro e legno brasiliano decorati con fiorellini d’oro. Le principesse fecero accomodare gli ospiti e dissero che avrebbero subito preparato un pranzetto con le loro mani. Andarono a prendere un’intera batteria di pentoline e scodelline di purissima porcellana giapponese, cucchiai, coltelli, forchette, grattuge, casseruole e altre suppellettili di cucina, tutte d’oro e d’argento; tirarono fuori frutta, zucchero e confetti d’una

bellezza mai vista e, con quelle loro manine candide come la neve, incominciarono a spremere frutta, a spolverare spezie, a grattugiare mandorle zuccherate, a cucinare, insomma, con tanta grazia, con tanta destrezza, che Maria rimase a bocca aperta... Quelle principesse se ne intendevano per davvero di cucina!... E che pranzetto squisito avrebbero preparato!... Profondamente conscia di non esser da meno di loro in quel campo, Maria si augurò in cuor suo di poter metter mano anche lei ai preparativi. Come se avesse indovinato il suo tacito desiderio, la piú bella delle sorelle di Schiaccianoci le porse un piccolo mortaio d’oro dicendole: – O dolce amica, cara salvatrice di mio fratello, pesta un pizzico di zucchero candito, per favore –; e Maria si mise a pestare, allegra e felice; e mentre lei pestava, e il mortaio tintinnava soavemente come se cantasse una bella canzoncina, Schiaccianoci incominciò a descrivere con dovizia di particolari la spaventosa battaglia fra il proprio esercito e quello del re dei topi. Raccontò come fosse stato battuto a causa della viltà delle truppe, e quindi perseguitato dall’orribile re dei topi, deciso a sbranarlo ad ogni costo... Per salvarlo, soggiunse, Maria, poverina, aveva dovuto sacrificare parecchi dei suoi sudditi, passati al servizio di lei, eccetera eccetera... Maria ebbe la sensazione che le parole di Schiaccianoci e perfino il tintinnio del mortaio le giungessero sempre piú attutiti, si perdessero sempre piú lontani, fino quasi a divenire impercettibili... Un velo argenteo le salí davanti agli occhi, come un mare di nebbia sottile in cui le parve di veder galleggiare le principesse, i paggi, Schiaccianoci e perfino se stessa. Un canto, un brusio, un ronzio confuso le risuonò nella testa, riecheggiò, si dissolse nel vuoto di lontananze abissali. Poi un’ondata possente la raccolse, la sollevò sulla cresta, su, su, in alto... ancora piú su... piú in alto, piú in alto, piú in alto... Conclusione. Prr... Patapunfete!... Maria precipitò da un’altezza vertiginosa... Che capitombolo!... Ma subito aprí gli occhi e si ritrovò nel proprio lettino. Era ormai giorno chiaro. Davanti a lei stava la mamma e le diceva: – Ma come si può dormire cosí tardi?... La colazione è pronta da un pezzo! – Tu, rispettabile pubblico raccolto intorno a me, avrai già bell’e capito che Maria, stordita dalle

troppe meraviglie, si era addormentata nel castello di Marzapane e i mori, o i paggi, o forse le principesse medesime, l’avevano ricondotta a casa e messa a letto. – O mamma, mamma cara... se sapessi dove mi ha portato il giovane signor Drosselmeier stanotte! Se sapessi quante belle cose ho visto!... – E raccontò il suo viaggio quasi esattamente come ve l’ho raccontato io. La mamma la guardava sbalordita: – Tu hai fatto un lungo e bellissimo sogno, cara Maria, – le disse alla fine. – Ma adesso tutte queste idee devi levartele dalla testa –. Non aveva sognato affatto, insistette Maria ostinatamente: tutte quelle belle cose le aveva viste, viste per davvero! Allora la mamma la condusse presso l’armadio dei giochi, tirò fuori Schiaccianoci, alloggiato, come si è detto, su al terzo piano e disse: – Come puoi credere, sciocchina, che questo bambolotto norimberghese, di legno, possa muoversi e parlare come una persona viva?... – Ma cara mamma, – protestò Maria. – Il piccolo Schiaccianoci è il giovane signor Drosselmeier di Norimberga, nipote del padrino... io lo so!... – La mamma e il papà scoppiarono a ridere forte. – Ah, – piagnucolò Maria. – Adesso tu, papà, ridi del mio Schiaccianoci... E pensare che ha parlato tanto bene di te presentandomi alle sue sorelle, quando siamo arrivati al castello di Marzapane. Ha detto che sei un consigliere sanitario molto illustre! – Alla risata, stavolta ancora piú clamorosa, del papà e della mamma si uní anche Luisa; e perfino Fritz. Maria corse nell’altra camera, tirò fuori qualcosa da una sua scatoletta e ritornò dalla madre dicendole: – Ecco, guarda, cara mamma: queste sono le sette corone del re dei topi. Me le ha date la notte scorsa il giovane signor Drosselmeier in segno della sua vittoria –. La mamma prese le coroncine e le osservò, stupita: erano di un metallo sconosciuto ma estremamente terso, e lavorate con una finezza di cui nessuna mano d’uomo sarebbe stata capace. Le prese anche il papà e le esaminò, le studiò da tutte le parti, come se non riuscisse a capacitarsi di ciò che vedeva. Ad un tratto, però, i genitori si fecero serissimi ed ingiunsero a Maria di dire come avesse avuto quelle coroncine. La povera bimba non poté far altro che ripetere quanto già aveva detto. Allora il papà divenne ancora piú severo e le disse che era una piccola bugiarda. Maria scoppiò a piangere e a ripetere, sconsolata: – Ah, povera me... Povera me!... Che cosa devo dire?...

– Che succede?... Che succede?... Perché piange cosí, la mia figlioccia?... – chiese il consigliere Drosselmeier, entrando all’improvviso. Il papà lo mise al corrente del fatto e gli mostrò le coroncine. Come le vide, Drosselmeier scoppiò a ridere: – Ma che sciocchezza... che sciocchezza!... – esclamò. – Queste coroncine le portavo, un tempo, appese alla catena dell’orologio; e poi le regalai alla piccola Maria, quando compí due anni... Possibile che non ve ne ricordiate piú?... – Effettivamente, né il papà né la mamma riuscirono a ricordarsi del fatto; tuttavia si rischiararono in viso e tanto bastò a Maria per correre dal padrino e invocarne il soccorso: – Ah, tu sai tutto, padrino... Dillo, dillo anche tu che Schiaccianoci è tuo nipote... il giovane signor Drosselmeier di Norimberga!... Che è stato lui a darmi le coroncine!... – Allora il papà la prese per le spalle e tenendola ferma davanti a sé le disse, serissimo: – Senti bene, Maria: finiamola con questa farsa. Se ripeti ancora una volta che quel brutto Schiaccianoci è il nipote del signor consigliere, io lo prendo e lo getto dalla finestra. E dietro di lui tutte le altre bambole, madamigella Claretta compresa –. E cosí la povera Maria non poté piú parlare dell’argomento che le stava tanto a cuore. Non è facile dimenticare d’aver visto simili meraviglie, ne converrete anche voi! Perfino il tuo camerata Fritz Stahlbaum, mio egregio lettore o ascoltatore Fritz, sí, perfino lui volgeva le spalle alla sorellina se appena questa accennava a raccontargli qualcosa del regno favoloso in cui era stata tanto felice. Le volgeva le spalle e talvolta – pare – mormorando fra i denti: – Senti che oca!... – ma questo, tenendo conto della sua comprovata bontà d’animo, mi rifiuto di crederlo... Comunque, sta di fatto che Fritz ormai non credeva piú a nulla di tutto ciò che gli aveva raccontato Maria e, di conseguenza, aveva voluto formalmente e solennemente riparare al torto fatto ai suoi ussari. Dopo averli schierati in parata, aveva applicato a ciascuno di loro, al posto della coccarda, un bel pennacchio di penna d’oca, tornando a concedere il permesso di suonare la marcia degli ussari. Eh, ma noi sappiamo anche troppo bene che razza di coraggio avessero dimostrato quegli eroi quando le brutte palline avevano incominciato a macchiare i loro giubbetti rossi... Maria, dunque, non poteva piú parlare della sua avventura, ma le

immagini meravigliose del regno delle fate continuavano a circondarla, ad avvolgerla come in un dolce, musicalissimo mormorio cullante... Se appena si concentrava un pochino rivedeva chiaramente ogni cosa; perciò, invece di giocare come d’abitudine, era capace di restarsene silenziosa e immobile a meditare per ore intiere. I suoi la sgridavano e la chiamavano la piccola sognatrice. Ora avvenne che il consigliere Drosselmeier dovesse riparare un orologio in casa Stahlbaum. Maria, immersa nei propri sogni, sedeva presso l’armadio contemplando Schiaccianoci. Ad un tratto, senza volerlo, le venne fatto di dire: – Ah, caro signor Drosselmeier... se lei fosse vivo per davvero, io non farei come la principessa Pirlipat... non la respingerei se lei fosse diventato brutto per amor mio!... – Sciocchezze... sciocchezze!... – gridò il padrino Drosselmeier; e nello stesso istante uno schianto, uno scossone pauroso. Maria cadde dalla sedia, svenuta. – Quando ritornò in sé, la mamma le stava intorno affannata: – Ma come hai fatto a cader dalla sedia?... Tu, una bambina cosí grande!... Guarda: c’è qui il nipote del signor consigliere, arrivato da Norimberga... Sii gentile con lui! – Maria alzò gli occhi: il padrino si era rimesso la parrucca e la giacchetta gialla, e teneva per mano un giovinetto, molto piccolino per la verità, ma assai ben fatto. Aveva un visino tutto sangue e latte, ed era elegantissimo: marsina rossa gallonata d’oro, calze di seta bianca, scarpette di vernice, mazzolino di fiori puntato sullo jabot, capelli ben pettinati e incipriati con un magnifico codino pendente sulle spalle, cappello di seta sotto il braccio. La piccola spada appesa al fianco sembrava un gioiello, tant’era tempestata di pietre preziose. Il giovinetto dimostrò subito una rara squisitezza di modi offrendo in dono a Maria una quantità di giocattoli meravigliosi; soprattutto del marzapane di prima qualità e quelle stesse figurine rimaste vittime del re dei topi. A Fritz invece aveva portato una bellissima sciabola. A tavola, l’amabile giovinetto spezzò noci per tutta la compagnia: se le metteva in bocca con la destra, con la sinistra tirava il codino e – crac! – non c’era guscio che resistesse ai suoi denti! Se Maria appena aveva visto il

minuscolo cavaliere si era fatta di brace, arrossí ancor di piú quando, finito il pranzo, il giovine Drosselmeier volle andare con lei nella camera del soggiorno, presso l’armadio dei giochi. – Giocate insieme da bravi, bambini, – disse il padrino. – Adesso che tutti i miei orologi funzionano bene io non ho niente in contrario! – Rimasto solo con Maria, il piccolo Drosselmeier poggiò un ginocchio a terra e disse: – O, mia impareggiabile Demoiselle Stahlbaum, ecco ai suoi piedi il fortunato giovane a cui lei, proprio qui, in questo stesso luogo, salvò la vita!... Quando ebbe la bontà di dire che non mi avrebbe respinto come la cattiva principessa Pirlipat perché ero diventato brutto per amor suo, io smisi immediatamente di essere un miserabile schiaccianoci per riprendere la mia primitiva, non del tutto sgradevole, figura... O, carissima Demoiselle, mi renda felice con la sua preziosa mano... divida con me regno e corona... regni al mio fianco nel castello di Marzapane, dove io sono re!... – Maria risollevò il giovinetto sussurrando: – Caro signor Drosselmeier, poiché lei è un uomo d’animo buono e delicato e, per di piú, regna su un paese di gente simpatica e allegra... l’accetto per sposo! – Cosí Maria si fidanzò con Drosselmeier. Trascorso un anno si dice che egli andasse a prenderla con una carrozza d’oro tirata da cavalli d’argento. Alle nozze danzarono ventiduemila bellissime figurine, tempestate di perle e diamanti. E Maria, per quanto mi risulta, è ancor oggi regina di un paese in cui si possono vedere dovunque boschi scintillanti di abeti natalizi, castelli di marzapane trasparenti, le piú inverosimili meraviglie insomma, sempreché, beninteso, si abbiano occhi per vederle. E cosí termina la fiaba di Schiaccianoci e il re dei topi.

Anton Čechov Il calzolaio e lo spirito maligno

Era la vigilia di Natale. Già da un pezzo Mar’ja russava sulla stufa, nella lucerna il petrolio si era tutto consumato, ma Fëdor Nilov stava ancora lavorando. Da un pezzo avrebbe piantato il lavoro e sarebbe uscito sulla strada, ma un cliente del vicolo Kolokol’nyj che gli aveva ordinato una rimonta due settimane addietro era venuto il giorno innanzi e, coprendolo di ingiurie, gli aveva imposto di terminare senza fallo gli stivali per il mattutino. – È una vita da forzati! – borbottava Fëdor, lavorando. – Certa gente dorme già da un pezzo, altra se la spassa e tu invece, come un Caino qualsiasi, stai a tirare lo spago Dio sa per chi... Per non addormentarsi alla sprovvista, ogni tanto tirava fuori di sotto al deschetto una bottiglia e beveva a garganella e, dopo ogni sorsata, scoteva il capo e diceva ad alta voce: – Spiegatemi un po’, di grazia, per qual ragione i clienti se la spassano, mentre io son costretto a tirar lo spago per loro? Per il fatto che loro hanno soldi e io sono uno straccione?! Egli sentiva di odiare tutti i clienti, in particolar modo quello che abitava nel vicolo Kolokol’nyj. Era costui un signore di aspetto tetro, dai capelli lunghi, dal viso giallo, con grandi occhiali azzurri e voce roca. Aveva un nome tedesco, impossibile a pronunciarsi. Di che condizione fosse e di che si occupasse era impossibile capirlo. Quando, due settimane prima, Fëdor si era recato da lui a prendergli le misure, lui, il cliente, stava seduto sul pavimento e pestava qualche cosa in un mortaio. Fëdor non ebbe il tempo di salutare che il contenuto del mortaio s’infiammò e ne sprizzò una vivida fiamma rossa, mentre si spandeva un puzzo di zolfo e di piume bruciate e la stanza si

riempiva di un denso fumo roseo, tanto che Fëdor starnutò cinque volte: «Un uomo che avesse timor di Dio non starebbe a occuparsi di simili faccende». Quando nella bottiglia non rimase piú nulla, Fëdor posò gli stivali sul deschetto e si mise a riflettere. Appoggiò al pugno la testa appesantita e incominciò a pensare alla sua povertà, alla sua vita dura e senza luce, poi ai ricchi, alle loro case grandi, alle loro carrozze e ai loro biglietti da cento... Come sarebbe bello se a questi ricchi, che il diavolo se li porti, si spaccassero le case, crepassero i cavalli e le loro pellicce e i loro berretti di zibellino perdessero il pelo! Come sarebbe bello, se i ricchi a poco a poco diventassero poveri, senza aver niente da mangiare, e un povero calzolaio diventasse ricco e potesse a sua volta alzar la cresta davanti a un poveraccio di calzolaio alla vigilia di Natale. Cosí fantasticando, Fëdor a un tratto si ricordò del proprio lavoro e aprí gli occhi: «Questa, sí, è una bella storia! – pensò, guardando gli stivali. – La rimonta è bell’e fatta da un pezzo e io sto ancora qui. Bisogna portarli al cliente!» Ravvolse il lavoro in un fazzoletto rosso, si mise il cappotto e uscí sulla via. Cadeva una neve minuta e dura che pungeva il viso come degli aghi. Faceva freddo, si sdrucciolava ed era buio, i lampioni a gas ardevano fiochi e, chi sa perché, per la strada c’era odore di petrolio, tanto che Fëdor cominciò a sentire un prurito in gola e a tossire. Sul selciato passavano avanti e indietro dei ricchi in carrozza e ciascuno teneva in mano un prosciutto e una bottiglia di vodka. Dalle carrozze e dalle slitte, delle ricche signorine guardavano Fëdor, gli mostravano la lingua e gli gridavano ridendo: – Straccione! Straccione! Dietro di lui venivano studenti, ufficiali, mercanti e generali e lo stuzzicavano: – Beone! Beone! Ciabattino senza fede, anima di cuoio! Tutto ciò era offensivo, ma Fëdor taceva e si limitava a sputare. Quando poi s’imbatté nel mastro calzolaio Kuz’mà Lebedkin di Varsavia che gli disse: «Ho sposato una moglie ricca e da me lavorano degli operai, mentre tu sei un pitocco e non hai da mangiare», Fëdor non poté piú trattenersi e si mise a

rincorrerlo. Lo inseguí fino a che non si trovò nel vicolo Kolokol’nyj. Il suo cliente abitava nella quarta casa a partire dall’angolo, in un quartierino all’ultimo piano. Per arrivare da lui bisognava attraversare un lungo cortile buio e salire una scala assai ripida e sdrucciolevole che vacillava sotto i piedi. Quando Fëdor entrò da lui, egli stava come l’altra volta seduto sul pavimento e pestava qualche cosa nel mortaio. – Signoria, vi ho portato gli stivali, – disse arcigno Fëdor. Il cliente si alzò e in silenzio si accinse a misurarsi le scarpe. Volendo aiutarlo, Fëdor piegò un ginocchio a terra e gli levò uno stivale, ma subito balzò in piedi e spaventato indietreggiò verso la porta. Il cliente, invece del piede, aveva uno zoccolo da cavallo. «Eh! – pensò Fëdor. – Questa sí che è bella!» Per prima cosa egli avrebbe dovuto farsi il segno della croce, quindi lasciare lí tutto e fuggire abbasso; ma subito considerò che quella era la prima e probabilmente l’ultima volta nella vita ch’egli s’incontrava con lo spirito maligno e non approfittare dei suoi servigi sarebbe stato stupido. Si fece forza e decise di tentare la fortuna. Ponendo le mani dietro la schiena, per non segnarsi, tossicchiò rispettosamente e incominciò: – Dicono che non vi è nulla di piú sozzo e di peggiore al mondo dello spirito immondo, ma io comprendo, signoria, che lo spirito maligno è piú istruito di tutti. Il diavolo, scusate, ha zoccoli da cavallo e la coda di dietro, però nella sua testa ha piú intelligenza di molti studenti. – Mi piaci per queste parole, – disse lusingato il cliente. – Grazie, calzolaio! Che desideri, dunque? Il calzolaio, senza perdere tempo, prese a lamentarsi del proprio destino. Incominciò dicendo che fin dall’infanzia aveva invidiato i ricchi. Gli era sempre parso offensivo che non tutti gli uomini abitassero egualmente in case grandi e andassero in giro con bei cavalli. Perché, per esempio, lui è povero? In che cosa è peggiore di Kuz’mà Lebedkin di Varsavia, che ha una casa propria e la cui moglie va in giro col cappello? Egli ha naso, mani, piedi, testa e schiena eguali a quelli dei ricchi, e allora perché è costretto a lavorare, mentre altri se la spassano? Perché è sposato con Mar’ja e non con una

signora olezzante di profumi? Nelle case dei ricchi clienti gli accade spesso di vedere delle belle signorine, ma esse non fanno alcuna attenzione a lui, e qualche volta ridono soltanto e si sussurrano l’un l’altra: «Che naso rosso ha questo calzolaio!» A dire il vero, Mar’ja è una donna brava, buona e operosa, non è istruita però, ha la mano pesante e picchia sodo, e quando capita di parlare davanti a lei di politica o di qualcosa di intellettuale, ella s’intromette e butta fuori delle tremende sciocchezze. – Cosa desideri, dunque? – lo interruppe il cliente. – Io chiedo, vossignoria, Diavolo Ivany™, se dipende dalla vostra bontà, che mi facciate ricco! – E sia. Ma tu, per questo devi vendermi l’anima! Prima che il gallo abbia cantato, devi firmare in questo foglio che mi vendi l’anima. – Signoria! – disse Fëdor cortesemente. – Quando mi avete ordinato la rimonta, io non ho preso i denari anticipatamente. Bisogna prima eseguire le ordinazioni e poi esigere i denari. – Va bene, d’accordo! – acconsentí il cliente. All’improvviso dal mortaio sprizzò una fiamma vivida, un denso fumo rosa si rovesciò fuori e si sentí un puzzo di penne bruciate e di zolfo. Quando il fumo si fu dissipato, Fëdor si stropicciò gli occhi e vide che egli non era piú Fëdor, né calzolaio, ma un altro individuo, con la catenella al panciotto e coi calzoni nuovi, e che stava seduto su una poltrona davanti a una grande tavola. Due servi gli servivano le vivande e inchinandosi profondamente dicevano: – Buon appetito, signoria! Che ricchezza! I domestici gli servirono un bel pezzo di montone arrosto e una terrina di cetrioli, poi portarono un tegame con un’oca arrosto, e dopo un po’ del maiale bollito col rafano. E come tutto era distinto, elegante! Fëdor mangiava e ad ogni portata si beveva un gran bicchiere di ottima vodka, come se fosse stato un qualche generale o un conte. Dopo il maiale fu servita della ka∫a al grasso d’oca, poi una frittata al lardo e del fegato arrosto, e lui continuava a mangiare ed era in estasi. Ma che altro c’era? Gli servirono ancora una torta di cipolle e delle rape stufate col kvas. «Ma come, i signori

non scoppiano dopo una simile mangiata!» pensava. Per finire gli servirono un gran vaso di miele. Dopo il pranzo comparve il diavolo dagli occhiali azzurri che, con un profondo inchino gli domandò: – Siete contento del pranzo, Fëdor Pantelei™? Ma Fëdor non poteva pronunciare una parola, tanta era la sua ripienezza dopo il pranzo. La digestione era difficile e penosa e, per distrarsi, egli si mise ad esaminare lo stivale del suo piede sinistro. – Per stivali simili io non prendevo mai meno di sette rubli e mezzo. Che calzolaio li ha fatti? – domandò. – Kuz’mà Lebedkin! – rispose il domestico. – Fallo venir qui, quell’imbecille! Ben presto comparve Kuz’mà Lebedkin di Varsavia. Egli si fermò in atteggiamento rispettoso presso la porta e domandò: – Che desiderate, signoria? – Silenzio! – gridò Fëdor, pestando un piede. – Non osar discutere e ricordati della tua condizione di calzolaio e che razza di individuo sei! Tanghero! Non sei capace di fare degli stivali! Ti romperò il muso! Perché sei venuto? – Per prendere il denaro. – Di che denaro parli? Vattene! Vieni sabato! Servo, caccialo fuori! Ma subito si ricordò come i clienti punzecchiassero lui e nel suo intimo si sentí a disagio e, per distrarsi, cavò di tasca un portafogli gonfio e prese a contare il suo denaro. Il denaro era molto, ma Fëdor ne voleva ancora di piú. Il diavolo dagli occhiali azzurri gli portò un altro portafogli piú gonfio, ma egli ne volle ancor di piú, e quanto piú ne contava, tanto piú rimaneva insoddisfatto. La sera lo spirito impuro gli portò una signora alta, dal seno opulento, vestita di rosso, e gli disse che quella era la sua nuova moglie. Fino a notte egli non fece che baciarla e mangiare pan pepato. La notte, coricato su un morbido letto di piume, continuò a rigirarsi su un fianco e sull’altro e non riuscí a prender sonno. Si sentiva oppresso. – Abbiamo molti denari, – diceva alla moglie, – da un momento all’altro

possono venire i ladri. Dovresti andare con una candela a dare un’occhiata. Tutta la notte non poté dormire e non fece che alzarsi per vedere se il forziere era intatto. Verso il mattino bisognava andare in chiesa al mattutino. In chiesa tutti sono trattati a un modo, ricchi e poveri. Quando Fëdor era povero, in chiesa pregava cosí: «Signore, perdona me peccatore!» La stessa cosa diceva anche ora, divenuto ricco. Che differenza c’era dunque? E dopo la sua morte il ricco Fëdor non sarebbe stato seppellito nell’oro o nei diamanti, ma nella medesima terra nera, come l’ultimo dei poveri. E Fëdor sarebbe andato a bruciare nello stesso fuoco in cui andavano i calzolai. Tutto questo sembrava offensivo a Fëdor, inoltre egli sentiva ancora in tutto il corpo il peso del suo pranzo e, invece di preghiere, gli si insinuavano nella mente ogni sorta di pensieri sullo scrigno coi denari, sui ladri e sulla sua anima venduta e perduta. Uscí di chiesa irritato. Per cacciare i brutti pensieri si mise, come spesso gli accadeva prima, a cantare a squarciagola una canzone. Ma aveva appena incominciato che accorse un agente, il quale, portando la mano alla visiera, disse: – Barin, i signori non devono cantare per la strada! Voi non siete un calzolaio! Fëdor appoggiò la schiena a uno steccato e incominciò a pensare in che modo potesse distrarsi. – Barin! – gli gridò il portinaio. – Non appoggiarti troppo allo steccato, se no ti sporchi la pelliccia! Fëdor entrò in un negozio e si compero la piú bella fisarmonica che ci fosse, poi se ne andò per la strada sonando. Tutti i passanti se lo mostravano a dito e ridevano. – Ed è un signore! – lo canzonavano i vetturini. – Si direbbe che è un calzolaio... – È forse lecito ai signori far baccano? – gli disse una guardia. – Non ci mancherebbe altro che andaste in una bettola! – Barin, fate la carità, per amor di Cristo! – gridarono i mendicanti,

circondando Fëdor da tutte le parti. – Fate la carità! Prima, quand’era un calzolaio, i mendicanti non facevano alcuna attenzione a lui, ora invece non lo lasciavano passare. A casa lo accolse la sua nuova moglie, la signora, vestita con una camicetta verde e una gonna rossa. Egli volle accarezzarla e aveva già alzato la mano per darle un colpo sulla schiena, ma lei disse adirata: – Mu∆ík! Zoticone! Tu non sai comportarti con le signore! Se mi ami, baciami la mano, ma non ti permetterò di battermi. «Ah, che vita d’inferno! – pensò Fëdor. – E la gente vive a questo modo! Non puoi né cantare, né sonar la fisarmonica, né scherzare con la tua donna... Che schifo!» Appena si mise a tavola con la signora per prendere il tè, comparve il diavolo dagli occhiali azzurri che gli disse: – Ebbene, Fëdor Pantelei™, io ho mantenuto in pieno la mia parola. Ora firmatemi la carta e favorite seguirmi. Ora voi sapete cosa vuol dire vivere nella ricchezza, e deve bastarvi! E trascinò Fëdor all’inferno, proprio nella fornace, e i diavoli piombarono giú da tutte le parti, gridando: – Scemo! Tanghero! Asino! Nell’inferno c’è un puzzo di petrolio tremendo, da soffocare. E a un tratto, tutto sparí. Fëdor aprí gli occhi e vide il proprio deschetto, gli stivali e la lucernetta di latta. Il vetro della lucerna era nero e dalla piccola fiamma del lucignolo si spandeva come da un camino un fumo pestifero. Accanto a lui, stava il cliente dagli occhiali azzurri che gridava adirato: – Scemo! Tanghero! Asino! T’insegnerò io, farabutto! Hai preso l’ordinazione due settimane fa e i miei stivali non sono ancora pronti! Cosa credi, che io abbia il tempo di venire da te per gli stivali cinque volte al giorno? Mascalzone! Animale! Fëdor scrollò la testa e riprese a lavorare agli stivali. Il cliente continuò ancora a lungo a ingiuriare e minacciare. Quando infine si fu calmato, Fëdor gli domandò cupo:

– E voi, barin, che mestiere fate? – Fabbrico fuochi del bengala e razzi. Sono pirotecnico. Suonarono a mattutino. Fëdor consegnò gli stivali, prese i denari e andò in chiesa. Per la strada saettavano su e giú carrozze e slitte con coperte di pelle d’orso. Sul marciapiede, insieme col popolo minuto, camminavano mercanti, signori, ufficiali... Ma Fëdor non li invidiava piú e non si lagnava del proprio destino. Gli pareva ora che ricchi e poveri stessero egualmente male. Gli uni hanno la possibilità di andare in carrozza, gli altri quella di cantare a squarciagola e di sonar la fisarmonica, ma la medesima cosa attende tutti: la tomba, e nella vita non c’è nulla per cui metta conto di dare al diavolo anche solo una piccola parte della propria anima.

Henri Troyat Babouchka

Accanto al fuoco del camino, la schiena curva e le mani sulle ginocchia, Babouchka ascolta il vento d’inverno che sibila nella pianura. Esso viene da lontano, fa vibrare la porta, fa sbattere le stelle di neve contro il vetro nero, si intrufola nel caminetto e scuote furiosamente la fiamma che si allunga e si gonfia scoppiettando. Nonostante questo tumulto, Babouchka non ha paura. Si sta cosí bene nell’isba quando fuori tutto è freddo, tenebre e fragore. Poi, lei non è sola. Il suo vecchio cane nero, il peloso Joutchok, tutto raggomitolato, mugola nel suo paniere, mentre la gatta tigrata, Kissa, si lecca il petto con pignola attenzione. Improvvisamente, Joutchok apre un occhio, il pelo di Kissa si rizza. Qualcuno bussa alla porta. In piena notte! Chi è dunque? Un viaggiatore smarritosi, senza dubbio... Nient’affatto impaurita, Babouchka si alza dal suo sgabello, lamentandosi (Ah! le mie povere vecchie gambe!), prende una candela e toglie il paletto di legno. L’uragano abbassa la fiamma della lucerna, ma non può spegnerla. Nell’incerto chiarore, appaiono tre forestieri, grandi e barbuti. Le loro vesti sono di neve. I peli della loro barba sono radi e bianchi come i lunghi ghiaccioli che pendono dalle grondaie, ed una goccia d’acqua trema all’estremità del loro naso arrossato. I loro occhi, vividi per il freddo, brillano come diamanti, mentre intorno a loro volteggiano fiocchi leggeri, simili alla peluria di un cigno. Il cane ringhia, digrignando i denti, la gatta soffia per la collera. Subito dopo, però, stranamente, tutti e due si quietano, stirano la schiena e si

strofinano amichevolmente contro le gambe dei nuovi venuti. – Babouchka, – dice uno dei tre (mentre parla, l’alito esce come vapore dalla sua bocca), – noi veniamo da molto lontano e vogliamo brevemente darti una grande notizia. Questa notte è nato un piccolo Principe che regnerà sull’universo. Noi gli portiamo dei doni, ma non sappiamo con sicurezza dove egli sia. Ci vuoi accompagnare? Partiamo insieme alla sua ricerca... Sulla soglia, Babouchka rabbrividisce. Certo, vorrebbe vedere il piccolo Principe, il figlio del Re. Ma la notte è cosí fredda, il vento tanto forte e c’è troppa neve per le strade per lei, che è cosí vecchia!... Poi, non può lasciare soli in casa Joutchok e Kissa. Cosa ne sarebbe di loro se lei se ne andasse? Chi li nutrirebbe? A meno di non portarli con sé. Per guadagnare tempo, dice ai visitatori: – Entrate, dunque, per riscaldarvi e riposarvi un po’. Debbo riflettere, pesare il pro e il contro... Ma essi scuotono la testa, tutti e tre insieme, come se fossero mossi da un unico filo: – No, Babouchka, abbiamo troppa fretta. Subito dopo si allontanano nella notte, camminando uno dietro l’altro, i piedi stanchi, la barba al vento, in mezzo alla neve che turbina. Rimasta sola, Babouchka si siede nuovamente davanti al fuoco, in mezzo al cane e al gatto. Tende le vecchie mani rugose verso la fiamma, col cuore gonfio: – Non ho nemmeno chiesto chi era il piccolo Principe né come loro tre avessero saputo della sua nascita, né che cosa speravano di scoprire... Come sono sciocca, che guaio! Ma domani mi alzerò presto, e partirò con Joutchok e Kissa: gli animali hanno piú fiuto degli uomini e mi aiuteranno a ritrovare i tre stranieri. Li raggiungerò, camminerò dietro a loro e porterò al piccolo Principe un sacco con dei doni. Per fortuna ho appena finito di dipingere delle noci. Questo progetto incanta Babouchka, che si addormenta subito dopo, sul suo sgabello, con un sorriso di gioia. Con i primi raggi del sole è già sul sentiero nevoso con il bastone in mano e sulle spalle porta un sacco pieno di noci dipinte. Joutchok corre davanti a

lei, la coda in aria, il muso teso in avanti, mentre Kissa cammina con i baffi ritti, il passo morbido e circospetto. Babouchka domanda ad ogni contadino che incontra se sa dove abiti il piccolo Principe. Ma nessuno le sa rispondere. Alcuni scrollano le spalle, altri le ridono in faccia, altri ancora la prendono per pazza. Tutto questo non l’addolora, perché sa bene che i folli sono coloro che dubitano. Ella si rimette in cammino, sempre sorridente, col suo cane che saltella dalla gioia e la sua gatta che miagola malinconica. Le tracce dei loro passi formano uno zig e zag sulla neve. Da allora, nella notte di Natale, quando un alto strato di neve copre tutti i campi, una vecchia donna passa di villaggio in villaggio. Il suo viso rugoso è chino al suolo, ella si appoggia ad un bastone ed ha un sacco sulle spalle. Un cane e un gatto l’accompagnano. Come lei, essi sono vecchi, intirizziti e stanchi. La vecchia sceglie una casa, vi entra con passo felpato mentre tutti dormono, attraversa le stanze buie e si china sopra un letto dove riposa un bambino con gli occhi chiusi, col respiro tranquillo. Da lei emana come un profumo di gelo e di limoni. Nelle sue pupille fisse brillano lacrime d’argento. A lungo contempla il tenero viso affondato nel cuscino. Infine, la vecchia scuote la testa e mormora: – Questo non è il piccolo Principe. Bisogna che vada piú lontano... Subito se ne va, leggera, ansiosa, lasciando nella camera un ninnolo senza valore e un soffio d’aria fredda.

Robert Louis Stevenson Markheim

– Sí, – disse il mercante, – ci capitano colpi di fortuna di vario tipo. Alcuni clienti sono ignoranti, e allora a me, per il fatto di saperne di piú, tocca un dividendo. Alcuni sono disonesti, – e qui sollevò la candela, in modo tale che la luce cadesse in pieno sul visitatore, – e in tal caso, – proseguí, – ne ho un profitto grazie alla mia rettitudine. Markheim era appena entrato dalla luce diurna delle strade e i suoi occhi non si erano ancora familiarizzati con la luminosità e l’oscurità frammischiate del negozio. A quelle caustiche parole e davanti alla presenza ravvicinata della fiamma, batté gli occhi con fastidio e volse lo sguardo altrove. Il mercante sogghignò. – Venite da me il giorno di Natale, – riprese a dire, – quando sapete che sono solo in casa, che ho chiuso bottega e che son deciso a non trattare affari. Be’, per questo c’è da pagare. Dovrete pagarmi la perdita di tempo, tempo che avrei impiegato per far quadrare i libri contabili; dovrete pagarmi, inoltre, per un tipo di comportamento che oggi rilevo in voi assai accentuato. Io sono l’essenza della discrezione e non faccio domande imbarazzanti; ma quando un cliente non riesce a guardarmi negli occhi, deve pagarmi per questo –. Il mercante sogghignò un’altra volta e quindi, assumendo la sua abituale voce affaristica, sebbene con ancora una punta di ironia: – Potete fornirmi, come al solito, una chiara spiegazione del modo in cui siete venuto in possesso dell’oggetto? – continuò. – Sempre dallo studio di vostro zio? Un collezionista notevole, signore! E il piccolo, pallido, curvo mercante se ne stette quasi in punta di piedi a guardare al di sopra dei suoi occhiali d’oro e a crollare il capo mostrando somma incredulità. Markheim ricambiò quello sguardo con uno di infinita

pietà e una sfumatura di orrore. – Stavolta, – disse, – siete in errore. Non sono venuto per vendere bensí per comprare. Non ho rarità di cui disporre; dello studio di mio zio non è rimasta che la pannellatura delle pareti. E fosse ancora intatto – mi è andata bene in Borsa – avrei probabilmente incrementato la collezione piuttosto che il contrario; e il motivo della mia odierna commissione è il piú semplice del mondo. Cerco un regalo di Natale per una signora, – egli proseguí, facendosi piú facondo poiché era giunto al discorso che si era preparato; – e certamente vi debbo tutte le mie scuse nel disturbarvi cosí per una simile faccenduola; ma ieri ho tralasciato di sbrigarla e devo offrire il mio piccolo omaggio a cena. E, come sapete benissimo, un ricco matrimonio non è cosa da essere tralasciata. Seguí una pausa, durante la quale il mercante parve soppesare questa affermazione con scetticismo. Il ticchettio di parecchi orologi che facevano parte delle curiose cianfrusaglie del negozio e l’ovattato trambusto delle carrozze di piazza sulla via principale lí prossima colmarono l’intervallo di silenzio. – Be’, signore, – disse il mercante, – come volete. Siete un vecchio cliente, dopo tutto; e se, come dite, avete l’opportunità di un buon matrimonio, lungi da me l’esservi di ostacolo. Ecco qui una graziosa cosetta per una signora, – continuò, – questo specchietto col manico... quindicesimo secolo, garantito. Proviene anch’esso da una buona collezione; ma il nome lo ometto, nell’interesse del mio cliente, che era proprio come voi, mio caro signore, il nipote e l’unico erede di un considerevole collezionista. Il mercante, mentre cosí diceva con la sua voce secca e tagliente, si era chinato per prendere l’oggetto da dove era riposto; e nel far cosí, Markheim fu come colto da una scossa, un sussulto delle mani e dei piedi, un subitaneo afflusso di molte tumultuose passioni al volto. Passò con la stessa rapidità con cui era giunto, senza lasciare traccia oltre a un certo tremore della mano che adesso riceveva lo specchio. – Uno specchio, – egli disse rauco; quindi fece una pausa e lo ripeté con voce piú chiara. – Uno specchio? Per Natale? Decisamente no! – E perché no? – esclamò il mercante. – Perché non uno specchio? Markheim lo osservò con un’espressione indefinibile. – Mi chiedete

perché no? – disse. – Diamine, guardate qui... guardate dentro... guardatevi! Vi piace vedervici? No! E neanche a me... a nessuno piace. L’omino era balzato indietro quando Markheim gli aveva posto dinnanzi cosí improvvisamente lo specchio; ma adesso, intuendo che non stava per accadere nulla di peggio, ridacchiò. – La vostra futura signora, signore, deve essere ben poco favorita dalla natura... – disse. – Vengo da voi, – disse Markheim, – per un dono natalizio e voi mi date questo, questa maledetta memoria degli anni, dei peccati, delle follie... questa coscienza fornita di manico! Era questa la vostra intenzione? Lo avete fatto consapevolmente? Ditemelo. Sarà meglio per voi se me lo dite. Su, ditemi voi. Azzardo una supposizione io, allora: che voi siate, in segreto, un uomo molto caritatevole? Il mercante considerò attentamente il suo compagno. Per strano che fosse, Markheim, non sembrava incline al riso; sul suo volto si leggeva come un’ansiosa scintilla di speranza ma nessuna traccia di gaiezza. – Dove volete arrivare? – chiese il mercante. – Non caritatevole? – ribatté l’altro malinconicamente. – Non caritatevole; non pio; senza scrupoli; privo di affetto; non amato. Una mano per far denaro e una cassaforte per conservarlo. Tutto qui? Buon Dio, amico, tutto qui? – Vi dirò io cos’è, – prese a dire il mercante in modo piuttosto brusco e quindi proruppe nuovamente in un sogghigno. – Ma vedo che questa vostra è un’unione d’amore e che avete già brindato alla salute della signora. – Ah! – esclamò Markheim con strana curiosità. – Siete stato innamorato? Parlatemene. – Io, – sbottò il mercante, – io innamorato! Non ne ho mai avuto tempo; né oggi ho tempo per tutte queste sciocchezze. Lo specchio, lo prendete? – Che fretta c’è? – ribatté Markheim. – È piacevolissimo starsene qui a conversare; e la vita è cosí breve e incerta che non mi affretterei a staccarmi da nessun genere di piacere... no, neppure da uno blando come è questo. Dovremmo piuttosto attaccarci, attaccarci al poco che ci è dato, come un uomo sull’orlo di un precipizio. Ogni secondo è un precipizio, se ci pensate... un precipizio alto un miglio; alto abbastanza, se precipitiamo, da frantumare

in noi ogni parvenza di umanità. Pertanto, è meglio conversare piacevolmente. Parliamo di noi, l’uno all’altro. Perché indossare questa maschera? Dimostriamoci fiduciosi. Chissà che non si diventi amici? – Ho soltanto una parola da dirvi, – disse il mercante. – O fate il vostro acquisto o uscite dal mio negozio! – Giusto, giusto, – disse Markheim. – Basta con le stupidaggini. Agli affari. Mostratemi qualcos’altro. Il mercante si abbassò nuovamente, stavolta per riporre lo specchio sopra la mensola, e nel farlo i radi capelli biondi gli caddero sugli occhi. Markheim gli si fece un poco piú accosto, con una mano nella tasca del pastrano; si raddrizzò e inspirò profondamente; nello stesso momento tante e diverse emozioni si dipinsero insieme sul suo volto: terrore, orrore e determinazione, attrazione e repulsione fisica. E, attraverso una stravolta contrazione del labbro superiore, apparvero i denti. – Questo, forse, può andare, – commentò il mercante. E quindi, mentr’egli cominciava a rialzarsi, Markheim da dietro balzò addosso alla sua vittima. Il lungo pugnale, simile a uno spiedo, balenò e si abbatté. Il mercante si dibatté come una gallina, picchiando la tempia contro la mensola, e poi ruzzolò, afflosciandosi sul pavimento. Il tempo in quel negozio possedeva una piccola partitura composta di brevi accordi, taluni maestosi e lenti, come si addiceva alla loro tarda età; altri garruli e affrettati. Tutti insieme scandivano i secondi in un intricato coro di ticchettii. Poi il transito del passo pesante di un ragazzo che correva sul marciapiede irruppe al di sopra di tutte quelle voci piú ridotte e, facendolo trasalire, ricondusse Markheim alla consapevolezza di dove si trovava. Si guardò intorno con raccapriccio. La candela stava sul bancone, la sua fiamma ondeggiava solenne a ogni spiffero d’aria; e a ragione di quell’irrilevante movimento, l’intera stanza era colma di un silenzioso brulichio che si sollevava e si abbassava come fa il mare: le ombre lunghe dondolavano, le chiazze d’oscurità si gonfiavano e scemavano come se respirassero, i volti dei ritratti e degli idoli di porcellana mutavano e ondulavano come immagini nell’acqua. La porta interna era socchiusa e con un lungo taglio di luce diurna

simile a un dito puntato pareva scrutare quella massa d’ombre in combutta. Da quelle impressionanti divagazioni, gli occhi di Markheim tornarono a posarsi sul corpo della vittima, che giaceva quasi ingobbita e scomposta, incredibilmente piccola e stranamente piú squallida che da viva. In quei poveri, miserevoli abiti, in quella goffa postura, il mercante giaceva come tanta segatura. Markheim aveva temuto di guardarlo, ed ecco! era nulla. E tuttavia, mentre lo fissava, quel fagotto di vecchi indumenti immerso in una pozza di sangue prese a trovare voce eloquente. Là doveva stare; nessuno piú poteva manovrarne gli abili ingranaggi o dirigere il miracolo della locomozione... là doveva stare finché non lo avrebbero scoperto! Scoperto, già, e poi? Poi quella carne morta avrebbe levato un grido che sarebbe risonato in tutta l’Inghilterra e riempito il mondo degli echi dell’inseguimento. Già, morto o non morto, quello era ancora il nemico. «Tempo fu quello in cui fallí l’intelligenza», pensò; e la prima parola gli si piantò in mente. Tempo, ora che l’atto era stato compiuto... tempo, che si era concluso per la vittima, il tempo era divenuto pressante e di grande importanza per l’uccisore. Il pensiero gli era ancora in mente, allorché, prima uno poi un altro, con ogni varietà di ritmo e di timbro – uno profondo come la campana di una cattedrale, un altro squillante con voce di soprano che attacca il preludio di un valzer – gli orologi si misero a battere le tre del pomeriggio. L’improvviso irrompere di tutte quelle lingue in quella muta camera lo sconcertò. Egli prese ad agitarsi, spostandosi di qua e di là con la candela, assediato dalle mobili ombre e spaventato fin nell’anima dai casuali riflessi. In tante ricche specchiere, alcune di foggia nostrana, altre di Venezia o di Amsterdam, egli vedeva ripetersi e ripetersi il proprio volto, come se intorno a lui vi fosse una legione di spie; i suoi stessi occhi lo incrociavano e lo smascheravano; e il rumore dei suoi stessi passi, per quanto si posassero leggeri, molestavano la quiete circostante. E la sua mente, mentre continuava a riempirsi le tasche, non cessava di accusarlo, con disgustosa ripetizione, dei mille errori del suo piano. Avrebbe dovuto scegliere un’ora piú tranquilla; avrebbe dovuto prepararsi un alibi; non avrebbe dovuto usare un coltello;

avrebbe dovuto comportarsi piú cautamente, limitandosi a legare e imbavagliare il mercante, anziché ucciderlo; avrebbe dovuto essere ancor piú ardito, ammazzando anche la domestica; avrebbe dovuto fare tutto in un altro modo: strazianti rammarichi, logorante e incessante lavorio della mente per mutare ciò che era immutabile, per progettare ciò che adesso era inutile, per farsi architetto del passato immutabile. Nel frattempo, e dietro tutta questa attività mentale, animaleschi terrori, come le scorribande dei topi in una soffitta disabitata, colmavano di frastuono le piú remote stanze del suo cervello; la mano del poliziotto che gli piombava sulla spalla, i suoi nervi che guizzavano come pesci all’amo... oppure scorgeva sfilargli dinnanzi al galoppo il banco degli imputati, la prigione, la forca e la nera bara. Il terrore della gente sulla via gli si piantò nel cervello come un esercito che lo stringesse d’assedio. Era impossibile, cosí pensava, che un qualche rumorio della lotta non avesse raggiunto le loro orecchie e aguzzato la loro curiosità. E adesso, in tutte le case del vicinato, egli se li figurava seduti immobili, con le orecchie ritte: persone sole, condannate a trascorrere il Natale indugiando in solitudine sui ricordi del passato, ora trasalendo sottratte a quel commovente esercizio; felici riunioni familiari, piombate nel silenzio attorno al tavolo, la madre ancora col dito levato; d’ogni rango, età, indole, ma tutti, ciascuno presso il proprio focolare, intenti a origliare, a prestare attenzione, a intrecciare la corda che l’avrebbe dovuto impiccare. Talvolta gli pareva di non riuscire a muoversi abbastanza silenziosamente; il tintinnio degli alti calici di Boemia risonava col chiasso di una campana; e allarmato dall’amplitudine del ticchettio, era tentato di fermare gli orologi. E poi, ancora, con brusca transizione dei suoi terrori, il silenzio stesso del luogo pareva una fonte di pericolo, una cosa capace di colpire e agghiacciare il passante; allora si dava d’attorno con piú baldanza e si affaccendava rumorosamente tra la mercanzia del negozio e imitava, con elaborata spacconeria, i movimenti di un uomo tranquillamente indaffarato in casa propria. Ma egli era ormai talmente strapazzato da paure cosí contrastanti che, mentre una parte della sua mente rimaneva ancora vigile e scaltra, un’altra

vacillava sull’orlo della follia. In particolare un’allucinazione s’impadroní con insistenza della sua credulità. Il vicino impallidito che tendeva l’orecchio da dietro la propria finestra; il passante che si bloccava sul marciapiede colto da una orribile supposizione... questi, alla peggio, potevano sospettare; non potevano sapere. Attraverso i muri di mattone e le finestre chiuse dalle impannate, soltanto i suoni riuscivano a penetrare. Ma qui, dentro casa, egli era solo? Sapeva di esserlo; aveva aspettato di veder uscire la domestica che andava dal moroso, nel suo miglior abituccio, con «giorno libero» scritto su ogni nastro e sorriso. Sí, egli era solo, naturalmente; e tuttavia, nella mole della casa vuota sopra di lui, egli percepiva con sicurezza un lieve trambusto di passi leggeri... egli era sicuramente consapevole, inesplicabilmente consapevole di una qualche presenza. Già, ne era sicuro; la sua immaginazione la seguiva in ogni stanza e in ogni angolo della casa, e ora era una cosa priva di volto, eppure con occhi per vedere, e ora la sua propria ombra, e ora invece l’immagine del morto negoziante, nuovamente infusa d’astuzia e di odio. A volte, con enorme sforzo, egli gettava uno sguardo alla porta aperta che ancora pareva respingerne l’occhio. La casa era alta, il lucernario piccolo e sporco, il giorno offuscato dalla nebbia; e la luce che filtrava fino al piano terra era eccessivamente fioca, lasciando soltanto una traccia indistinta sulla soglia del negozio. Eppure, in quella striscia di incerta luminosità, non si attardava esitante un’ombra? Improvvisamente, dalla strada là fuori, un signore assai allegro attaccò a battere col bastone da passeggio sull’uscio del negozio, accompagnando i colpi con grida e canzonature nelle quali il nome del mercante era continuamente chiamato in causa. Markheim, raggelatosi, gettò un’occhiata al morto. Ma no! Se ne stava assolutamente immobile: era volato lontanissimo dalla portata d’orecchio di quei colpi e di quei gridi; si era inabissato nelle profondità del silenzio e il suo nome, che un tempo avrebbe percepito al di sopra del rombo della tempesta, era divenuto un suono fesso. E ormai il signore allegro desisteva dal suo picchiare e si allontanava. Si trattava comunque di un chiaro suggerimento ad affrettarsi a sbrigare

ciò che restava da fare, ad andarsene da quei paraggi accusatori, a tuffarsi nel bagno della folla londinese, e a raggiungere, nell’altra parte della giornata, un porto sicuro e apparentemente innocente: il proprio letto. Un visitatore era venuto; in qualsiasi momento avrebbe potuto seguirne un altro, piú ostinato. Aver compiuto quell’atto e nondimeno non raccoglierne i frutti, avrebbe significato un insuccesso troppo odioso. Il denaro, quella era adesso la preoccupazione di Markheim; e per arrivarci, le chiavi. Gettò un’occhiata di sulla spalla alla porta aperta, dove l’ombra ancora indugiava e tremava; e senza nessuna consapevole ripugnanza, tuttavia con uno spasmo allo stomaco, si fece vicino al cadavere della sua vittima. L’aspetto umano era totalmente svanito. Come un vestito per metà imbottito di crusca, gli arti giacevano disordinatamente, il tronco piegato in due, sul pavimento; eppure quella cosa lo repelleva. Sebbene risultasse all’occhio cosí squallida e insignificante, egli temeva che possedesse maggior rilevanza al tatto. Prese il cadavere per le spalle e lo rovesciò sulla schiena. Era stranamente leggero e flessibile e gli arti, come fossero stati spezzati, ricadevano nelle piú bizzarre posture. Il volto era privo di ogni espressione; ma pallido come cera e orribilmente impiastrato di sangue su una tempia. Fu quella, per Markheim, l’unica circostanza spiacevole. Lo riportò all’istante a un certo giorno di una fiera in un villaggio di pescatori... Una giornata grigia, un vento stridulo, folla sulla via, lo strombettare degli ottoni, il rimbombare dei tamburi, la voce nasale di un cantastorie; e un ragazzino che se ne andava qua e là, sommerso fin sopra il capo dalla folla e dibattuto tra la curiosità e la paura, finché, giunto nel punto di maggiore assembramento, egli aveva scorto un baraccone e un grande telo pieno di immagini, miseramente abbozzate e vistosamente colorate; Brownrigg col suo apprendista, i Manning coi loro ospiti assassinati, Weare nella stretta mortale di Thurtell e tutto un repertorio di delitti famosi. La cosa era netta come un’illusione; egli era nuovamente quel bambinetto; egli stava nuovamente guardando, e col medesimo senso di repulsione fisica, quelle spregevoli illustrazioni; egli era ancora frastornato dai tonfi dei tamburi. Una battuta della musica di quel giorno gli tornò in mente; e con essa, per la prima volta, fu invaso da un senso di nausea, da un attimo di

schifo, una improvvisa fiacchezza delle membra, che doveva all’istante respingere e dominare. Giudicò piú saggio affrontare tali fattori anziché sfuggirli, guardando con ancor maggiore arditezza il volto del morto, forzando la propria mente a rendersi conto della natura e della misura del suo delitto. Era trascorso talmente poco tempo da quando quel volto aveva manifestato ogni mutare di sentimento, quella pallida bocca aveva parlato, il corpo ancora acceso da docili energie; e adesso, per sua mano, quel tassello di vita era stato fermato, come fa l’orologiaio, che, interponendo un dito, arresta il battito della pendola. Cosí egli vanamente ragionava; non riusciva a raggiungere un piú contrito livello di coscienza; lo stesso cuore, che aveva rabbrividito dinnanzi alle effigi dipinte del delitto, ne osservava la realtà senza emozione. Tutt’al piú, sentiva un briciolo di pietà per costui, che era stato invano dotato di tutte quelle facoltà che possono fare del mondo un giardino d’incanti, per costui che non aveva mai vissuto veramente e che adesso era morto. Ma pentimento, no, neanche un fremito. Con ciò, sbarazzatosi di quelle considerazioni, trovò le chiavi e si diresse verso la porta aperta sul retro del negozio. Fuori, aveva attaccato a piovere con una certa intensità e il suono dell’acquazzone sul tetto aveva bandito il silenzio. Come in una grotta stillante, le stanze della casa erano possedute da un echeggiare senza tregua, che ossessivamente colmava le orecchie mescolandosi al ticchettio degli orologi. E, come Markheim fece per avvicinarsi alla porta, gli parve di udire, in risposta al suo cauto passo, quelli di un altro piede che si ritirava su per le scale. L’ombra palpitava ancora senza forma sulla soglia. Gettò sui propri muscoli una tonnellata di determinazione e spinse indietro la porta. La fievole, appannata luce diurna baluginava fioca sul nudo pavimento e sui gradini; sulla lucida corazza di un’armatura, collocata, alabarda in pugno, sul pianerottolo; sugli scuri intagli lignei e sui quadri incorniciati appesi ai gialli pannelli di rivestimento. Il battere della pioggia risonava con tale intensità per tutta la casa che all’orecchio di Markheim esso prese a differenziarsi in tanti suoni distinti. Passi e sospiri, la cadenza di marcia di un

reggimento lontano, il tintinnio delle monete nel registratore di cassa e il cigolio di porte furtivamente socchiuse, parevano mescolarsi al picchiettare delle gocce sulla cupola e al gorgogliare dell’acqua nelle gronde. La sensazione di non essere solo aumentò in lui fino al limite della follia. Da ogni parte egli si sentiva ossessivamente circondato da presenze. Le udí muoversi nelle stanze al piano di sopra; dal negozio gli giunse il rumore del morto che si rimetteva in piedi; e quando con grande sforzo prese a salire le scale, dei passi sommessi dileguarono davanti a lui per poi seguirlo di soppiatto. Se soltanto fosse stato sordo, – pensò, – con quale tranquillità avrebbe dominato l’anima sua! E poi, invece, tendendo l’orecchio con sempre rinnovata attenzione, si lodò per quel suo infaticabile senso che sorvegliava gli avamposti e montava di guardia, fidata sentinella, alla sua vita. La testa non gli stava mai ferma sul collo e gli occhi, che parevano sul punto di uscirgli dalle orbite, perlustravano ogni angolo, e in ogni angolo scovavano parziale ricompensa nella fuggevole estremità di alcunché d’indefinibile che scompariva. I ventiquattro gradini del primo piano corrisposero a ventiquattro supplizi. A quel primo piano le porte erano soltanto accostate; e tre di esse se ne stavano lí come tre imboscate, scotendogli i nervi come fossero bocche di cannone. Sentiva che non gli sarebbe mai piú stato possibile tenersi al riparo e scampare agli sguardi dell’occhio indagatore dei suoi simili; bramava la propria casa, l’esserci dentro cinto dalle mura, sepolto tra le coperte del letto e a tutti invisibile fuorché a Dio. E a questo pensiero si meravigliò un poco, rammentandosi di casi di altri assassini e della paura che si diceva avessero nutrita dei vendicatori celesti. Cosí non era, per lo meno, con lui. Temeva le leggi della natura, temeva che esse, nel loro procedere inesorabile e immutabile, serbassero una qualche prova incriminante del suo delitto. Temeva dieci volte di piú, con terrore vile e superstizioso, una qualche scissione nella continuità logica dell’esperienza umana, una qualche premeditata illegalità della natura. Egli era impegnato in un gioco di abilità, subordinato a regole, inteso a trarre conseguenze dalle cause; e che sarebbe successo se la natura, come il tiranno sconfitto che rovesciò la scacchiera, avesse infranto lo stampo della loro consecutività? Una cosa analoga era

capitata a Napoleone, cosí affermavano gli scrittori, allorché l’inverno anticipò il momento della propria venuta. Una cosa analoga sarebbe potuta capitare a Markheim: le compatte pareti avrebbero potuto farsi trasparenti e rivelare le sue azioni come quelle delle api in un’arnia di vetro; i solidi tavolati avrebbero potuto cedere sotto il suo piede come sabbie mobili rinserrandolo nella loro morsa. Già; e c’erano accidenti piú concreti che avrebbero potuto distruggerlo; se, per esempio, la casa fosse crollata imprigionandolo accanto al cadavere della sua vittima oppure se la casa a fianco fosse andata a fuoco e i pompieri si fossero riversati da ogni dove lí da lui. Tali cose egli temeva; e, in un certo senso, queste cose possono esser definite la mano di Dio tesa a punire il peccato. Ma per quanto riguardava Dio in persona, egli era tranquillo; il suo atto era indubitabilmente eccezionale ma lo erano pure le sue giustificazioni, che Dio conosceva; in ciò e non fra gli uomini egli si sentiva certo di trovare giustizia. Quando, in salvo, giunse nel salotto ed ebbe chiusa la porta dietro di sé, si rese conto che gli era concessa una tregua ai propri timori. La stanza si presentava in completo disarmo, senza tappeti, disseminata di casse da imballaggio e ammobiliata in modo incongruo: diverse grandi specchiere, nelle quali poteva scorgersi sotto varie angolature, come un attore sul palcoscenico; parecchi dipinti, incorniciati e non, posti a terra in verticale con la faccia rivolta al muro; una bella credenza Sheraton, un mobiletto d’ebanisteria e un grande letto antico con arazzi per tendaggio. Le finestre giungevano fino al livello del pavimento ma per colmo di fortuna la parte inferiore degli scuri era stata chiusa, celandolo alla vista dei vicini. Lí, quindi, Markheim procedette ad accostare una delle casse davanti al mobiletto intarsiato e prese a passare in rassegna le chiavi. Una faccenda lunga, ché erano molte, e fastidiosa, inoltre, visto che, dopo tutto, nel mobiletto avrebbe potuto esserci nulla e il tempo volava. Ma la concentrazione che il compito richiedeva lo acquietò. Anche se con la coda dell’occhio egli controllava la porta e, di tanto in tanto, la guardava direttamente, come il comandante posto in stato d’assedio si compiace di verificare le buone condizioni delle sue difese, egli, in realtà, era tranquillo. La pioggia che cadeva nella strada aveva

un suono normale e piacevole; e, ora, dall’altro lato della strada, le note di un pianoforte si destarono alla musica di un inno e le voci di molti bimbi ne ripresero la melodia con le parole. Che aria solenne, serena! Che freschezza in quelle giovani voci! Markheim vi prestò orecchio sorridendo, mentre selezionava le chiavi, e la sua mente fu gremita di idee e di immagini a essa corrispondenti: bambini che si recano in chiesa e l’organo che suona a distesa; bambini nei campi, che si bagnano nel ruscello, che vagabondano per le comunanze soffocate dai rovi, che dànno il volo ad aquiloni nel cielo ventoso, solcato da nubi; e poi, a un’altra cadenza dell’inno, di nuovo la chiesa e la sonnolenza delle domeniche estive e la voce acuta e manierata del pastore (della quale al ricordo un poco sorrise) e le tombe dipinte dell’epoca di Giacomo I e gli indistinti caratteri dei Dieci Comandamenti incisi lungo il coro. E mentre se ne stava cosí seduto, al tempo stesso indaffarato e distratto, trasalí balzando in piedi. Un lampo di ghiaccio, un lampo di fuoco, l’esplosione di un fiotto di sangue gli furono addosso, per poi lasciarlo lí ritto, pietrificato e palpitante. Un passo saliva la scala, con lentezza e determinazione, ed ecco una mano si posava sul pomello e la serratura scattava e la porta si apriva. La paura teneva Markheim in una morsa. Non sapeva cosa aveva da attendersi, se il morto messosi a camminare oppure gli strumenti autorizzati della giustizia umana o qualche fortuito testimone che, imbattutosi in lui alla cieca, lo avrebbe consegnato alla forca. Ma quando un volto si introdusse nell’apertura, volse attorno lo sguardo, lo guardò, gli fece un cenno col capo e gli sorrise con un segno di amichevole riconoscimento, e quindi tornò a ritrarsi e la porta gli si chiuse alle spalle, la paura di Markheim sfuggí al suo controllo con un rauco grido. A quel suono, la visita fece ritorno. – Mi avete chiamato? – domandò affabilmente e con ciò entrò nella stanza e si chiuse la porta alle spalle. Markheim, immobile, lo fissava con tanto d’occhi. Forse sulla sua vista era calato un velo ma i lineamenti del nuovo venuto parevano mutare e ondeggiare come quelli degli idoli alla vacillante luce della candela del

negozio; e a momenti pensava di conoscerlo; a momenti gli sembrava che avesse una certa somiglianza con lui stesso; e sempre, come una massa di vivo terrore, gli gravava il petto la convinzione che quell’essere non apparteneva né alla terra né a Dio. Eppure la creatura, mentre se ne stava a considerare Markheim con un sorriso, possedeva una strana aria di ovvietà, di fatto normale; e quando aggiunse: – State cercando il denaro, suppongo? – lo disse col tono della piú ordinaria educazione. Markheim non dette risposta. – Debbo avvertirvi, – riprese l’altro, – che la cameriera ha lasciato il suo innamorato prima del solito e che tra breve sarà qui. Se il signor Markheim venisse trovato in questa casa, non occorre che vi descriva le conseguenze. – Mi conoscete? – gridò l’assassino. Il visitatore sorrise. – Siete da molto tempo uno dei miei prediletti, – disse; – e da tanto vi seguo e spesso ho cercato di aiutarvi. – Che siete? – gridò Markheim, – il diavolo? – Ciò che posso essere, – ribatté l’altro, – è ininfluente sul servizio che mi sono proposto di rendervi. – Sí che lo è, – esclamò Markheim; – lo è! Aiutato da voi? No, mai; da voi no! Voi non mi conoscete ancora; grazie a Dio, voi non mi conoscete! – Vi conosco, – replicò la visita con una specie di gentile severità o piuttosto di fermezza. – Vi conosco fin nell’anima. – Conoscermi! – gridò Markheim. – Chi può affermarlo? La mia vita non è che la parodia e la diffamazione di me stesso. Ho vissuto per travisare la mia natura. Tutti gli uomini lo fanno; tutti gli uomini sono migliori di questo travestimento che si portano addosso e che li soffoca. Vi rendete conto che ognuno è trascinato via dalla vita, proprio come si è afferrati e avvolti in un mantello dagli sgherri? Se possedessero il controllo di sé... se poteste vederne i volti, sarebbero completamente differenti, risplenderebbero al pari degli eroi e dei santi! E io sono il peggiore fra tutti; il mio me stesso è ancor piú coperto; la mia giustificazione è nota soltanto a me e a Dio. Ma, ne avessi il tempo, potrei svelarmi interamente.

– A me? – s’informò la visita. – A voi prima di ogni altro, – replicò l’assassino. – Vi immaginavo intelligente. Pensavo, – visto che esistete – che vi sareste dimostrato capace di leggere nei cuori. E tuttavia avreste intenzione di giudicarmi dalle mie azioni! Pensateci: le mie azioni! Sono nato e vissuto in un paese di giganti; giganti che mi hanno strascinato per i polsi fin da quando mia madre mi partorí... i giganti delle circostanze. E vorreste giudicarmi dalle mie azioni! Ma non riuscite a vedere all’interno? Non capite che il male mi è in odio? Non riuscite a distinguere dentro di me la chiara calligrafia della coscienza, mai alterata, sebbene troppo spesso trascurata da ogni premeditata sofisticheria? Non riuscite a leggermi per quella cosa che, sicuramente, deve essere banale quanto lo è l’umanità... il peccatore riluttante? – Tutto ciò è espresso in termini assai sentiti, – fu la risposta, – ma non mi riguarda. Questa coesistenza di aspetti compatibili è al di là della mia competenza e non m’importa minimamente da quale coercizione siate stato trascinato, giacché potreste essere stato condotto nella direzione piú opportuna. Ma il tempo vola. La domestica si attarda; guarda i volti tra la folla e le immagini delle affissioni ma continua però a farsi piú vicina; e, rammentate, è come se la forca stessa avanzasse a gran passi nella vostra direzione attraverso le vie natalizie! Vi aiuterò, io, che so tutto? Vi dirò dove trovare il denaro? – A che prezzo? – chiese Markheim. – Vi offro questo servigio per dono di Natale, – rispose l’altro. Markheim non poté impedirsi di sorridere con una sorta di amaro trionfo. – No, – disse, – da voi non accetterò nulla; se stessi morendo di sete e fosse la vostra mano ad accostarmi la brocca alle labbra, troverei il coraggio di rifiutare. Sarà dabbenaggine ma non farò nulla per consegnarmi al male. – Non ho obiezioni a un pentimento in punto di morte, – osservò la visita. – Perché non credete alla sua efficacia! – gridò Markheim. – Non dico questo, – ribatté l’altro; – ma io considero questo genere di cose da un lato diverso e quando la vita è compiuta il mio interesse cade. L’uomo è vissuto per servirmi, per diffondere malvagie apparenze sotto la

bandiera della religione o per seminare zizzania nel campo di grano, come voi, secondo una rotta di fiacca acquiescenza al desiderio. Adesso che egli si fa cosí prossimo alla sua liberazione, può aggiungere un atto di servigio soltanto: pentirsi, morire sorridendo, e in tal modo fortificare la fiducia e la speranza nei piú timorosi tra i miei seguaci sopravvissuti. Non sono un padrone tanto cattivo. Sperimentatemi. Accettate il mio aiuto. Fate come vi piace nella vita come avete fatto sinora; fate come vi piace ancor piú ampiamente, allargate i gomiti al desco; e quando la notte comincia a calare e il sipario a scendere, io vi dico, per vostro maggior conforto, che troverete persino facile comporre il vostro dissenso con la vostra coscienza e fare umilissimamente pace con Dio. Giungo or ora da un letto di morte del genere; la camera era piena di persone sinceramente afflitte pronte a cogliere le ultime parole del moribondo; e quando ho guardato il suo volto, che si era sempre mostrato di sasso alla misericordia, l’ho scoperto sorridente di speranza. – E voi, dunque, mi ritenete un essere di tal genere? – domandò Markheim. – Pensate che io non abbia aspirazioni piú generose del peccare, peccare, peccare e, in ultimo, intrufolarmi in cielo? Il mio cuore si rivolta al solo pensiero. È questa, dunque, la vostra esperienza dell’umanità? Oppure è perché mi trovate con le mani rosse di sangue che presumete una simile bassezza? E l’assassinio è delitto cosí empio da inaridire la sorgente stessa del bene? – Per me l’assassinio non è una categoria particolare, – replicò l’altro. – Tutti i peccati sono assassinii, cosí come tutta la vita è guerra. Osservo la vostra genia: è simile ai marinai condannati a morire di inedia su una zattera, che strappano di mano alla fame croste di pan duro e si nutrono l’uno della vita dell’altro. Io seguo i peccati oltre il momento in cui agiscono e in tutti constato che la conseguenza estrema è la morte; e ai miei occhi, la graziosa fanciulla che a proposito di un ballo contrasta con seducenti vezzi la madre gronda di sangue umano non meno palesemente di un assassino come voi. Ho detto che seguo i peccati? Seguo le virtú, anche; esse non differiscono di un’unghia da quelli, entrambi sono falci per l’angelo mietitore della Morte. Il male, per il quale io vivo, non consiste nell’azione bensí nell’indole. L’uomo

cattivo mi è caro; non l’azione cattiva, i cui frutti, se potessimo seguirli abbastanza a lungo giú per la precipite e fragorosa cataratta degli anni, potrebbero risultare piú fausti di quelli delle piú rare virtú. E non è perché avete ucciso un mercante ma perché siete Markheim che mi offro di favorire la vostra fuga. – Vi aprirò il mio cuore, – rispose Markheim. – Questo delitto nel quale mi avete sorpreso è il mio ultimo. Nel giungervi ho imparato parecchie lezioni; esso stesso è una lezione, una lezione di grande importanza. Fino a qui sono stato condotto tramite la ribellione a ciò che non volevo; ero uno schiavo ai ceppi della povertà, costretto alla frusta. Esistono virtú gagliarde, capaci di far fronte a simili tentazioni; le mie non lo erano: avevo sete di piaceri. Ma oggi, e a ragione di questo mio atto, carpisco insieme alla ricchezza un ammonimento; insieme al potere il rinnovato proposito a essere me stesso. Divengo sotto tutti i rispetti libero attore nel mondo; inizio a vedermi del tutto cambiato e queste mani agenti di bene e questo cuore in pace. Qualcosa viene dal passato e mi pervade; qualcosa di ciò che avevo sognato nelle sere festive al suono della musica dell’organo, di ciò che prevedevo quando spargevo lacrime su nobili libri o di cui avevo parlato, bimbo innocente, con mia madre. Eccola qua la mia vita; ho vagato per alcuni anni ma adesso vedo nuovamente la mia città di destinazione. – Questo denaro, lo giocherete in Borsa, ritengo? – osservò il visitatore; – e non è là, se non erro, che ne avete di già perso alcune migliaia? – Ah, – disse Markheim, – ma stavolta ho una cosa sicura. – Stavolta, di nuovo, perderete, – replicò tranquillamente il visitatore. – Ah, ma la metà la terrò da parte! – gridò Markheim. – Perderete anche quella, – disse l’altro. La fronte di Markheim si imperlò di sudore. – Ebbene, allora, che importa? – esclamò. – Diciamo che vada perduto, diciamo che io venga rituffato nella povertà, dovrà una parte di me, e la peggiore, continuare fino alla fine a calpestare la migliore? Il male e il bene mi traggono con pari forza nelle loro rispettive direzioni. Non amo uno solo di essi, amo il tutto. Posso concepire grandi imprese, rinunce, martirii; e sebbene sia caduto in un delitto

come l’assassinio, la pietà non è estranea ai miei pensieri. Ho pietà del povero; chi ne conosce meglio di me le tribolazioni? Ne ho pietà e lo aiuto. Ho caro l’amore, amo l’onesto riso; non c’è cosa buona e vera della terra che io non ami con tutto il cuore. E la mia vita ha da essere condotta unicamente dai miei vizi e le mie virtú rimanere senza effetto, come un inutile ingombro della mente? Non è cosí: anche il bene è fonte di azioni. Ma la visita levò un dito. – Per i trentasei anni dacché siete al mondo, – disse, – attraverso parecchi mutamenti di fortuna e molteplicità di umori, vi ho visto immancabilmente cadere. Quindici anni fa all’idea del furto sareste trasalito. Tre anni addietro dinnanzi alla parola omicidio sareste indietreggiato. C’è un qualsiasi crimine, una qualsiasi crudeltà, una qualsiasi meschinità, da cui ancora rifuggite? Fra cinque anni da adesso vi ripescherei con le mani nel sacco! La vostra china non fa che scendere e scendere; e nulla se non la morte può servire a fermarvi. – È vero, – disse Markheim con voce roca, – fino a un certo punto ho assecondato il male. Ma è cosí per tutti; i santi stessi, nel puro e semplice adempimento dell’esistenza, perdono di smalto e assumono la tonalità dell’ambiente che li circonda. – Voglio porvi una semplice domanda, – disse l’altro, – e dalla vostra risposta io trarrò il vostro oroscopo morale. In parecchie cose vi siete lasciato andare; può darsi che abbiate fatto bene a farlo; e, per una ragione o per l’altra, ciò vale per tutti gli uomini. Ma concesso questo, siete voi in un particolare qualsiasi, per quanto insignificante, meno disposto ad accondiscendete alla vostra condotta... oppure procedete a briglia sciolta in tutto? – In uno qualsiasi? – ripeté Markheim con uno spasimo di sollecitudine. – No, – aggiunse con disperazione, – in nessuno! Sono crollato in tutti. – Quindi, – disse il visitatore, – contentatevi di quel che siete, perché non cambierete mai. E le battute della parte da voi sostenuta su questo palcoscenico sono già irrevocabilmente scritte. Markheim rimase a lungo muto; e in verità fu il visitatore che ruppe il silenzio per primo. – Visto che le cose stanno cosí, – disse, – debbo mostrarvi

il denaro? – E la grazia? – gridò Markheim. – Non ci avete già provato? – ribatté l’altro. – Due o tre anni orsono, non vi ho visto sulla tribuna delle riunioni revivaliste e non era forse vostra la voce piú forte negli inni? – È vero, – disse Markheim; – e vedo chiaramente cosa mi resta da fare come mio dovere. Vi ringrazio con tutta l’anima per queste lezioni; ho gli occhi aperti e infine mi vedo per quel che sono. In quel momento, una brusca scampanellata risonò per tutta la casa; e la visita, come se ciò fosse un segnale convenuto che era rimasto ad attendere, mutò di colpo comportamento. – La domestica! – gridò. – È tornata, come vi avevo preavvertito, e adesso dinnanzi a voi avete un altro difficile passo. Il suo padrone, questo dovete dirle, è malato; dovete farla entrare, assumendo un contegno disinvolto ma piuttosto grave... niente sorrisi, niente enfasi, e vi prometto il successo! Una volta che la ragazza è entrata e la porta sarà chiusa, la medesima destrezza che già vi ha sbarazzato del mercante vi solleverà da quest’ultimo pericolo sul vostro cammino. Dopo di che avete l’intera serata – l’intera notte, se necessario – per depredare i tesori della casa e mettervi in salvo. Questo è un aiuto che viene a voi camuffato da pericolo. Su! – egli gridò; – su, amico; la vostra vita trema in sospeso sui piatti della bilancia... Su, e agite! Markheim posò con fermezza lo sguardo sul suo consigliere. – Se anche io fossi condannato ad agire malvagiamente, – disse, – c’è ancora una porta aperta alla libertà: posso cessare di agire. Se la mia vita ha da essere cattiva, posso rinunciarvi. Sebbene io sia, come voi giustamente dite, succube di qualsivoglia minima tentazione, nondimeno posso, per mezzo di un solo gesto decisivo, pormi fuori dalla portata di tutte. Il mio amore del bene è condannato alla sterilità; può essere... e che sia! Ma conservo ancora il mio odio per il male; e da esso, con vostro cocente disappunto, vedrete che saprò trarre sia energia che coraggio. I lineamenti del visitatore presero a subire un portentoso e incantevole mutamento: si illuminarono e addolcirono, in segno di amoroso trionfo, e

nell’illuminarsi si affievolirono e sfumarono. Ma Markheim non si soffermò a osservare o a comprendere la trasformazione. Aprí la porta e scese molto lentamente le scale, meditabondo. Il suo passato gli comparve netto davanti; lo vide per quel che era, sgradevole e faticoso come un brutto sogno, incidentale come un omicidio involontario... la scena di una sconfitta. La vita, riesaminandola ora, non lo tentava piú; ma sulla riva piú lontana egli percepiva un tranquillo porto per la sua barca. Nell’andito sostò e guardò dentro il negozio, dove la candela ancora ardeva accanto al morto. Tutto era stranamente silenzioso. Pensieri sul mercante sciamarono nella sua mente, mentre se ne stava lí a fissarlo. E poi il campanello di nuovo proruppe in strepiti impazienti. Fu sulla soglia davanti alla domestica con sul viso qualcosa come un sorriso. – Fareste meglio ad andare a chiamare la polizia, – disse; – ho ucciso il vostro padrone.

Bad Christmas

Friedrich Dürrenmatt Natale

Era Natale. Attraversavo la vasta pianura. La neve era come vetro. Faceva freddo. L’aria era morta. Non un movimento, non un suono. L’orizzonte era circolare. Nero il cielo. Morte le stelle. Sepolta ieri la luna. Non sorto il sole. Gridai. Non mi udii. Gridai ancora. Vidi un corpo disteso sulla neve. Era Gesú Bambino. Bianche e rigide le membra. L’aureola un giallo disco gelato. Presi il bambino in mano. Gli mossi su e giú le braccia. Gli sollevai le palpebre. Non aveva occhi. Io avevo fame. Mangiai l’aureola. Sapeva di pane stantio. Gli staccai la testa con un morso. Marzapane stantio. Proseguii.

Arthur C. Clarke La stella

Siamo a tremila anni luce dal Vaticano, qui. Una volta credevo che lo spazio non potesse nulla contro la fede, come anche credevo che i cieli proclamassero la gloria dell’opera del Signore. Ora ho visto quest’opera, e la mia fede è orrendamente scossa. Guardo il crocifisso appeso nella mia cabina sopra il Computer Mark VI, e per la prima volta in vita mia mi chiedo... Non l’ho ancora detto a nessuno. Ma la verità non si può nascondere. E del resto i fatti sono qui, a disposizione di tutti, registrati nei chilometri e chilometri di nastro magnetico e nelle migliaia di fotografie che stiamo riportando sulla Terra. Per gli altri scienziati non sarà piú difficile, interpretarli, di quanto sia stato per me; né io, da parte mia, sarei disposto ad alcuno di quei compromessi con la verità che hanno gettato, in passato, qualche ombra sulla reputazione del mio Ordine. L’equipaggio è già abbastanza depresso. Mi chiedo come accoglierà quest’ultima ironia. Pochi di loro hanno la minima fede religiosa; e tuttavia non si rallegreranno, ne sono sicuro, di potere usare quest’arma finale nella loro polemica con me: una polemica bonaria, cominciata fin dalla nostra partenza dalla Terra. Erano piú divertiti che seccati, di avere un gesuita come astrofisico di bordo; e tuttavia il dottor Chandler, per esempio (ho notato che gli atei piú accaniti s’incontrano spesso tra i medici), non poteva trattenersi dal ritornare continuamente sull’argomento. Spesso lo incontravo sul ponte di osservazione, dove le luci sono sempre abbassate e non attenuano lo splendore degli astri. Si fermava accanto a me, nella semioscurità, e guardava fuori dai grandi oblò i mondi che ci giravano silenziosamente intorno, mentre la nave avanzava ruotando un poco su se stessa per un residuo di spin che non

ci eravamo dati la pena di correggere. – Continua a girare, – diceva alla fine, accennando all’universo di là dal cristallo, – continuerà sempre, e forse Qualcosa l’ha fatto. Ma come possiate credere che questo Qualcosa si occupi minimamente di noi e del nostro misero, piccolo mondo, questa è una cosa che non riesco assolutamente a capire. Cominciava sempre cosí, o press’a poco cosí, e poi s’andava avanti a discutere, mentre le stelle e le nebulae della Galassia continuavano il loro giro silenzioso. Quanto ai tecnici dell’equipaggio, ciò che li divertiva era l’apparente incongruità della mia posizione. Invano avevo accennato, con tutta la modestia possibile, ai miei lavori e alle mie pubblicazioni nel campo dell’astrofisica. Invano avevo ricordato loro che per secoli il mio Ordine s’era illustrato con le sue ricerche scientifiche. Perché oggi siamo rimasti in pochi, è vero, ma i contributi che fin dal secolo XVIII abbiamo dato alla fisica e all’astronomia, restano tra i piú ragguardevoli. Potrà, ora, la mia relazione sulla nebula Phoenix mettere fine ai nostri mille anni di storia? Potrà, temo, mettere fine a molto piú di questo. Non so chi abbia dato a questa nebula il suo nome, che mi sembra scelto assai male. Se contiene una profezia, è una profezia che potrà essere controllata solo tra miliardi di anni. Lo stesso termine nebula, in questo caso, non è molto adatto: l’oggetto in questione è molto piú ridotto di quegli stupendi ammassi di nebbie – la materia prima delle stelle che nasceranno – sparse in tutta la Via Lattea. Su scala cosmica, in verità, la nebula Phoenix è una piccolissima cosa: un tenue involucro di gas, intorno a un’unica stella. O meglio: intorno a ciò che è rimasto, d’una stella. Il ritratto del nostro santo fondatore, Ignazio di Loyola, sembra guardarmi con ironia dalla parete di fronte, sopra lo scaffale delle lastre spettrografiche. Che cosa ne avrebbe fatto, lui, di questi dati che sono venuti in nostro possesso quaggiú, cosí lontano dal piccolo mondo che era per lui tutto l’universo? La sua fede avrebbe resistito meglio della mia, a questa sfida?

Il suo sguardo mi sfiora e sembra perdersi in lontananza. Ma io ho viaggiato in lontananze piú grandi di quelle che lui potesse neppure immaginare, mille anni fa, quando fondò l’Ordine. E anche oggi, nessuna nave da ricognizione s’era mai spinta cosí lontano dalla Terra: stiamo tornando dalle ultime frontiere dell’universo esplorato. Eravamo partiti per raggiungere la nebula Phoenix, l’abbiamo raggiunta, e ne torniamo col nostro fardello di conoscenze. Ah, se il santo personaggio che mi guarda dalla parete potesse liberarmi da questo fardello! Ma inutilmente invocherei il suo nome, attraverso tutti i secoli e gli anni luce che mi separano da lui. Nel libro che tiene tra le mani, si legge: AD MAIOREM DEI GLORIAM. Che cosa penserebbe, ora, di queste parole? Potrebbe ripeterle, sapendo ciò che ho visto io? Noi sapevamo già, naturalmente, che cosa fosse la nebula Phoenix. Ogni anno, nella nostra sola Galassia, esplodono un centinaio di stelle, brillando per qualche ora o per qualche giorno con un’intensità migliaia di volte superiore alla normale, prima di piombare in un’oscura morte. Queste sono le novae ordinarie, disastri abituali nell’universo, e io stesso ne ho studiate a dozzine, raccogliendone gli spettrogrammi e le curve di luce, da quando lavoro all’osservatorio lunare. Ma, tre o quattro volte ogni mille anni, accade qualcosa di fronte a cui perfino una nova impallidisce, fino ad apparire totalmente insignificante. Quando una stella diventa una supernova, la sua luce può aumentare fino a raggiungere, in poche ore, quella di tutti gli altri Soli della Galassia messi insieme. Gli astronomi cinesi ne osservarono una, senza capire che cosa fosse, nel 1054 d. C. E cinque secoli dopo, nel 1572, una supernova brillò cosí intensamente nella costellazione di Cassiopea da restare visibile in pieno giorno. Ce ne sono state altre tre, nei mille anni che sono passati da allora. La nostra spedizione aveva lo scopo di visitare i resti di quell’immane catastrofe, di ricostruire gli eventi che l’avevano preceduta, e, se possibile, di scoprirne la causa. Ci avvicinammo lentamente, attraverso strati concentrici di gas esplosi

seimila anni fa, e che ancora continuavano a espandersi. Erano gas immensamente caldi, ancora radianti di un’intensa luce violetta, ma troppo rarefatti per nuocerci. Quando la stella era esplosa, i suoi strati esterni erano partiti a una tale velocità da sfuggire completamente al suo campo gravitazionale. Ora formavano come un immenso involucro vuoto, grande abbastanza da contenere un migliaio di sistemi solari, e al cui centro brillava quel minuscolo, fantastico oggetto che la stella era diventata: una nana bianca, piú piccola della Terra, e tuttavia un milione di volte piú pesante. Gli strati luminosi di gas ci circondavano da ogni parte, sopprimendo la normale oscurità degli spazi interstellari. Volavamo verso il centro d’una bomba cosmica scoppiata migliaia di anni prima, e le cui ondate di frammenti incandescenti stavano ancora allargandosi. L’immensa scala dell’esplosione, e il fatto che i suoi residui già coprissero un raggio di miliardi di miglia, facevano sí che la scena sembrasse immobile. Ci sarebbero voluti decenni per poter distinguere, senza strumenti, il minimo movimento in quelle tormentate volute e turbini di gas. Tuttavia, il senso d’esplosione era acutissimo. Avevamo ridotto la velocità parecchie ore prima, e adesso andavamo lentamente accostando verso la piccola stella che brillava al centro di quell’inferno. Una volta era stata un Sole come il nostro; ma aveva dissipato in poche ore tanta energia, quanta gliene sarebbe bastata per un milione di anni. Ora, rattrappita e scempia, andava economizzando le sue ultime risorse come per fare ammenda della passata prodigalità. Nessuno s’aspettava di trovare pianeti. Se una volta ce n’erano stati, l’esplosione doveva averli fusi, trasformati in gas, travolti in una sola colossale rovina. Tuttavia procedemmo alla solita ricerca per mezzo degli strumenti, come sempre facciamo avvicinandoci a un Sole nuovo; ed ecco, trovammo un unico, piccolo pianeta che continuava regolarmente il suo giro, a un’immensa distanza dalla stella. Doveva essere stato il Plutone di quello scomparso sistema solare, in orbita alle frontiere della notte. Troppo lontano dal Sole centrale per aver mai conosciuto alcuna forma di vita, la sua stessa lontananza

l’aveva salvato dalla catastrofe che aveva distrutto i pianeti suoi compagni. Il divampare del cosmico incendio aveva fuso la superficie delle sue rocce, e bruciato via la coltre di gas raggelati che aveva dovuto coprirlo fino al giorno del disastro. Ci accostammo, atterrammo, e trovammo la cripta. I suoi costruttori avevano fatto in modo che la trovassimo subito. L’enorme pilone che segnava il suo ingresso era ridotto a un mozzicone vetrificato, ma già dalle prime fotografie, prese a grande distanza, avevamo potuto riconoscerlo per quello che era: un segnale lasciato lí da qualcuno. Poco piú tardi scoprimmo, stampato nella roccia, un tracciato radioattivo che da tutti gli angoli del pianeta convergeva verso quello stesso punto. Se anche il pilone sulla cripta fosse andato distrutto, quest’altro segnale sarebbe rimasto: come una torcia inestinguibile, che avrebbe continuato nei secoli dei secoli a trasmettere il suo messaggio alle stelle. La nostra nave scese verso quel faro, come una freccia contro il suo bersaglio. Il pilone doveva aver misurato un miglio d’altezza, quando era stato costruito, ma ora appariva come una candela mezzo consumata, mezzo sepolta dalle smoccolature. Noi eravamo astronomi, non archeologi, e gli strumenti di cui disponevamo non erano i piú adatti per scavare nella roccia vetrificata alla base del pilone. Tuttavia, con mezzi di fortuna, ci mettemmo al lavoro. Lo scopo originario della nostra missione era ormai dimenticato: quel monumento solitario, innalzato con tanta pena alla piú grande distanza possibile dal Sole condannato, poteva significare una sola cosa. Una civiltà che sapeva di dover morire tra poco, aveva dedicato l’ultima fatica a eternare la propria memoria. In una settimana, raggiungemmo l’ingresso della cripta. Ma ci vorranno generazioni per esaminare a fondo i tesori che contiene. I suoi costruttori avevano avuto tutto il tempo di prepararsi, perché il loro Sole, evidentemente, aveva cominciato già da molti anni a dare segni premonitori. Ogni cosa che vollero salva, essi la portarono in quel mondo lontano negli anni che precedettero la catastrofe, sperando che un giorno qualcuno avrebbe scoperto la cripta, e che la memoria della loro specie non si sarebbe cancellata

dall’universo. Avremmo saputo far questo, noi, o saremmo caduti in una disperazione cosí estrema, da disinteressarci del tutto di un futuro che nessuno della nostra specie avrebbe potuto condividere? Se soltanto avessero avuto qualche secolo, forse solo qualche decennio di piú! Sapevano già navigare, infatti, tra i pianeti del loro Sole; ma non avevano ancora appreso a traversare gli abissi interstellari: e il sistema solare piú vicino distava dal loro un centinaio d’anni luce. Tuttavia, anche con astronavi a propulsione transfinita, soltanto pochi di loro sarebbero riusciti a salvarsi. Forse, dunque, è stato meglio cosí. Le loro sculture ce li mostrano straordinariamente somiglianti a noi. Ma anche se non ci avessero somigliato, non potremmo fare a meno di ammirarli e di compiangerli. Hanno lasciato migliaia di registrazioni visive, come pure gli apparecchi per proiettarle ed elaborate istruzioni pittografiche che ci permetteranno di decifrare le loro lingue scritte. Abbiamo già esaminato molte di queste registrazioni, e riportato alla vita, per la prima volta dopo seimila anni, il calore e la bellezza d’una civiltà che per molti rispetti dev’essere stata superiore alla nostra. Se poi, di se stessi, ci avessero mostrato soltanto il meglio, chi vorrà biasimarli per questo? Il loro mondo era straordinariamente amabile, e le loro città costruite con una grazia sconosciuta alla maggior parte delle nostre. Li abbiamo visti lavorare e giocare, abbiamo ascoltato il loro armonioso linguaggio risuonare per noi attraverso i millenni. Una scena è ancora davanti ai miei occhi: quella d’un gruppo di bambini, su una spiaggia dalla strana sabbia azzurra, che giocano allo stesso modo dei nostri. Curiosi alberi dai tronchi sottili s’allineano lungo la riva; nell’acqua, tra i bambini che giocano, grandi animali nuotano tranquilli; e all’orizzonte, tra poche nuvole, scende tepido e benigno il Sole che tra poco li tradirà, distruggendo tutta questa felicità innocente. Forse, se non fossimo stati cosí lontano dalla Terra e cosí vulnerabili in quella solitudine, non saremmo rimasti tanto profondamente sconvolti. Molti di noi avevano già visto le rovine di antiche civiltà su altri mondi, ma senza commuoversi allo stesso modo. Questa tragedia qui, era unica. Perché una specie può declinare e morire, come già è avvenuto di tanti popoli sulla Terra;

ma essere annientati di colpo, nel pieno fiore d’una civiltà appena costruita, senza lasciare neppure un superstite: come conciliare una cosa simile con la misericordia di Dio? È questa la domanda che m’hanno rivolta i miei compagni di spedizione, e io ho risposto come ho potuto. Forse il nostro fondatore avrebbe saputo rispondere meglio; ma io non trovo nulla, negli Exercitia Spiritualia, che m’aiuti su questo punto. Gli abitanti di quel mondo distrutto non erano malvagi: io non so quali dèi venerassero, e neppure se ne venerassero alcuno; ma ho visto tornare alla fredda luce del loro Sole mummificato, attraverso i millenni, i tesori che con devota abnegazione dedicarono alle altre specie, quando seppero che la loro era condannata. Avrebbero potuto insegnarci tanto di piú: perché furono distrutti? Io so già ciò che i miei compagni potranno rispondere. L’universo – diranno – non ha piano né scopo, e poiché cento Soli ogni anno esplodono nella nostra sola Galassia, in questo stesso momento qualche specie sta morendo nelle profondità dello spazio; e che fosse una specie buona o cattiva, non farà nessuna differenza alla fine: non c’è infatti giustizia divina, perché non c’è Dio. Naturalmente, invece, ciò che abbiamo visto non prova nulla del genere. Chiunque ragioni cosí si fa guidare dal sentimento non dalla logica. Dio non ha bisogno di giustificare le sue azioni di fronte all’uomo. Lui, che ha creato l’universo, può scegliere di distruggerlo quando voglia, e sarebbe da parte nostra presuntuosa arroganza, sarebbe addirittura bestemmia, giudicare ciò che possa o non possa fare. Una simile distruzione totale, dai moventi imperscrutabili, io potrei dunque accettarla, malgrado ogni sgomento di sapere interi popoli, interi mondi, gettati cosí nella fornace. Ma c’è un punto in cui anche la fede piú profonda è destinata a venir meno, e a questo punto, mentre guardo le note e i calcoli che sono sul tavolo di fronte a me, io so ormai d’essere arrivato. Noi non sapevamo di preciso, prima di raggiungere la nebula, quando fosse avvenuta l’esplosione. Ora, in base ai dati astronomici e all’esame delle

rocce di quell’unico pianeta rimasto, ho potuto calcolarne la data con esattezza. So ora in che anno la luce di quella colossale conflagrazione raggiunse la Terra. So con quanta intensità brillò una volta, nei nostri cieli, la supernova il cui cadavere stiamo lasciandoci alle spalle. E so come abbia dovuto fiammeggiare bassa verso est prima della levata del sole, in quell’alba orientale. Non possono esserci dubbi. L’antico mistero è ora risolto. Ma di miriadi d’altre stelle, o Signore, avresti potuto servirti. Che cosa t’indusse a gettare nel fuoco quel mondo, perché il simbolo del suo trapasso brillasse su Bethleem?

William Burroughs Il Natale del tossicomane

Era il giorno di Natale e Danny il Lavamacchine uscí in strada senza un soldo e in crisi di astinenza dopo settantadue ore nella guardina del commissariato. Era una bella giornata limpida, ma non c’era calore nel sole. Danny rabbrividiva di un freddo interiore. Tirò su il bavero del suo soprabito nero, liscio e unto. «Questa palandrana, non mi darebbero neanche una moneta a impegnarla», pensò. Era verso la Novantesima Strada West. Un lungo isolato di pensioni dalla facciata di pietra scura. Qua e là una ghirlanda in una finestra nera e pulita. I sensi di Danny registravano tutto nitidamente con la dolorosa intensità dell’astinenza. La luce gli feriva gli occhi dilatati. Passò di fianco a una macchina, e lanciò uno sguardo furtivo dei suoi occhi azzurro pallido in una rapida valutazione. C’era un pacco sul sedile, e uno dei deflettori non era chiuso; Danny continuò a camminare per qualche metro. Nessuno in vista. Fece schioccare le dita ed eseguí una pantomima come di chi si ricordi di qualcosa, e girò su se stesso. Nessuno. «Brutto posto, – decise. – Con la strada cosí vuota, io dò nell’occhio. Devo fare in fretta». Allungò una mano verso il deflettore. Una porta si aprí dietro di lui. Danny tirò fuori in fretta uno straccio e si mise a lustrare il parabrezza della macchina. Poteva sentire l’uomo in piedi dietro di lui. – Cosa stai facendo? Danny si voltò con l’aria sorpresa. – Mi sembrava soltanto che i vetri della sua macchina avessero bisogno di una pulitina, signore.

L’uomo aveva la faccia da rana e un accento del Profondo Sud. Portava un cappotto di cammello. – La mia macchina non ha bisogno di nessuna pulitina e nemmeno di nessuna rubatina. Danny si scansò quando l’uomo fece per afferrarlo. – Non stavo cercando di rubare niente, signore. Sono del Sud anch’io. Florida... – Dannatissimo ladro infingardo! Danny filò via in fretta e voltò l’angolo. «Meglio uscire dalla zona. Quel cafone è probabile che chiami la polizia». Camminò per quindici isolati. Il sudore gli scorreva giú per il corpo. Aveva un dolore aspro nei polmoni. Le labbra gli si stiravano sui denti gialli in un ringhio di disperazione. «Devo trovare una dose in un modo o nell’altro. Se avessi dei vestiti decenti...» Danny vide una valigia appoggiata sotto un portone. Pelle buona. Si fermò e finse di cercare una sigaretta. «Strano, – pensò. – Nessuno in vista. Forse dentro, che telefona a un taxi». L’angolo era a poche porte di distanza. Danny respirò a fondo e prese su la valigia. Arrivò all’angolo. Un altro isolato, un altro angolo. La valigia era pesante. «Qui ho fatto un bel colpo, – pensò. – Magari abbastanza per una dose forte e una camera». Danny rabbrividí e sussultò, sentendo una camera calda e l’eroina che gli si riversava nelle vene. «Diamo un’occhiata». Entrò nel Morningside Park. Non si vedeva nessuno. «Gesú, non ho mai visto la città cosí vuota». Aprí la valigia. Due lunghi pacchi in carta marrone da involti. Ne tirò fuori uno. Al tatto sembrava carne. Aprí l’involto a una estremità, scoprendo un piede nudo di donna. Le unghie erano dipinte di lacca porpora. Lasciò cadere la gamba con un verso di disgusto. «Gesú Cristo! – esclamò. – Che storie mette insieme la gente al giorno d’oggi. Gambe! Be’, ad ogni modo ho trovato una valigia». Buttò via l’altra gamba. Nessuna macchia di sangue. Chiuse la valigia e se ne andò.

– Gambe! – borbottò. Trovò il Compratore seduto ad un tavolo alla Jarrow’s Cafeteria. – Credevo che facessi vacanza, – disse Danny, mettendo giú la valigia. Il Compratore scosse la testa con aria triste. – Non ho nessuno. Cosa me ne importa del Natale? – I suoi occhi scorrevano sulla valigia, tastando, tentando, cercando difetti. – Cosa c’era dentro? – Niente. – Cosa succede? Non pago abbastanza? – Ti dico che non c’era niente. – Okay. Allora qualcuno viaggia con la valigia vuota. Okay –. Tenne su tre dita. – Per l’amor di Dio, Gimpy, dammi una moneta da cinque. – Tu hai qualcuno. Perché non te la dà lui la moneta da cinque? – Te l’ho detto, la valigia era vuota. Gimpy diede un calcio alla valigia con noncuranza. – È tutta raggrinzita e sa di sporco –. Annusò con sospetto. – Com’è che puzza cosí? Cuoio messicano? – E io lavoro nel cuoio per caso? Gimpy alzò le spalle. – Potrebbe darsi –. Tirò fuori un mazzo di banconote e ne sfilò tre, lasciandole cadere sul tavolo dietro al portatovaglioli. – Vuoi? – Okay –. Danny prese i soldi. – Hai visto George il Greco? – chiese. – Dove sei stato? L’hanno arrestato due giorni fa. – Oh... Peccato. Danny uscí. «Adesso da chi posso andare?» pensava. George il Greco era durato tanto che Danny pensava a lui come a qualcosa di eterno. «Era buona eroina, poi, e non tagliata». Danny arrivò fino all’angolo della 103ª a Broadway. Da Jarrow’s non c’era nessuno. Nessuno all’Automat. – Già, – ringhiò. – Tutti gli spacciatori stanno a fare un pisolino da qualche parte. Cosa gliene frega degli altri? Gli basta essersi fatta la loro dose.

Cosa gliene frega di un drogato che sta male? Si pulí il naso con il dito, guardandosi in giro furtivamente. «Non conviene andare da quei brutti tipi di Harlem. Come niente mi danno un sacco di botte per i soldi oppure mi danno del veleno da topi. Forse trovo Pantopon Rose tra l’Ottava e la Ventitreesima». Non c’era nessuno che conoscesse da Thompson sulla Ventitreesima. «Gesú, – pensò. – Dove sono tutti?» Si teneva stretto il bavero del soprabito con una mano, mentre guardava su e giú per la strada. «Quello è Joey di Brooklyn. Riconoscerei quel cappello dovunque». – Joey. Ehi, Joey! Joey si allontanava, con la schiena rivolta a Danny. Si voltò. Il volto era tirato, come un teschio. Gli occhi grigi scintillavano sotto un feltro grigio bisunto. Joey tirava su col naso a intervalli regolari e gli lacrimavano gli occhi. «Non c’è nemmeno da chiedere», pensò Danny. Si guardarono a vicenda con l’odio della delusione. – Forse hai sentito di George il Greco, – disse Danny. – Già. Ho sentito. Sei stato su alla 103ª? – Sí. Vengo da lí. Non c’è nessuno. – Non c’è nessuno in nessun posto, – disse Joey. – Non riesco nemmeno a trovare le goofballs1. – Be’, buon Natale, Joey. Ci vediamo. – Già. Ci vediamo. Danny stava camminando svelto. Si era ricordato di un medico nella Diciottesima Strada. È vero che il dottore gli aveva detto di non tornare. Però, valeva la pena provare. Una casa dalla facciata scura con un cartello a una finestra: P. H. Zunniga, M. D. Danny suonò il campanello. Sentí dei passi lenti. La porta si aprí, e il dottore guardò Danny con gli occhi scuri iniettati di sangue. Vacillava leggermente e appoggiava il corpo grassoccio allo stipite della porta. Aveva una faccia liscia, di tipo latino, boccuccia rossa e debole. Non disse niente.

Stava là appoggiato, e guardava Danny. «Maledetto alcolizzato», pensò Danny. Sorrise. – Buon Natale, dottore. Il medico non rispose. – Si ricorda di me, dottore? – Danny cercò di infilarsi oltre il dottore, nella casa. – Mi dispiace di importunarla il giorno di Natale, ma ho avuto un altro attacco. – Attacco? – Sí. Nevralgia facciale –. Danny contorse un lato della faccia in una smorfia orribile. Il dottore si ritrasse leggermente, e Danny si spinse nell’anticamera buia. – Meglio chiudere la porta o si prenderà un raffreddore,– disse in tono gioviale, spingendo la porta. Il dottore lo guardava, gli occhi gli si mettevano visibilmente a fuoco. – Non posso farle nessuna ricetta, – disse. – Ma, dottore, questa è una situazione legittima. Un’emergenza, sa. – Niente ricette. Impossibile. È contro la legge. – Lei ha fatto un giuramento, dottore. Sono in agonia –. La voce di Danny salí fino a un lamento straziante e isterico. Il medico chiuse gli occhi e si passò una mano sulla fronte. – Mi faccia pensare. Le posso dare una tavoletta da un quarto di grano. È tutto quello che ho in casa. – Ma, dottore... un quarto di... Il medico lo interruppe. – Se la sua condizione è legittima, di piú non le serve. Se non lo è, io non voglio aver niente a che fare con lei. Aspetti qui. Si allontanò barcollando giú per il corridoio, lasciando una scia di fiato all’alcool. Tornò e fece cadere una tavoletta nella mano di Danny. Danny la avvolse in un pezzetto di carta e la mise via. – È gratis –. Il dottore mise la mano sulla maniglia. – E adesso, mio caro... – Ma, dottore... non me la può iniettare? – No. Avrà un effetto piú lungo se la userà per via orale. Per favore non torni piú –. Il dottore aprí la porta.

«Be’, questo servirà a qualcosa, e ho ancora i soldi per una stanza», pensò Danny. Conosceva un drugstore che vendeva aghi senza far domande. Comprò un ago da insulina numero 26 e un contagocce, che scelse con cura, scartando i modelli di forma curva o con la punta grossa. Alla fine prese una cosa per bambini, da usare al posto del poppatoio. Si fermò all’Automat e rubò un cucchiaino da tè. Danny spese due dollari per una stanza da sei dollari la settimana nella zona della 40ª West, dove conosceva il padrone. Chiuse a chiave la porta e mise il suo cucchiaio, l’ago e il contagocce su un tavolino vicino al letto. Mise la tavoletta nel cucchiaino e la ricoprí con il contenuto del contagocce in acqua. Tenne un fiammifero sotto il cucchiaino finché la tavoletta si sciolse. Strappò una strisciolina di carta, la bagnò e l’avvolse intorno all’estremità del contagocce, adattando l’ago alla carta bagnata in modo che tenesse ermeticamente. Prese un po’ di lanugine dalla propria tasca e la mise nel cucchiaino e succhiò il liquido nel contagocce attraverso l’ago, tenendo l’ago sulla lanugine in modo da tirar su fino all’ultima goccia. Le mani di Danny tremavano di eccitazione e il respiro gli si accelerava. Con una dose davanti a lui, le sue difese cedevano, e i sintomi dell’astinenza gli invadevano il corpo. Le gambe cominciarono a scuotersi e a dolergli. Un crampo gli si agitò nello stomaco. Le lacrime gli scorrevano giú per il volto dagli occhi secchi, brucianti. Si avvolse un fazzoletto intorno al braccio destro, e ne tenne un capo tra i denti. Annodò il fazzoletto, e cominciò a strofinare il braccio per trovare una vena. «Forse posso bucare questa», pensò, scorrendo un dito lungo una vena. Prese il contagocce con la mano sinistra. Udí un lamento provenire dalla stanza accanto. Fece una faccia infastidita. Un altro lamento. Non poteva non ascoltare. Si mosse attraverso la stanza, con il contagocce in mano, e tese l’orecchio verso la parete. I lamenti venivano a intervalli regolari, un orribile suono inumano spinto fuori dallo stomaco. Danny ascoltò per un minuto intero. Tornò al letto e si sedette. «Perché

nessuno chiama un dottore? – pensò indignato. – È una bella noia». Tese il braccio e tenne l’ago pronto. Inclinò la testa, ancora in ascolto. «Oh, Cristo santo!» Si tolse il fazzoletto e mise il contagocce in un bicchiere, che nascose dietro il cestino dei rifiuti. Uscí sul corridoio e bussò alla porta della stanza accanto. Non venne risposta. I lamenti continuavano. Danny provò la maniglia. Era aperto. Gli scuri erano aperti e la stanza era piena di luce. Si era aspettato qualcuno di vecchio, ma l’uomo sul letto era molto giovane, sui diciotto o vent’anni, completamente vestito e rannicchiato sul letto con le mani strette sullo stomaco. – Cosa c’è, ragazzo? – chiese Danny. Il ragazzo lo guardò, con gli occhi vacui dal dolore. Alla fine fece uscire una parola: – Reni. – Calcoli renali? – Danny sorrise. – Non è che ci trovi niente di divertente, ragazzo. È solo che... io ho finto di averli tante volte. Non avevo mai visto la cosa dal vivo. Chiamo un’ambulanza. Il ragazzo si morse il labbro. – Non vengono. I dottori non vengono –. Il ragazzo nascose la faccia nel cuscino. Danny annuí. – Credono che tu sia soltanto un drogato che fa la scena per una dose. Ma il tuo caso è legittimo. Forse se andassi io all’ospedale e spiegassi come stanno le cose... No, non credo che andrebbe. – Non abito qui, – disse il ragazzo, con voce attutita. – Dicono che non ne ho diritto. – Sí, lo so come sono, i bastardi burocrati. Avevo un amico, che è morto per il morso di un serpente proprio in sala d’attesa. Non gli hanno dato nemmeno ascolto quando ha cercato di spiegare che un serpente lo aveva morso. Non ha mai avuto faccia tosta. È successo quindici anni fa, giú a Jacksonville... La voce di Danny si spense. Di colpo tese la sua magra mano sporca e toccò il ragazzo sulla spalla. – Io... mi dispiace, ragazzo. Aspetta qui. Faccio qualcosa. Andò nella sua stanza e prese il contagocce, e ritornò nella stanza del

ragazzo. – Tirati su la manica, ragazzo –. Il ragazzo annaspava con la debole mano sulla manica della sua giacca. – Va bene. Lascia fare a me –. Danny slacciò il bottone della camicia al polso e tirò su camicia e giacca, scoprendo un sottile avambraccio bruno. Danny esitava, guardando il contagocce. Il sudore gli colava giú per il naso. Il ragazzo lo stava guardando. Danny spinse l’ago nell’avambraccio del ragazzo e guardò il liquido entrare nella carne. Si rialzò. La faccia del ragazzo cominciò a rilassarsi. Si alzò a sedere e sorrise. – Dí, quella roba funziona davvero, – disse. – Lei è un dottore, mister? – No, ragazzo. Il ragazzo si rilassò, stirandosi. – Ho proprio sonno. Non ho dormito per tutta la notte scorsa –. Gli occhi gli si chiudevano. Danny attraversò la stanza e chiuse gli scuri. Tornò nella sua stanza e chiuse la porta ma senza girare la chiave. Si sedette sul letto, e rimase a guardare il contagocce vuoto. Fuori si stava facendo scuro. Il corpo di Danny soffriva per l’astinenza, ma era un dolore sordo adesso, sordo e disperato. Rigidamente, staccò l’ago del contagocce e lo avvolse in un pezzo di carta. Poi avvolse insieme ago e contagocce. Rimase lí seduto con il pacchetto in mano. «Devo metterlo via in qualche posto», pensò. Improvvisamente un’ondata calda gli pulsò attraverso le vene e gli arrivò alla testa come un migliaio di speedballs1 dorate. «Cristo Santo, – pensò Danny. – Deve essermi capitata la dose immacolata!» La serenità vegetale della droga si adagiò nei suoi tessuti. Il volto gli si rilassò, in pace, e la testa gli ricadde in avanti. Danny il Lavamacchine era fatto. 1 Misture di barbiturici [N. d. T.]. 1 Cocaina e morfina insieme [N. d. T.].

Giovanni Pascoli Il ceppo

I. – Dunque, siamo intesi: serra l’uscio e aspettaci sino dopo a mezzanotte. Andiamo alla messa a San Nicolò. Torneremo al tocco passato. – E bada che il ceppo bruci. A mezzanotte la Madonna va in giro col bambino ignudo, poverino, per riscaldarlo. Potrebbe capitar qui subito per prima casa, e se non trova fuoco... – L’uscio, serralo: è paese di buona gente, ma non si sa mai. Può ronzare qualche fuoruscito. – Aspettaci, e scaldati te intanto che vien la Madonna. – Puoi rigovernare, se credi. O dí piú tosto il rosario. Questa è la notte che la Madonna fa tutte le grazie. – Noi andiamo prima dai Mere. A proposito! portami la bottiglia del rhum. Si fa il ponce questa sera a quei buoni contadini. – Senti: Mere è già sul campanile, che suona il primo doppio. – Saranno le dieci. – Dunque siamo intesi. – Aria di neve. Guarda quella nuvola nera sopra Treppignana. – Però su Barga è un fitto di stelle. – Aspetta e vedrai. Sei ben coperta? – Oh! sí. – Andiamo dunque. – Dunque... – Che il ceppo bruci, mi raccomando. – Dí il rosario.

– Addio! – Al tocco, ricordati. – Serra l’uscio. – Andiamo. Cosí per un pezzo erano stati avanti l’uscio aperto il signore e la signora. Marietta, la serva, si riparava dietro l’imposta e pareva sempre lí lí per chiuderla: ma una parola ora di lui ora di lei la fermava prima ancora che avesse fatto il gesto. Era impaziente Marietta, ma non si voleva fare scorgere. Tanto che ritirò la mano e aspettò, nel mezzo del vano, prendendosi le folate che venivano a quando a quando e sollevavano uno strepito di carta tra le foglie secche dei castagni. Allora, quando la videro cosí, rassegnata ad aspettare ancora un pezzo, parve che cercassero, senza trovarla, qualche altra raccomandazione da fare: poi, come confusi di non trovar niente, se ne andarono a braccetto, stringendosi con un brivido improvviso che risonò lietamente tra lo scampanio. «Questa è la notte sacra. Il grano comincia ad accestire da questa notte. Fino ad ora la pianticella è stata una pipita verde e tenera, senza coscienza dell’esser suo. Il chicco di grano mise già due o tre radichette dentro la terra, e spremé da sé un filo, una venina pallida, un germoglio, donde alla luce si è scartocciata una e poi due e poi piú foglioline. La pianta è, ma non sa nulla. Questa notte comincia a sapere. E come? Il dolore rivela lei a lei, un dolore acuto e dolce, non piú che un solletico, che, dai e dai, pare la scalfittura d’un dente piccolo piccolo, fine fine; di un’unghia, ma sottile, che non vorrebbe far male. Ma sí! Le radichette cominciano a indebolirsi, e la pianticella, tanto delicata, soffre per quel solletico intimo... diventa pallida, languida, stenta. In tanto dal colletto, ossia dal nodo delle foglie, scendono e si approfondano altre fibre, ma piano piano. La pianticella ha bisogno di riposo, ed ecco un bel lenzuolo candidissimo. Dormi nel calduccio sotto il bel lenzuolo di neve! Aspetta la buona stagione per tallire e granire! L’avresti immaginato, Ines, che quel campo lí, al lume delle stelle, è pieno di gemiti bisbigliati appena...? Esseri che si accorgono di essere e mettono un sospiro, non si sa se di gioia o di dolore. È la notte materna, questa. Questa notte, chi sa che qualcuno non

senta dire da una voce di sogno... Sí. – Come sí? Che cosa sí? – È vero. – È vero? – Sí, quello che sai. – Benedetto! – Dolore è vita, amato mio, e io vivo. – Chi sa, che tu non mi parli cosí? Ines?» Ines non rispondeva, ma sorrideva tutta. Ora andavano lungo il rio dell’Orso, che gorgogliava laggiú in fondo. Lo scampanio era cessato. Veniva a lunghi tratti qualche folata che portava altri scampanii piú lontani, da Gallicano, da S. Piero in Campo, da Treppignana. Cessavano a mano a mano anche quelli. Ma si sentivano voci, calpestíi, rumori d’usci che si aprivano e chiudevano. C’era lume in ogni casolare e ogni camino fumava lentamente. A un tratto si aprí una porta nel buio, poco avanti loro, e ne uscí un fascio di luce rossa e un tumulto di voci. Erano arrivati alla casa di Mere. II. Marietta in tanto... Essa avrebbe dato dieci anni della sua vita per ogni minuto di piú che dovette star ferma all’uscio. Non fece per tutto quel tempo (quanto? a lei parve un’eternità) che cominciare tra sé l’avemaria senza terminarla mai, pregando, pregando che facessero presto. Non rispose mai una parola. Essi non si accorgevano di nulla. Avevano altro a pensare essi! Erano sottosopra dalla gioia, essi, per un principio di scoperta che avevano fatto in quei giorni, per un principio di speranza dopo quasi due anni di matrimonio... Per questo appunto, con questa speranza, erano venuti a villeggiare in montagna, l’estate scorsa; e non s’erano ancora mossi, perché c’era bello, ed esso era uno scrittore, un poeta. Avevano preso al servizio sei mesi prima quella ragazza. Una buona ragazza, una lombarda o che so io. Buona, rispettosa, silenziosa. Pareva malata però. E lei, la signora, se n’era accorta, ma di medici Marietta non ne voleva sapere. Non era nulla. Ma quella notte pativa proprio; l’avrebbe visto un cieco. Ma quella notte i suoi padroni non videro nulla. Avevano altro a pensare. E Marietta stette ancora all’uscio finché udí i loro passi. Un’altra eternità stette tra le folate che venivano mugliando da quei monti bianchissimi, che sopravanzavano quegli altri neri neri: dai suoi monti. E anche dopo che non udí piú quei passi, chiuse l’uscio, ma piano piano, senza

fretta. E stette, lí dietro, un altro poco, e si mordeva il labbro di sotto, che appena si sarebbe veduto, ma se lo mordeva forte, da far sangue. E poi... E poi tutte le sue membra misero un urlo disperato di spasimo. E non se ne udí niente: solo lo sgretolío dei denti e lo scricchiolío delle ossa. Le pupille sparirono tutte e due e dentro le occhiaie larghe comparve un biancore cieco: la bocca si aprí spalancata e il petto ansimando ne spingeva fuori degli oh! oh! senza voce, involti in sospiri. Su su, tenendosi alla ringhiera della scala con la sinistra e arrovesciandovisi sopra sino a stringere coi denti la bracciaiola, andò nello sgabuzzino dove era la sua branda. Non aveva pensato al lume. Era al buio. E sola, sola, sola, come una bestia. Ma diceva sempre, con un mugolío incessante (oh! no, non era una bestia), diceva sempre: mamma! mamma! Sí? se mamma sapesse! Non importa: essa la chiamava, ma piano che nessuno sentisse. Infine da quel groppo di sospiri soffocati (piano! che nessuno senta!) eruppe un grido acutissimo, altissimo... Uno solo, seguito da gemiti, da pianti, da parole ancora – Mamma! mamma! – e anche da un...? una vocina fioca, un qualcosa di nuovo e di meraviglioso...? In quel mentre venne con una ventata un suono di campane. Era il doppio del mattutino. III. Dopo una mezz’ora tutto al piú si aprí l’uscio della casa. Stette un poco accostato; ne usciva un filo di luce. Maria di lí dietro spiava. Si fece coraggio, aprí del tutto e riaccostò subito. Era fuori, immobile al buio. Le nuvole empivano il cielo sopra la Garfagnana. Scese la costa verso il rio, badando a non muovere un ramo, a non fare scricchiolare una foglia. Presto sentí il brontolío dell’acqua. Si trovava tra grossi tronchi di castagni. Le fronde, che per le acque dei giorni passati non avevano potuto spazzare ancora, coprivano la terra. Sdrucciolò due o tre volte, ma si reggeva ai castagni. Si fermò. Nell’acqua? che lo porti via? lo sbatta qua e là? oh! no. Ma come fare? non aveva il marrello. Non importa. Si chinò, spazzò le foglie, poi con furore si mise a raspare in terra e fece una buca. Vi depose qualche cosa (qualche cosa!) e poi vi rimise su la terra, la calcò, poi vi sparse su le fronde. Sempre al buio. Il rio mugliava lí sotto. Il cielo era tutto nero. Ne venivano giú puntine gelate che foravano. La donna si levò su, a stento, tenendosi a un ramo che si spezzò.

Ricadde in ginocchio su quel posto e le foglie crosciarono. Ricadde in ginocchio, ma si rizzò puntellandosi con tutte e due le mani, su quella terra e su quelle foglie. Pareva una bestia in quelle tenebre. Fu in piedi e risalí la costa. È avanti l’uscio; spinge ed entra. Oh!... Nessuno ha veduto. Che ora saranno? Sia già sonato il doppio del Tedeum? Sia già uscita la messa? Siano già di ritorno i padroni? Non c’è tempo da perdere. Un po’ di coraggio e tutto sarà all’ordine. Essa infatti mette in ordine tutto. Sta un pezzo di sopra, poi ridiscende, disfatta, bianca come un cencio lavato, battendo i denti. Entra in cucina. Ah! il ceppo. Brucia, sí. Appena entra, da un nocco esce improvvisamente un po’ di fiamma turchina, poi rossa. Poi si fa la brace e pare un occhio. È un bel ceppo di quercia che brucia senza rumore e fa molto caldo. Essa si mette a sedere e si sente rinascere a quel calorino. Ma ha sete. Si leva e va a bere. Poi si rimette a sedere. Ha sete ancora, beve ancora. Si sente ròsa dentro, nelle viscere, come quel ceppo da una fiamma che arde senza rumore. Guarda il ceppo con occhi incantati. Ecco: suona un doppio. Il ceppo si mette a brontolare e sfrigolare. Ora essa è impaziente. Sarà almeno la gloria? Quanto tempo ci sarà ancora perché ritornino? Ha bisogno di essere sola, a letto. Si sente pungere e straziare da tutte le parti. Non ne può piú. Sono essi? No: è il vento. Eccoli: si sentono discorrere. No: è il ceppo che brontola. Un altro doppio. Ora ci sarà piú poco. Venite, venite! E poi si vorranno scaldare, far due chiacchiere, domandare, raccontare. Che punto sarà della messa? sarà nato...? Oh! spingono l’uscio. Non aveva chiuso, dunque? L’uscio è spinto leggermente leggermente. Essa guarda e non si muove. Entra... Dio! Chi entra? La Madonnina, con un poco di fretta. Ha il suo bambino in collo, nudo, nudo, morello dal freddo. La Madonnina si accosta al fuoco, al vecchio ceppo che si apre e si fende per far piú caldo. Essa non vede la donna seduta lí presso. Essa prende il bambino nudo sotto le braccine, e lo avvicina al calore e lo prilla, cosí, piano piano, con tanta grazia. Un urlo... la Madonna è sparita...

– Ah! io non l’ho piú! l’avevo anch’io il mio bimbettino! Lo potevo scaldare a questo fuoco! Poverino! L’ho buttato via! Non l’ho voluto! L’ho messo sotto terra! È venuto, e io non l’ho voluto! Aveva freddo e io l’ho seppellito! piangeva e io l’ho soffocato! invece di mettermelo al petto, vicino a questo fuoco! per lui, niente fuoco, niente caldo, niente letto! là, fuori, via, al fiume alla neve, che se lo mangino i topi e le volpi! o mia creaturina! mia! mia! mamma tua è stata cattiva! ma non capiva nulla! ti vuole, ti vuole! ti vuol tanto bene! ti vuol dare il suo latte, scaldarti al suo petto, darti tanti baci, tenerti sempre con lei, vicino vicino! poverino, adesso vengo: credevi che non ti volessi? vengo,vengo! IV. Ed esce spingendo con un urtone la porta e via piangendo ed urlando per la costa. E le campane sonavano: Sanctus, Sanctus. E la neve veniva giú fitta fitta, come fuliggine bianca. Il rio dell’Orso mugliava, e tra il suo mugliare si sentiva un singhiozzare continuo e un crosciare di foglie. Era la mamma che cercava la sua creatura. Gli alberi eran tutti eguali. Era un buio da soffocare. – Dove l’ho messo; dunque? Bisogna far presto. Chi sa? È forse ancora vivo? Dov’è dunque, Dio...? un po’ di lume, Dio! fammelo trovare il posto. Subito, subito –. Poi il singhiozzo si fece piú tremendo, piú feroce, poi si ruppe in un grido e poi cessò. I due sposi di lí a non molto trovarono la porta aperta. E Marietta? o Marietta! dove è andata ora? Che grillo le è saltato? L’uscio spalancato... Sarà qui presso. Marietta! Marietta! Essi avevano freddo, richiusero l’uscio, si accostarono al camino della cucina. Il ceppo bruciava silenziosamente. Ines si levava i guanti e l’una dopo l’altra avvicinava le sue mani al fuoco, voltandole e rivoltandole. Il marito la guardava seduto su quella seggiola... – Sai che sembri la Madonna? E il bambino dove l’hai messo? Ella sorrise senza volgersi. Egli si alzò e venne a baciarla ed a mormorarle qualche cosa all’orecchio... La mattina dopo, tutto era d’un bianco d’innocenza. Gli angeli avevano

steso una grande tovaglia d’altare sui monti. La gente s’era levata tardi, e ora guardavano dagli usci dei casolari il brulichío candido che non cessava. E si ripeteva d’uscio a uscio, da poggio a poggio, una notizia. La Chioda, la povera vecchia che va con le gruccie, veniva a far ceppo dal suo figliuolo. Nella selva aveva visto un mucchio di neve, che da lontano pareva una donna sotto un lenzuolo. Si era accostata, e con una gruccia tastando tra la neve aveva veduto l’orlo d’una gonnella. Aveva gridato: era venuto Mere. Era la Marietta di quei forestieri. – Morta –. Aspettate. La levano di lí: nel posto dove essa aveva la faccia e il petto, c’era una buca; nella buca... una creatura, appena nata, morta. Era la sua... La sua? che mi raccontate? – Capite! l’aveva fatta e seppellita; poi l’era andata a scavare e... – E lei era morta? – No... – Infelice, lei non era morta. V. Due mesi dopo. – E, dite, Maria Soldani: come vi diede il cuore di mettere la mano su quel piccolo collo... Perché, la metteste, non è vero? La vostra creatura era nata viva e vitale, non è vero? Rispondete: il bimbo era... Marietta che dal principio dell’interrogatorio era stata a sentire con una specie d’impazienza repressa, di curiosità dissimulata, fissando gli occhi, a quando a quando, sul giudice, poi abbassandoli subito, con un sospiro, senza rispondere mai, a quelle parole si scosse. E pianse, e pianse, e pianse. Era un bimbo dunque! non aveva avuto tempo nemmeno di guardare se la sua creatura era un bimbo o una bimba! E questi signori vogliono sapere e vogliono parlare! Oh! anch’essa ora lo sa. Era un bimbo. Gli ha messo il nome: prima non poteva. Si chiama Cecchino. Siccome nel carcere non c’è il fuoco, non c’è il ceppo di quercia, per riscaldarlo, essa sta accovacciata in un angolo con le ginocchia bene alzate, con le braccia bene unite, perché non patisca il freddo, nel grembo di mamma. E lo dondola pianamente. – Fate la nanna, coscine di pollo... – E gli insegna la devozione – A letto, a letto me ne vado, Quattr’angeli ci ho trovato, Due da piedi e due da capo, Gesú Cristo dal mi’ lato... – Ma poi si ricorda. Cecchino non c’è piú. C’è stato un momento, un momento solo; mamma non l’ha voluto, l’ha buttato via, l’ha portato via

come una bestiolina sudicia, la sua creatura... l’ha nascosta sotto terra, dove aveva tanto freddo, e nevicava, nevicava. E c’era il fuoco a casa, nella casa de’ suoi padroni. Ma che cosa avrebbero detto, i padroni? Non l’avrebbe mica portato via il caldo del ceppo, per scaldarsi un po’ anche lui, poverino, nudo nudo, con un filo di voce... L’ha conosciuta mamma lui, e mamma... – Dio, – dice suor Anna, – voi siete buono: fatela morire! povera madre che ha dovuto uccidere la sua creatura!

Emilio De Marchi Un povero cane

Alla cascina Mornata pranzavano già da un’ora buona, fra un gran tintinnío di piatti e di bicchieri, intorno a una lunga tavola in una stanza a pianterreno, innanzi a un immenso camino, dove bruciava una pianta. Rocco l’affittaiuolo pagava ogni anno cinquantamila lire di fitto, in buona moneta, all’amministratore de’ Luoghi Pii e aveva dunque il diritto di mangiar bene e di portarsi attorno il suo bel ventre tondo come una botticella. Sopra una madia, rasente al muro, stavano schierate cinquanta bottiglie di sordido aspetto, pescate proprio per l’occasione solenne del Santo Natale nei buchi piú profondi della cantina. In cucina, stridevano ancora sui fornelli due grossi tacchini in un bagno di burro; nella stufa, a goccia a goccia coceva un pasticcio di piccioni e di midolle colla crosta di fior di farina e zucchero, cosa leggiera, digestiva, che si può mangiar sempre senza pericolo. Quando i due grossi tacchini, color di rame, e sudati come la pelle d’un villano al sol di luglio, comparvero sulla tavola fra due grandi insalate e fra gli evviva di tutti, a Giacotto, il piú giovane dei figli di Rocco, vennero i lucciconi, perché il poveretto si era sbadatamente lasciato andare sulla minestra e sul lesso e non sentiva piú vuoto un buco. Papà Rocco prese l’occasione per dare al figliuolo una lezione di prudenza, dicendo che in questo mondo bisogna aver «l’occhio alle cose», se non si vuol poi o patire o pagare di borsa. Ai tacchini coll’insalata tenne dietro la panna coi biscotti e col pane di Spagna, una cosa leggiera e fresca che mollifica e unge la macchina, poi la frutta e il formaggio, che ci vuole, si sa; poi ancora una gelatina dolce e tremolante nell’aria, come il sogno d’una bionda inglesina innamorata, una

spuma, buon Dio! che svapora nello stomaco. Poi... non so piú, ma Basolone, cioè il cuoco della cascina Mornata, nicchiava l’occhio al sor Rocco, colla faccia contenta per dirgli che questa volta erano riusciti a tiro. Che cosa? – Zitto, non lo si deve dire. – Sí, parla, vogliamo saperlo anche noi. – Dopo il caffè, dopo il rhum. – No, subito. – Sí, no. La Celeste, una bambina gracile e smorta, allieva delle monache, figlia d’una figlia di Rocco, la quale sapeva anch’essa farsi onore a tavola, saltò su a dire: – Sono i sorbetti! – e picchiava sul tondo, come se fosse stato un tamburo. – Viva Basolone! – urlò tutta la brigata, alzando il bicchiere; e anche i due bracchi si misero ad abbaiare con tanta gola, da far tremare i vetri. La cascina Mornata era un vasto casolare quadrato, poco alto, livido, col tetto storto, coi pilastri rosicchiati, colle altane di legno rustico, chiuso da un largo portico, pure a pilastri, dov’erano le cascine del fieno, della paglia e dello strame. In mezzo si apriva la corte, ingombra di carri, di attrezzi, di botti, sparsa di letame che, misto alla neve pesta, sgocciolava in una gora color cioccolata verso l’imboccatura della porta. Chi non aveva stivali a tromba arrischiava di non uscirne piú, e i due bracchi, che correvano incontro alle carrozze, vi si impiastricciavano fin sopra le orecchie. A destra, erano le stalle con duecento vacche; a sinistra la stalla con dieci puledri; in fondo, il pollaio; sulle mensole, le case dei piccioni, di qua il porcile, di là l’abitazione del padrone. Al fianco di Rocco sedeva la mamma Giuditta, una donna che aveva avuta la sua storia galante, nei tempi che i ricci non erano cosí rari e bianchi; d’allora conservava bene una carnagione fresca e signorile, sotto una velatura di cipria, e gli occhi... veri occhi assassini, che avevano scombussolato piú volte i bilanci dell’amministrazione. Alla sua destra, seguendo un’abitudine di molti anni, sedeva l’amministratore, che de’ vecchi tempi anche lui non aveva conservato che i denti e il cuore sempre disposto. Dei figli di Rocco non

mancava che il povero Pippo, morto sei mesi prima d’un’indigestione di cocomeri. Una disgrazia è sempre una disgrazia, ma dopo sei mesi, in una circostanza come questa, è permesso avere dell’appetito: gli altri figliuoli dai quindici ai trent’anni, sedevano alla rinfusa, vestiti di velluto, con grossi bottoni di rame, ed erano giovanotti larghi di spalle, con una voce tremenda, con certi stomachi da cacciatori... La figliuola era venuta con suo marito e colla bambina; splendeva di gioielli come una Madonna di villaggio, e il suo vestito di seta color sangue, mandava trasparenze e fosforescenze, come le penne dei capponi. Mangiavano dunque da un’ora e mezzo, senza smettere. Il fuoco scoppiettava sul camino, come i mortai d’una sagra: i due bracchi sbasoffiavano certi piatti di polpa e di sugo, da far morire di pienezza, solo a vederli, un maestro rurale. Papà Rocco beveva il vino nella tazza col manico. – Perché – diceva – il vino col manico è piú buono, né crediate che sia tutto qui. Vuotate queste, ce ne sono altre cinquanta piú vecchie, che, se innaffiassimo l’erba del camposanto, vedremmo spuntare i poveri morti. Bevete, ragazzi, che il fitto è pagato, che i fienili sono pieni, e gli affari non vanno poi come vuole il diavolo. La massaia mi ha dato in lista sessanta oche, cinquanta pulcini, dodici dozzine d’uova la settimana. C’è da far correre una barca nella crema. La «Bianca» e la «Bersagliera» hanno ottenuto un premio alla Esposizione di Novara, e vacche con sí belle poppe non ce ne sono neanche a Milano, dico giusto, sor ragioniere? Dunque, beviamo e siamo allegri, che il Santo Natale viene una volta sola all’anno e date ascolto a vostro padre, che beve il vino col manico. Vostro padre è vecchio, ma non si è mai lasciato infinocchiare da nessuno; chi si lascia infinocchiare dalle belle parole è un babbeo degno di mangiare pane di crusca. Occhio ci vuole, bada Giacotto; occhio alle cose e non credere mica che il mondo s’abbia a cambiare domattina, per far piacere a quei signori là, che scrivono sulle gazzette e che mandano le inchieste sulla pellagra, che mandano... – Uh! uh! uh! – A un tratto s’intese questo lamento: dal fondo perduto dei campi. – Cos’è? Sentite.

Tutti fecero silenzio, ascoltarono e intesero di nuovo: – Uh! uh! uh! – dal fondo perduto dei campi coperti di neve. – È un cane o un’anima del Purgatorio che fa questo versaccio? – È un cane. – So che la notte di Natale le anime vanno attorno: saranno bubbole ma anche ai morti deve rincrescere di non poter mettere i piedi sotto la tavola. – Sai tu, Giacotto, di chi sia questo cane? – È del Pattina, che fu trovato morto l’altro dí sulla riva del fosso presso la Scesa. – Fu trovato morto? – È stato un colpo di sole? – chiese Battistone, ridendo. – Pattina era mezzo matto dalla pellagra, – disse Giacotto, – e ballava per la strada come se suonasse l’organetto; dicono che ballasse di febbre... – E poi? – E poi, quando fu presso la Scesa e vide l’acqua della gora, che era quasi gelata, si levò le scarpe e i calzoni e si buttò dentro; ma pestò la testa contro uno spigolo di sasso del ponte. Io l’ho visto dopo, perché rimase sul colpo e le sue cervella... – Vuoi tu finirla, bestia magra che sei, colle tue storie? – urlò papà Rocco, facendo l’atto di buttare il vino in faccia al figliuolo. – S’egli è morto, è perché era giunta la sua ora, e quando giungerà la mia, tirerò anch’io le cuoia, senza bisogno che il dottore e il sindaco e il prefetto vengano a mettermi sulle tabelle della statistica. – Furono da voi questi signori? – Bisogna vedere! Delegati, carabinieri, dottori, speziali, un reggimento: vollero il nome e il cognome del Pattina, età, condizione, quanto tempo fu malato, cos’aveva mangiato, cos’aveva bevuto, esaminarono il pan giallo col microscopio: ah! ah!... c’è dei matti a questo mondo. – Uh! uh! uh! – Cosa vuole questo cane? – domandò a un tratto Rocco l’affittaiuolo, volgendosi al Basolone. – Dopo che il Pattina morí, il cane non fa che correre innanzi e indietro

dal ponte alla cascina. Si mette sul ponte, fiuta, raspa, e, alzando il muso verso la Mornata, abbaia... ecco qua. Tutti ascoltarono; pareva il lamento d’una turba sepolta sotto la neve; c’erano degli accenti umani dentro ai guaiti; cosa volesse dire non so, ma a Rocco faceva l’effetto di ranocchi nel ventre. – È anche lui della lega – borbottò, – è un cane che ha studiato. Come se la pellagra l’avessi inventata io! Fortuna che siamo vecchi e che abbiamo vuotate molte tazze col manico, se no, a sentirli, bisognerebbe piantare il riso nel vino e portar le cascine sul lago di Como. – Uh! uh! uh! – Mamma! mamma! – strillò la piccola Celeste, nascondendo il volto nel seno di lei. La mammina, pallida anch’essa, procurava, carezzandola, di persuaderla che era soltanto un cane laggiú, che aveva fame, ma il cuore della fanciulla pare che non volesse crederlo, infatti poco lungi dal cane v’era un morto, che non aveva piú fame, ma che forse l’aveva avuta. – Portategli da mangiare se ha fame, a quella bestia, – disse Rocco, agitandosi sulla sedia. – Qualche cosa deve essere rimasta in cucina anche per lui. Ma il Basolone, stralunando gli occhi, fece intendere che d’uscire a quell’ora all’oscuro, fra la neve, non se ne sentiva il coraggio. Il cane non cessava dall’ululare e chi l’avesse veduto sul margine del ponte, col pelo irto e cogli occhi rossi, non so... ma si sarebbe fatto due segni di croce in una volta. Rocco non sapeva nulla delle trasmigrazioni delle anime, né aveva mai letto che al mondo fosse vissuto un Pitagora; ma la voce del Pattina gli pareva bene d’udirla in quell’abbaiamento, o erano i fumi del vino che gli andavano al capo? Poiché il Basolone non faceva segno di muoversi, e la bambina non ristava dal piangere, né il cane da far intendere il suo verso di morte, sorse in piedi Battistone, il secondo de’ figli di Rocco, e disse: – Andrò io. Staccò dal camino un fucile a due canne, e mentre saliva le scale, verso la

sua stanza da letto, caricò brontolando: – Facciamola noi l’inchiesta. Battistone, fra i figli di Rocco, era il prediletto, perché aveva l’occhio alle cose, un occhio fisso, che non sbagliava una rondine al volo. Aprí la finestra, per dove era la vista sui campi, fino al ponte, che scavalcava la gola grigiastra, fra due file di betulle secche. La campagna era tutta bianca come un lenzuolo; e dietro i rami delle betulle, si squarciava un poco il cielo, per dare il passo alla luce della luna che brillava languidamente, come tante punte di spie sulla stesa dei prati. Il cane, che s’era accovacciato per frugare, alzò ancora una volta il muso: ritto sul dosso del ponte, colle orecchie tese, tremava tutto sotto il raggio della luna. Battistone fissò gli occhi rossi e paf!... uccise anche lui.

John Collier Di ritorno per Natale

– Dottore, – disse il maggiore Sinclair, – non possiamo non averla con noi a Natale –. Quel pomeriggio il soggiorno dei Carpenter traboccava di amici che erano andati a salutare il dottore e sua moglie. – Sarà di ritorno per quella data, – dichiarò la signora Carpenter. – Glielo prometto. – È ancora presto per esserne sicuri, – disse il dottor Carpenter. – Ovviamente nulla mi farebbe piú piacere. – Dopo tutto, – interloquí il signor Hewitt, – si è impegnato a tenere delle conferenze solo per tre mesi. – Non si sa mai cosa può succedere, – rispose il dottor Carpenter. – Qualunque cosa accada, – sentenziò sua moglie, sorridendo radiosamente ai presenti, – tornerà in Inghilterra per Natale. Potete credermi. Le credettero tutti. Persino il dottore fu incline a crederle. Per dieci anni la signora Carpenter si era impegnata a nome del marito per cene, garden party, comitati e Dio solo sa quante altre cose, e tutti gli impegni erano sempre stati rispettati. Cominciarono i saluti. Tutti si profusero in complimenti per la meravigliosa capacità organizzativa della cara Hermione. Lei e il marito si sarebbero recati in macchina a Southampton quella sera, per imbarcarsi il giorno successivo. Non ci sarebbero stati treni da prendere, nessun trambusto, nessuno dei piccoli fastidi dell’ultimo momento. Certamente il dottore non avrebbe potuto essere meglio accudito. Avrebbe riscosso uno straordinario successo in America, soprattutto con Hermione a occuparsi di ogni cosa. Anche per lei sarebbe stata una magnifica esperienza. Avrebbe visto i veri grattacieli, che erano tutt’altro spettacolo rispetto a quello di Little

Godwearing. Ma doveva assolutamente riportare indietro il dottore. – Sí, lo riporterò a casa. Potete fidarvi –. Niente prolungamenti. Non doveva lasciarsi allettare dalle offerte di qualche modernissimo ospedale americano. Il nostro ambulatorio ha bisogno di lui. E deve tornare per Natale. – Sí, – ribadí la signora Carpenter mentre l’ultimo ospite si apprestava ad andarsene. – Me ne occuperò io. Sarà di ritorno per Natale. La chiusura della casa fu organizzata perfettamente in ogni dettaglio. Le cameriere finirono in fretta di riporre il servizio da tè e, salutati i padroni, se ne andarono in tempo per prendere l’autobus del pomeriggio per Devizes. Non restava piú nulla da fare, tranne che sbrigare qualche piccola faccenda, chiudere le porte e assicurarsi che tutto fosse in ordine. – Vai di sopra, – disse Hermione al marito, – e mettiti il vestito di tweed marrone. Svuota le tasche di quello che hai indosso, prima di riporlo in valigia. A tutto il resto penserò io. Tutto quello che devi fare è evitare di essermi d’intralcio. Il dottore salí al piano superiore e si spogliò, ma al posto del completo di tweed indossò un accappatoio vecchio e sporco, preso dal fondo dell’armadio. Poi, completati alcuni preparativi, si sporse dalla cima delle scale per chiamare la moglie. – Hermione! Hai un momento da dedicarmi? – Certamente, tesoro. Qui ho appena finito. – Vieni di sopra un attimo. Ho notato una cosa piuttosto strana. Hermione salí immediatamente al piano di sopra. – Santo cielo, mio caro! – esclamò quando vide il marito. – Per quale motivo stai ciondolando in giro con addosso quel lurido cencio? Ti avevo detto di buttarlo molto tempo fa. – Chi diavolo ha lasciato cadere una catena d’oro nello scarico della vasca da bagno? – domandò il dottore. – Nessuno, ovviamente, – rispose Hermione. – Non c’è nessuno che porti quel genere di cose. – E allora cosa ci fa lí dentro? – insistette il dottore. – Prendi questa torcia. Se ti sporgi, puoi vederla scintillare sul fondo. – Una delle domestiche deve aver perso un braccialetto di poco prezzo, – commentò Hermione. – Non può trattarsi d’altro –. Tuttavia, prese la torcia e si sporse in avanti, sbirciando nello scarico. Il dottore, sollevato un corto tubo

di piombo, la colpí due o tre volte con forza e precisione e poi rovesciò il corpo nella vasca da bagno. Si sfilò l’accappatoio e, completamente nudo, spiegò un asciugamano pieno di ferri e li mise nel lavandino. Dopo aver coperto il pavimento con fogli di giornale, tornò a volgersi verso la sua vittima. Era morta, naturalmente; giaceva a un’estremità della vasca, il corpo orribilmente piegato in due, come in una grottesca capriola. Rimase a guardarla a lungo, senza pensare a nulla. Quindi realizzò quanto sangue ci fosse intorno e la sua mente riprese a lavorare. Tirò e spinse il cadavere finché non fu disteso, dopodiché cominciò a spogliarlo. Nello spazio ridotto della vasca non era un’impresa facile, ma alla fine riuscí a portarla a termine e aprí i rubinetti. L’acqua prese a sgorgare, poi il getto progressivamente si ridusse fino a sparire con un gorgoglio nello scarico. – Oh, buon Dio, – esclamò l’uomo. – Deve aver chiuso il rubinetto centrale. C’era una sola cosa da fare: dopo essersi asciugato in fretta le mani, aprí la porta del bagno con un angolo pulito della salvietta, quindi la gettò su uno sgabello e, a piedi nudi e silenzioso come un gatto, scese di corsa al piano terra. La porta della cantina si trovava in un angolo dell’ingresso, sotto le scale. Sapeva bene dov’era il rubinetto centrale: nei mesi precedenti aveva passato parecchio tempo là sotto a scavare, come aveva spiegato a Hermione, per installare un tino per il vino. Spinse la porta e, prima che questa si richiudesse alle sue spalle lasciando il locale al buio, scese i ripidi gradini e aprí il rubinetto dell’acqua. Procedendo a tentoni lungo il muro sudicio, tornò indietro; stava accingendosi a risalire la scala, quando suonò il campanello. Il dottore non percepí lo squillo come un suono. Era piú simile a una lama di ferro che gli attraversava lentamente lo stomaco, risalendo fino al cervello. A quel punto qualcosa si ruppe. Si lasciò cadere sulla polvere di carbone che ricopriva il pavimento e mormorò: – Sono finito. Sono finito –. E: – Non hanno alcun diritto di venire qui. Stupidi! – Poi udí il proprio respiro affannoso. «Poche storie, – si disse, – poche storie». Cominciò a rianimarsi. Si

levò in piedi e, quando il campanello suonò di nuovo, non provò quasi dolore. – Lascerò che se ne vadano, – disse. Quindi sentí aprirsi la porta d’ingresso. – Non m’importa –. Alzò un braccio per proteggersi il volto, come un pugile. – Mi arrendo. Sentí voci che chiamavano. – Herbert! Hermione! – Erano i Wallingford. – Maledetti! Piombano in casa di gente che sta per partire. Tutto nudo! E coperto di sangue e di polvere di carbone! Sono fritto! Finito! Non posso farcela. – Herbert! – Hermione! – Dove accidenti possono essere? – La macchina è qui. – Magari sono andati a fare una visita alla signora Liddell. – Dobbiamo riuscire a vederli. – O magari sono andati in un negozio. Sai, gli acquisti dell’ultimo minuto. – Non certo Hermione. Ma ascolta! Non sembra che qualcuno si stia facendo un bagno? Devo gridare? Cosa dici di bussare alla porta? – Sh-h-h! Lascia stare. Non sarebbe educato. – Non c’è niente di male nel dargli una voce. – Ascoltami, tesoro. Ripassiamo piú tardi. Hermione ha detto che non sarebbero partiti prima delle sette. Avevano in programma di cenare a Salisbury. – Pensi? Va bene. Solo che ci tengo a fare un ultimo brindisi con il vecchio Herbert. Ci resterebbe molto male, altrimenti. – Muoviamoci. Possiamo essere di ritorno alle sei e mezza. Il dottore sentí che uscivano, chiudendo delicatamente la porta alle loro spalle. – Le sei e mezza. Posso farcela. Attraversò l’ingresso e chiuse con il catenaccio la porta di casa prima di risalire al piano di sopra. Utilizzando gli strumenti che aveva messo nel lavandino, portò a termine quello che si era prefisso. Con indosso l’accappatoio, scese nuovamente le scale, portando diversi fagotti avvolti in

carta da giornale o stoffa e chiusi con spille da balia. Li stipò con cura nella buca stretta e profonda che aveva scavato in un angolo della cantina, li coprí di terriccio e vi sparse sopra della polvere di carbone. Dopo essersi sincerato che tutto fosse in ordine, risalí al piano di sopra. Pulí accuratamente il bagno, se stesso e poi di nuovo il bagno; una volta vestito, mise gli abiti della moglie e il suo accappatoio nell’inceneritore. Ancora un paio di ritocchi e tutto fu sistemato. Erano solo le sei e un quarto. I Wallingford non erano mai puntuali; non aveva che da salire in auto e andarsene. Era un peccato che non potesse aspettare fino al calare del buio, ma con una deviazione sarebbe riuscito a evitare la via principale della città, e se anche qualcuno avesse notato che lui era solo in macchina, avrebbe pensato che Hermione lo aveva preceduto per qualche motivo e poi si sarebbe scordato della faccenda. Comunque, si sentí sollevato quando riuscí a lasciare del tutto inosservato la città e si ritrovò sulla strada aperta mentre scendeva la sera. Doveva concentrarsi sulla guida: aveva l’impressione di non riuscire a calcolare bene le distanze, e i suoi riflessi erano stranamente rallentati. Ma si trattava di dettagli. Solo quando l’oscurità divenne fitta, si concesse una sosta in cima alla collina, per riflettere. Le stelle erano meravigliose. Nella pianura sottostante s’intravedevano in lontananza le luci di uno o due villaggi. Si sentiva esultante. Da quel momento in poi tutto sarebbe stato estremamente facile. Marion lo attendeva a Chicago. Lei lo credeva vedovo da tempo. E bastava una parola per sbarazzarsi del ciclo di conferenze. Non doveva fare altro che stabilirsi in una florida e isolata cittadina americana e sarebbe stato al sicuro per sempre. Certo, c’erano ancora gli abiti di Hermione nelle valigie, ma se ne sarebbe disfatto gettandoli in mare dall’oblò della sua cabina. Ringraziando il cielo, sua moglie scriveva le lettere a macchina: un dettaglio insignificante come la calligrafia avrebbe potuto compromettere tutto. – Invece, era aggiornata ed efficiente su tutta la linea, – mormorò. – Brava a condurre ogni cosa. Ha condotto se stessa alla morte, accidenti a lei! «Non c’è ragione di agitarsi, – rifletté. – Invierò alcune lettere a firma sua,

poi sempre meno. Scriverò anche di mio pugno, parlando sempre di un prossimo ritorno. La casa resterà disabitata un anno, poi un altro e un altro ancora, finché la gente non si abituerà. Potrei persino tornare da solo, tra un paio d’anni, per sistemarla come si deve. Niente di piú facile. Ma certo non sarò di ritorno per Natale!» E con questo avviò il motore e ripartí. A New York, si sentí finalmente libero. Era al sicuro. Accendendosi una sigaretta dopo un lauto pranzo, persino il ricordo dei minuti passati in cantina ad ascoltare il campanello e le voci degli amici alla porta gli procurò una sorta di piacere. E nel futuro c’era Marion. Mentre attraversava l’atrio del suo albergo, un impiegato sorridente gli consegnò una serie di lettere. Erano le prime arrivate dall’Inghilterra. Be’, che problema c’era? Sarebbe stato divertente imitare lo stile schietto di Hermione e la firma con il caratteristico svolazzo, raccontando del successo della prima conferenza, di quanto lui fosse entusiasta dell’America e di come lei lo avrebbe comunque riportato a casa per Natale. Solo in seguito avrebbe insinuato dei dubbi. Passò in rivista le lettere. La maggior parte erano per Hermione: i Sinclair, i Wallingford, il vicario e un’impresa di costruzioni, la Holt & Figli. In piedi nell’atrio, con la gente che gli passava accanto, aprí le lettere e le scorse, sorridendo. Tutti sembravano convinti di rivederlo a Natale. Confidavano in Hermione. – È proprio qui che casca l’asino, – disse il dottore, che aveva adottato certe espressioni americane. Tenne per ultima la lettera dell’impresa di costruzioni. Un conto, probabilmente. La lettera recitava: Gentile Signora, la informiamo che abbiamo ricevuto la sua lettera di accettazione del preventivo sotto riportato, da lei gentilmente fattaci pervenire unitamente alle chiavi. Abbia la massima fiducia che, come da accordo, tutto sarà pronto in tempo per essere offerto come regalo di Natale. Gli operai cominceranno a lavorare questa settimana. La preghiamo di accettare l’espressione dei nostri piú cordiali saluti. In fede, PAUL HOLT & FIGLI

Per i lavori di scavo, la costruzione e il rivestimento di un tino interrato da realizzarsi nella cantina, usando i migliori materiali, manodopera ecc.

£ 18/0/0

Francis Scott Fitzgerald L’augurio natalizio di Pat Hobby

I.

Era la vigilia di Natale allo studio. Per le undici del mattino Babbo Natale aveva fatto visita alla maggior parte dell’immensa popolazione secondo i rispettivi meriti di ciascuno. Regali sfarzosi dei produttori ai divi e degli agenti ai produttori arrivarono negli uffici e nei capannoni dello studio: su ogni set non si faceva che parlare dei regali maliziosi della troupe al regista o del regista ai membri della troupe: lo champagne era partito dall’ufficio pubblicità diretto alla stampa. E mance di cinquanta, dieci e cinque dollari da parte di produttori, registi e sceneggiatori piovevano come manna sul ceto impiegatizio. In questa specie di transazione c’erano eccezioni. Pat Hobby, per esempio, che conosceva la manfrina per esperienza ventennale, aveva avuto l’idea di sbarazzarsi della segretaria il giorno prima. Gliene avrebbero mandata una nuova da un momento all’altro... ma non si sarebbe certo aspettata di ricevere un presente il primo giorno. In attesa del suo arrivo, Pat si era avviato lungo il corridoio, affacciandosi agli uffici aperti per avere qualche segno di vita. Si fermò a chiacchierare con Joe Hopper, del reparto sceneggiature. – Non è piú come ai vecchi tempi, – mugugnò Pat. – Allora c’era una bottiglia su ogni scrivania. – In giro ce n’è qualcuna. – Mica tante, – sospirò Pat. – E poi vedevamo un film... ricavato dagli spezzoni scartati in sala di montaggio. – L’ho saputo. Tutto il materiale eliminato – disse Hopper.

Pat annuí, gli occhi luccicanti. – Oé, roba piccante. Di che sbellicarsi dalle risa... S’interruppe alla vista di una donna con un blocchetto in mano che, entrando nel suo ufficio in fondo al corridoio, lo riportò al triste presente. – Gooddorf mi fa lavorare sotto le feste – si lamentò, amareggiato. – Io non lo farei. – Figurati io, senonché le mie quattro settimane scadono venerdí prossimo e se m’impuntassi non mi prolungherebbe l’incarico. Mentre si allontanava Hopper capí che, comunque, Pat il lavoro non lo avrebbe prolungato. Era stato assunto per scrivere il copione di un western vecchio stile e i tipi che «scrivevano dietro di lui» – che cioè rielaboravano il suo materiale – dicevano che era tutta roba vecchia e in parte anche senza senso. – Sono la signorina Kagle, – disse la nuova segretaria di Pat. Era sui trentasei anni, attraente, appassita, stanca, efficiente. Andò alla macchina da scrivere, la esaminò, si sedette e scoppiò in singhiozzi. Pat trasalí. L’autocontrollo, se non altro nelle basse sfere, era la norma da quelle parti. Non era già abbastanza brutto lavorare la vigilia di Natale? Beh... meno brutto che non lavorare affatto. Si affrettò a chiudere la porta: qualcuno poteva pensare che insolentisse la ragazza. – Su con la vita, – le raccomandò. – È Natale. Lo scoppio emotivo era scemato. Adesso si era sollevata a sedere, trattenendosi e asciugando le lacrime. – Il diavolo non è brutto come sembra, – le assicurò in tono poco convincente. – Comunque sia, di che si tratta? Hanno forse intenzione di licenziarla? Lei scosse il capo, tirò su forte con il naso un’ultima volta e aprí il blocchetto. – Con chi lavorava? Rispose digrignando all’improvviso i denti. – Il signor Harry Gooddorf. Pat spalancò gli occhi permanentemente iniettati di sangue. Adesso

ricordava di averla vista nell’ufficio esterno di Harry. – Dal 1921. Diciott’anni. E ieri mi ha rispedito dritta al reparto. Ha detto che lo deprimevo... gli ricordavo che stava invecchiando – l’espressione era torva –; non parlava mica cosí quando staccavo dal lavoro diciott’anni fa. – Già, allora era un donnaiolo, – disse Pat. – Avrei dovuto far qualcosa allora, quando ne avevo l’opportunità. – Rottura della promessa di matrimonio? Bastasse quella a svoltare! – Ma io avevo qualcosa cui appigliarmi. Qualcosa di piú che una semplice rottura di promessa. Anzi, ce l’ho ancora. Ma allora, vede, io credevo di esserne innamorata –. Restò pensosa per un attimo: – Vuole dettarmi qualcosa adesso? Pat ricordò il suo lavoro e aprí un copione. – È un inserto – attaccò: – scena 114 A. Pat prese ad andare su e giú per la stanza. – Campo lunghissimo della prateria, – decretò. – Buck e i messicani si avvicinano alla aiacienda. – Alla cosa? – Alla aiacienda... l’edificio principale del ranch, – la squadrò con aria di rimprovero. – 114 B. Piano americano: Buck e Pedro. Buck: Lurido figlio di puttana. Gli strapperò le budella! La signorina Kagle alzò gli occhi, sbigottita. – Vuole che lo scriva? – Ma certo. – Non passerà. – Sono io che lo scrivo. È ovvio che non passerà. Ma se ci metto «che carogna» la scena non avrà nessuna forza. – Ma poi qualcuno non lo dovrà cambiare in «che carogna»? Le lanciò un’occhiataccia: non voleva cambiare segretaria tutti i santi giorni. – Lasci che sia Harry Gooddorf a preoccuparsene. – Lei lavora per il signor Gooddorf? – domandò la signorina Kagle

allarmata. – Finché non mi butta fuori. – Non avrei dovuto dire... – Non si preoccupi, – la rassicurò. – Non siamo piú amici come un tempo. Non a tre e cinquanta la settimana, quando prima ne pigliavo duemila... dov’ero rimasto? Riprese a fare avanti e indietro, ripetendo ad alta voce e con gusto l’ultima battuta. Ma ora sembrava riferirsi non a un personaggio della storia bensí a Harry Gooddorf. All’improvviso Pat si arrestò, perso nei pensieri. – Dica un po’, cosa sa sul suo conto? Sa per caso dov’è sepolto il cadavere? – C’è poco da scherzare, lei non sa quant’è vero. – Ha per caso fatto la pelle a qualcuno? – Signor Hobby, mi dispiace solo di aver aperto bocca. – Mi chiami semplicemente Pat. Qual è il suo nome? – Helen. – Sposata? – Non piú. – Stia a sentire, Helen, che ne dice di andare a pranzo? II. Il pomeriggio del giorno di Natale Pat stava ancora cercando di carpirle il segreto. Avevano lo studio quasi tutto per loro: solo il personale tecnico ridotto al minimo punteggiava i vialetti e la mensa. I due si erano scambiati i regali di Natale. Pat le aveva dato un biglietto da cinque dollari, Helen gli aveva comprato un fazzoletto di lino bianco. Pat ricordava benissimo l’epoca in cui per Natale ne aveva raccolti a dozzine di fazzoletti del genere. La sceneggiatura procedeva a passo di lumaca; in compenso la loro amicizia si era notevolmente approfondita. Il suo segreto era un elemento preziosissimo, secondo Pat, che si chiedeva quante carriere avessero ruotato su un fatto del genere. C’era chi ne aveva ottenuto la ricchezza, ne era certo. Sensazione piacevole, un po’ come essere della famiglia, e Pat si figurò una conversazione immaginaria con Harry Gooddorf. – Le cose stanno cosí, Harry. Non mi pare che si metta a frutto la mia

esperienza. Sono quegli sfrontatelli che dovrebbero buttar giú i copioni... mentre a fare la supervisione toccherebbe al sottoscritto. – Perché, sennò...? – Sennò sono guai, – disse Pat con fermezza. Era immerso nel suo sogno a occhi aperti quando, inaspettatamente, ecco entrare Harry Gooddorf. – Buon Natale, Pat, – disse gioviale. Il suo sorriso perse un po’ di tono allorché scorse Helen: – Oh, salve Helen... non sapevo che lei e Pat lavoraste insieme. Le ho mandato un pensierino al reparto sceneggiature. – Non avrebbe dovuto scomodarsi. Harry si affrettò a rivolgersi a Pat. – Il capo mi sta alle costole, – disse. – Devo avere il copione finito entro giovedí. – E io che ci sto a fare? – disse Pat. – Lo avrai. Ho mai mancato alla parola? – Quasi sempre, – disse Harry. – Quasi sempre. Sembrava stesse per aggiungere qualcosa, quando entrò un fattorino con una busta e la consegnò a Helen Kagle... Al che Harry fece dietrofront e se la squagliò. – Ha fatto bene a filare! – sbottò la signorina Kagle dopo aver aperto la busta. – Dieci dollari... soltanto dieci dollari... da parte di un dirigente... dopo diciott’anni. Era quanto aspettava Pat. Sedendosi sulla scrivania della donna le parlò dei suoi piani. – Penso a lavori di tutto comodo per lei e per me, – disse. – Lei a capo del reparto sceneggiature, io come produttore associato. C’è da fare la pacchia per il resto dei nostri giorni... basta scrivere... basta battere sui tasti. Potremmo anche... potremmo anche... se tutto va bene, potremmo sposarci. Lei restò a lungo esitante. Quando mise un foglio pulito nella macchina da scrivere, Pat temette di aver perduto. – Posso scriverla a memoria, – disse lei. – È una lettera che lui stesso ha

battuto a macchina il 3 febbraio 1921. L’ha sigillata e me l’ha data da impostare... Ma siccome c’era una bionda che lui aveva preso di mira, io mi ero chiesta il perché di tanta segretezza per una lettera. Mentre parlava, Helen aveva battuto a macchina e adesso porse a Pat una lettera. A Will Bronson First National Studios PERSONALE Caro Bill, Abbiamo ucciso Taylor. Avremmo dovuto calcare la mano con lui già da tempo. Per cui a che serve parlarne. Saluti, Harry

Pat la fissò esterrefatto. – Capito? – disse Helen. – Il primo febbraio 1921 qualcuno fece la pelle a William Desmond Taylor, il regista. E non hanno mai scoperto chi. III. Per diciott’anni aveva conservato l’originale, con la busta e tutto. A Bronson aveva solo mandato una copia, ricopiando la firma di Harry Gooddorf. – Siamo a posto, pupa! – disse Pat. – E io che avevo sempre pensato che era stata una ragazza a far fuori Taylor. Era cosí euforico che aprí un cassetto e tirò fuori una mezza pinta di whisky. Poi, ripensandoci, chiese: – È al sicuro? – Può giurarci. Lui non indovinerebbe mai. – Cocca mia, l’abbiamo in pugno! Grana, macchine, ragazze, piscine fluttuavano in un montaggio sfavillante davanti agli occhi di Pat. Che ripiegò il biglietto, lo mise in tasca, tracannò un altro sorso e fece per prendere il cappello. – Sta per caso andando da lui? – domandò Helen un po’ allarmata. – Aspetti che io abbia lasciato lo studio. Non ho nessuna intenzione di farmi assassinare, io.

– Niente paura! Senta, ci vediamo al Muncherie, fra la Quinta e La Brea, entro un’ora. Mentre si avviava verso l’ufficio di Gooddorf decise di non menzionare fatti o nomi entro le mura dello studio. Nel breve periodo in cui tanto tempo addietro aveva diretto un reparto sceneggiature, Pat aveva avuto l’idea di installare un dittafono nell’ufficio di ogni sceneggiatore. In tal modo la loro lealtà verso i dirigenti dello studio avrebbe potuto esser controllata varie volte al giorno. L’idea era stata accolta da risate. Ma in seguito, quando era stato «riabbassato al rango di sceneggiatore», si era spesse volte domandato se non avessero in segreto portato avanti il suo progetto. Chissà, forse proprio qualche uscita incauta da parte sua aveva fatto sí che nell’ultimo decennio non fosse riuscito a emergere dalla topaia in cui l’avevano sepolto. Cosí, con l’idea di dittafoni nascosti nella mente, dittafoni che potevano essere messi in funzione con la semplice pressione di un dito del piede, entrò nell’ufficio di Harry Gooddorf. – Harry... – scelse accuratamente le parole, – ricordi la notte del primo febbraio 1921? Un po’ sbalordito, Gooddorf si adagiò nella sedia girevole. – Cosa? – Prova a pensarci. È qualcosa di molto importante per te. L’espressione che aveva Pat nell’osservare l’amico, era quella di un addetto delle pompe funebri impaziente. – Il primo febbraio 1921, – si chiedette Gooddorf. – No. Come faccio a ricordarlo? Credi che tenga un diario? Non so neppure dove fossi allora. – Eri proprio qui, a Hollywood. – Probabilmente. Se lo sai, dimmelo. – Te ne ricorderai da solo. – Vediamo. Sono venuto sulla costa californiana nel ’16. Sono stato con la Biograph fino al 1920. Stavo per caso girando qualche commedia? Sí, e cosí. Stavo lavorando a un film intitolato Pugno di ferro... in esterni.

– Non sei sempre stato fuori a girare gli esterni. Il primo febbraio eri in città. – Che cos’è, – chiese Gooddorf. – Un terzo grado? – No... ma io ho avuto notizia delle tue imprese in quella data. Il viso di Gooddorf arrossí; per un attimo sembrò che stesse per sbattere fuori Pat dalla stanza... poi improvvisamente restò senza fiato, si leccò le labbra e fissò la scrivania... – Oh, – disse, e dopo un momento: – Ma non credo che siano affari tuoi. – Sono affari di qualsiasi persona perbene. – E da quand’è che sei diventato una persona perbene? – Da sempre, – disse Pat. – E anche se non lo sono sempre stato, non ho mai fatto una cosa del genere. – Ma che scherziamo? – disse Harry, sprezzante. – No, dico, tu che ti presenti qui facendo sfoggio dell’aureola! E poi, che prove ci sono? Si direbbe quasi che hai una confessione scritta. È una faccenda chiusa ormai da tanto. – Non agli occhi delle persone perbene, – disse Pat. – Quanto poi alla confessione scritta, guarda che ce l’ho. – Ne dubito. E dubito del suo eventuale valore in un’aula di tribunale. Ti sei fatto abbindolare. – L’ho vista coi miei occhi, – disse Pat, con crescente fiducia. – C’è quanto basta per mandarti sulla forca. – Perdio, se finisce in pasto al pubblico ti sbatto fuori dalla città. – Ah, cosí saresti tu a sbattere fuori il sottoscritto? – Non voglio pubblicità di nessun tipo. – Allora mi sa che faresti meglio a venire con me. Senza parlare con nessuno. – Dov’è che andiamo? – Conosco un bar dove possiamo stare in pace. Il Muncherie era in effetti deserto, salvo per il barista e Helen Kagle che sedeva a un tavolo, rosa dall’apprensione. Alla sua vista, Gooddorf assunse un’espressione di profondo biasimo.

– Bel Natale davvero, – disse, – con la mia famiglia che mi aspetta già da un’ora. Voglio sapere proprio che c’è dietro, visto che dite di avere qualcosa di mio pugno. Pat tirò fuori il foglio dalla tasca e lesse ad alta voce la data. Poi con un guizzo degli occhi fulminò Gooddorf: – Guarda che questa è una copia, per cui è inutile cercare di strapparmela. Conosceva la tecnica con cui si svolgevano certe scene. Quando la voga del western aveva subito un temporaneo calo, si era sobbarcato la sua bella dose di storie criminali. – A William Bronson, Caro Bill, Abbiamo ucciso Taylor. Avremmo dovuto calcare la mano con lui già da tempo. Per cui a che serve parlarne. Saluti, Harry. Pat fece una pausa: – L’hai scritta tu, il 3 febbraio 1921. Silenzio. Gooddorf si rivolse a Helen Kagle. – È stata lei a scriverla? E io gliel’avrei dettata? – No, – ammise la donna in tono di soggezione. – L’ha scritta lei. Io ho aperto la lettera. – Capisco. E allora, cos’è che volete? – Parecchio, – disse Pat, e il suono di quella parola gli procurò piacere. – Cosa, esattamente? Pat s’imbarcò nella descrizione di una carriera consona a un uomo di quarantanove anni. Una brillante carriera. Che si sviluppò rapidamente in bellezza e autorità durante il tempo che gli ci volle per scolarsi tre abbondanti whisky. Ma su una richiesta non si stancava di ribattere. Voleva essere fatto produttore l’indomani. – Perché domani? – chiese Gooddorf. – Non scappa mica. Di colpo gli occhi di Pat si riempirono di lacrime: lacrime vere. – Siamo a Natale, – disse. – È il mio augurio per Natale. Ho passato un periodo infernale. È cosí tanto tempo che aspetto. Gooddorf balzò in piedi di scatto. – No e poi no, – disse. – Non farò di te un produttore. Per correttezza

verso la compagnia. Preferisco affrontare il processo. Pat restò a bocca aperta. – Come? Non lo farai? – Scordatelo. Meglio penzolare da una corda. Si girò, con piglio risoluto, e si avviò verso l’uscita. – Va bene! – gli lanciò dietro Pat. – Ti sei giocato l’ultima occasione. Improvvisamente fu stupito di vedere Helen Kagle saltar su e correre dietro a Gooddorf... cercando di gettargli le braccia al collo. – Non ti preoccupare! – gridò. – La straccerò, Harry! Era uno scherzo, Harry... La voce le venne a mancare quasi di colpo. Si era accorta che Gooddorf era scosso dalle risa. – Che c’è da ridere? – chiese la donna, tornando ad arrabbiarsi. – Credi forse che non ce l’abbia? – Oh, sicuro che ce l’hai – si sganasciava Gooddorf. – Ce l’hai eccome... solo che non si tratta di quello che pensi tu. Tornò al tavolino, si sedette e si rivolse a Pat. – Sai cosa credevo che significasse quella data? Credevo che si trattasse del giorno in cui io e Helen ci siamo innamorati l’uno dell’altra. Ecco cosa credevo. E credevo che lei avrebbe messo su un casino. Credevo fosse diventata matta. Da allora si è sposata due volte, e lo stesso ho fatto io. – Questo non spiega il biglietto, – disse Pat deciso, ma con la sensazione di sprofondare. – Tu ammetti di aver ucciso Taylor. Gooddorf annuí. – Penso ancora che siamo stati in tanti a farlo – disse. – Eravamo una manica di svitati: Taylor, Bronson, il sottoscritto e una metà dei ragazzi con la grana. Per cui ci radunammo in gruppo e decidemmo di darci un freno. In giro tirava una brutta aria da linciaggio. Abbiamo cercato di mettere in guardia Taylor, ma non ci ha dato retta. Cosí, invece di calcare la mano, con lui, lo abbiamo lasciato andare «a ruota libera». E qualche carogna gli ha sparato... va’ un po’ a sapere chi. Si alzò.

– Qualcuno avrebbe dovuto calcare la mano con te, Pat. Ma a quei tempi eri un tipo divertente, e poi avevamo tutti il nostro bel da fare. All’improvviso Pat tirò su col naso. – Guarda che con me l’hanno calcata la mano, – disse. – E parecchio. – Troppo tardi però, – disse Gooddorf, e aggiunse: – Probabilmente avrai un altro augurio per Natale a questo punto, e stavolta te lo concedo. Non dirò nulla su questo pomeriggio. Quando se ne fu andato, Pat e Helen sedettero in silenzio. Qualche istante dopo Pat tirò di nuovo fuori il biglietto e lo scorse con gli occhi. – Per cui a che serve parlarne, – lesse ad alta voce. – Questo non l’ha spiegato. – Per cui a che serve parlarne, – disse Helen.

Arthur Conan Doyle L’avventura del carbonchio azzurro

Il secondo giorno dopo Natale ero andato, la mattina, a trovare il mio amico Sherlock Holmes con l’intenzione di fargli gli auguri. Lo trovai che se ne stava sdraiato sul divano indossando una veste da camera color viola scuro; sulla destra, a portata di mano, un portapipe e un mucchio di giornali del mattino tutti spiegazzati che, evidentemente, aveva appena finito di sfogliare. A fianco del divano c’era un sedia di legno; da un angolo dello schienale pendeva un logoro e malridotto cappello di feltro, malconcio per l’uso e, qua e là, strappato. Una lente e un forcipe appoggiati sul piano della seggiola indicavano che il cappello era stato appeso a quel modo per essere esaminato. – Vedo che è occupato, – dissi; – forse la disturbo. – Niente affatto, sono anzi felice di avere un amico con cui discutere i miei risultati. Il caso è assolutamente banale, – indicò col pollice il vecchio cappello, – ma presenta alcuni aspetti non del tutto privi di interesse, direi perfino educativi. Mi accomodai nella sua poltrona scaldandomi le mani al fuoco perché era sopraggiunto il gelo e i vetri erano coperti da cristalli di ghiaccio. – Suppongo, – dissi, – che, con tutta la sua aria malandata, quest’oggetto è collegato a qualche storia tenebrosa – che è la chiave che le permetterà di risolvere un mistero e di punire un crimine. – No, no, nessun crimine, – rispose Holmes ridendo. – Solo uno di quei bizzarri incidenti che si verificano quando quattro milioni di esseri umani si prendono a spintoni in uno spazio di poche miglia quadrate. Fra le azioni e le reazioni di questo formicaio umano è naturale aspettarsi che si verifichi ogni

possibile combinazione di eventi e che sorgano una miriade di piccoli problemi bizzarri e insoliti, pur senza essere criminosi. Ne abbiamo già avuto l’esperienza. – A un punto tale, – risposi, – che degli ultimi sei casi che ho aggiunto ai miei appunti tre non avevano nulla a che fare col crimine. – Precisamente. Lei allude al mio tentativo di recuperare le lettere di Irene Adler, allo strano caso della signorina Mary Sutherland e all’avventura dell’uomo col labbro spaccato. Bene, sono certissimo che questa faccenduola faccia parte della stessa innocente categoria. Lei conosce Peterson, il commissario? – Sí. – È a lui che appartiene questo trofeo. – È il suo cappello. – No, no; l’ha trovato. Non si sa chi sia il proprietario. La prego di osservarlo non come un feltro malandato ma come un problema intellettuale. Per prima cosa, vediamo come è finito qui. È arrivato la mattina di Natale, accompagnato da una bella oca grassa che in questo momento sta senza dubbio rosolando nella cucina di Peterson. I fatti sono questi: verso le quattro la mattina di Natale Peterson, che come lei sa è un uomo molto onesto, stava tornando da una seratina di baldoria, diretto verso casa lungo Tottenham Court Road. Davanti a sé, alla luce di un lampione, vide un uomo piuttosto alto, leggermente barcollante, che portava gettata sulla spalla una grossa oca. Quando raggiunse l’angolo di Goodge Street, scoppiò un tafferuglio fra lo sconosciuto e un gruppetto di teppisti; uno di questi, con un pugno, fece volar via il cappello dell’uomo che alzò il bastone per difendersi e, roteandolo sopra la testa, fracassò una vetrina alle sue spalle. Peterson era accorso per difendere lo sconosciuto dai suoi assalitori; ma l’uomo, sconvolto per aver rotto la vetrina e vedendo un individuo dall’aspetto ufficiale, in uniforme, che correva verso di lui, lasciò cadere l’oca, se la diede a gambe e scomparve nel labirinto di vicoli alle spalle di Tottenham Court Road. Anche i teppisti si erano dileguati alla comparsa di Peterson che rimase cosí padrone del campo, nonché delle spoglie dei vinti, vale a dire di questo cappello sdrucito e di

un’irreprensibile oca natalizia. – Che sicuramente avrà riconsegnato al legittimo proprietario. – Caro amico, qui sta il problema. È vero che su un cartoncino legato alla zampa destra dell’animale c’era scritto «Per la signora Henry Baker» e che sulla fodera del cappello sono ancora leggibili le iniziali «H. B.»; ma visto che in questa nostra città esistono qualche migliaia di Baker, e qualche centinaia di Henry Baker, non è facile restituire il bottino alla persona giusta. – E allora cosa ha fatto Peterson? – La mattina di Natale mi ha portato qui cappello e oca, ben sapendo che anche un problema cosí trascurabile mi avrebbe interessato. L’oca l’abbiamo conservata fino a questa mattina quando, malgrado la temperatura gelida, è apparso da chiari segni che sarebbe stato meglio cucinarla senza ulteriori ritardi. Peterson quindi se l’è portata via verso l’ultimo destino di un’oca, mentre io ho trattenuto il cappello dello sconosciuto gentiluomo che ha perduto il suo pranzo di Natale. – Non ha messo un’inserzione per ritrovare le sue cose? – No. – E allora, quale indizio ha per identificarlo? – Solo quelli che posso dedurre. – Dal cappello? – Esattamente. – Ma lei sta scherzando. Cosa mai può dedurre da quel vecchio feltro malandato? – Ecco la mia lente. Lei conosce i miei metodi. Cosa può dedurre lei circa la personalità dell’uomo che l’indossava? Presi in mano quel vecchio relitto, girandolo e rigirandolo, un po’ depresso. Era un comunissimo cappello nero della solita forma rotonda, indurito e logorato dall’uso. La fodera era stata di seta rossa, oramai molto scolorita. Non c’era il nome del fabbricante ma, come mi aveva fatto notare Holmes, da un lato erano scarabocchiate le iniziali «H. B.». Nella tesa, appariva un forellino destinato a far passare un elastico per tenere fermo il cappello, ma l’elastico non c’era piú. Per il resto, era screpolato, pieno di

polvere, macchiato in vari punti anche se qualcuno aveva tentato di coprire le zone scolorite con dell’inchiostro. – Non vedo niente, – dissi restituendo il cappello al mio amico. – Al contrario, Watson, lei vede tutto, ma non riflette su ciò che vede. Non ha il coraggio di trarne delle deduzioni. – E allora, mi dica lei cosa deduce da questo cappello. Lo prese in mano, osservandolo con quel suo caratteristico sguardo introspettivo. – Forse, suggerisce meno di quanto avrebbe potuto, – osservò, – eppure, se ne possono dedurre alcuni elementi molto precisi e altri che, quanto meno, sono estremamente probabili. Naturalmente, si vede a prima vista che deve trattarsi di un uomo molto intelligente, che negli ultimi tre anni ha avuto una buona disponibilità finanziaria anche se, recentemente, sta attraversando un periodo molto negativo. Era un individuo previdente ma ora lo è meno, il che denota un regresso morale che, unito al declino finanziario, sembra indicare una qualche influenza negativa, probabilmente l’alcol. E questo potrebbe anche spiegare il fatto evidente che sua moglie non lo ama piú. – Ma mio caro Holmes! – Comunque, ha conservato una certa dignità, – continuò senza badare alle mie rimostranze. – È un uomo che conduce vita sedentaria, esce di rado, è completamente fuori esercizio, è di mezz’età, con i capelli brizzolati, che si è fatto tagliare in questi ultimi giorni, e sui quali mette una lozione al tiglio. Questi sono gli indizi piú evidenti che si possono dedurre dal cappello. Ah, un’altra cosa: molto probabilmente, a casa sua non c’è il gas. – Holmes, certo lei sta scherzando. – Niente affatto. È mai possibile che anche adesso, che le ho esposto i risultati delle mie deduzioni, lei non capisca come ci sono arrivato? – Sarò senz’altro molto stupido ma confesso che non riesco a seguirla. Per esempio, da cosa ha dedotto che si tratta di un uomo intelligente? Per tutta risposta Holmes si mise in testa il cappello che gli scese fino al naso. – È una questione di volume, – disse; – un uomo con una testa cosí grande deve possedere un cervello adeguato.

– E il suo impoverimento? – Questo cappello è vecchio di tre anni. La tesa piatta curvata all’estremità venne di moda allora. È un cappello di qualità eccellente. Guardi la fascia di seta, e la fodera. Se tre anni fa poteva permettersi di acquistare un cappello cosí costoso e da allora non ne ha acquistati altri, significa senza dubbio che è praticamente caduto in miseria. – D’accordo, questo è chiaro. Ma in quanto all’essere previdente, e alla regressione morale? Sherlock Holmes si mise a ridere. – Ecco la previdenza, – disse indicando il dischetto e l’anellino per il ferma-cappello. – Nessun cappello in vendita ce l’ha. Se quest’uomo l’ha espressamente ordinato significa che è dotato di una certa dose di previdenza dal momento che ha voluto prendere le sue precauzioni contro il vento. Ma poiché, come vediamo, l’elastico si è rotto e non si è dato la pena di sostituirlo, ciò significa che è diventato trascurato; d’altro canto, ha cercato di mascherare le macchie coprendole con l’inchiostro, quindi, ha conservato una certa dignità. – Il suo ragionamento non fa una grinza. – C’è poi il fatto che è un uomo di mezz’età, con i capelli brizzolati tagliati di recente, e che usa una lozione al tiglio; tutto questo risulta da un attento esame della parte inferiore della fodera. Con la lente, si vedono molte punte di capelli, tagliate di netto dalle forbici di un barbiere. Appaiono tutte appiccicose e si sente distintamente un odore di linimento al tiglio. Come può vedere, la polvere non è quella grigiastra e granulosa della strada, ma quella marroncina e fioccosa di una casa, il che dimostra che il cappello è rimasto appeso dentro casa per quasi tutto il tempo; mentre le macchie di umido all’interno provano senza alcun dubbio che l’uomo sudava molto e pertanto non poteva certo essere nella forma migliore. – Ma la moglie – lei ha detto che ha smesso di amarlo. – Questo cappello non è stato spazzolato da settimane. Caro Watson, il giorno in cui la vedrò con la polvere di una settimana sul cappello, e in cui sua moglie la lascerà uscire in quello stato, dovrò pensare che anche lei abbia avuto la sfortuna di perdere l’affetto di sua moglie.

– Ma potrebbe essere scapolo. – No. Stava portando a casa un’oca, come offerta di pace per la moglie. Ricordi il biglietto legato alla zampa dell’oca. – Lei ha una risposta per tutto. Ma come diamine può dedurre che in casa sua non ci sia il gas? – Una macchia di cera, magari due, possono essere casuali; ma quando ne conto non meno di cinque penso che non esistano dubbi circa il fatto che quest’uomo è spesso in contatto con le candele – probabilmente la sera sale le scale con il cappello in una mano e una candela accesa nell’altra. Comunque, non si è certo macchiato di cera con il gas. Soddisfatto? – Be’, è tutto molto ingegnoso, – risposi ridendo; – ma dal momento che, come lei ha appena detto, non è stato commesso nessun delitto e l’unico danno è stato la perdita di un’oca, mi sembra che tutto questo sia uno spreco di energia. Sherlock Holmes aveva appena aperto bocca per rispondere quando la porta si spalancò con violenza e il commissario Peterson si precipitò nella stanza con le guance arrossate e l’espressione di chi è in preda allo sbigottimento. – L’oca, signor Holmes! L’oca, signore! – ansimò. – E allora? Che è successo all’oca? È tornata in vita ed è volata via attraverso la finestra della cucina? – Holmes si girò sul divano per guardare meglio il viso sconvolto del commissario. – Guardi, signore! Guardi cosa le ha trovato nel gozzo mia moglie! – Tese la mano, nel cui palmo scintillava una pietra azzurra, poco piú piccola di un fagiolo, ma di una tale purezza e splendore che brillava come una piccola luce elettrica nell’ombra del palmo. Holmes si rizzò a sedere con un fischio. – Per Giove, Peterson! – esclamò, – questo è davvero un tesoro. Immagino lei sappia cosa tiene in mano? – Un diamante, signore? Una pietra preziosa. Taglia il vetro come fosse creta. – È piú che una pietra preziosa. È la pietra preziosa.

– Non il carbonchio azzurro della contessa di Morcar! – esclamai. – Proprio quello. Dovrei conoscerne forma e dimensioni dal momento che di recente, ogni giorno, ne ho letto sul «Times» l’inserzione per ritrovarlo. È una gemma assolutamente unica il cui valore si può solo presumere; ma la ricompensa offerta di 1000 sterline sicuramente non arriva nemmeno alla ventesima parte del prezzo di mercato. – Mille sterline! Signore Iddio benedetto! – Il commissario si lasciò cadere sulla seggiola girando gli occhi sbarrati dall’uno all’altro di noi. – Questa è la ricompensa offerta; e ho motivo di ritenere che esistano anche dei motivi di ordine sentimentale per cui la contessa sarebbe disposta a cedere metà del suo patrimonio pur di rientrare in possesso della gemma. – Se ben ricordo, fu perduta nell’Hotel Cosmopolitan, – osservai. – Esattamente, il 22 dicembre, cinque giorni fa. John Horner, un idraulico, fu accusato di averla rubata dal cofanetto dei gioielli della signora. Le prove a suo carico erano talmente pesanti che il suo caso è finito in Assise. Credo di averne qui un resoconto –. Frugò fra i giornali, controllando le date, e, alla fine, ne prese uno, lisciando le spiegazzature, lo piegò a metà e lesse quanto segue: Furto di gioielli all’Hotel Cosmopolitan. John Horner, 26 anni, idraulico, è stato rimandato a giudizio sotto accusa di avere, il 22 corrente, sottratto dal portagioie della contessa di Morcar una gemma preziosa nota come il carbonchio azzurro. James Ryder, capo del personale dell’albergo, ha testimoniato di avere accompagnato Horner nello spogliatoio della contessa, il giorno del furto, per effettuare una saldatura alla seconda sbarra della grata, che si era allentata. Tornando poi nello spogliatoio, aveva scoperto che Horner se n’era andato, che il comò era stato forzato e che il cofanetto di marocchino nel quale si è poi saputo la contessa era solita custodire i suoi gioielli, era aperto e vuoto, sulla toletta. Ryder diede immediatamente l’allarme e quella sera stessa Horner fu arrestato; ma la pietra non venne trovata né su di lui né nella sua stanza. Catherine Cusak, cameriera personale della contessa, ha testimoniato di aver sentito il grido di sgomento di Ryder nello scoprire il furto e di essersi precipitata nella stanza dove trovò quanto descritto dal testimonio precedente. L’ispettore Bradstreet, della divisione B, ha rilasciato la sua testimonianza circa l’arresto di Horner il quale si era difeso strenuamente, proclamando a gran voce la propria innocenza. Dal momento che a carico del prigioniero risultava una precedente condanna per rapina, il magistrato rifiutò l’istruzione di un processo sommario, rimandando il caso alla Corte d’Assise. Horner, che durante il procedimento aveva dato segni di profondo turbamento, svenne alla lettura della sentenza e fu necessario trasportarlo fuori dall’aula.

– Hum! Questo per quanto riguarda la polizia, – disse Holmes pensieroso,

buttando da parte il giornale. – Ora, il problema che dobbiamo risolvere è la sequenza degli eventi che dalla rapina del portagioie ci portano al gozzo di un’oca in Tottenham Court Road. Vede, Watson, le nostre piccole deduzioni hanno improvvisamente assunto un aspetto piú importante e assai meno innocente. Questa è la pietra; la pietra è venuta dall’oca, e l’oca è venuta dal signor Henry Baker, il gentiluomo col cappello sdrucito e con tutte le altre caratteristiche con le quali l’ho annoiata. Ora, dobbiamo impegnarci seriamente a rintracciare questo signore e accertare quale parte abbia avuto in questo piccolo mistero. E per fare questo, per prima cosa ci conviene ricorrere al sistema piú semplice, vale a dire un annuncio in tutti i giornali della sera. Se questo fallisce, dovrò usare altri sistemi. – Come formulerà l’annuncio? – Mi dia una matita e quel foglio di carta. Dunque vediamo: Rinvenuti all’angolo di Goodge Street, un’oca e un cappello di feltro nero. Il signor Henry Baker potrà rientrarne in possesso recandosi questa sera alle ore 6,30 al numero 221B di Baker Street.

Chiaro e conciso. – Senza dubbio. Ma lo leggerà? – Be’, sicuramente terrà d’occhio i giornali visto che si tratta di una grossa perdita per una persona indigente come lui. Chiaramente, è rimasto cosí spaventato per avere rotto la vetrina e per l’arrivo di Peterson, che il suo unico pensiero è stato quello di fuggire; ma da quel momento deve essersi pentito amaramente di quell’impulso che gli ha fatto perdere l’oca. Inoltre, l’indicazione del suo nome lo porterà senz’altro ad esserne informato dal momento che, chiunque lo conosce, richiamerà la sua attenzione su questo avviso. Ecco, Peterson, faccia una corsa all’agenzia pubblicitaria e faccia pubblicare l’annuncio sui giornali della sera. – Su quali giornali, signore? – Oh, nel «Globe», lo «Star», il «Pall Mall», il «St. James’s», l’«Evening News Standard», l’«Echo», e qualsiasi altro giornale le venga in mente. – Bene, signore. E la pietra? – Ah già, la pietra la terrò io. Grazie. E senta Peterson, quando torna

comperi lungo la strada un’oca da lasciarmi qui, dato che dovremo averne una da dare a questo signore in cambio di quella che ora la sua famiglia si sta mangiando. Quando il commissario fu uscito Holmes prese la pietra e la osservò controluce. – Un oggetto davvero splendido, – disse. – Guardi come scintilla, quali bagliori. Certo, è nucleo e centro focale di delitti. Ogni bella pietra lo è. Sono le esche preferite dal demonio. Nelle gemme piú grandi e piú antiche ogni sfaccettatura rappresenta probabilmente un gesto sanguinoso. Questa pietra risale a meno di vent’anni fa. Venne trovata sulle rive del fiume Amoy nella Cina meridionale e presenta, eccezionalmente, tutte le caratteristiche del carbonchio, tranne che è azzurra anziché rosso rubino. Malgrado sia stata trovata di recente, ha già causato due omicidi, un attacco col vetriolo, un suicidio e svariate rapine – tutto per un pezzo di carbone cristallizzato del peso di quaranta grani. Chi penserebbe mai che un gingillo cosí grazioso possa rifornire forche e prigioni? Lo chiuderò nella mia cassaforte e scriverò due righe alla contessa per farle sapere che l’abbiamo noi. – Crede che questo Horner sia innocente? – Non lo so. – E allora, suppone che l’altro tipo, Henry Baker, abbia avuto qualcosa a che fare con questa faccenda? – Penso sia molto piú probabile che Henry Baker sia del tutto innocente e che nemmeno immaginasse che il volatile che si portava sulla spalla valeva piú che se fosse di oro massiccio. Comunque, questo lo stabilirò in base a una semplicissima prova se avremo una risposta al nostro annuncio. – E fino ad allora non può fare nulla? – Nulla. – In questo caso, completerò il mio giro di visite. Ma tornerò questa sera, all’ora che lei ha indicato, perché vorrei conoscere la soluzione di un affare cosí complicato. – Sarò felicissimo di vederla. Ceno alle sette. Credo che ci sarà una beccaccia. A proposito, considerando i recenti avvenimenti, forse dovrei dire alla signora Hudson di esaminarne bene il gozzo.

Ritardai per via di un paziente che mi aveva preso piú tempo del previsto ed erano da poco passate le sei e mezza quando mi ritrovai a Baker Street. Avvicinandomi alla casa vidi un uomo alto, con un berretto scozzese e un cappotto abbottonato fino al mento, che aspettava fuori, sotto il luminoso semicerchio di luce del fanale. Proprio mentre lo raggiungevo, la porta si aprí e salimmo entrambi alla camera di Holmes. – Il signor Henry Baker, credo, – disse il mio amico alzandosi dalla poltrona e accogliendo l’ospite con quell’aria cordiale che sapeva rapidamente assumere. – Prego, si accomodi qui accanto al fuoco, signor Baker. È una serata fredda e vedo che la sua circolazione è piú adatta all’estate che all’inverno. Ah, Watson, è arrivato proprio al momento giusto. È quello il suo cappello, signor Baker? – Sí, signore; senza alcun dubbio. Baker era un individuo grande e grosso, con le spalle curve, una testa massiccia, un viso largo e intelligente che si affinava in una barbetta appuntita, di color castano brizzolato. Un certo rossore sul naso e sulle guance e un leggero tremito della mano tesa confermavano le ipotesi di Holmes circa le sue abitudini. La finanziera di un nero verdastro era tutta abbottonata, e il colletto era rialzato; i polsi ossuti sporgevano dalle maniche, senza traccia di camicia o polsini. Parlava lentamente, staccando le parole che sceglieva con cura e, in generale, dava l’impressione di un uomo colto, un intellettuale bistrattato dalla sorte. – Abbiamo conservato questi oggetti per qualche giorno, – disse Holmes, – perché pensavamo che avrebbe fatto lei un’inserzione, dando il suo indirizzo. Non capisco per quale motivo non l’abbia fatto. Il nostro ospite fece una risatina imbarazzata. – Non ho piú tutti gli scellini che avevo una volta, – rispose. – Ero sicuro che quella banda di teppisti che mi hanno assalito si fossero portati via sia il cappello che il volatile. Non me la sentivo di buttare dei soldi in un tentativo senza speranza di recuperarli. – Giustissimo. A proposito, per quanto riguarda l’oca, siamo stati costretti a mangiarla.

– Mangiarla! – Il nostro visitatore, tutto agitato, si alzò a mezzo dalla sedia. – Sí, se non l’avessimo fatto non sarebbe piú servita a nessuno. Ma mi auguro che quest’altra oca, lí sulla credenza, che è piú o meno dello stesso peso ed è freschissima, faccia ugualmente al caso suo. – Oh certamente, certamente, – rispose il signor Baker con un sospiro di sollievo. – Naturalmente, abbiamo ancora le penne, le zampe, il gozzo, e cosí via della sua oca, quindi, se vuole... L’uomo scoppiò in una sonora risata. – Potrebbero servirmi come souvenir della mia avventura, – disse, – ma, altrimenti, non vedo proprio cosa ci farei con le disjecta membra della mia povera amica. No signore, col suo permesso, limiterò la mia attenzione a quel bellissimo volatile che vedo sulla credenza. Sherlock Holmes mi lanciò una rapida occhiata, stringendosi leggermente nelle spalle. – Eccole il suo cappello, allora, e la sua oca, – disse. – A proposito, le spiacerebbe dirmi dove aveva acquistato l’altra? Sono un appassionato di cacciagione e raramente avevo visto un’oca meglio nutrita. – Ma certo, signore, – disse Baker che frattanto si era alzato, mettendosi sotto il braccio il suo nuovo pranzo. – Alcuni di noi frequentano l’Alpha Inn, accanto al Museum – sa, durante il giorno, siamo reperibili all’interno del museo stesso. Quest’anno il nostro cortese anfitrione, si chiama Windigate, ha istituito un circolo dell’oca per cui, dietro versamento di pochi pence alla settimana, ciascuno di noi riceve un volatile a Natale. Io avevo regolarmente pagato la mia quota; il resto lo sa. Le sono infinitamente grato, signore; vede, un berretto scozzese non è adatto né alla mia età né alla mia dignità –. Ci fece un inchino, con comica cerimoniosità, e se ne andò per i fatti suoi. – E questo è quanto, per il signor Henry Baker, – disse Holmes quando la porta si chiuse alle spalle dell’ospite. – È chiaro che è completamente all’oscuro di tutta la faccenda. Ha molta fame, Watson?

– Non particolarmente. – Proporrei allora di trasformare il nostro pranzo in una cena e di seguire questa traccia finché è calda. – Per me va benissimo. Era una serata gelida, quindi indossammo i cappotti pesanti, avvolgendoci una sciarpa intorno al collo. Fuori, le stelle spargevano il loro freddo splendore in un cielo senza nubi e il respiro dei passanti si condensava in nuvolette di fumo, quasi altrettanti sbuffi di pistola. I nostri passi risuonavano secchi e sonori mentre attraversavamo il quartiere dei medici, Wimpole Street, Harley Street e, attraverso Wigmore Street, raggiungemmo Oxford Street. Entro un quarto d’ora, eravamo a Bloomsbury, all’Alpha Inn, un minuscolo pub all’angolo di una delle strade che sboccano a Holborn. Holmes aprí la porta della saletta privata e ordinò due birre al padrone, dal viso rubicondo, paludato nel suo grembiule bianco. – Se la vostra birra è come le vostre oche, dev’essere eccellente, – disse. – Le mie oche! – L’uomo sembrò sorpreso. – Già. Non piú di mezz’ora fa stavo parlando col signor Henry Baker, socio del vostro circolo dell’oca. – Ah! Sí, capisco. Ma vede, signore, le oche non sono nostre. – Davvero? E allora di chi sono? – Be’, quelle due dozzine le ho acquistate da un venditore a Covent Garden. – Ma no! Ne conosco qualcuno. Di chi si trattava? – Di un certo Breckinridge. – Ah! Quello non lo conosco. Be’, alla vostra salute, padrone, e buona fortuna al vostro pub. Buona notte. E adesso, vediamo il signor Breckinridge, – continuò abbottonandosi il cappotto mentre uscivamo nella sera gelida. – Ricordi, Watson, che, se a un’estremità della catena abbiamo un oggetto casalingo come un’oca, all’altra abbiamo un uomo che sicuramente verrà condannato a sette anni di lavori forzati se non riusciremo a dimostrare la sua innocenza. È anche possibile che

le nostre indagini provino la sua colpevolezza; comunque, abbiamo una linea d’investigazione che è sfuggita alla polizia e che, per uno strano caso, ci è caduta in mano. Seguiamola fino alla fine. Direzione sud, dunque, avanti, march! Attraversammo Holborn, scendemmo per Endell Street e, passando per un dedalo di bassifondi tortuosi, arrivammo al Mercato di Covent Garden. Su uno dei banchi piú grandi campeggiava il nome Breckinridge e il proprietario, un’individuo dall’aria cavallina, col viso affilato fra le basette ben curate, stava aiutando un ragazzo a montare le saracinesche di chiusura. – Buona sera. Fa molto freddo, – disse Holmes. Il bottegaio fece un cenno di assenso al tempo stesso lanciando uno sguardo interrogativo al mio amico. – A quanto vedo, ha venduto tutte le oche, – proseguí Holmes indicando i ripiani di marmo vuoti. – Per domattina gliene posso procurare cinquecento. – Non mi va bene. – Ce n’è qualcuna in quel banco con il gas acceso. – Ah, ma mi hanno consigliato di rivolgermi a lei. – Chi gliel’ha consigliato? – Il proprietario dell’Alpha. – Ah, quello; gliene ho mandato un paio di dozzine. – Ed erano molto belle. Dove le aveva prese? Con mia grande sorpresa, la domanda provocò uno scoppio d’ira da parte del bottegaio. – Senta un po’, signore, – disse chinando la testa da una parte, con le mani sui fianchi, – dove vuole andare a parare? Avanti, sentiamo la verità. – Una verità molto semplice. Vorrei sapere chi le ha fornito le oche che lei ha venduto all’Alpha. – Sta bene. E io non glielo dico. E allora? – Oh, non ha importanza, ma non vedo perché lei si riscaldi tanto per una simile sciocchezza.

– Mi riscaldo! Si riscalderebbe anche lei, se le levassero il fiato. Quando pago soldi buoni per buona merce, la cosa dovrebbe finire lí; e invece, è un continuo «Dove sono le oche?», «A chi ha venduto le oche?», «Quanto vuole per queste oche?» A giudicare dal clamore, si direbbe che fossero le uniche oche del mondo. – Be’, io non ho nulla a che fare con chiunque altro sia venuto a indagare, – rispose Holmes con aria indifferente. – Se non vuole dircelo, la scommessa è annullata, ecco tutto. Ma sono sempre pronto a sostenere la mia opinione in fatto di volatili, e avevo scommesso che l’oca che ho mangiato era stata allevata in campagna. – Be’, ha perso la scommessa, perché è stata allevata in città, – ribatté il bottegaio. – È assolutamente impossibile. – Le dico di sí. – Non ci credo. – Crede di saperne piú di me, che tratto volatili da quando ero alto cosí? Le ripeto che tutte le oche che ho venduto all’Alpha erano state allevate in città. – Non riuscirà mai a farmelo credere. – Vuole scommettere? – Sarebbe come rubarle i soldi, perché so di avere ragione. Ma ci metto una sovrana, tanto per insegnarle a non essere ostinato. Il bottegaio ridacchiò con aria arcigna. – Portami i registri, Bill, – disse. Il ragazzino portò un volumetto sottile e uno piú grosso, dal dorso bisunto, e li mise sotto la lampada appesa. – Allora, signor Sotutto, – disse il bottegaio, – credevo di aver finito le oche ma fra un po’ vedrà che ne è rimasta ancora una. Vede questo libretto? – E allora? – È l’elenco dei miei fornitori. Capito? Ecco, su questa pagina ci sono i fornitori di campagna, e i numeri scritti dopo il nome indicano le pagine del registro dove figura la loro contabilità. Dunque! Vede quest’altra pagina in

inchiostro rosso? Be’, è l’elenco dei miei fornitori di città. Avanti, guardi il terzo nome. Lo legga a voce alta. – Signora Oakshott, 117 Brixton Road – 249, – lesse Holmes. – Esatto. E adesso, vada alla pagina 249 del registro. Holmes cercò la pagina indicata. – Eccola, signora Oakshott, 117 Brixton Road, fornitura di uova e pollame. – Allora, qual è l’ultima voce segnata? – 22 dicembre. Ventiquattro oche a 7 scellini e 6 pence. – Benissimo. Vede? E cosa c’è scritto sotto? – Vendute al signor Windigate, dell’Alpha, a 12 scellini. – E adesso che mi dice? Holmes appariva mortificatissimo. Cavò di tasca una sovrana e la buttò sul banco, girando sui tacchi con l’aria di chi è disgustato oltre ogni dire. Pochi metri dopo, si fermò sotto un lampione scoppiando a ridere in quel suo particolare modo divertito e silenzioso. – Quando vede un tipo con le basette tagliate a quel modo e il collo di una bottiglietta di gin che gli spunta dalla tasca, stia pur certo che è sempre pronto a scommettere, – disse. – Sono certo che se gli avessi messo davanti una banconota da cento sterline non mi avrebbe dato informazioni cosí complete come quelle che gli ho cavato di bocca facendogli credere che avrebbe guadagnato la scommessa. Bene, Watson, penso proprio che siamo alla fine delle nostre ricerche; l’unica cosa che rimane da decidere è se dobbiamo andare da questa signora Oakshott stasera, o rimandare la nostra visita a domattina. Da quanto ci ha detto quell’individuo scorbutico è chiaro che altri, oltre noi, sono interessati alla faccenda, e dovrei... Le sue parole furono improvvisamente interrotte da un tumulto proveniente dal banco che avevamo appena lasciato. Voltandoci, vedemmo un tizio dalla faccia di topo ritto al centro del cerchio di luce gialla proiettato dalla lampada che ondeggiava mentre Breckinridge, il bottegaio, stagliato contro l’apertura del banco, scuoteva il pugno contro l’ometto intimorito. – Ne ho abbastanza di voi e delle vostre oche, – gridava. – Andate tutti

all’inferno. Se venite ancora a rompermi le scatole con le vostre stupide domande, vi scateno contro il cane. Mi porti qui la signora Oakshott e le risponderò, ma lei che c’entra? Ho forse comprato le oche da lei? – No; ma comunque una apparteneva a me, – protestò l’ometto con voce piagnucolosa. – Be’, allora la chieda alla signora Oakshott. – La signora mi ha detto di chiederlo a lei. – Può chiederlo al re di Prussia, per quanto me n’importa. Ne ho abbastanza. Si levi dai piedi! – Avanzò minaccioso e l’ometto si dileguò rapidamente nel buio. – Ah! Questo forse ci risparmia una visita a Brixton Road, – sussurrò Holmes. – Venga con me, e vediamo cosa possiamo cavare da quel tizio –. Attraversando a grandi passi i piccoli capannelli di sfaccendati che si attardavano intorno ai banchi ancora illuminati, il mio amico raggiunse ben presto l’ometto e gli batté sulla spalla. Questi fece un salto e, al chiarore del lampione, potei vedere che il suo viso perdeva ogni traccia di colore. – Lei chi è? Che cosa vuole? – chiese con voce tremante. – Mi scusi, – rispose placido Holmes, – ma non ho potuto fare a meno di sentire quello che poco fa ha domandato al bottegaio. Penso di poterla aiutare. – Lei? Chi è lei? Come può saperne qualcosa? – Mi chiamo Sherlock Holmes. Il mio mestiere è sapere quello che gli altri non sanno. – Ma di questo non può saperne niente! – Mi scusi, ma di questo so tutto. Lei sta cercando di rintracciare delle oche che la signora Oakshott, di Brixton Road, ha venduto a un commerciante di nome Breckinridge, il quale le ha vendute al signor Windigate, della Alpha, che, a sua volta le ha vendute al circolo di cui è socio il signor Henry Baker. – Oh, signore, lei è proprio la persona che cercavo, – esclamò l’ometto tendendo le mani tremanti. – Non potrei spiegarle fino a che punto sono

interessato in questa storia. Holmes fece cenno a una carrozza di passaggio. – In questo caso, meglio parlarne in una stanza comoda anziché in questo mercato ventoso, – disse. – Ma, prima di proseguire, mi dica per favore con chi ho il piacere di parlare. L’uomo ebbe un attimo di esitazione. – Mi chiamo John Robinson, – rispose con un’occhiata obliqua. – No, no; il suo vero nome, – disse con estrema cortesia Holmes. – È sempre difficile trattare affari con chi dà un falso nome. Un subitaneo rossore imporporò le guance dello sconosciuto. – Va bene, allora, – disse, – in realtà mi chiamo James Ryder. – Esattamente. Assistente capo all’Hotel Cosmopolitan. Prego, si accomodi nella carrozza, e fra poco potrò dirle tutto quanto desidera sapere. L’ometto girava gli occhi dall’uno all’altro di noi con espressione fra spaventata e speranzosa come chi si domanda se è sull’orlo di un colpo di fortuna o di una catastrofe. Poi salí in carrozza e, mezz’ora dopo, eravamo nel soggiorno, a Baker Street. Nessuno aveva parlato durante il tragitto ma il respiro sottile e ansimante del nostro compagno e quel suo intrecciare e, sciogliere le dita indicavano come fosse in uno stato di estrema tensione. – Eccoci arrivati! – disse allegramente Holmes mentre entravamo nella stanza. – Con questo tempo, il fuoco ci sta proprio bene. Ha l’aria intirizzita, signor Ryder. Prego, si accomodi nella poltroncina. Io vado a mettermi in pantofole prima di sistemare il suo piccolo problema. Allora! Vuol sapere cosa ne è stato di quelle oche? – Sí, signore. – O, immagino, sarebbe meglio dire di quell’oca. Credo sia un’oca che a lei interessa – un’oca bianca con una striscia nera sulla coda. Ryder ebbe un fremito di emozione. – Oh, signore, – esclamò, – può dirmi che fine ha fatto? – È arrivata qui. – Qui? – Sí, e devo dire che si è dimostrato un volatile piuttosto insolito. Non mi meraviglia che le interessi tanto. Ha fatto un uovo, dopo morta – il piú

bell’ovetto azzurro e scintillante che io abbia mai visto. È qui, nella mia raccolta. Il nostro ospite si alzò barcollando, afferrando con la mano destra la mensola del caminetto. Holmes aprí la cassaforte e tenne davanti ai nostri occhi il carbonchio azzurro che brillava come una stella, lanciando riflessi freddi e luminosi. Ryder rimase a guardarlo con gli occhi spalancai e il viso tirato, incerto se affermarne o negarne la proprietà. – Il gioco è finito, Ryder, – disse pacatamente Holmes. – Stia dritto, amico, o finirà nel caminetto! Lo aiuti a sedersi, Watson. Non ha abbastanza sangue nelle vene per dedicarsi impunemente al crimine. Gli dia un goccio di brandy. Cosí! Adesso sta riprendendo un aspetto umano. È proprio un ometto da quattro soldi! Per un momento aveva vacillato ed era quasi caduto ma il brandy gli riportò un po’ di colore sul viso e si sedette guardando con occhi terrorizzati il suo accusatore. – Ho in mano quasi tutti i fili e tutte le prove possibili, quindi lei ha ben poco da dirmi. Ma quel poco potrebbe servire a risolvere definitivamente il caso. Lei, Ryder, aveva sentito parlare di questa pietra azzurra appartenente alla contessa di Morcar? – Me ne ha parlato Catherine Cusak, – disse con voce spezzata. – Capisco – la cameriera personale di sua signoria. Bene, la tentazione di una ricchezza cosí improvvisa e cosí a portata di mano è stata troppo forte per lei, come lo è stata per uomini migliori prima di lei; ma non si è fatto molti scrupoli circa i suoi mezzi. Ho l’impressione, Ryder, che in lei ci sia decisamente la stoffa del farabutto. Sapeva che l’idraulico, Horner, era già stato coinvolto in casi del genere e che sarebbe stato il primo su cui sarebbero caduti i sospetti. Che ha fatto, allora? Ha fatto qualche lavoretto nella camera di sua signoria – lei e la sua complice Cusak – poi si è assicurato che fosse proprio Horner l’uomo mandato a chiamare. E quando se ne è andato, lei ha svuotato il portagioie, ha dato l’allarme, e ha fatto arrestare quel poveraccio. Poi... Ryder si era gettato improvvisamente sul tappeto aggrappandosi alle

ginocchia del mio amico. – Per amor di Dio, abbia pietà! – gridò. – Pensi a mio padre! A mia madre! Gli si spezzerebbe il cuore. Non avevo mai fatto niente di male fino a quel momento! E non lo farò mai piú, lo giuro! Sono pronto a giurarlo sulla Bibbia. Non mi trascini in tribunale! Per amor di Dio, non lo faccia! – Si rimetta a sedere, – disse Holmes in tono severo. – È facile pentirsi e invocare perdono adesso, ma non ha certo avuto molta compassione per quel povero Horner, in galera per un crimine di cui non sa assolutamente niente. – Partirò, signor Holmes. Lascerò il paese, signore. Cosí cadrà l’accusa contro di lui. – Hum! Di questo ne riparleremo. E adesso, sentiamo un resoconto sincero del secondo atto. Come è finita la pietra nell’oca, e come è finita l’oca al mercato? Ci dica la verità, perché la verità è l’unica sua speranza di salvezza. Ryder si passò la lingua sulle labbra aride. – Le dirò esattamente ciò che è accaduto, signore, – disse. – Quando Horner venne arrestato, ritenni piú prudente sparire subito con la pietra perché non sapevo in quale momento potesse venire in mente alla polizia di perquisire me e la mia stanza. Nell’albergo, non c’era un nascondiglio sicuro. Uscii con la scusa di qualche commissione, e mi diressi a casa di mia sorella. Lei ha sposato un certo Oakshott e abita a Brixton Road, dove ingrassa pollame per il mercato. Lungo la strada, ogni uomo che incontravo mi sembrava un poliziotto o un detective; e, anche se era una serata molto fredda, ero fradicio di sudore prima ancora di arrivare a Brixton Road. Mia sorella mi domandò cosa avessi, perché fossi cosí pallido; ma le raccontai che ero rimasto sconvolto dal furto di gioielli in albergo. Poi, me ne andai nel cortile sul retro a fumare la pipa e a pensare al da farsi. Una volta avevo un amico, un certo Maudsley, che aveva preso una cattiva strada e aveva scontato la sua pena a Pentonville. Un giorno ci incontrammo e cominciammo a parlare di ladri, e di come era possibile liberarsi della refurtiva. Sapevo che mi avrebbe aiutato perché ero a conoscenza di un paio di cosette su di lui; decisi cosí di recarmi a Kilburn, dove abitava, e di confidargli tutto. Mi avrebbe indicato il modo di convertire la gemma in

denaro. Ma come arrivare da lui senza pericolo? Pensai a tutte le angosce che avevo affrontato venendo fin lí dall’albergo. In qualsiasi momento potevo essere fermato e perquisito, e la pietra stava nella tasca del panciotto. Mentre riflettevo, mi ero appoggiato al muro osservando le oche che mi girellavano fra i piedi e improvvisamente mi venne l’idea di come avrei potuto battere il miglior detective del mondo. Qualche settimana prima, mia sorella mi aveva detto che avrei potuto scegliere una delle sue oche come regalo di Natale, e sapevo che era una donna di parola. Mi sarei preso l’oca adesso e avrei portato la pietra a Kilburn dentro l’animale. Nel cortile c’era una piccola baracca e spinsi dietro di essa una delle oche – una bella oca bianca con una striscia sulla coda. La afferrai, le aprii a forza il becco, e spinsi dentro la pietra, fin dove potei arrivare con le dita. L’animale ebbe un singhiozzo e sentii che la pietra le passava in gola finendo nel gozzo. Ma l’oca si dimenava sbattendo le ali e mia sorella uscí per vedere cosa stava succedendo. Mentre mi voltavo per risponderle, quella bestiaccia riuscí a sfuggirmi e starnazzò via, mescolandosi con le altre. – Che diamine stavi facendo con quell’oca, Jem?– mi disse. – Be’, – risposi, – hai detto che me ne avresti data una per Natale e stavo sentendo qual era la piú grassa. – Oh, – mi disse, – la tua l’abbiamo già messa da parte – l’oca di Jem, la chiamiamo. È quella grossa oca bianca, laggiú. Ce ne sono ventisei, che fa una per te, una per noi, e due dozzine per il mercato. – Grazie, Maggie, – risposi; – ma se per te è lo stesso, preferirei avere quella che avevo fra le mani poco fa. – Ma l’altra pesa tre libbre abbondanti in piú e l’abbiamo ingrassata apposta per te, – osservò mia sorella. – Non importa. Preferisco l’altra, e la prendo adesso, – le dissi. – Fa’ un po’ come ti pare, – esclamò mia sorella piuttosto seccata. – Allora, qual è quella che vuoi? – Quella bianca con la striscia sulla coda, proprio in mezzo al branco. – Benissimo. Ammazzala e portatela via. Be’, feci come mi aveva detto, signor Holmes, e mi portai l’animale per

tutta la strada fino a Kilburn. Raccontai al mio amico ciò che avevo fatto, perché era il tipo al quale certe cose si possono dire. Rise fino alle lacrime, poi prendemmo un coltello e aprimmo l’oca. Mi venne quasi un colpo perché non c’era traccia della pietra e mi resi conto che c’era stato un terribile sbaglio. Lasciai il volatile, tornai di corsa da mia sorella e mi precipitai nel cortile. Ma le oche erano sparite. – Dove sono finite, Maggie? – le chiesi. – Dal compratore, Jem. – Quale compratore? – Breckinridge, a Covent Garden. – Ma c’era un’altra oca con la striscia sulla coda? – chiesi, – uguale a quella che ho scelto? – Sí, Jem; ce n’erano due con la striscia sulla coda e non riuscivo mai a distinguere l’una dall’altra. Naturalmente, capii come erano andate le cose, e corsi piú presto che potevo da quel Breckinridge; ma lui aveva già venduto tutte e ventiquattro le oche, e rifiutò assolutamente di dirmi a chi. Lo ha sentito lei stesso, questa sera. Be’, mi ha sempre risposto in quel modo. Mia sorella crede che io stia diventando matto. A volte, lo penso anch’io. E adesso – adesso, sono bollato come un ladro senza aver nemmeno toccato quella ricchezza per cui mi sono giocato la reputazione. Che Dio mi aiuti! Che Dio mi aiuti! – Scoppiò in singhiozzi convulsi prendendosi il viso fra le mani. Ci fu un lungo silenzio, rotto solamente dal suo ansimare e dal tamburellare delle dita di Holmes sull’orlo del tavolo. Alla fine, il mio amico si alzò e aprí la porta. – Fuori! – disse. – Come, signore? Oh, che il cielo la benedica! – Basta con le parole. Fuori! E altre parole non furono necessarie. Ci fu uno scalpiccio, un rumore di passi precipitosi giú per le scale, il rumore della porta che sbatteva e il suono delle scarpe che correvano lungo la strada. – Dopo tutto, Watson, – osservò Holmes allungando la mano a prendere

la pipa, – la polizia non mi paga per supplire alle loro manchevolezze. Se Horner fosse in pericolo, la faccenda sarebbe diversa; ma questo tipo non si presenterà a testimoniare contro di lui e l’accusa sarà lasciata cadere. Suppongo che sto compiendo qualcosa di illegale, ma può anche darsi che io stia salvando un’anima. Quell’individuo righerà dritto d’ora in poi; è troppo spaventato. Mandarlo in galera adesso vorrebbe dire farne un avanzo di galera a vita. Inoltre, è la stagione del perdono. Il caso ci ha messo di fronte a un problema molto strano e bizzarro, e la soluzione ne è la ricompensa. Se vuole avere la cortesia di suonare il campanello, dottore, daremo il via a un’altra indagine e anche in questa l’elemento principale sarà un’oca.

Sad Christmas

Eduardo Galeano Notte di Natale

Fernando Silva dirige l’ospedale pediatrico di Managua. Una vigilia di Natale rimase a lavorare fino a tardi. Si sentivano già gli scoppi dei razzi, e i lampi dei fuochi d’artificio illuminavano il cielo, quando Fernando si decise ad andarsene a casa, dove lo aspettavano per la festa. Mentre stava facendo un ultimo giro attraverso le corsie per vedere se tutto era in ordine, sentí d’un tratto un lieve rumore di passi alle spalle. Passettini di bambagia. Si volse, e vide uno dei piccoli pazienti che lo seguiva. Nella penombra, lo riconobbe, era un bambino che non aveva nessuno. Fernando riconobbe quel viso già segnato dalla morte e gli occhi che chiedevano scusa, o forse chiedevano permesso. Fernando gli andò vicino e il bimbo lo sfiorò con la mano: – Diglielo... – sussurrò. – Di’ a qualcuno che io sono qui.

Guido Gozzano Un Natale a Ceylon

Adam’s Peak. Ceylon. 25 dicembre... Lento martirio del risveglio sotto questi climi! La coscienza, intorpidita dall’atmosfera di serra calda, si ridesta penosamente come una ribalta che s’illumini a scatti successivi ed improvvisi; si direbbe che nel sonno essa abbia abbandonato il corpo, si sia involata per il paese remotissimo delle sue nostalgie e debba ora riguadagnare in pochi secondi la spaventosa distanza, ritrovarsi la via tra lobo e lobo del cervello; la ragione, invece, già vigile e desta, assiste a quel tormento, indaga, commenta, deride: «È vano che tu m’illuda, o vagabonda notturna! Sono a Ceylon, so d’essere a Ceylon! – È vano che tu mi porti ad ogni risveglio un lembo di paesaggio ligure o canavesano, il sorriso d’un amico, il profilo di mia madre... So di sognare. Questo suono fioco di campane che tu fingi per ricordarmi la patria, imita assai bene il clangore natalizio quando la bufera di neve lo investe turbinando. Ma non è vero. Vero è soltanto il coro assordante e rauco dei pappagalli e delle scimmie sul tetto del mio bungalow. Fra pochi secondi mi sveglierò a Ceylon, nel mio rifugio solitario, in piena foresta tropicale...» Mi sveglio. Sono a Ceylon. Ho gli occhi bene aperti; vedo attraverso il velo bianco gli arredi della stanza, la figura di Patrick, in piedi, che attende col vassoio del tè: son ben desto; ma, attraverso il coro della foresta, continua il clangore fioco delle campane; scosto la zanzariera, balzo dal letto con tale volto sorpreso che il vecchio boy cingalese s’inquieta: – What is the matter with you, master? – Niente caro. Sto benissimo, ma che cosa è questo suono?

– The Christmas! il Natale! È la messa delle sei, alle Missioni di Kandy. Fin quassú giunge, nell’aria immobile, il suono di Kandy, lontana sei ore, in fondo alla valle... Patrick è cristiano. Benché porti i radi capelli grigi avvolti in trecciuole sotto il pettine cingalese di tartaruga ricurva, benché non abbia altra veste che il gonnellino muliebre a scacchi rossi ed azzurri, egli ha sul petto ignudo, appesi tra gli amuleti contro i veleni, i cobra, i malefizi, uno scapolare di celluloide e una crocetta d’argento. È un puro ariano, dalla nobile faccia socratica che mi ricorda terribilmente un mio illustre insegnante di Università, tanto che ancora non riesco a vincere una certa esitanza, quando devo ordinargli di prepararmi il bagno o di lucidarmi i gambali. – The Christmas, the Christmas! Sentite le campane? È Matthew, l’altro boy che entra esultando, con tutti i suoi denti bianchi abbaglianti nel bronzo del viso. È giovanissimo Matthew, ha vent’anni e parla sette lingue; è un buon cacciatore ed è un ottimo cuoco; nessuno sa meglio di lui rammollire e friggere il legno del traveller-palm o cucinare la carne del pangolino squamoso o del vampiro rossetta. Con questi due compagni e il guardiano del bungalow – appena sufficienti in questi climi dove il lavoro è frazionato per età e per caste – abito da quasi un mese l’ultima rest-house offerta al viaggiatore dalla mirabile previdenza britanna. A Colombo, a Kandy, fra le gaie lusinghe degli hotels cosmopoliti, ho sciupato molto tempo e danaro (troppo danaro per un letterato entomologo, non lautamente munito dalle patrie lettere e dai patrii musei) e devo ai buoni uffici del Console d’Olanda presso il governo cingalese questo rifugio beato, favorevole piú di ogni altro alle mie ricerche. È minuscola e modesta questa rest-house sul Picco d’Adamo e non m’inorgoglisce il pensiero che v’ha pernottato il Kronprinz, lo scorso anno, quando venne a Ceylon per la caccia all’elefante. Oimè, la dimora non è imperiale! Ha una lindezza squallida di stazione ferroviaria e di casetta nipponica ad un sol piano, come tutte le costruzioni dei tropici, circondata da una veranda a colonnette bianche, dal tetto ampiamente proteso; a sera si abbassa una grata a saracinesca che si chiude intorno premunendoci contro le

visite dei felini. In Europa gli uomini mettono le tigri in gabbia, qui sono le tigri che costringono in gabbia gli uomini; non la tigre, veramente, che manca in queste foreste, ma il leopardo e la pantera nera cingalese, temibilissima. Le stanze sono disposte attorno ad un cortiletto, un piccolo patium centrale e sono di una malinconia indescrivibile, in muratura bianca di calce fino a mezza parete, dalla metà in su in legno traforato a giorno e aperte, cosí, al minimo soffio ristoratore, v’entrano liberamente i piccoli alati della jungla, i passeri bengalini, con la fiducia incredibile che hanno per l’uomo gli animali dell’India. Una camera da letto d’una semplicità da certosino, una sala con qualche pretesa europea, una cucina e una vasta dispensa che ho adibita a laboratorio con le mie casse e i miei barattoli; dinnanzi alla casa un giardinetto derisorio, con un’aiuola triangolare dove il guardiano cura con grande amore alcuni grami germi d’Europa, storditi dal clima e umiliati dalla flora circostante: in quest’eremo mi raggiunge stamane il clangore remotissimo delle Missioni. E per la prima volta, dacché sono lontano dalla patria, sento in cuore una trafittura leggera appena percettibile, ma insistente e importuna come il primo rodío del dente cariato: è la nostalgia! Ed io mi vantavo d’esserne immune! Oimé, ci si può illudere d’essere un Robinson e un cenobita buddista, ma non si può scomporre la nostra sostanza prima, la quale è non soltanto per ciò che è, ma per ciò che è stata; e non si eliminano dal mistero della nostra psiche millenni e millenni di evoluzione europea e venti secoli di cristianesimo... La nostalgia, il male tremendo ed indescrivibile fatto di sentimenti indefiniti simili all’ansia ed al rimorso! Esco all’aperto, ristorato dal bagno, per distrarmi al risveglio della foresta, delizia e meraviglia sempre nuova ai miei occhi europei. Seguo un sentiero appena tracciato nella densità del verde, ma per la prima volta questa natura paradisiaca m’appare ostile, inquietante come un paesaggio antidiluviano, sul quale debba profilarsi un pleosauro od un iguanodonte. Attraverso l’intrico della flora demente, dalla profondità delle valli, giunge ancora una volta il suono delle campane delle Missioni, poi tace e mai mi son sentito cosí solo,

benché Patrick e Matthew mi seguano recando il fucile, le reti, le pinze. Ma quest’oggi non uccideremo. È nato nella mia terra il fratello di Guatama: la Bontà Suprema, che ogni tanti millenni s’incarna e culmina in un uomo, s’è «destata» un’altra volta in uno «svegliato». Avanziamo in questi stretti sentieri simili a corridoi nel verde, scavati dalle escursioni notturne degli elefanti selvaggi. Sono le otto del mattino: la mezzanotte è dunque imminente in Italia, le mense a quest’ora s’inghirlandano di vischio e d’agrifoglio, le finestre s’illuminano nelle tenebre glaciali, nevose della notte sacra. Qui è un mattino estivo, una luce abbagliante che giunge mitigata dalle cupole delle felci arborescenti, come un verde tremolio sottomarino; è il tepore di serra calda che dura eterno su questa fascia equatoriale della terra, una quinta stagione senza nome ch’io chiamerei Euforia: la demenza beata che accompagna le agonie senza fine di certi consunti. In questo tepore eterno, mitigato nella sera o nella notte da un’ora di pioggia torrenziale, la flora raggiunge misure, linee, tinte incredibili; e questa bellezza e questa stagione che non mutano, aggiungono alla mia nostalgia d’oggi un altro sgomento fatto di pensieri indefinibili: le primavere, dunque, le estati, gli autunni, gl’inverni immortalati nei capolavori della poesia, della pittura, della musica europea, non sono che il prodotto d’una latitudine – tristezza, relatività di tutte le cose, anche di quelle che veneriamo come divine ed immortali – tristezza ancora piú profonda al pensiero che questa terra perennemente verde non è che la sottile zona d’un’estate eterna che copriva, all’inizio, tutto il nostro globo – sgomento puerile, ma invincibile al pensiero che la nostra patria è già immersa nella curva della terra che si spegne, che l’inverno, la notte glaciale nevosa che l’avvolge in questo mio chiaro mattino è già l’imagine della notte glaciale eterna che s’avanzerà nei tempi e guadagnerà i tropici e raggiungerà fin su questa zona privilegiata l’ultimo esemplare dell’umanità moribonda... Non è gaio il mio Natale, e la flora che mi circonda non è consolatrice, mi ricorda di continuo la spaventosa distanza dalla patria; l’illusione non è possibile nemmeno limitando lo sguardo in terra; il piede s’avanza ora fra muschi, licheni mostruosi, simili a polipi o a masse madreporiche, ora passa

sul tappeto cinerino della mimosa azzurra cingalese e il passo lascia una strana impronta che s’allarga in pochi secondi, con la contrazione dolorosa del mollusco offeso. Ai lati, in alto è il tripudio della flora vegetale e della flora vivente: strani insetti (fasmidae, phillum, ecc.) imitano i rami e le foglie, farfalle enormi abbagliano nel volo, come una brace verde e azzurra e, posate, si chiudono in un grigiore di foglia morta. Fiori strani, petali di carne rosea e sanguigna, di porcellana candida o azzurra, fiori che nessuna parentela hanno con i nostri, foglie piú belle dei fiori, a cuore, a calice, a scudo, lobate, dentate, frangiate: bianche venate d’azzurro e di rosso; rosse venate di bianco e di violetto, felci arboree agili come zampilli verdi, felci nane, capillarie fluttuanti nell’aria, come in fondo ad un acquario; e tutto è immutato, come ai tempi delle origini, quando non era l’uomo e non era il dolore... Le undici. Il sole è quasi a picco: il paesaggio favoloso si scompone nelle lontananze verdi, al gioco dei miraggi; i tronchi serpeggiano nell’aria che si dissolve tremando come l’acqua d’un rivo. Rientro nel bungalow. Ma sulla soglia Matthew che mi precede s’arresta con alte grida di paura e di giubilo: – Cobra! Cobra! The best wish for you! Il migliore augurio per voi! Strana fantasia dell’India, che ha simbolizzata la speranza gioiosa in questo messaggero di morte certa! – Skatura – Tka: «ancora – sette – passi» lo chiamano i cingalesi, perché, si dice, la vittima barcolla sette passi ancora, poi cade irrigidita. È certo tra i rettili piú micidiali, ma la sua apparenza non è formidabile. Questo che m’accoglie nel mio giardino è grosso poco piú d’una biscia e fuggirebbe molto volentieri se il boy non gli balzasse intorno impaurendolo con le grida e con la rete; il cobra s’è raccolto a spire, erigendosi a mezzo il corpo con la gola gonfia, espansa dall’ira e la piccola testa triangolare dagli occhi rossi come rubini, dalla lingua bifida dardeggiante, gira intorno su se stessa, vigilando l’uomo, pronta alle difese. Ma l’uomo lo lascia e il rettile si snoda, s’allunga, dispare nel folto; sia grazie anche a lui in questo giorno di Natività... A tavola, solo. La saletta mi dà qualche illusione d’Europa, illusione che accresce, non mitiga la mia nostalgia. È singolare il contrasto fra la lindezza tropicale, le pareti bianche di calce, traforate a mezzo, fino al soffitto, e la

pesantezza presuntuosa e vetusta dello scarso arredo che ricorda le sale d’aspetto di certi dottori o di certi curati; quattro sedie in giunco, un divano esalante da troppe ferite l’anima di stoppa, una mensola Impero con sopra un pendolo Robert di qualche pregio, uno scaffale con una bibbia enorme, alle pareti un’oleografia moderna dei Reali d’Inghilterra e due incisioni antiche: Amsterdam del secolo XVII: cose tolte a qualche vecchio bungalow e giunte a Ceylon al tempo della dominazione olandese, quando i mercanti fiamminghi giungevano all’isola favolosa, non anco ben definita sugli atlanti, dopo un anno d’avventure su velieri mai fidi, circumnavigando l’Africa e l’India... Patrick e Matthew vengono e vanno silenziosi, vigilando ogni mio gesto con quello zelo devoto che è la grande virtú dei servi indiani e la meraviglia di tutti i viaggiatori. Matthew ha posto in mezzo al tavolo, dentro una latta per conserve, un fascio enorme d’orchidee, raccolte nella gita di stamane, e un piatto di manghi enormi. Mi sono avvezzo agli strani frutti che si spaccano offrendo una polpa gelida, mantecata come un sorbetto, odorosa di muschio e di creosoto: strani frutti che si direbbero preparati da un confettiere, da un profumiere, da un farmacista. E da un orefice si direbbero ideate le orchidee che ho dinnanzi: petali di lacca policroma, polverizzata di mica, gole fantastiche e sogghignanti di draghi nipponici, petali gibbuti, cornuti, panciuti, nell’interno iridescenti come le tinte intraviste nei toraci aperti delle bestie macellate: il fascio dà l’incubo della peste e del malefizio, e nell’afa pomeridiana emana un odore fetido insostenibile. Faccio allontanare il mazzo favoloso che a quest’ora, in una sala europea, sarebbe omaggio non indegno d’una principessa, e quanto volentieri lo cambierei con un ramo natalizio di agrifoglio spinoso a bacche rosse o con un ciuffo di vischio perlato! Ed è l’ora dell’afa pomeridiana, della siesta tropicale sulla sedia a sdraio, è l’ora del silenzio favorevole alla visita dei bengalini. I passeri minuscoli, rossi o verdognoli spruzzati di bianco, irrompono in frotta da una parete della sala, l’esplorano, l’attraversano a volo, rientrano; il mio braccio bruscamente proteso per prendere un libro, li inquieta, irrompono in cucina, ritornano impauriti dallo sfaccendare dei boys, turbinano due volte nella sala da pranzo, si dispongono nei trafori delle

pareti, in attesa; alcuni, piú audaci, considerando che non mi decido ad andarmene, scendono, si posano sulla spalliera delle sedie, sugli scaffali, in terra, a beccare le bricie della colazione, e ad uno ad uno scendono tutti, saltellano con un pigolío sommesso, ormai fiduciosi nell’uomo vestito di bianco. Avanzo un braccio, getto un giornale per vedere fino a qual segno giunga la loro audacia e i piccoli temerari si scostano appena. Nell’afa silenziosa quel cinguettio tracotante s’accorda col tic-tac del vecchio Robert che ha segnato le ore di tante vite in esilio, s’accorda col canto in sordina dei boys. Patrick e Matthew non sfaccendano piú. Sono distesi in terra con le spalle al muro, dormono e cantano. Il loro sogno indolente si traduce per se stesso, attraverso i denti chiusi, in una musica sonnolenta e bizzarra: azione riflessa, commento delle cose, parafrasi della solitudine e dell’esilio, del caldo e del silenzio.

Marchesa Colombi Cavar sangue da un muro

I.

Ecco com’è stata la mia vita: luce, tenebre, poi ancora luce. Ora stia a sentire. Cosí cominciava il suo racconto Gian Maria, il protagonista di questa storia. Non dirò per ora come, né dove lo incontrassi, per non togliere alla narrazione quella parte d’interesse, che giova sperare, possa riescire a far nascere. E qui il giova non è punto un modo di dire, perché davvero, signori lettori, nulla mi giova meglio che il loro interessamento. Cercherò di ripetere quanto mi disse Gian Maria, alterandolo il meno possibile. – Sarebbe il caso di non alterarlo affatto –. Loro mi faranno quest’osservazione, e, non avendo conosciuto Gian Maria, avrebbero ragione di farla. Ma quel buon uomo aveva un linguaggio estremamente immaginoso; chi gli fosse meno amico di me, direbbe addirittura strampalato; e non so che figura ci farebbe, messo qui crudamente tal quale, nero su bianco. Ripeterò fedelmente i fatti, le situazioni; e le parole per quanto mi sarà possibile. Ed ora dico anch’io come Gian Maria; stiano a sentire: Egli prese le cose da lontano. Cominciò a narrare dalla sua prima giovinezza. Il primo periodo di luce. Però lo passò di volo; me ne fece appena uno schizzo. Abitava a Brescia due stanze pulite e fornite dei mobili di prima necessità. In quelle due stanze vivevano il babbo, la mamma e lui. Il babbo era

muratore; la mamma andava a servire il mattino in due famiglie. Gian Maria faceva da garzone al babbo, ed imparava lo stesso mestiere. Erano tutti in buona salute; ed ogni mattina uscivano gagliardi e contenti, per cominciare la loro giornata operosa. Gian Maria metteva grande interesse nel preparare la calce, nel portare mattoni e sabbia, e strumenti, e materiali da lavoro, e nell’osservare e studiare quello che facevano i muratori. La sua ambizione era di diventare un buon operaio come suo padre, che era quasi sempre chiamato a lavorare nelle città vicine, ed anche a Milano. Era un’ambizione modesta assai. Ma egli aveva dell’entusiasmo piena l’anima, e lo metteva in quell’ambizione là, come un altro l’avrebbe messo nella speranza di diventar ministro. – Le secchie salivano gloriose verso il cielo, – mi diceva, – e le carrucole gongolavano di gioia, ed io comprendevo che cosa volevano dire: Gian Maria andrà pure in su come le secchie. Lo porteremo in alto, finché diverrà capomastro. A loro, signori lettori, ed anche a me parrebbe che, con questa parola, l’ascensione finisse in un capitombolo. Ma le distanze sono sempre relative al punto di partenza. Per un garzone muratore, il capo-mastro è l’ultimo gradino della sua scala, la somma altezza. La mamma di Gian Maria era una donna tutta casa e lavoro. Si faceva in quattro pur di guadagnare qualche cosa; non era mai stanca – non si rifiutava a nulla, e ben sovente portava a casa qualche piccolo lucro eventuale, oltre i salari dei suoi padroni. Ed il marito l’ammirava, ed aveva fede in lei ed il denaro delle sue giornate glielo consegnava tutto; ed era lei che lo distribuiva: – Tanto per te da andarne a bere un bicchiere domani che è festa, è giusto. Tanto pel vitto della settimana. Tanto per le scarpe di Gian Maria, o per la tua giubba o per la mia gonna, a seconda dei bisogni. E tanto da riporre per la pigione. Cosí Gian Maria venne su in quelle due stanze, dove non conobbe mai le due massime afflizioni del popolino: discordia in famiglia e miseria.

Si volevano bene, vivevano in pace, lavoravano, e non mancavano del necessario. Questo egli chiamava la luce; e, a pensarci, aveva ragione. II. – Un giorno, che lavoravo a Milano, mi sentii il sole nel cuore –. Disse Gian Maria irradiandosi tutto. Poi tradusse in prosa per la mia modesta intelligenza: – M’innamorai d’una bella ragazza bionda. Dio, che splendore e che caldo c’era allora qui, sotto la mia giubba! Metta una mano nella calce e sentirà che brucia. Il mio cuore bruciava cosí. – Ci sposammo da buoni cristiani. La mia mamma aveva la divozione del Natale. Faceva sempre la sua brava novena. Aveva grandi faccende a quell’epoca, perché i suoi padroni ricevevano forestieri, e davano pranzi. Ma nella novena di Natale chi vuol farla non ha che a dire: «Voglio che il giorno si allunghi». E quando la giornata è finita, si trova là un’ora in piú sulle ventiquattro, e quella serve per la novena. – Dunque la mamma volle che ci sposassimo a Natale. E che feste si fecero quell’anno! La sposa di Gian Maria aveva servito a Milano in una famiglia signorile, fin dai dodici anni, e ne aveva ventidue. Ed in tutto quel tempo aveva fatto dei risparmi. E non li riponeva mica nello stipo i suoi quattrini. Che! Era un’utilitaria quella ragazza. Li portava alla Cassa di Risparmio, dove, mi diceva Gian Maria: – I soldi si fanno piú grossi, piú grossi, finché diventano lire. Mi portò un letto da principi, ed una cassa di biancheria da re, e la mia mamma ci montò una cucina da imperatori. Quelli furono tempi! Che splendore! – E l’anno seguente poi, ancora a Natale, eccoti una puttina rosea come il bambino Gesú, che si stacca dai quadri del Duomo e viene a mettersi sul letto accanto alla mia sposa! Ah quella puttina! quella puttina! E Gian Maria si mise a danzare per quella gioia retrospettiva, ed a chiamare quella bimba, con una confusione di titoli e di tempi: la Viceregina, l’Arciduchessa d’Austria, la principessa Margherita; le tre grandi figure di

donne che si sono impresse nella mente del popolo lombardo. La nascita di quella figliola fu per lui il grado massimo della luce. Un fuoco di bengala addirittura. III. Gian Maria tirò avanti a narrare un idillio d’amore, di pace, di lavoro, identico a quello de’ suoi genitori, ch’io mi dispenso dal ripetere. E dopo quello, continuò: – Intanto il babbo e la mamma s’erano fatti vecchi, ed un po’ s’ammalava l’uno, un po’ s’ammalava l’altra, e non c’era verso di lavorare; ed essi non amavano di star al mondo, senza fare la loro parte di lavoro. Allora, quando videro che s’andava sempre innanzi a quel modo, si misero in letto prima lui e poi lei, chiusero gli occhi e si fecero portare al campo santo. – Nel silenzio della notte, vennero parecchie volte a dirmi che erano contenti, e che al mondo di là ci si sta bene; però di numeri del lotto non me ne portarono. Anche questa gli aveva da toccare, povero Gian Maria! La luce era finita; entrava nel periodo delle tenebre. Le malattie dei vecchi e la morte di tutti e due, che pare accadesse nello spazio di pochi mesi, avevano assorbito tutti i pochi risparmi delle due famiglie. Poi c’erano stati i funerali, le croci al cimitero, e le messe che la mamma aveva raccomandate. S’era dovuto vendere i mobili dei defunti per arrivare a tutto, ed anche qualche cosuccia degli sposi. Gian Maria s’era fatto un buon operaio; ma all’altezza sognata di capomastro non aveva potuto salirci. Le annate non erano piú abbondanti come una volta. Lavoravano lui, la moglie ed anche la figliola e tra tutti raggranellavano appena da vivere senza privazioni, ma non riescivano a metter da parte un soldo. La moglie, che aveva fatto tanti risparmi fin da quand’era giovinetta a servire in città, ed era previdente, si crucciava di quello stato di cose e diceva spesso: – Ah! Gian Maria; è crudele il pensare che lavorando tutti, e non avendo vizi, non si riesce piú a serbare un soldo, per maritare la nostra figliola, e per la nostra vecchiaia.

Lei però, povera donna, non ci arrivò alla vecchiaia. Quando la sua bimba ebbe vent’anni e Gian Maria quarantasei, fu presa dal tifo e morí. Il marito, un po’ per gli strapazzi che aveva fatti nel curarla, un po’ pel cruccio che lo accasciò, ne fece una malattia. La moglie l’aveva tenuta in casa fino all’ultimo; ma lui se ne andò all’ospedale. Intanto la figliola, bella, a vent’anni, rimase sola. – Quando uscii dall’ospedale – disse Gian Maria, – mi accorsi che faceva gli occhi dolci al giovane del macellaio che stava di contro. – A me faceva orrore quel mestiere di macellaio: ma che cosa si fa? Aspetta un mese, aspetta un altro, invece di rinunciarvi, la ragazza s’innamorava sempre piú; il giovane le stava sempre intorno. – Passato un anno dalla morte della mia povera donna, bisognò lasciarli sposare. Queste cose le disse pianamente, senza immagini strane – la crudezza di quelle prime contrarietà, in cui non c’era neppure la poesia del dolore che aveva trovata nella solennità della morte, paralizzava la sua immaginazione. Ma non poté stare a lungo a quel linguaggio terra a terra, e ripigliò: – Renzo non era un cattivo giovane; e lavorava molto, e di buona voglia. Ma, quand’era la domenica, faceva un patto col diavolo: «Dammi del vino, ed io ti do il mio cervello». – E figurarsi come veniva a casa quando il cervello non c’era piú! Gridava contro la moglie, gridava contro di me, voleva quattrini. E lei, che era tenera di cuore, poveretta, glieli dava; e per la casa non rimaneva mai nulla. – S’aveva da pagar la pigione, punto denari. S’aveva da vestirsi, punto denari. – Si viveva tutti insieme; io ero là, che vedevo piangere la mia figliola, e rovesciavo le tasche; ecco cosí. Tanti ne guadagnavo, tanti erano suoi per far bollire la pentola. Non mi serbavo uno spicciolo. – E tutti gli altri giorni era un buon ragazzo Renzo. Un po’ trascurato, un po’ spaccone, ma punto cattivo. Ah se si fosse potuto fare un calendario senza feste!

– Ma a quel modo mi metteva il buio nell’animo, ed il buio d’intorno. Tanto piú che vedevo la bimba andar a male pel cruccio. Aveva trentadue anni e ne dimostrava quarantadue. Quei lunghi, lunghi anni di matrimonio avevano steso ciascuno un dito per solcarle una ruga sul viso. Ed i capelli avevano pensato: «A che serve essere biondi, se a quell’uomo non si piace piú?» e s’erano fatti bianchi. La sua mamma non era mai stata cosí vecchia; e la sua nonna neppure. – Un giorno ella disse: «Cosí non si può vivere». E se ne andò anche lei al campo santo cogli altri. – Ma prima d’andarsene chiamò il marito e gli disse: «Senti Renzo, se vuoi ch’io riposi in pace colla mamma, mi hai da promettere che continuerai a stare col mio babbo, e che gli darai retta, e che non lo abbandonerai, neppur quando piglierai un’altra moglie». – E questo lo disse colla voce piangente; era già mezza al mondo di là, ma le incresceva che quell’uomo, che era suo, pigliasse un’altra moglie. – Ah! quando lei non ci fu piú, come si fece buia la casa, e che freddo! Aveva portato via l’ultimo tepore e l’ultimo filo di luce; perché ogni anima è una fiammella, ed a misura che una si spegne, è un po’ di luce che manca. La mia anima, vecchia, dava poco splendore, e quella di Renzo poi, l’aveva venduta al diavolo. IV. Renzo aveva un compagno che faceva il macellaio a Milano; questi era andato a Brescia per vedere la sua famiglia, appunto poco dopo la vedovanza di Renzo, e gli aveva detto: – Dovresti venire a Milano anche tu, ora che sei solo. Io ci ho un buon posto da darti. Renzo era appunto l’uomo da sapere apprezzare tutti i vantaggi d’una grande città. Osterie piú belle, compagnia piú svariata, teatri, qualche sala da ballo in carnevale, e poi i salarii delle città grandi sono maggiori. – Oh! quanto a me, – disse – se mio suocero ci vuol venire, accetto subito. – Che bisogno hai del suocero? Vieni solo. – Eh, allora non mi conviene piú, perché io, sai come sono; ho le mani

bucate. Lui invece lavora come un giovane, guadagna e non sciupa nulla. La pigione la paga lui, e, se io non porto quattrini in casa, va avanti co’ suoi; è una cuccagna. Gian Maria non ebbe alcuna difficoltà a lasciare il paese. Dopo la morte di tutti i suoi, si trovava male. Cosí si trasportarono tutti e due a Milano, dove Renzo si collocò in una macelleria fuori di Porta Ticinese; e Gian Maria trovò da accomodarsi presso un capo-mastro, per cui aveva già lavorato altre volte, e che apprezzava la sua abilità. Vivevano insieme, ma erano tutto il giorno fuori ciascuno pe’ fatti suoi, e si vedevano soltanto la sera dopo il lavoro. Era il macellaio che finiva la giornata piú presto, e rientrava prima a preparare la minestra per tutti e due. Ma, la domenica, Renzo stava fuori gran parte della notte in baldoria, e Gian Maria doveva mangiare da solo. Erano brutte feste per lui, che era avvezzo alla famiglia. Anche quand’erano insieme non discorrevano molto, perché il vecchio non sapeva aprir bocca senza nominare – la sua povera figliola buon’anima. E l’altro invece, che non voleva saperne di malinconie, borbottava: – Ci siamo daccapo! Non sapete dir altro. M’incresce anche a me che quella povera donna se ne sia andata; le volevo bene; ma poi, non si può mica passare tutta la vita a piangere i morti. Ed il babbo stava zitto, perché quelle parole gli sembravano brutali. Una sera, tornando a casa, vide sulla tavola, oltre le due scodelle di minestra, un gran pezzo di manzo lesso. Sapeva che Renzo stava a secco di denari, e gli venne un brutto pensiero: – Oh, Renzo, che cos’è questo? – gli disse sorridendo per farsi coraggio, perché era timido, e gli riesciva difficile fare un rimprovero. – Non vorrei che... – Che cosa? Sentiamo, – rispose Renzo facendo mostra di non capire. – Via... non vorrei che, a forza di maneggiar carne, ti fosse rimasto quel pezzo lí attaccato alle mani.

– Ma che! siete matto! – E Renzo, alzando le spalle, spinse il tondo verso il vecchio e gli disse sogghignando: – Mangiate, giacché ce n’è, e non andate a cercar cinque ruote in un carro. – Io di roba rubata non ne mangio, – insisté Gian Maria. – Se vi dico che non è rubata. Sono mai stato un ladro? – Allora, come l’hai pagato quel manzo? – Io non ho bisogno né di rubare, né di pagare, per pigliar la roba in bottega. – Non starmi a dire; rubare e pigliare è la stessa cosa. – Ma quando la padrona è contenta, no – gridò Renzo ridendo. – Via, mangiate, e state di buon animo, che di carne non ce ne mancherà piú. Lo capite ora, che quello che c’è in bottega è mio? Bisogna proprio ridurvele in moneta a voi le cose? Gian Maria era eccitato narrandomi quel discorso, ed abbassando la voce in atto misterioso, mi disse: – In quel momento ho udito piangere la morta giú giú nella terra; e gridava: «Eccola, un’altra moglie, che viene al mio posto». Ed allora quel pezzo di carne si mise a sanguinare sulla tavola: era il cuore della povera bimba. Aveva delle immaginazioni orrende quel vecchio. Mi metteva i brividi. Cercai di calmarlo, e d’indurlo a proseguire con un linguaggio meno pauroso. V.

Quella macellaia era una vedova di quarantacinque anni. Ne aveva dodici piú di Renzo. Ma aveva anche de’ quattrini piú di lui. Non molti, via. La macelleria era sua, e ci si andava innanzi benino. A Renzo, che amava mangiar bene e ber meglio, e sentirsi suonare qualche soldetto in tasca, e dacché era a Milano aveva perduto il gusto del lavoro, – aveva sorriso l’idea di diventar padrone del negozio, di prendere il suo posto da pari a pari fra i bottegai della contrada, di passare il pomeriggio col grembiale arrotolato intorno alla vita, a discorrere della cronaca del «Secolo», mentre i garzoni lavorerebbero per lui. Era una prospettiva che valeva la pena di chiudere un occhio sulla fede di

nascita della sposa. C’era Gian Maria che riesciva d’ostacolo. Quel terzo non andava a sangue alla macellaia. Ma Renzo aveva fatta quella benedetta promessa alla moglie moribonda e non gli bastava l’animo di trasgredirla. Del resto Gian Maria era un impiccio soltanto per la sua presenza; ma circa l’interesse guadagnava abbastanza, e piú che abbastanza pei suoi bisogni; e Renzo poteva garantire che non amava il denaro, che era imprevidente anzi, e tanto ne aveva, tanto ne dava in casa. Tutto codesto fu ben discusso, calcolato, dimostrato fra i due sposi. E Teresa, che era innamorata di Renzo, quando fu sicura che della sua tasca non ci rimetterebbe nulla, prese il partito di fare la donna generosa, e di accettare collo sposo anche il vecchio. – Cosa farei? – andava dicendo per farsi merito colle vicine. – Io sono cosí; ho il cuore tenero; non ho coraggio di mettere sul lastrico quel pover’uomo. Pazienza; dove c’è da mangiare per due ci sarà anche per tre. E le vicine ad ammirarla, ed a garantirle a titolo di compenso, che: «Chi fa bene trova bene». Ed infatti, dopo parecchi mesi di matrimonio e di convivenza con Gian Maria, Teresa, facendo il suo bilancio di profitti e perdite, poté verificare che i profitti erano maggiori delle perdite, senza contare il beneficio morale di passare per una donna caritatevole. Ma Gian Maria aveva ormai cinquantasei anni, e non era piú forte contro i disagi come una volta. Nella primavera, dopo aver lavorato all’aperto per parecchie settimane al ristauro d’un porticato in un cortile di campagna durante le piogge d’aprile, cominciò a risentire dei dolori alle giunture, ed un malessere generale. – Debbo avere la febbre, – disse la sera rientrando, – mi sento tutto reumatizzato. – Che! – gli disse Teresa. – Se s’avesse a dar retta a tutti i malucci! Mangiate, e domattina sarete in gamba. Ma l’indomani Gian Maria non poté reggersi in piedi; dovette rimettersi a letto, e Renzo stette sulla bottega ad aspettare che passasse il medico condotto, e lo fece entrare.

– È un’artritide, – disse il medico, – e ne avrà per un pezzo. A questa notizia, la macellaia si spaventò seriamente. – Spero bene, – disse al marito, – che la sua figliola non ti avrà fatto promettere di tenertelo in casa anche quando è ammalato. Io non posso assolutamente lasciar il mio negozio per curar lui. – Veramente non s’è parlato di casi di malattia; su questo punto non ho promesso nulla – rispose Renzo. E trovò giusto che il suocero andasse all’ospedale. Anche Gian Maria non oppose difficoltà. C’era già stato una volta e se ne ricordava con riconoscenza. Del resto capiva bene che Teresa non poteva occuparsi d’un ammalato, senza trascurare la bottega. Era uomo discreto e dignitoso; fino a quel giorno aveva sempre vissuto del suo lavoro, non era mai stato a carico di nessuno, e preferiva di non esserlo neppure durante la malattia. Cosí Gian Maria andò all’ospedale e vi rimase sino alla fine di giugno; quasi due mesi. Quando ne uscí era guarito dall’artritide; ma gli era rimasta una grande facilità a reumatizzarsi, ed un tremito generale in tutte le membra. Egli però non mi raccontò la cosa cosí liscia come l’ho detta io; ci mise la sua parte di meraviglioso. – Io l’avevo capito – disse, – quando lavoravo laggiú sotto quel porticato aperto, e l’acqua veniva giú, veniva giú tutto il giorno, ed il vento fischiava, ed io lavoravo, lavoravo sempre; l’avevo capito che le piante se ne avevano a male che volessi mostrarmi forte come loro. Le foglie brontolavano tutte: sciiii, sciiii, sciiii... e voleva dire: «Ah, tu non vuoi confessare che hai il sangue assiderato, ed il gelo nelle ossa, e la febbre nei polsi? Ah, tu vuoi sfidare il tempo come le foglie? Ebbene, per tutta la vita tremerai come una foglia». Ed ecco d’allora in poi ho sempre tremato. Durante la malattia del vecchio, Renzo era andato a vederlo poche volte, la moglie mai. Tra il vecchio e lei non era mai nata simpatia, anzi, a misura che avevano vissuto insieme era aumentato il disaccordo. Egli aveva sempre in bocca la sua figliola a proposito di tutto: – Quella teneva la casa come uno specchio,

parlava con buona grazia, e col marito non litigava mai; sopportava tutto con una pazienza da santa. Gian Maria non ci metteva malizia; ma vantava appunto tutte le qualità che Teresa non aveva; ella trascurava la casa pel negozio; aveva modi aspri; ed alla sua età, vedova da un pezzo, avvezza ad esser la sola padrona in casa sua, non sapeva piegarsi alla volontà del marito, la quale non era né molto discreta, né molto ragionevole. All’udire quegli elogi della prima moglie in faccia al marito, Teresa s’irritava, e prendeva in uggia il vecchio. Una volta ch’ella stava rimproverando Renzo per la sua vita da buontempone, e si lagnava perché non dava retta a’ suoi consigli, il vecchio, credendo di conciliare le cose, entrò a dire: – Ci vorrà pazienza, cara la mia donna. Col litigare non otterrete nulla. Figuratevi che non dava retta neppure alla mia povera figliola buon’anima, che era giovane e bella, e che l’aveva sposata per amore! A farlo apposta, non avrebbe potuto immaginare un discorso piú oltraggioso per la macellaia. Furono tre coltelli che le entrarono nel cuore. Era quanto dirle: – Voi siete vecchia, e punto bella, e Renzo non è mai stato innamorato di voi –. E questo glielo diceva dinanzi al marito. Sono mancanze di tatto che poche donne sanno perdonare; Teresa non poté mai mandarla giú. Quando il medico annunciò che Gian Maria doveva uscire dall’ospedale, fu ancora Renzo che andò a prenderlo e lo ricondusse a casa. Avevano la bottega sulla strada accanto al portone che metteva nel cortile; ma l’alloggio era in fondo al cortile stesso. A terreno, oltre la cucina, avevano una stanza tappezzata di carta a grandi fiori gialli, che Teresa chiamava la sala. Là si pranzava, si passavano le serate ed i giorni di festa; là Renzo conduceva i mercanti di buoi a berne un bicchiere, dopo aver concluso un contratto; e Teresa ci stava a lavorare ed a stirare la biancheria quando il macello era chiuso.

I mobili di quella sala consistevano in una larga tavola quadrata, sei sedie ed un canapè di paglia; e, nel vano della finestra, un tavolino da lavoro ed una poltroncina, dove passava la sua vita accovacciato un cagnuccio nero, che era la gioia di Teresa, e che brontolava molto, quand’era costretto a cedere la poltrona a lei. Teresa però lo compensava di quei piccoli disagi, tenendolo in grembo, e dandogli a mangiare i migliori bocconi. Anche quel cane aveva dato argomento al vecchio di dire e ripetere a sazietà, che la sua povera figliola buon’anima, che era tanto pulita, non poteva soffrire le bestie in casa, e che diceva: – Se s’ha un pezzo di pane di piú, è meglio darlo ad un povero che ad una bestia. E Renzo, che aveva in uggia Similoro, appoggiava quei discorsi, e Teresa s’inviperiva sempre piú contro il vecchio. Nel ritorno dall’ospedale, mentre Gian Maria s’avviava, per traversare il cortile ed entrare in casa, Renzo gli disse: – Non volete passare dalla bottega a salutare Teresa? S’avrebbe a male se entraste in casa sua senza farvi vedere da lei. Il vecchio s’affacciò tutto oscillante all’ingresso della bottega, e fu il primo a salutare la macellaia, che, intenta a servire un avventore, non s’era avveduta di lui: – Addio, Teresa, – le disse. – Eccoci qui ancora. Teresa alzò il capo, guardò il vecchio smagrito, tremante, ed esclamò: – Oh madonna santa! Ora sí che siamo acconciati bene! – Poi rivolgendosi al marito gli gridò: – Perché non l’hai lasciato all’ospedale nei cronici? Lo vedi pure che non può piú lavorare. – Ne ho parlato, – rispose Renzo un po’ mortificato di quel fastidio che riconduceva alla moglie. – Ma mi hanno detto che è inutile ricorrere. Non ha una malattia sufficiente per farlo ammettere. E, per cavarsi d’impaccio, Renzo uscí in istrada. Teresa si strinse nelle spalle borbottando: che lei non era in grado di mantenere una bocca di piú, che n’aveva abbastanza del marito, il quale non

aveva portato in casa il becco di un quattrino, e faceva il signore a sue spese, e beveva per quattro... Andò a sedere al suo banco, prese uno scartafaccio, e si pose a fare dei conti, affettando di esserne occupatissima, e di non ricordarsi piú della presenza di Gian Maria. Il pover’uomo rimase là tutto avvilito, non osando parlare, non osando entrare in quella casa, dove la padrona lo accoglieva a quel modo; non osando andarsene, perché non aveva nulla. Quando Dio volle entrò un avventore, e Teresa alzandosi per servirlo, mostrò di avvedersi allora di Gian Maria, e gli gridò: – Cosa fate ancora lí ad ingombrare la bottega? Non vedete che qui abbiamo da fare? Io, se voglio mangiare, bisogna che lavori. Andate di là, e pensate a far qualche cosa anche voi. L’avventore che era un conoscente della macellaia, entrò a dire: – Cosa vuole che faccia, signora Teresa, quel vecchio? Trema come un paralitico. – Eh! basta averne voglia, – ripigliò la donna, – si riesce a cavar sangue da un muro. Gian Maria traversò il cortile col cuore serrato, ed entrò in sala, dove Similoro gli si avventò ringhiando come se volesse divorarlo. Era il mezzodí; l’ora della colazione era passata, quella del desinare era lontana ancora. Gian Maria aveva mangiato una zuppa al mattino, e si sentiva un appetito da convalescente. Ma, timido e discreto com’era, non avrebbe osato pigliarsi un pezzo di pane in quella casa che non era la sua. A terra, accanto alla poltrona, c’era un piatto di minestra con alcuni pezzetti di carne. Era la colazione di Similoro; ma esso aveva già mangiato la sua parte colla padrona; nel passare, leccò svogliatamente il piatto, poi se ne allontanò con disprezzo e risalí sulla poltrona dove fece alcuni giri, poi si coricò arrotondato come un cerchio, e chiuse gli occhi per digerire con raccoglimento. Ed il povero uomo ammalato invidiò la minestra del cane. VI.

Gian Maria sedette accanto alla tavola, si prese il capo fra le mani, e stette a riflettere seriamente ai casi suoi. Le tenebre s’addensavano sulla sua vita. Era ridotto al punto da farsi proporre all’ospedale dei cronici. E non era un’idea strampalata dello spirito avaro di Teresa. Era un fatto. Anche Renzo ci aveva pensato, e ne aveva parlato all’amministrazione dell’ospedale. Si sentiva preso da un profondo accasciamento; gli sembrava di dover passare il resto de’ suoi giorni là, su quella sedia, d’aver perduta la facoltà di muoversi. Aveva lavorato altre volte nella casa di un vecchio signore rimbambito e paralitico, che i servitori dovevano imboccare, vestire, svestire, trasportare da un luogo all’altro; e pensava d’esser diventato come quel signore. Ma poco dopo si provava a rizzarsi, a portare una sedia, a prendere un po’ di cenere nel camino spento, ed a gettarla colla mano distesa contro il muro, come se fosse calce; poi si metteva a correre per la stanza; e vedeva che, sebbene lentamente e tremando, sempre riesciva a far tutto. Allora gli tornava il coraggio; crollava le spalle e sorrideva: – Ma che! erano tutti matti. All’ospizio dei cronici lui, il bravo operaio che non temeva rivali nel suo mestiere, che guadagnava fino a quattro lire al giorno! Tremava, sí; ma non era una ragione per non poter piú lavorare. Diceva giusto Teresa, quando s’ha voglia di guadagnare si riesce a cavar sangue da un muro. Ed egli l’aveva la voglia; oh, se l’aveva! Farebbe veder lui s’era cronico. Mangiava bene, digeriva bene, aveva fame... Figurarsi se un uomo che ha fame non ha da potersi guadagnare il suo pane! E, tutto rinfrancato, uscí dal portone senza farsi vedere da Teresa, e via, quanto piú presto poté, verso la casa del capo-mastro che lo aveva impiegato, dacché era a Milano. Non era discosto: poco dopo le colonne di San Lorenzo; e tra il mezzodí e le due era l’ora del riposo, ed era sicuro di trovarlo. Avrebbe quel giorno soltanto da mangiare alle spalle di Teresa; ed intanto potrebbe dirle: – Badate che è un prestito, un’anticipazione che mi fate; non è

un’elemosina. Domattina ricomincierò ad andare a giornata, e sabato vi pagherò tutto. Quando entrò dal capo-mastro, tenendo il cappello tra le mani oscillanti, era una pietà il vedere in quel volto smorto e pieno di rughe, sotto quei pochi capelli grigi che sventolavano sul capo tremante, quei due occhi brillanti d’un ardore giovanile ed onesto. Oh, mondo ingiusto! Bisognava spegnerlo quell’ardore. Il capo-mastro gli disse: – Cosa vuoi che ne faccia di te, pover’uomo? Gian Maria non ebbe bisogno di domandar altro. Comprese tutto. Non ebbe che a respingere l’ultima prospettiva di speranza che s’era creata, e rivolgere la mente all’avvenire scoraggiante che lo aveva impaurito nella sala della macellaia. Rivide i lunghi giorni d’inoperosità vergognosa, e l’elemosina forzata, ed il rinfacciare brutale, e l’onta dell’accettare, e l’umiliazione di trovarsi d’impaccio in casa altrui. Ed a quelle immagini crudeli non c’era piú nessuna illusione da opporre. Egli ci aveva opposta coraggiosamente l’ultima, il lavoro. E quelle parole del capomastro l’avevano distrutta. Il lavoro lo abbandonava dopo tutti gli amori. Né dalla Congregazione di Carità, né dalla Società Operaia non poteva sperare sussidi durevoli, perché era a Milano da pochi mesi. Rimaneva abbandonato alla carità di Teresa. Egli si accasciò sopra una sedia, si coperse il volto colle mani, e scoppiò in un pianto dirotto, mentre il capo-mastro lo confortava colle solite frasi. – Via, non ti crucciare. Si vive una volta per ciascuno a questo mondo. Tu hai fatto la tua parte, hai lavorato per gli altri; ora tocca ai giovani di lavorare per te... I giovani, chi? Quali? Che giovani erano legati a lui? Egli non aveva figlioli. Nel raccontarmi quell’episodio desolante, Gian Maria rabbrividiva ancora. – In quel momento, – diceva, – sentii che il mio cuore si stemperava e

diventava un’acqua amara, un’acqua di fiele. Era il cuore disfatto che mi saliva alla gola, che mi avvelenava il sangue. Quando penso, signore lettrici, di che cosa piangono alle volte i loro nervi nei salotti eleganti, mentre il cuoco prepara il pranzo, ed il fattore tira la somma delle rendite, – e poi penso alle lagrime di quel vecchio senza casa, senza figlioli, a cui si negava perfino il lavoro... quelle erano lagrime! VII. Tuttavia, lo spirito è spirito, ma il corpo è materia; ed al ritorno dalla sua spedizione disgraziata, quel vecchio addolorato, avvilito, impaurito dell’avvenire, aveva fame come l’hanno di rado i signori, che vanno comperando l’appetito nel vermouth di Torino, nella Soda Water inglese, nel Fernet dei Fratelli Branca. I macellai erano a tavola, e Teresa andava rimovendo la minestra nel piatto del cane, perché si freddasse. – È una briga inutile che ti prendi, – diceva Renzo; – sai pure che a Similoro non piace la minestra. – È vero; ma se l’ha davanti, un tantino di brodo lo sorbisce e gli fa bene. Gian Maria entrò intimidito e vergognoso. In un’occhiata s’avvide che la tavola era apparecchiata soltanto per due; impiegò alcuni minuti a chiudere l’uscio per ritardare il momento di voltarsi, poi, senza guardare la mensa, andò a sedere accanto alla finestra. Similoro era in grembo alla padrona, e la poltroncina rimaneva libera; ma Gian Maria non osò profittarne, e andò a pigliare una sedia all’altro capo della stanza. Si sentiva cosí profondamente umiliato, che cercava di occupar il minor posto possibile, di abbassarsi, di impicciolirsi. Quando Teresa, senza invitarlo a prender posto alla mensa, gli porse un piatto di minestra, egli disse: – Oh... volete darne anche a me? – e cercò di comporre il suo povero volto ad un sorriso conciliativo che faceva piangere. Ma Teresa gli rispose con piglio infastidito: – Che! quante storie! Non siete forse venuto per questo? Gian Maria divorò la minestra col pianto alla gola, poi andò tutto

tremante a riportare il piatto in cucina. Per un sentimento di delicatezza istintiva, comprendeva di dovere evitare agli altri anche quel piccolo disturbo, dacché non poteva compensarlo. E, tornato al suo posto, stette con aria indifferente a guardare il soffitto, la finestra, i fiori della tappezzeria, tutto fuorché la tavola, come per dire: – Lo so bene che quella continuazione di pranzo non mi spetta; io non ci aspiro, non ci penso nemmeno. Teresa portò in tavola un piatto di carne colle patate. Serví il marito, serví sé stessa, poi, per forza d’abitudine, stese la mano per pigliare la scodella di Similoro, e servire anche lui. – Di’! – le susurrò il marito in tono di rimprovero, accennando il vecchio che guardava sempre il soffitto. – Pensi piú al cane che ai cristiani? – Se ci penso, ci penso col fatto mio, – ribatté stizzosa la macellaia. – Se aspettassi il tuo, non ce ne sarebbe né per gli uni, né per gli altri. Renzo si morse la lingua e non fiatò piú. Ma Teresa si pentí subito di quell’asprezza detta al marito, perché sapeva che quand’era in collera, egli passava le giornate fuori ed anche le notti, ed era gelosa. E per rabbonirlo, riprese un momento dopo: – Non puoi servirlo tu il tuo suocero? Ho da far tutto io? Ma vedendo che Renzo stava per porgere al vecchio il piatto com’era, s’affrettò di soggiungere: – Bada però che di là c’è il piccolo della bottega che lava i piatti, e ne deve rimanere anche per lui. Cosí a Gian Maria toccò soltanto la metà degli avanzi, e conditi con quella discussione crudele. Oh, se non avesse avuto tanta fame, come avrebbe voluto rifiutarli! Ma la necessità lo pigliava alla gola; ed egli non era un eroe, non aveva raffinatezze sublimi; era un povero muratore. Accettò, ed anzi accettò sforzandosi di sorridere e di ringraziare. La sera quando fu l’ora di coricarsi Gian Maria non osava avviarsi alla sua camera al piano superiore. Con che diritto occuperebbe una stanza, ora che non poteva pagarla?

– E... per dormire? – domandò umilmente. – Se ci fosse un posto, un posto qualunque... io mi accomodo dappertutto. Non occorre che mi diate la camera di prima. – È che non posso darvela quella camera, – rispose Teresa. – Mentre eravate all’ospedale, s’è dovuto affittarla mobiliata, tanto per cavarne in parte le spese. Vi ho preparato un letto qui accanto; vi starete bene. Ed avviandosi fuori dalla sala seguita dal vecchio, continuò a dire: – E domani bisognerà che cominciate a darvi attorno, per trovare da guadagnar qualche cosa. – Eh! non ho aspettato domani, cara la mia donna, – rispose Gian Maria tornando a commuoversi a quel pensiero. – Ci sono stato oggi dal capomastro. Ma se non mi vuole! Che cosa posso farci io, se non mi vuole? – Ve ne sono tanti dei capi-mastri. Se quello non vi vuole, vi piglierà un altro. Bisogna sapersi ingegnare a questo mondo. Si va, si cerca, si bussa a tutte le porte, si fa qualunque cosa. Ve l’ho detto: quando s’ha voglia di guadagnare, si riesce a cavar sangue da un muro. Il vecchio non rispose ed entrò in un sottoscala, dove Teresa gli aveva trasportato il suo letto. Doveva avere il soffitto in pendío e molto basso, perché Gian Maria, narrandomi le notti passate là dentro, mi diceva: – E la scala scendeva, scendeva, finché veniva a toccare il letto. Perché sopra la scala c’erano i cani che trovano sempre buoni bocconi e carezze; e c’erano gli operai di Milano, che sono inscritti da un pezzo nella Società, ed hanno diritto al sussidio di vecchiaia, e non saranno mai abbandonati e senza pane; e c’erano quelli che hanno messo i quattrini da parte ed essi danzavano di gioia, e gridavano: Evviva! Evviva la Società degli operai! Evviva la cassa di risparmio! E la scala cedeva sotto il loro peso, e mi veniva già sullo stomaco, mi schiacciava, mi soffocava. VIII. Allora cominciò per Gian Maria una serie di giorni difficili, dolorosi, umilianti. Dopo aver ricorso a tutti i capo-mastri che conosceva, ed essere stato respinto da tutti, dopo avere implorato invano tutte le pie istituzioni, alle cui larghezze, sia per non aver acquistata la cittadinanza, sia perché non

toccava i sessant’anni, non aveva alcun diritto, usciva ogni mattina con poca speranza nel cuore, cercando un lavoro eventuale, qualunque fosse. Andava allo scalo per trovare da trasportar qualche baule, ed i facchini patentati lo respingevano come un intruso, gli contendevano il guadagno. Qualche volta, nella confusione dell’arrivo, gli riesciva d’impadronirsi d’una cassa; ma sul piú bello il proprietario, geloso del fatto suo, lo respingeva: – Ma che! non voglio affidare il mio bagaglio ad un vecchio che trema come un paralitico. Se vi sfugge dalle mani mal ferme, tutta la roba va a rifascio, ed il baule ne soffre. Bisognava che si combinassero: una grande affluenza di forestieri, una quantità straordinaria di bagagli, molta tolleranza nei facchini brevettati, e molta distrazione nei proprietari dei bauli, perché Gian Maria riescisse a trasportarne uno, ed a guadagnare venti centesimi. Naturalmente, questo concorso favorevole di circostanze accadeva di rado. Altre volte egli andava a collocarsi presso un posto di fattorini di piazza. E se per caso i fattorini erano occupati tutti, e nella loro assenza capitava qualche commissione di premura, e chi la portava aveva bastante fiducia nell’umanità, per affidarla ad un facchino avventizio senza medaglia per guarentigia, erano venticinque centesimi guadagnati. Bisognava passare le giornate fuori dal mattino alla sera, per afferrare il magro ciuffo di queste magre occasioni. Ed ancora era molto difficile riescirci. Ed al ritorno, avesse o no quello scarso guadagno, che certo non bastava a pagare il suo vitto, Gian Maria s’udiva ripetere invariabilmente da Teresa quell’opprimente discorso: – Se non trovate lavoro è perché non ci mettete abbastanza buona volontà. Quando s’ha voglia di guadagnare si riesce a cavar sangue da un muro. Quelle parole erano diventate l’incubo di Gian Maria. Ricordandole nel suo racconto esaltato, mi diceva: – Appena m’addormentavo, tutti i fiori della tappezzeria della sala

diventavano tanti cuori, ed i rami erano tante vene. E da quei cuori sgorgava un sangue caldo, rosso, abbondante, che scorreva per quelle vene, e tutto il muro palpitava. Ah, quanto sangue! Allora sí che avrei potuto cavar sangue da un muro. Ma Similoro mi odiava e non voleva ch’io mi facessi voler bene da Teresa. Quando mi vedeva uscire dal sottoscala nella notte e correre in sala col martello ed un chiodo per piantarlo nel muro, subito si dava ad abbaiare: Bahau! Bahau! Bahau! e balzava dalla poltrona, e mi veniva contro ringhiando: Uuuu! Uuuu! Uuuu! E allora i cuori impauriti non battevano piú e ridivenivano fiori, il sangue cessava di fluttuare nei rami, e, n’avevo voglia di piantar chiodi! Il muro non era piú altro che muro. IX. Il povero vecchio si assunse di lavare i piatti, di scopare la casa, di portare l’acqua e le legna, di fare infine tutto quello che avrebbe fatto una serva. Ma Teresa gli diceva: – Cosa importa a me che facciate codesti servigi? Tanto, c’è il piccolo della bottega che per molte ore non ha altro da fare. Mi serviva lui, e non mi costava nulla. Io non sono in caso di mantenere una persona soltanto per farmi servire. Raddoppiava di fatiche, di cure, di pulizia. Se avesse potuto sentirsi dire una volta: – Via! ve lo siete guadagnato questo poco di desinare. Ma no, mai. Quando aveva ridotta la casa come uno specchio, e guardava avidamente Teresa, sperando di udirne una buona parola, ella alzava le spalle borbottando: – Sie! e cosa mi entra in tasca a me per tutto codesto? Cosí passò l’estate; venne il novembre, colle giornate piovose, le nebbie, i venti. Gli abiti di Gian Maria erano sciupati fino alla corda. Il servizio di casa li distruggeva sempre piú. L’inverno s’avanzava, e non c’era speranza di coprirsi meglio; ed al tremito convulso, s’aggiungevano i brividi del freddo e qualche doglia. Quel sottoscala era inabitabile. Nei giorni umidi colava l’acqua dai muri: e

quando c’era vento, soffiava traverso le fessure larghe dell’uscio, ed assiderava le membra del vecchio nel suo lettuccio. Ed intanto l’umore di Teresa s’inaspriva sempre piú, e non senza ragione. Con quello che rendeva la bottega doveva provvedere a tutto. Il marito non le era di nessun aiuto; e non trovava in lui neppure le tenerezze che se ne era aspettata. Viveva piú fuori che in casa; beveva, fumava, costava caro. Di quattrini Teresa non gliene dava. Ma i debiti, quand’erano fatti, bisognava pagarli, ed essa recriminava: – Ecco che cosa ho guadagnato a rimaritarmi; ho rinunciato alla padronanza assoluta di casa mia; mi sono addossate due bocche di piú da mantenere; ed ho perduto per giunta l’innamorato, che, appena divenuto marito, ha cessato di farmi la corte. E la sua ira la sfogava contro Gian Maria. A pranzo, invece di porgere la porzione al vecchio, che stava seduto sullo scalino dinanzi al fuoco, gli domandava: – E voi ne volete? Era una piccola crudeltà di piú l’obbligarlo a dire di sí, che ne voleva. E come non volerne, quando non s’ha altra risorsa a questo mondo e s’ha fame? Egli rispondeva invariabilmente: – Oh... ma poco, poco, poco... – e gli pareva con quella restrizione, di diminuire l’indiscrezione dell’esigenza. – Sie! Poco! – rispondeva la macellaia con ironia e disprezzo. Ed a colazione gli dava soltanto un pezzo di pane. Nulla di caldo. Per quello che pagava! Oh, quelle rigide mattine di dicembre! Dover uscire già mezzo stanco dei lavori di casa, mal coperto, nudrito a quel modo, e rimanere delle ore sul lastrico, aspettando l’occasione d’un guadagno improbabile! La dignità istintiva del pover’uomo aveva finito per piegarsi e ripiegarsi a quei continui attriti colla miseria, e non gliene restava piú. Quando il pane e l’acqua gli si mettevano sullo stomaco freddi come un sasso, non sentiva piú che il bisogno di riscaldarsi, ed andava da un bruciataio a domandare per carità un po’ di brodo di castagne.

Quell’acqua densa, sucida, in cui navigano le pellicole nerastre, in cui hanno poste le mani il bruciataio e tutti i monelli dei dintorni, egli la beveva bollente, e gli sembrava deliziosa, quando la sentiva scendere a riscaldargli la stomaco. Ma non sempre i bruciatai erano disposti alla pietà. C’erano dei giorni in cui esigevano il prezzo di quell’acqua sporca; due centesimi. E Gian Maria, dopo essere stato un pezzo tremando accanto al banco, per aspettare che fossero serviti gli avventori, o per non interrompere un discorso, quando si faceva innanzi tutto umile ad esporre la sua povera preghiera, si sentiva dire di no; che gliel’avevano già dato un altro giorno il brodo per nulla; e se lo voleva lo pagasse. Due centesimi! Bisogna non aver voglia di lavorare per non saper guadagnare due centesimi! – Ma se non vogliono darmene del lavoro, perché sono vecchio e tremo. Se voleste farmi lavorar voi, io farei di tutto, per qualunque prezzo... – Io non ho bisogno di voi; ma se ci metterete un po’ di buona volontà, ne troverete del lavoro. Chi vuol lavorare ci riesce sempre. Era ancora il proverbio di Teresa detto in altro modo: cavar sangue da un muro. X.

Un giorno a pranzo Teresa disse: – Povero Similoro, come trema di freddo sotto il suo pelo corto! A Natale voglio fargli una gualdrappina che gli tenga caldo. A Natale! il vecchio rizzò il capo a quella parola. – Esisteva ancora quella festa, quella gioia di famiglia, quella devozione della sua povera mamma? La sua testa s’era indebolita; egli non sapeva quasi piú in che tempo vivesse. Quella parola gli ridestò in mente un mondo di visioni gioconde. La sua casa, i genitori onesti e sereni, l’agiatezza proporzionata alla loro posizione, il desinare solenne; e le sue nozze, e la nascita della figliola; e poi i suoi begli anni di vita colla sposa, in cui colle feste del Natale coincidevano quei due anniversari memorabili e cari. Non si facevano chiassi, né doni, né complimenti. Ma si facevano venire a pranzo in casa i due vecchi, e si beveva una buona bottiglia toccando i

bicchieri e dicendo: Evviva! Era l’epoca della luce, la sua bella luce svanita. Intanto fra i due macellai continuava il discorso della gualdrappina di Similoro. – Faresti meglio a darli a me quei quattrini, – diceva Renzo, – invece di farti corbellare per vestire il cane. Teresa non rispose, ed egli tirò innanzi: – Del resto Natale è doman l’altro, e per fortuna non hai piú tempo di far quella sciocchezza. Quello era stato un giorno disgraziato per Gian Maria. I suoi calzoni, che da un pezzo erano logori, avevano finito per lacerarsi sopra il ginocchio destro, e traverso quello strappo ignobile si vedevano le sue povere carni irrigidite. Si vergognava a mostrarsi cosí; non sapeva né come camminare, né come sedersi, e tremava per quello che accadrebbe ancora. C’erano certi calzoni di Renzo che formavano la sua aspirazione, ma Renzo non poteva darglieli. Quando Gian Maria gliene aveva parlato ai primi freddi, egli aveva risposto: – Per me ve li darei; tanto non ne faccio nulla: ma sa Iddio che inferno mi farebbe in casa quella donna. Lo vedete come mi tiene a secco: vuol essere padrona lei sola. Ed il vecchio non aveva piú osato parlarne. Ma ora il disastro del ginocchio ravvivava la sua aspirazione, ed all’udire il discorso di Teresa, pensò: – Se volesse regalarmi per Natale quei calzoni smessi? Era una grande speranza. Quella sera, invece di coricarsi, dopo aver lavati i piatti, si pose a lucidare tutto il rame della cucina, poi andò in bottega a lavare le tavole di marmo, a dar l’olio al legno delle imposte e del banco, a pulire le impannate. E quando ebbe finito, andò in sala e disse a Teresa: – Ecco, è tutto pulito, casa e bottega per la vigilia di Natale. – Va bene, – disse Teresa con indifferenza, senza alzare gli occhi dal suo lavoro. Il vecchio cominciò ad intimidirsi a quella risposta fredda, e per aumentare il proprio credito, soggiunse:

– E domani, giacché voi altri starete in bottega fino a sera, andrò a cercare un po’ di calce agli uomini del mio capo-mastro, ed accomoderò la spalla di questo camino che è tutta screpolata. – Sí, farete bene, – tornò a dire Teresa e dopo essersi assicurata con un’occhiata che quell’operazione era necessaria, soggiunse meno freddamente: – Non mancate di farlo. Questa raccomandazione che dava un po’ d’importanza al suo lavoro, incoraggiò un pochino Gian Maria a domandare quel grande compenso. Egli riprese esitando: – Soltanto, che... con questi calzoni, mi vergogno a farmi vedere dai muratori per andare a pigliare la calce. Vedete, mi vien fuori un ginocchio... – Bravo! Cosa debbo fare io? domani è la vigilia di Natale, non posso lasciar la bottega per rattoppare i vostri calzoni. – Oh! dicevo... se voleste... – Il vecchio non osò proseguire. – Potresti dargli quei vecchi calzoni a quadretti ch’io non porto piú, – disse alla moglie Renzo, che aveva compreso il desiderio di Gian Maria. – Ma che! – rispose Teresa. – Sei matto. Non basta mantenerlo, dovrei pensare anche a vestirlo? Guai se si comincia una volta! – Già, da sé non può vestirsi, – ribatté ancora il macellaio. – Se non trova da lavorare! – Ah! tu li proteggi quelli che non trovano da lavorare, perché ti piace pure far nulla. Ma a me non la si dà ad intendere che non si trova lavoro. Gliel’ho detto mille volte, che chi ha voglia di guadagnare, riesce a cavar sangue da un muro. Gian Maria si cacciò le dita negli orecchi, e fuggí nel suo bugigattolo. Quel proverbio gli dava le vertigini. Si pose a sedere, cosí vestito, sul letto, e stette tutta la notte a gemere come un bambino. Vaneggiava; chiamava la mamma, la sua povera mamma che faceva la novena di Natale. Chiamava la sua sposa, la sua bella sposa bionda, che venisse a mettergli una toppa sul ginocchio. Poi si alzava ed andava a piantare un chiodo nel muro, piú qua, piú là, piú sopra, piú sotto; poi stava a

guardare il piccolo foro, e tornava a gemere. Quel proverbio gli si era cacciato in testa, era diventato un’idea fissa. Cercava di cavar sangue dal muro. Appena fu giorno uscí. – Che tempo! – diceva raccontandomi quegli episodii tristi. – Era tutto buio, tutto tenebre. Una vigilia di Natale in tanta miseria, senza preparativi, senza speranza. E nessuno che dicesse: «Figliolo, ha fatta la novena?» E nessuno che portasse la bottiglia per far l’evviva. Si pensava soltanto a Similoro. Il Natale non era piú la festa dei cristiani, era la festa dei cani. Fin il Cielo si oscurava a quegli orrori. La nebbia era fitta come un lenzuolo, la neve veniva giú rapida e silenziosa, e tutte le strade erano bianche come le lapidi del campo santo. Perché la mia povera mamma era morta, e s’era portata via nella cassa l’allegria del Natale. E la gente si moveva in silenzio, per rispetto alla morta che aveva amata quella festa; e fino le carrozze venivano innanzi senza rumore; camminavano in punta di piedi. Quella mattina il vecchio fu visto correre, tutto curvo, tremante, lacero, illividito, parlando e gemendo tra sé, e fermarsi tratto tratto, per piantare un chiodo nel muro. Era già fuori delle porte, e stava per tornare a casa, quando vide un cagnolino, e si fermò a guardarlo. Gli era venuto in mente Similoro, il suo rivale, il suo nemico. – Egli avrà la gualdrappa, – piagnucolò; – ed io andrò lacero e mezzo nudo, perché non mi riesce di cavar sangue da un muro. Ad un tratto si mise a ridere forte, ed a fregarsi le mani come un uomo contento. Gli era venuta un’idea. – Ecco come si fa a cavar sangue da un muro! – esclamava, e rideva daccapo, e ripeteva: – Ecco come si fa! Cosí si fa! E voltò strada avviandosi ad una casa in costruzione. Mezz’ora dopo ci aveva fatta la sua provvista di calce, e rientrava nella sala di Teresa per accomodare la spalla del camino. Quel giorno c’era un lavoro straordinario nella bottega, perché la mattina di Natale non doveva aprirsi, tutti pensavano a provvedersi la vigilia. Gian Maria rimase solo tutto il giorno nel salotto.

Verso le quattro, Teresa e Renzo rientrarono per mangiare un boccone che s’erano mandato a prendere da un ristorante vicino, perché la macellaia non aveva avuto tempo di preparare il pranzo. Gian Maria era in una grande esaltazione. Parlava tra sé, rideva forte. – È Natale, – diceva. – Il Natale è una gran festa. Si fa tutto quello che si vuole a Natale. Si cava anche sangue dai muri. – Dov’è Similoro? – domandò Teresa. Il vecchio si fregò le mani e rispose giubilando: – Similoro non avrà la gualdrappina, ed io avrò i calzoni perché colla buona volontà si riesce a cavar sangue da un muro. Si riesce, si riesce. – Via, stupido! – disse Teresa. – È meglio che andiate fuori a cercarmi il cane. – E dove l’hai la coscienza, – le gridò Renzo, – a mandar fuori un vecchio in quello stato per cercare una bestia? – Sí, sí. Lei vuol piú bene al cane che a me; il Natale è la festa dei cani, – disse il vecchio. – Ma io riesco a cavar sangue da un muro; ed allora il Natale torna ad essere la festa dei cristiani, la festa della mia mamma. Guardate! Io riesco! E piantò un chiodo lungo che aveva in mano contro il muro e vi picchiò sopra col martello, ridendo convulsamente. Il chiodo scomparve tutto. Ma invece del rumore secco del muro, s’udí una specie di rantolo soffocato. Gian Maria tolse il chiodo, ed uno sprizzo di sangue uscí dal foro. Poi quasi subito si vide disegnarsi sulla tappezzeria un cerchio nerastro largo parecchi decimetri; la carta si fece tutta scura, s’andò sporgendo in fuori sempre piú a misura che si bagnava, come se cedesse alla pressione di un corpo pesante, e finalmente si ruppe, ed una massa nera, e sanguinante rotolò a terra, lasciando un vuoto scavato di fresco nel muro, che era stato ricoperto con quel pezzo di tappezzeria distesa ed incollata in giro. Teresa mise un grido di rabbia riconoscendo il cadavere di Similoro, col muso strettamente imbavagliato e le gambe legate. E Gian Maria continuava a tripudiare, faceva l’atto di danzare per la gioia, e gridava:

– Ci sono riescito, ci sono riescito! Ho cavato sangue da un muro. – E d’allora, – mi disse terminando il suo racconto, – le miserie sono finite. Oh che buon Natale, che calore, che luce! Ed ho una bella casa, ed un letto dove non tira a vento, e non mi scende la scala sul capo. E vado a tavola cogli altri, e non ho strappi; e quando la minestra fuma sulla tavola, non mi dicono: «E voi ne volete?» Me la dànno; mi dànno tutto; e non ho piú fame, non ho piú freddo. Oh il bel Natale! Il bel Natale della mia povera mamma, della mia povera donna che ha pregato per me! È tornato il caldo nel mio cuore, è tornata la luce! La sua ragione non aveva resistito a tanta miseria. Quel benessere, quella pace, quella benevolenza, quelle gioie della sua gioventú, le aveva ritrovate all’Ospizio de’ matti. E vi godeva in una pazzia calma e serena il secondo periodo di luce, che chiudeva tranquillamente la sua povera vita.

Mario Rigoni Stern Un Natale del 1945

Piú che la neve che doveva calpestare durante il giorno, era il freddo della notte che gli rendeva duro quel tempo. Partiva quando il chiarore dell’alba compariva sulle rocce dell’alta montagna dal bel nome che gli stava di fronte: l’ondata del sole toccava poi via via tutte le montagne intorno. Restavano però sempre in ombra alcuni versanti, il fondovalle, e i boschi in basso dove il sole sarebbe arrivato solo a marzo. Lí la neve rimaneva sempre appesa alle rocce e agli alberi, dando una sensazione di freddo fossile. Camminava su per l’erta fin dove il grande bosco confinava con i pascoli delle malghe piú alte, dove il debole sole di dicembre dolcemente lo riscaldava. Era questo il posto dove l’anno prima i tedeschi della «Todt» avevano fatto tagliare gli alberi piú alti e piú belli per rifare i ponti sul Po, che ogni volta venivano distrutti dai bombardamenti degli Alleati o dai partigiani. Ora erano rimasti i grossi ceppi ultracentenari, pesanti e compatti, abbarbicati alla montagna e cementati dal gelo. Vi saliva portando sulle spalle la slitta leggera e solida, il cibo per un pasto, una borraccia d’acqua. Il badile, il piccone, le scuri e gli altri attrezzi li lasciava lassú ai piedi di un abete che aveva rami tanto fitti e larghi da formare una capanna sotto il livello della neve. Un’ora e mezza di salita al mattino, mezz’ora di discesa nel pomeriggio con tre quintali di ceppi sulla slitta. Gli scarponi e le gambe sino alle ginocchia erano protetti con teli di sacco. Quando arrivava in quell’ultimo bosco, con un ramo di citiso lungo e appuntito forava lo strato di neve per saggiare se sotto il rialzo c’era un ceppo

oppure un sasso; con il badile spalava la neve per denudare il terreno e con il piccone scavava per liberare le radici; con le scuri le tagliava e, infine, con la leva di ferro rovesciava il ceppo. I ceppi troppo grandi, prima di sradicarli, li spaccava in quarti o in ottavi con i cunei e la mazza. A volte faticava molto con poco risultato, altre volte con poca fatica riusciva anche a fare due carichi con la slitta sino in fondo alla valle, dove in primavera avrebbe potuto vendere mille quintali di legna, o forse piú, per le fornaci e le vetrerie. E con il ricavo pagare il debito e il viaggio per l’Australia. Era ritornato in ottobre dopo aver fatto un lungo giro per l’Europa orientale. L’avevano preso i fascisti durante un rastrellamento nel settembre del ’44. Processato, l’avevano condannato a morte per «banditismo», e la condanna era poi stata commutata nella deportazione a vita in Germania. In qualche modo se l’era cavata, ma ritornato al suo paese troppe cose trovò cambiate nel giro di un anno; sua madre non c’era piú, e non se la sentiva di vivere in quella casa. Ma intanto vivere doveva. Decise allora di andare dal santolo Toni, che aveva bottega di alimentari. – Santolo, – disse, – voi sapete come mi è andata; non ho che poche lire che mi hanno dato al distretto militare, ma ho tanta voglia di lavorare. Se mi fate credito in primavera pagherò tutto. Ebbe lardo, farina da polenta, fagioli, formaggio tarato, orzo, pasta e conserva di pomodoro. Un po’ di patate le ottenne in carità da una famiglia della contrada; barattando due lepri prese con i lacci riuscí ad avere tre chili di sale. Prima delle nevicate caricò tutto il suo avere sul carro di un amico che andava a sboscare, per conto del Comune, l’ultimo legname abbandonato dai tedeschi. Nella vecchia osteria semidistrutta, sotto un tetto riparato alla meno peggio con delle travi bruciacchiate, in quell’autunno del 1945 trovavano ricovero boscaioli, bracconieri, cavallari, reduci allo sbando. Ma dopo le prime nevicate se ne andarono tutti per non restare bloccati un lungo inverno. Lui si ritrovò solo. Non gli dispiaceva: poteva parlare con le cose che gli stavano intorno, e lavorare come gli pareva, e pensare e meditare su

quanto gli era capitato in quegli anni, da soldato in Albania, da partigiano sulle montagne, da condannato a morte, da deportato, da vagabondo quando il Lager era stato liberato dai soldati russi. I giorni di sole con il freddo intenso, i giorni di neve uniformi e come sommersi fuori dal tempo, il suo fuoco, il silenzio. E la sua fatica e il sonno profondo sullo strame di paglia accanto al fuoco che si spegneva sulle pietre del focolare, dove, per secoli, avevano trovato compagnia i viandanti e i contrabbandieri. Non sapeva il trascorrere dei giorni; aveva sí, con il coltello, inciso una tacca sul ramo di un abete ogni mattina che risaliva il sentiero pestato nella neve come una trincea, ma non ricordava piú il giorno che era rimasto solo, e forse non sempre aveva inciso la tacca. Avrebbe potuto essere la fine di dicembre, o anche il principio dell’anno nuovo. Ma che importanza aveva? I viveri, a dosarli bene, sarebbero bastati ancora un paio di mesi; se poi riusciva a prendere con i lacci qualche lepre o un capriolo poteva arricchire la razione. – Magari un giorno, – disse al fuoco, – dopo una nevicata, invece di cavar ceppi vado a seguire le tracce. Anche quella sera aveva ravvivato il fuoco scoprendo dalla cenere la bracia del mattino. E ora, dopo aver appeso alla catena il paiolo con l’acqua per fare la polenta, si era arrotolato la sigaretta di trinciato, l’unica che poteva permettersi e sempre in quel momento della giornata. Guardava le fiamme salire sul fondo nero della fuliggine depositata sulle pareti del camino, le faville che si rincorrevano, e si sentiva appagato dalla giornata trascorsa. Fuori il cielo si era abbassato, e lentamente aveva ricominciato a nevicare. Unico rumore, quello del fuoco e del suo respiro. Sentí avvicinarsi un frusciare di sci, un respiro affaticato, poi lo sbattere dei legni per staccare la neve, chiamare il suo nome. Riconobbe subito la voce ma non si scostò dal fuoco. Sentí battere con forza sulla porta e ancora ripetere il suo nome. Si alzò dalla panca, levò il paletto che teneva chiusa la porta, l’aperse e chiese: – Cosa vuoi? – Oggi è Natale, – gli rispose l’uomo. – Ho saputo che sei qui. Posso entrare? – Meglio di no.

– Ascoltami, almeno. – Vieni avanti. L’uomo si pulí dalla neve, si avvicinò al fuoco e disse: – Quando ti abbiamo preso e condannato non ho fatto che eseguire gli ordini. Era quello il mio dovere verso la patria. Non è stata colpa mia. Non rispose, non fece nessun gesto. Guardava il fuoco ed era come rivivere tutto. Le donne e i ragazzi uccisi dai soldati tedeschi, i compagni morti di freddo sulle montagne dell’Albania, gli ebrei di Leopoli. Il Lager. Il Lager dov’era morto quel ragazzo di città che era stato preso e condannato assieme a lui: lo avevano spogliato e buttato nudo nella grande fossa oltre i reticolati, dove c’erano jugoslavi, greci, polacchi, russi, italiani. Era stato proprio l’anno prima, di questo tempo, perché assieme alla fame c’era anche tanto freddo. Forse era Natale, quel giorno di dicembre in cui morí il ragazzo. Non ascoltava quello che gli diceva il suo maestro della scuola elementare, che aveva poi ritrovato in divisa della Brigata Nera. L’acqua nel paiolo stava per alzare il bollore; andò a prendere il sale e la farina. – Oggi è la Natività del Signore, – riprese il maestro, – ho saputo che eri qui da solo e sono venuto a trovarti. Ti chiedo scusa per quello che ti ho fatto. Ho qui nello zaino un panettone e una bottiglia di spumante. Non poteva perdonarlo, no. Non per quanto lo riguardava direttamente, ma per gli altri che non avevano nemmeno piú un fuoco da guardare. Si avvicinò alla porta e la spalancò. Là fuori era buio e la neve che mulinava dal cielo veniva a posarsi fin sulla soglia di pietra della vecchia osteria di confine. – Va’ via, – gli disse sottovoce.

Fëdor Dostoevskij Le feste di Natale

Finalmente vennero le feste. Già dalla vigilia di Natale i detenuti non andarono quasi al lavoro. Andarono quelli che lavoravano nelle officine, nei magazzini, ma gli altri andarono soltanto alla ripartizione e furono assegnati a questo o quel lavoro, ma quasi tutti, o soli o a gruppi, tornarono subito al penitenziario e dopo il desinare nessuno uscí piú. Dalla mattina la maggior parte dei detenuti attese soltanto alle proprie faccende e non a quelle dell’amministrazione; alcuni si occuparono a far portare dell’acquavite, a ordinarne della nuova; altri avevano il permesso di vedere gli amici, i compagni, le comari, o riscuotevano, in vista della festa, i piccoli crediti che avevano per lavori già fatti; Baklu∫in e quelli che prendevano parte alla rappresentazione facevano premura ai loro conoscenti, quasi tutti attendenti di ufficiali, per avere in prestito i costumi necessari. C’eran quelli che andavano e venivano tutti affaccendati all’aspetto, unicamente perché vedevano gli altri affaccendati, e benché non dovessero aver denaro da nessuno pareva che dovessero introitare chi sa quali somme: in una parola, tutti aspettavano l’indomani come se dovesse portare un cambiamento, qualcosa d’insolito. Verso sera, gli invalidi, che erano andati a far spese nelle botteghe per i forzati, tornarono portando ogni sorta di cose da mangiare: carne di bue, porcellini da latte e anche oche. Molti dei detenuti, anche di quelli piú misurati e piú economi, che mettevan da parte tutto l’anno i loro copechi, sentivano il bisogno di fare un certo lusso quel giorno e celebrare la festa in modo degno. L’indomani era per i detenuti una vera festa, che non poteva esser loro tolta, festa autorizzata dalla legge. Quel giorno il forzato non può essere mandato al lavoro, e di questi giorni ce ne sono

soltanto tre all’anno. E finalmente, chi sa quanti ricordi dovevano muoversi nell’animo di quei reprobi all’avvicinarsi di un tal giorno! I giorni delle grandi feste raramente si cancellano dalla memoria della gente del popolo, a cominciare dall’infanzia. Sono giorni di riposo dalle loro pesanti fatiche, giorni di riunione in famiglia. In carcere, essi debbono rammentarli con angoscia e tormento. Il rispetto al giorno solenne diventava per i detenuti qualcosa d’imponente: pochi facevano baldoria: tutti erano seri e sembravano occupati, benché molti non avessero nulla da fare. Ma anche quelli che si permettevano qualche stravizio conservavano una certa gravità... Pareva che il riso fosse proibito. In generale c’era come una suscettibilità, una irritazione prodotta dall’impazienza, e chi usciva dal tono comune, anche involontariamente, era rimesso a posto con grida e ingiurie e tutti erano adirati contro di lui come se avesse mancato di rispetto alla festa. Questa disposizione d’animo dei forzati era notevole e anche commovente. Oltre all’innata venerazione per il gran giorno, il detenuto incoscientemente sente che con quest’osservanza della festa in certo modo comunica con tutto il mondo, che non è assolutamente un reprobo, un uomo perduto, un membro tagliato via; che anche in carcere si fa quello che fa l’altra gente. Questo sentivano: ed era visibile e comprensibile. Akim Akimy™ anche lui si preparava alla festa. Non aveva ricordi di famiglia, perché era cresciuto, orfano, in casa altrui e appena a quindici anni era entrato in un servizio faticoso: nella sua vita non c’erano gioie particolari perché era sempre vissuto regolarmente, uniformemente, sempre con la paura di venir meno, anche di un capello, ai doveri che gli erano stati imposti. Non era specialmente religioso, perché la sua rettitudine eccessiva pareva aver soffocato in lui tutte le altre qualità umane, tutte le sue passioni, tutti i suoi desideri, buoni o cattivi che fossero. In conseguenza egli si preparava ad andare incontro al giorno solenne senza affaccendarsi, senza agitarsi, senza turbarsi con ricordi tormentosi e perfettamente inutili, ma con tranquilla, metodica puntualità, che era quanto bastava per compiere i suoi doveri, e celebrare una festa, stabilita una volta per sempre. In generale non gli piaceva di riflettere troppo. La significazione del fatto non gli era mai entrata in

mente, ma una volta che gli era stata data una regola vi si conformava con religiosa esattezza. Se gli avessero ordinato di far l’indomani proprio il contrario di quel che aveva fatto la vigilia l’avrebbe eseguito con la stessa sottomissione e la stessa attenzione. Una volta, soltanto una volta in vita s’era provato a vivere a modo suo, e capitò all’ergastolo. La lezione non gli fu inutile. E quantunque non avesse mai capito in che consisteva il suo delitto, pure ne aveva tratto a suo vantaggio una regola salutare: non ragionar mai, in qualunque circostanza, perché ragionare non era «affare della sua zucca», come si esprimevano fra loro i detenuti. Ciecamente devoto al cerimoniale, guardava con speciale rispetto il porcellino da latte della festa, che lui stesso aveva farcito e fatto cuocere (realmente, sapeva far da cucina) come se non fosse un porcellino ordinario, che sempre si può comprare e arrostire, ma qualcosa di particolare, qualcosa di esclusivo per la festa di Natale. Forse fin dall’infanzia era abituato a veder un porcellino sulla tavola in quel giorno, e ne aveva concluso che fosse una cosa indispensabile. Io son sicuro che se una volta, in quel giorno, non avesse mangiato il porcellino, per tutta la vita gli sarebbe rimasto lo scrupolo di coscienza del dovere non compiuto. Fino al giorno della festa egli se ne andava con la sua vecchia giacchetta e i suoi vecchi calzoni, che malgrado sapienti rammendi, non erano piú portabili. Ma ora si venne a sapere che egli teneva accuratamente riposto nella sua cassetta un abito nuovo che gli avevano consegnato quattro mesi prima, e che non aveva toccato tanto gli sorrideva l’idea di rinnovarlo il giorno della festa. E cosí fece. La sera della vigilia tirò fuori il suo abito, lo spiegò, lo riguardò, ci soffiò sopra per far andar via la polvere, mise tutto bene in ordine e se lo provò. Il vestito gli andava bene, tutto era a posto, si abbottonava fino al collo, il colletto stava su ritto come se fosse di cartone e gli toccava il mento; la fattura aveva qualcosa di militare e Akim Akimy™ gongolava di gioia e tutto fiero si pavoneggiava davanti al suo minuscolo specchio, che da un pezzo aveva lui stesso, in un momento libero, guarnito con una piccola bordura dorata. Solo un gangheretto del colletto si trovò fuori posto. Accorgendosi di ciò, Akim Akimy™ decise di rimetterlo dove doveva stare; lo rimise, si riprovò la

giacca e tutto era in perfetto ordine. Allora ripiegò l’abito come stava prima e con l’animo tranquillo lo ripose nella cassetta fino all’indomani. La sua testa era rasata a dovere, ma, guardandosi attentamente nello specchietto, si accorse che non era perfettamente liscia: si vedevano ancora dei ciuffetti di capelli appena percettibili ed egli subito andò dal «maggiore» perché lo radesse a perfezione e secondo l’ordinanza. E benché l’indomani nessuno si sarebbe messo a osservarlo, volle esser rasato per tranquillità della sua coscienza, per compiere tutti i suoi doveri in quel giorno. Lo scrupolo per un bottone, per il minimo cordoncino, il minimo passamano, fin dall’infanzia s’era impresso indelebilmente nella sua testa come un imperioso dovere, e nel suo cuore come l’ultimo grado di bellezza, al quale può giungere un uomo per bene. Come anziano della camerata, ispezionò tutto, fece portare del fieno e badò che si spargesse a terra. Lo stesso si fece nelle altre camerate. Non so perché, ma di Natale si spargeva sempre del fieno nelle camerate. Poi, dopo aver terminato tutte le sue fatiche, Akim Akimy™ pregò Dio, si sdraiò nel suo letto, e subito si addormentò del placido sonno dell’infanzia, per svegliarsi al piú presto la mattina seguente. Del resto, fecero cosí anche tutti gli altri detenuti. Per tutte le camerate si andò a dormire piú presto del solito. I consueti lavori della sera furono interrotti: di majdan non si parlò neppure. Tutti aspettavano la mattina seguente. Quella mattina finalmente giunse. Presto, prima che facesse giorno, quando appena si batté la diana, si aprirono le camerate, e il sottufficiale di guardia, entrando per contare i detenuti, augurò a tutti un buon Natale. Gli risposero contraccambiando l’augurio, in modo cortese e affettuoso. Dette frettolosamente le preghiere, Akim Akimy™ e molti altri, che avevano le loro oche e i loro porcellini da latte in cucina, andarono lesti lesti a vedere che cosa si faceva, come cuocevano, a che punto erano, ecc. Nel buio, dalle finestre della nostra camerata, ostruite dalla neve e dal ghiaccio, si vedeva nelle due cucine, in tutt’e sei i focolari, brillare un fuoco vivo, acceso prima che schiarasse giorno. Nell’oscurità del cortile, i detenuti si affollavano, in maniche di camicia, con le loro mezze pellicce buttate sulle

spalle; tutti si dirigevano in cucina. Ma alcuni, pochi però, erano riusciti già a visitare gli spacci di vino. Erano i piú impazienti. In generale, tutti si conducevano convenientemente, con tranquillità e con maggior compostezza del solito. Non si udivano né le abituali parolacce, né le risse abituali. Tutti capivano che era un gran giorno e una festa solenne. Alcuni andarono nelle altre camerate a far gli auguri ai loro compagni. C’era come un’amicizia generale. Noterò passando che fra i forzati non ci sono quasi mai amicizie, non dico comuni, ciò nemmeno per sogno, ma neppure particolari; è rarissimo che un detenuto si leghi con un altro. Da noi non accadeva quasi mai, era un tratto caratteristico: cosí non accade in libertà. Da noi, nei rapporti nostri, eravamo aspri, freddi, con rare eccezioni, e regnava un tono formalistico, accettato e stabilito una volta per tutte. Io pure uscii dalla camerata; cominciava a far giorno; le stelle impallidivano: si alzava un leggero vapore ghiacciato. Dai tubi dei focolari di cucina uscivano colonne di fumo. Alcuni detenuti che mi venivano incontro a caso, con allegria e gentilezza mi augurarono le buone feste. Io ringraziai, ricambiando gli auguri. Fra loro c’erano alcuni che non avevano scambiato una parola con me per tutto quel mese. Vicino alla cucina mi raggiunse un forzato della camerata militare, con il tulup buttato sulle spalle. Di mezzo al cortile m’aveva veduto e mi gridava: «Aleksandr Petrovič! Aleksandr Petrovič!» Correva in tutta fretta verso la cucina. Io mi fermai e l’aspettai. Era un giovanotto con un viso tondo, con una espressione dolce negli occhi, assai poco discorsivo con tutti e che ancora non mi aveva detto una parola, né fatto nessuna attenzione a me dacché ero entrato al penitenziario: io non sapevo neppure come si chiamava. Egli corse verso di me tutto affannato e mi si fermò davanti bruscamente, guardandomi con un sorriso insulso, ma benevolo. – Che volete? – gli chiesi, non senza sorpresa, vedendo che mi stava davanti, sorrideva, mi guardava con tanto d’occhi e non cominciava a parlare. – Come dunque? La festa... – borbottò, ma avendo capito che non aveva piú nulla da dire, mi piantò e si diresse in fretta in cucina.

Noterò qui, a questo proposito, che dopo di ciò non c’incontrammo piú né ci dicemmo piú una parola fino alla mia uscita dal carcere. In cucina, intorno ai fornelli che ardevano, c’era un affaccendarsi, un discutere, un affollarsi. Ognuno badava alla roba sua, i cuochi preparavano il cibo solito del penitenziario, perché quel giorno il pranzo doveva essere piú presto. Nessuno però cominciava a mangiare, anche se ne aveva voglia, per serbare le convenienze davanti agli altri. Si aspettava il prete, e soltanto dopo la sua venuta si poteva rompere il digiuno. Intanto non era ancora giorno chiaro e già si sentiva dietro alla porta il grido del caporale: – Cuochi! – Questo grido si ripeté per circa due ore. Volevano i cuochi perché prendessero le offerte venute da tutte le parti della città. Queste erano in quantità enorme: panini bianchi, pane, ciambelle, biscotti, torte e altre pasticcerie di questo genere. Credo che non fosse rimasta in tutta la città una sola padrona di casa, nella categoria dei mercanti e dei piccoli borghesi, che non avesse mandato il suo dono per far celebrare la grande festa ai «disgraziati». C’erano ricche elemosine: panelli della piú pura farina, mandati in gran quantità. Ce n’erano anche delle poverissime, chi aveva mandato un panino di un gro∫ o due ciambelline appena spalmate di crema agra; era il dono del povero al povero. Tutto era accettato con la stessa riconoscenza, senza distinzione fra dono e dono. Nel ricevere le elemosine i detenuti si levavano il cappello, s’inchinavano, auguravano buone feste e portavano i doni in cucina. Quando si erano riuniti mucchi interi di pane dato in elemosina, si chiamavano gli anziani di ogni camerata ed essi distribuivano tutto egualmente alle varie camerate. Non c’erano discussioni né borbottamenti: le cose si facevano onestamente e per bene. Quel che toccava alla nostra camerata era poi spartito fra noi: faceva la divisione Akim Akimy™ con un altro detenuto: ed essi dalla mano alla mano ci davano la nostra parte. Non ci fu il minimo reclamo, la minima invidia da parte di nessuno: tutti rimasero contenti. Già non ci potevano essere sospetti che le elemosine non fossero ripartite equamente. Avendo terminate le sue faccende in cucina, Akim Akimy™

cominciò a vestirsi, mise i suoi abiti con tutta l’attenzione e la solennità possibili, senza lasciare un sol gangheretto non appuntato, e appena vestito andò a dire le preghiere in comune. Pregò abbastanza a lungo. Vennero a dir le preghiere molti detenuti, per lo piú persone di età avanzata. Di solito la gioventú non pregava: alzandosi si faceva il segno della croce e anche questo soltanto nelle feste. Dopo aver pregato, Akim Akimy™ venne da me e con una certa solennità mi fece gli auguri natalizi. Io lo invitai a prendere il tè ed egli mi invitò a mangiare del suo porcellino. Un po’ di tempo dopo venne anche Petrov a farmi gli auguri. Credo che avesse già bevuto, e benché fosse venuto di corsa e tutto affannato, mi disse poche parole ma soltanto rimase un pezzetto davanti a me, come se aspettasse qualcosa, e poi se ne andò in cucina. Intanto nella camerata della sezione militare si preparavano a ricevere il prete. Questa camerata non era disposta come le altre: i letti erano collocati lungo il muro e non nel mezzo della stanza come in tutte le altre, sicché era l’unica stanza nel penitenziario che non fosse occupata nel centro. Verosimilmente era stata disposta cosí perché, in casi di necessità, vi si potessero riunire i detenuti. Nel mezzo della stanza avevano messo una piccola tavola, l’avevano ricoperta con una tovaglietta pulita, vi avevano situato le immagini e accesa una lampadina. Finalmente venne il prete con la croce e l’acqua benedetta. Avendo pregato e cantato davanti alle immagini, egli si mise ritto di faccia ai detenuti, e tutti con sincera devozione andarono ad inchinarsi alla croce. Poi il prete percorse tutte le camerate e le asperse di acqua benedetta. In cucina vantò il nostro pane del penitenziario che era celebrato in città per il suo sapore, e i detenuti subito vollero mandargli due panelli freschi, usciti allora allora dal forno, e uno degli invalidi fu incaricato di portarglieli subito a casa. I forzati ricondussero la croce con lo stesso rispetto col quale le erano andati incontro, e quasi subito dopo vennero il maggiore e il comandante. Il comandante era amato e anche rispettato fra noi. Egli andò in giro per tutte le camerate in compagnia del maggiore, fece a tutti gli auguri di Natale, entrò in cucina e assaggiò la zuppa di cavoli dei detenuti. La zuppa di cavoli era eccellente e per quel giorno fu

attribuito a ogni detenuto un funt di carne: oltre a tutto era stata preparata della ka∫a e ci si metteva del burro a volontà. Dopo aver ricondotto il comandante, il maggiore diede ordine che si andasse a pranzo. I forzati facevano di tutto per non capitargli sotto gli occhi. Da noi, non era amato; non ci piaceva il suo sguardo cattivo, che egli girava a destra e a sinistra di sotto agli occhiali per vedere se trovava qualcosa che non fosse in ordine, se poteva cogliere qualcuno in fallo. Ci mettemmo a pranzo. Il porcellino di Akim Akimy™ era arrostito alla perfezione. Ed ecco, non posso spiegare come avvenne, ma appena il maggiore fu uscito, passati forse cinque minuti, ci fu una gran quantità di gente ubriaca, e intanto, cinque minuti prima nessuno era avvinazzato. Ci furono molti visi rossi e lucidi: comparvero le balalaike. Il piccolo polacco col violino già seguiva un buontempone che lo aveva ingaggiato per tutto il giorno, e gli suonava delle danze allegre. L’acquavite già faceva i discorsi piú rumorosi. Ma si finí di desinare senza grande disordine. Tutti erano sazi. Molti dei piú vecchi e dei piú seri se ne andarono subito a dormire, il che fece anche Akim Akimy™, nell’idea, credo, che dopo un pranzo di giorno di festa si debba andare immancabilmente a dormire. Quel vecchietto della setta dei vecchi credenti di Starodub, un po’ sonnacchioso, si arrampicò sulla stufa, aprí il suo libro e si mise a pregare fino a notte fonda, non interrompendo quasi mai la preghiera. Gli era penoso assistere alla «vergogna», come diceva lui, di quella orgia dei detenuti. Tutti i circassi s’erano messi a sedere sulla soglia della porta e con curiosità mista a un certo disgusto guardavano quella gente ubriaca. Nurra mi venne incontro. «Jaman1, jaman!», mi disse, scuotendo il capo con l’indignazione dell’uomo per bene, «oh! jaman! Allah sarà in collera». Isaj Fomi™, con aria insolente e ostinata, accese nel suo cantuccio una candela e cominciò a lavorare, per far vedere chiaramente che egli non teneva alla festa. Qua e là, negli angoli, si organizzava un majdan. I forzati non temevano gli invalidi, ma nel caso che potesse sopraggiungere il sottufficiale, il quale del resto si sforzava di non vedere, misero delle sentinelle. L’ufficiale di guardia quel giorno fece tre ronde soltanto. Allora gli

ubriachi si nascondevano, il majdan scompariva, ma l’ufficiale stesso, credo, aveva deciso di non fare attenzione a quei piccoli disordini. L’ubriachezza in quel giorno era tenuta per un piccolo disordine. A poco a poco la gente cominciò a eccitarsi. Ne vennero degli alterchi. Tuttavia la maggior parte era rimasta sobria e poteva badare agli ubriachi. Ma quelli che facevano bisboccia bevevano senza misura. Gazin trionfava. Egli passeggiava con aria soddisfatta intorno al suo posto sul tavolaccio, sotto al quale aveva nascosto l’acquavite, tenuta fino a quel momento seppellita sotto la neve dietro alle camerate, in un posto segreto, e rideva furbamente guardando i suoi soliti clienti, che venivano da lui. Egli stesso era sobrio e non beveva una goccia di acquavite. Aveva l’intenzione di fare un po’ di stravizio alla fine della festa, dopo avere in precedenza preso tutti i denari dalle tasche dei detenuti. Per le camerate si udivano delle canzoni. Ma l’ubriachezza era diventata qualcosa d’infernale e le canzoni commuovevano fino alle lacrime. Molti passeggiavano con le loro balalaike, con i tulup gettati sulle spalle, e pizzicavano le corde con un fare da smargiassi. Nella «sezione particolare» s’era formato un coro di otto uomini. Essi cantavano molto bene, con accompagnamento di balalaike e di chitarre. Si cantavano poche canzoni davvero popolari. Ne ricordo soltanto una, cantata alla bravaccia: Ieri, io giovanetto, Andai al festino. E qui udii una nuova variante di questa canzone che prima non avevo mai udita. Alla fine della canzone erano aggiunti questi versi: A casa mia Tutto è pronto: Ho lavato i cucchiai, Ho scodellato la minestra, Ho grattato i pali della porta, Ho fatto cuocere le torte. Per lo piú si cantavano le canzoni cosí dette «dei forzati» che, del resto, erano tutte conosciute. Una che cominciava «C’era una volta...» era umoristica e raccontava come, in passato, un uomo s’era divertito, vivendo da

signore in libertà, e ora era capitato in carcere. Raccontava come, prima, egli versasse dello champagne sul suo blanc-manger e ora: Mi danno dei cavoli cotti all’acqua E ne mangio tanti da rompermi gli orecchi. Cantavano anche questa, troppo conosciuta: Prima io, giovanotto, vivevo allegramente E avevo il mio capitale; Il capitale me lo sono mangiato, E ora son capitato a vivere in carcere. e cosí via. Solo essi non pronunziavano «capitale» ma «copitale» che credevano derivasse dal verbo kopit’ (ammassare). Ne cantavano anche delle malinconiche. Una, credo, abbastanza conosciuta, era una vera canzone di forzati: La luce del cielo risplende, Il tamburo batte la diana, L’anziano apre la porta, Lo scrivano viene a reclamarci. Non ci vedono dietro le mura Non sanno come viviamo qui; Dio, il creatore celeste, sia con noi, Anche qui, noi non periremo, ecc. Ne cantavano un’altra anche piú malinconica, ma bellissima per la sua melodia, composta verosimilmente da qualche deportato, con parole sdolcinate e abbastanza sgrammaticate. Di questa mi ricordo ancora qualche verso: Il mio sguardo non vedrà piú quel paese Nel quale son nato. A sopportare tormenti senza mia colpa Son condannato per sempre. Il gufo gracchierà sul tetto E si sentirà per la foresta. Il mio cuore si lamenterà, si rattristerà.

Mai piú potrò andare laggiú. Questa canzone si cantava spesso da noi ma non in coro, a solo. Qualcuno, in un momento di riposo, se ne va sulla porta della camerata, si siede, si mette a riflettere, appoggia la gota alla mano, e canta in falsetto. Lo ascolti, e qualcosa ti si spezza nel cuore. C’erano fra noi delle belle voci. Intanto cominciava già il crepuscolo. Una tristezza, un’angoscia, un abbattimento penetravano in mezzo all’ubriachezza e agli stravizi. Uno che un’ora fa rideva, ora in un cantuccio singhiozzava, dopo aver bevuto quanto piú poteva. Altri erano venuti alle mani. Altri ancora, pallidi e che a stento si reggevano sulle gambe, girellavano per le camerate, cercando di attaccar lite con qualcuno. Quelli poi che avevano l’ubriachezza triste, andavano in traccia degli amici per dar sfogo ai loro sentimenti e piangere sul loro dolore di ubriachi. Tutta questa povera gente voleva divertirsi, passare allegramente la grande festa – o Signore! com’era triste e penoso questo giorno quasi per tutti! Ciascuno lo trascorreva, volendosi ingannare in una qualche speranza. Petrov due volte ancora accorse verso di me. Aveva bevuto ben poco in tutta la giornata ed era quasi completamente lucido di mente. Ma fino all’ultima ora aveva sempre aspettato qualche cosa che necessariamente dovesse accadere, qualche cosa d’insolito, d’inerente alla festa, di molto allegro. Benché non lo dicesse gli si leggeva negli occhi. Se ne andava di camerata in camerata, senza stancarsi. Ma non accadeva nulla di straordinario e non si trovava altro che ubriachezza, ubriachi, parolacce insensate, e visi accesi di gente avvinazzata. Sirotkin anche lui, con la sua camicia rossa nuova, girellava per tutte le camerate, bellino, pulitino, e, zitto zitto, aspettava ingenuamente qualche cosa. A poco a poco lo spettacolo si fece insopportabile, disgustoso. Certamente ci sarebbe stato molto da ridere, ma io mi sentivo cosí triste, avevo tanta pietà di tutti, provavo in mezzo a loro un senso di pena, di oppressione! Di fuori due forzati litigavano per sapere quale dei due doveva offrir da mangiare all’altro. Si vedeva che il litigio durava da un pezzo e che già stavano per venire alle mani. Uno particolarmente aveva un antico rancore per l’altro. Si lamentava, balbettando, e si sforzava di dimostrare che quello aveva agito male con lui: aveva venduto una mezza pelliccia e nascosto

il denaro, l’anno scorso, in carnevale. E poi c’era ancora qualche cosa... L’accusatore era un giovanotto alto e muscoloso, non sciocco, tranquillo, ma quando era ubriaco aveva la tendenza di fare amicizia e di sfogarsi. Ingiuriava anche lui l’altro e diceva le sue ragioni, col desiderio però di far la pace col suo avversario. L’altro, robusto, solido, non alto di statura, con un viso tondo, era furbo e intrigante. Forse aveva bevuto piú del suo compagno, ma era leggermente ubriaco. Aveva un certo carattere e passava per ricco, ma ora, chi sa perché, non aveva voglia d’irritare il suo espansivo amico, e lo condusse dal venditore di acquavite; l’amico confermò che l’altro era suo debitore e aveva l’obbligo d’invitarlo «se soltanto sei un galantuomo...», ecc. Il venditore di acquavite, con un certo rispetto per il cliente e una tinta di disprezzo per l’amico espansivo, perché costui non pagava del suo, ma si lasciava invitare a bere, andò a prendere l’acquavite e ne mescé una tazza. – No, Stëpka, tu me la devi, – disse l’amico espansivo, vedendo che l’altro la prendeva, – perché davvero hai un debito con me. – Eh! non voglio stancarmi inutilmente la lingua con te, – rispose Stëpka. – No, Stëpka, tu dici bugie, – confermò il primo, prendendo la tazza dal venditore, – perché tu il denaro me lo devi: non hai coscienza. Neppure gli occhi son tuoi: li hai presi in prestito! Ecco, sei una canaglia, Stëpka. Sí, in una parola, sei una canaglia! – Guarda, tieni bene il bicchierino ché spandi il liquore. Giacché te l’offrono, bevi, – disse il venditore all’amico espansivo. – Non si può mica star qui a sentirti fino a domani. – Sí, bevo: perché urli? Alla tua salute, Stepan Dorofeič! – Ed egli cortesemente e con un piccolo inchino, si rivolse con la tazza in mano a Stëpka, che un minuto prima aveva chiamato canaglia. – Sta’ sano per cento anni, senza contare quelli che hai! – Bevve, mandò un respiro di soddisfazione e si ripulí la bocca. – Una volta, fratelli, ne bevevo di acquavite! – osservò egli con una certa gravità, come se si rivolgesse a tutti e non a uno in particolare, – e ora il mio tempo è passato. Ringrazio, Stepan Dorofei™. – Non c’è di che. – Ah! dirò a tutti quel che m’hai fatto, Stëpka: e oltre che sei una gran

canaglia, io ti dirò... – E io ti dirò che sei una brutta faccia d’ubriacone, – ribatté Stëpka, perdendo la pazienza. – Sta’ a sentire e tieni a mente ogni mia parola: dividiamo il mondo in due parti; io avrò mezzo mondo e tu l’altro mezzo. Vattene e non mi venire piú fra i piedi. Mi hai seccato! – E allora non mi darai i denari? – Quali denari, ubriacone? – Eh! all’altro mondo me li vorrai dare e io non li prenderò. I denari nostri son denari faticati, guadagnati col sudore della fronte e i calli delle mani. All’altro mondo, sarai arrostito per il prezzo del mio pjatak! – Va’ al diavolo! – Perché mi spingi? Non sono un cavallo. – Vattene, vattene! – Canaglia! – Forzato! E ricominciarono le ingiurie, peggio ancora di prima d’aver bevuto. Ecco due amici che stanno seduti separatamente sui loro letti: uno alto, grosso, carnoso, un vero macellaio, col viso rosso. Per poco non piange, è commosso. L’altro vanitoso, sottile, magro, con un lungo naso, dal quale par che sempre goccioli qualcosa, e con dei piccoli occhi di maiale, sempre rivolti a terra. È un condannato politico, una persona bene educata: una volta era segretario e tratta il suo amico un po’ dall’alto, il che dispiace all’altro, sebbene non lo dimostri. Tutto il giorno hanno bevuto insieme. – Mi ha insultato! – grida l’amico grasso, scuotendo fortemente la testa dell’altro con la mano sinistra, con la quale l’aveva afferrata. Insultare significa percuotere. L’amico grasso, che è stato sottufficiale, invidia segretamente il suo magro amico, e quindi tutt’e due, l’uno in faccia all’altro, vogliono parere eleganti nei loro discorsi. – E io ti dico che tu non hai ragione..., – comincia il segretario in tono dogmatico, e ostinatamente non gli alza gli occhi in viso ma guarda in terra con gravità.

– Mi ha insultato, ti dico, – interrompe l’altro, scuotendo anche piú forte il suo caro amico. – Mi resti ora tu solo in tutto il mondo, capisci? Perciò lo dico solo a te: mi ha insultato!... – E io di nuovo ti dico: questa discolpa non può che farti vergogna, caro amico, – risponde il segretario con una vocina sottile e amabile. – È meglio convenire, caro amico, che tutta questa ubriachezza, attraverso la tua incostanza... L’amico grasso barcollando si tira indietro, guarda scioccamente con i suoi occhi di ubriaco il segretario soddisfatto di sé, e tutt’a un tratto, proprio inaspettatamente, con tutta la sua forza colpisce col suo enorme pugno il viso emaciato del segretario. Cosí finisce l’amicizia per tutto il giorno. Il suo amico, senza coscienza, sparisce sotto al letto... Ecco entra nella nostra camerata un mio conoscente della «sezione particolare», un ragazzo bonario e allegro, non sciocco, canzonatore senza malizia, semplicione all’aspetto. È quello stesso che, nel primo giorno che passai al penitenziario, in cucina, all’ora del pranzo, cercava un contadino ricco, diceva di avere molto amor proprio e bevve il tè con me. Aveva quarant’anni. Possedeva un labbro inverosimilmente grosso e un gran naso carnoso, tutto fiorito di bottoni. Ha fra le mani la balalaika della quale tocca negligentemente le corde. Lo segue come la sua ombra un detenuto straordinariamente piccolo, con una grossa testa, che io conoscevo pochissimo. Nessuno del resto gli rivolgeva la minima attenzione. Era alquanto strano, diffidente, sempre serio e taciturno: andava a lavorare all’officina ed evidentemente si sforzava di vivere a sé, e non si legava con nessuno. Ora era ubriaco e teneva dietro a Varlamov come il suo fantasma. Lo seguiva con una terribile agitazione, gesticolando, battendo col pugno il muro, il tavolaccio e per poco non piangeva. Varlamov pareva non occuparsi affatto di lui, come se non ci fosse. È da notare che prima questi due individui non se la facevano mai insieme: fra loro non c’era nulla di comune, né per le loro occupazioni né per il loro carattere. Appartenevano a sezioni differenti e stavano in camerate differenti. Il piccolo detenuto si chiamava Bulkin. Varlamov, vedendomi, sorrise. Io ero seduto sul mio letto, accanto alla

stufa. Egli si fermò ritto in faccia a me, un po’ discosto, rifletté un momento, traballò, e si avvicinò a me a passi diseguali, dimenandosi spavaldamente con tutto il corpo, e toccando leggermente le corde, proruppe in un recitativo, che accompagnava col battere del piede in terra: Rotondetta, biancolina, Canta come un’allodola La mia diletta. In abito di raso Magnificamente guarnito È molto bella. Questa canzone parve metter Bulkin fuori di sé: si mise a gesticolare, e, rivolgendosi a tutti, gridò: – È tutta una bugia, fratelli, tutta una bugia! Non dice una parola di vero: è tutta una bugia! – Al vecchio Aleksandr Petrovi™, – disse Varlamov, guardandomi negli occhi con un sorriso malizioso e per poco non si lanciò ad abbracciarmi. Era ubriaco fradicio. L’espressione «Al vecchio tal dei tali...» è come dire: «Il mio rispetto», ed è usata dal popolo minuto in tutta la Siberia, anche se ci si rivolge a un giovane di vent’anni. La parola «vecchietto» indica ossequio, venerazione, adulazione. – Dunque, Varlamov, come ve la passate? – Cosí, alla giornata. Chi gode davvero della festa, è ubriaco fin dall’alba: perdonatemi! – Varlamov parlava strascicando le parole. – È tutta una bugia, anche ora mente? – gridò Bulkin, battendo la mano sul tavolaccio, come preso dalla disperazione. Ma pareva che l’altro avesse giurato di non badargli, e in ciò c’era molta parte comica, perché Bulkin s’era attaccato a Varlamov dalla mattina, senza scostarsi da lui di un dito, proprio per il motivo che costui diceva «sempre bugie» secondo lui. Gli girava dietro come un’ombra, attaccava lite con lui per ogni parola, si torceva le mani, le batteva al muro e sul tavolaccio fin quasi a farsi uscire il sangue, e soffriva, evidentemente soffriva per la convinzione che Varlamov dicesse «sempre bugie». Se avesse avuto capelli sulla testa se li sarebbe strappati dal dolore.

Aveva assunto verso se stesso l’obbligo di rispondere delle azioni di Varlamov, e tutte le malefatte di Varlamov gli pesavano sulla coscienza. Ma il buffo era che costui non lo guardava neppure. – Tutte bugie, tutte bugie, tutte bugie! Non c’è una parola di vero! – gridava Bulkin. – Ma che te ne importa? – dicevano ridendo i detenuti. – Io vi dichiaro, Aleksandr Petrov™ che io ero molto bello nella persona e alle ragazze piacevo molto..., – cominciò a un tratto Varlamov, parlando senza capo né coda. – Bugie! Di nuovo bugie! – interruppe Bulkin, con una specie di gemito. I detenuti raddoppiarono le risate. – E io davanti a loro facevo lo spavaldo: portavo una camicia rossa, dei calzoni larghi di velluto: andavo a letto quando mi piaceva, facevo il conte della Bottiglia, mi ubriacavo a piú non posso, in una parola, avevo tutto quel che volevo. – Bugie! – ripeté decisamente Bulkin. – Allora avevo ereditato da mio padre una casa di pietra a due piani. In due anni i due piani se ne sono andati e m’è restata soltanto una porta d’entrata senza colonne. Che volete? I denari sono come le colombe: vengono e poi se ne volano via. – Bugie! – ripeté ancora ostinatamente Bulkin. – Quando venni qui spedii una lettera piena di lacrime a tutta la mia parentela perché mi mandassero un po’ di denaro. Avevo agito contro i miei genitori, dicevano. Ero stato mancante di rispetto. Ma son sette anni che ho spedito la lettera. – E nessuna risposta? – chiesi, sorridendo. – Già, nessuna, – disse lui, e a un tratto cominciò a ridere e sempre piú avvicinava il suo naso al mio viso. – Ma qui, Aleksandr Petrovi™, ho un’innamorata. – Davvero? un’innamorata? – Onufriev diceva: «La mia è butterata, brutta, ma ha molti vestiti; la tua è bella ma è una mendicante e va attorno con la bisaccia».

– Ed è vero? – Eh sí! È una mendicante! – rispose lui ed ebbe un risolino silenzioso; nella camerata anche gli altri risero. Effettivamente tutti sapevano che egli aveva una relazione con una mendicante e in sei mesi le aveva dato una diecina di copechi. – Ebbene? E poi? – chiesi io, desiderando finalmente sbarazzarmi di lui. Egli tacque un poco, mi guardò con effusione e disse teneramente: – Non mi darete da bere un mezzo litro? Io oggi, Aleksandr Petrovi™, ho bevuto sempre tè, – aggiunse, prendendo il denaro che gli porgevo, – e questo tè mi ha fatto tanto male che son diventato asmatico, e mi gorgoglia nella pancia come in una bottiglia... Intanto, mentre egli prendeva il denaro, l’irritazione virtuosa di Bulkin parve giungere agli estremi confini. Gesticolava come un disperato e quasi piangeva. – Gente di Dio! – gridò rivolgendosi a tutta la camerata stupita, – guardatelo! Sempre bugie! Qualunque cosa dica, sempre, sempre, sempre bugie! – Ma che te ne importa? – gli gridarono i detenuti, meravigliati da quegli scoppi d’ira, – sei un uomo senza educazione! – Non voglio che dica bugie! – gridò Bulkin, sgranando gli occhi e battendo il pugno con tutta la sua forza sul tavolaccio, – non voglio che dica bugie! Tutti risero. Varlamov prese il denaro, mi salutò e si affrettò ad uscire dalla camerata, per andare, naturalmente, dal venditore di acquavite. E credo che allora per la prima volta si accorgesse di Bulkin. – Su andiamo! – gli disse, fermandosi sulla soglia, come se ne avesse assoluto bisogno per combinare qualche cosa. – Pomo di bastone! – aggiunse con disprezzo, spingendo innanzi a sé il dolente Bulkin, e ricominciando a fregare le corde della balalaika. Ma come dipingere quel turbine? Finalmente termina quel giorno soffocante. I detenuti si addormentano sui loro letti di un sonno pesante. In sogno parlano e vaneggiano assai piú che nelle altre notti. Qua e là alcuni

ancora fanno un majdan. Da un pezzo la festa tanto attesa è passata. Domani sarà di nuovo giorno di lavoro, domani di nuovo saranno forzati. 1 Jaman significa «male» in tartaro.

Gabriele D’Annunzio Il tesoro dei poveri

Racconta un poeta: C’era una volta, non so piú in quale terra, una coppia di poverelli. Ed erano, questi due poverelli, cosí miseri che non possedevano nulla, ma proprio nulla di nulla. Non avevano pane da mettere nella madia, né madia da mettervi il pane. Non avevano casa per mettervi una madia, né campo per fabbricarvi una casa. Se avessero posseduto un campo, anche grande quanto un fazzoletto, avrebbero potuto guadagnare tanto da fabbricarvi una casa. Se avessero avuto una casa, avrebbero potuto mettervi la madia. E se avessero avuto la madia, è certo che in un modo o in un altro, in un angolo o in una fenditura, avrebbero potuto trovare un pezzo di pane o almeno una briciola. Ma non avendo né campo, né casa, né madia, né pane, erano in verità assai tapini. Ma non tanto del pane lamentavano la mancanza, quanto della casa. Del pane ne avevano abbastanza per elemosina, e qualche volta avevano anche un po’ di companatico e qualche volta anche un sorso di vino. Ma i poveretti avrebbero preferito rimanere sempre a digiuno e possedere una casa dove accendere qualche ramo secco e ragionare placidamente dinanzi alla brace. Quel che v’ha di meglio al mondo, in verità, a preferenza anche del mangiare, è possedere quattro mura per ricoverarsi. Senza le sue quattro mura, l’uomo è come una bestia errante. E i due poverelli si sentirono piú miseri che mai, in una sera triste della

vigilia di Natale, triste soltanto per loro, perché tutti gli altri in quella sera hanno un fuoco nel camino e le scarpe quasi affondate nella cenere. Come si lamentavano e tremavano su la via maestra, nella notte buia, s’imbatterono in un gatto che faceva un miagolio roco e dolce. Era, in verità, un gatto misero assai, misero quanto loro, poiché non aveva che la pelle sulle ossa e pochissimi peli sulla pelle. S’egli avesse avuto molti peli su la pelle, certo la sua pelle non avrebbe aderito cosí strettamente alle ossa. E s’egli non avesse avuto la pelle aderente alle ossa, certo sarebbe stato egli forte abbastanza per pigliare topi e per non rimanere cosí magro. Ma, non avendo peli e avendo invece la pelle su l’ossa, egli era in verità un gatto assai meschinello. I poverelli son buoni e s’aiutano fra loro. I due nostri dunque raccolsero il gatto e neppure pensarono a mangiarselo; ché anzi gli diedero un po’ di lardo che avevano avuto per elemosina. Il gatto, com’ebbe mangiato, si mise a camminare dinanzi a loro e li condusse in una vecchia capanna abbandonata. C’erano là due sgabelli e un focolare, che un raggio di luna illuminò un istante e poi sparve. E anche il gatto sparve col raggio di luna, cosicché i due poverelli si trovarono seduti nelle tenebre, dinanzi al nero focolare che l’assenza del fuoco rendeva ancora piú nero. «Ah!, – dissero, – se avessimo appena un tizzone! Fa tanto freddo! E sarebbe tanto dolce scaldarsi un poco e raccontare favole!» Ma, ohimè, non c’era fuoco nel focolare, poiché essi erano miseri, in verità, miseri assai. D’un tratto due carboni si accesero in fondo al camino, due bei carboni gialli come l’oro. E il vecchio si fregò le mani, in segno di gioia, dicendo alla donna: «Senti che buon caldo?» «Sento, sento», rispose la vecchia. E distese le palme aperte dinanzi al fuoco.

«Soffiaci sopra, – ella soggiunse. – La brace farà la fiamma». «No, – disse l’uomo, – si consumerebbe troppo presto». E si misero a ragionare del tempo passato, senza tristezza, poiché si sentivano tutti ringagliarditi dalla vista dei due tizzoni lucenti. I poverelli si contentano di poco e sono piú felici. I nostri due si rallegrarono, fin nell’intimo del cuore, del bel dono di Gesú Bambino, e resero fervide grazie al Bambino Gesú. Tutta la notte continuarono a favoleggiare scaldandosi, sicuri ormai d’essere protetti dal Bambino Gesú, poiché i due carboni brillavan sempre come monete nuove e non si consumavano mai. E, quando venne l’alba, i due poverelli che avevano avuto caldo e agio tutta la notte, videro in fondo al camino il povero gatto che li guardava da’ suoi occhi d’oro. Ed essi non ad altro fuoco s’erano scaldati che al bagliore di quegli occhi! E il gatto disse: «Il tesoro dei poveri è l’illusione».

Lieto finale

Italo Calvino I figli di Babbo Natale

Non c’è epoca dell’anno piú gentile e buona, per il mondo dell’industria e del commercio, che il Natale e le settimane precedenti. Sale dalle vie il tremulo suono delle zampogne; e le società anonime, fino a ieri freddamente intente a calcolare fatturato e dividendi, aprono il cuore agli affetti e al sorriso. L’unico pensiero dei Consigli d’amministrazione adesso è quello di dare gioia al prossimo, mandando doni accompagnati da messaggi d’augurio sia a ditte consorelle che a privati; ogni ditta si sente in dovere di comprare un grande stock di prodotti da una seconda ditta per fare i suoi regali alle altre ditte; le quali ditte a loro volta comprano da una ditta altri stock di regali per le altre; le finestre aziendali restano illuminate fino a tardi, specialmente quelle del magazzino, dove il personale continua le ore straordinarie a imballare pacchi e casse; al di là dei vetri appannati, sui marciapiedi ricoperti da una crosta di gelo s’inoltrano gli zampognari, discesi da buie misteriose montagne, sostano ai crocicchi del centro, un po’ abbagliati dalle troppe luci, dalle vetrine troppo adorne, e a capo chino danno fiato ai loro strumenti; a quel suono tra gli uomini d’affari le grevi contese d’interessi si placano e lasciano il posto a una nuova gara: a chi presenta nel modo piú grazioso il dono piú cospicuo e originale. Alla Sbav quell’anno l’Ufficio Relazioni Pubbliche propose che alle persone di maggior riguardo le strenne fossero recapitate a domicilio da un uomo vestito da Babbo Natale. L’idea suscitò l’approvazione unanime dei dirigenti. Fu comprata un’acconciatura da Babbo Natale completa: barba bianca, berretto e pastrano

rossi bordati di pelliccia, stivaloni. Si cominciò a provare a quale dei fattorini andava meglio, ma uno era troppo basso di statura e la barba gli toccava per terra, uno era troppo robusto e non gli entrava il cappotto, un altro troppo giovane, un altro invece troppo vecchio e non valeva la pena di truccarlo. Mentre il capo dell’Ufficio Personale faceva chiamare altri possibili Babbi Natali dai vari reparti, i dirigenti radunati cercavano di sviluppare l’idea: l’Ufficio Relazioni Umane voleva che anche il pacco-strenna alle maestranze fosse consegnato da Babbo Natale in una cerimonia collettiva; l’Ufficio Commerciale voleva fargli fare anche un giro dei negozi; l’Ufficio Pubblicità si preoccupava che facesse risaltare il nome della ditta, magari reggendo appesi a un filo quattro palloncini con le lettere S, B, A, V. Tutti erano presi dall’atmosfera alacre e cordiale che si espandeva per la città festosa e produttiva; nulla è piú bello che sentire scorrere intorno il flusso dei beni materiali e insieme del bene che ognuno vuole agli altri; e questo, questo soprattutto – come ci ricorda il suono, firulí firulí, delle zampogne – è ciò che conta. In magazzino, il bene – materiale e spirituale – passava per le mani di Marcovaldo in quanto merce da caricare e scaricare. E non solo caricando e scaricando egli prendeva parte alla festa generale, ma anche pensando che in fondo a quel labirinto di centinaia di migliaia di pacchi lo attendeva un pacco solo suo, preparatogli dall’Ufficio Relazioni Umane; e ancora di piú facendo il conto di quanto gli spettava a fine mese tra «tredicesima mensilità» e «ore straordinarie». Con quei soldi, avrebbe potuto correre anche lui per i negozi, a comprare comprare comprare per regalare regalare regalare, come imponevano i piú sinceri sentimenti suoi e gli interessi generali dell’industria e del commercio. Il capo dell’Ufficio Personale entrò in magazzino con una barba finta in mano: – Ehi, tu! – disse a Marcovaldo. – Prova un po’ come stai con questa barba. Benissimo! Il Natale sei tu. Vieni di sopra, spicciati. Avrai un premio speciale se farai cinquanta consegne a domicilio al giorno. Marcovaldo camuffato da Babbo Natale percorreva la città, sulla sella del

motofurgoncino carico di pacchi involti in carta variopinta, legati con bei nastri e adorni di rametti di vischio e d’agrifoglio. La barba d’ovatta bianca gli faceva un po’ di pizzicorino ma serviva a proteggergli la gola dall’aria. La prima corsa la fece a casa sua, perché non resisteva alla tentazione di fare una sorpresa ai suoi bambini. «Dapprincipio, – pensava, – non mi riconosceranno. Chissà come rideranno, dopo!» I bambini stavano giocando per la scala. Si voltarono appena: – Ciao, papà. Marcovaldo ci rimase male. – Mah... Non vedete come sono vestito? – E come vuoi essere vestito? – disse Pietruccio. – Da Babbo Natale, no? – E m’avete riconosciuto subito? – Ci vuol tanto! Abbiamo riconosciuto anche il signor Sigismondo che era truccato meglio di te! – E il cognato della portinaia! – E il padre dei gemelli che stanno di fronte! – E lo zio di Ernestina quella con le trecce! – Tutti vestiti da Babbo Natale? – chiese Marcovaldo, e la delusione nella sua voce non era soltanto per la mancata sorpresa familiare, ma perché sentiva in qualche modo colpito il prestigio aziendale. – Certo, tal quale come te, uffa, – risposero i bambini, – da Babbo Natale, al solito, con la barba finta, – e voltandogli le spalle, si rimisero a badare ai loro giochi. Era capitato che agli Uffici Relazioni Pubbliche di molte ditte era venuta contemporaneamente la stessa idea; e avevano reclutato una gran quantità di persone, per lo piú disoccupati, pensionati, ambulanti, per vestirli col pastrano rosso e la barba di bambagia. I bambini dopo essersi divertiti le prime volte a riconoscere sotto quella mascheratura conoscenti e persone del quartiere, dopo un po’ ci avevano fatto l’abitudine e non ci badavano piú. Si sarebbe detto che il gioco cui erano intenti li appassionasse molto. S’erano radunati su un pianerottolo, seduti in cerchio. – Si può sapere cosa state complottando? – chiese Marcovaldo. – Lasciaci in pace, papà, dobbiamo preparare i regali.

– Regali per chi? – Per un bambino povero. Dobbiamo cercare un bambino povero e fargli dei regali. – Ma chi ve l’ha detto? – C’è nel libro di lettura. Marcovaldo stava per dire: «Siete voi i bambini poveri!», ma durante quella settimana s’era talmente persuaso a considerarsi un abitante del Paese della Cuccagna, dove tutti compravano e se la godevano e si facevano regali, che non gli pareva buona educazione parlare di povertà, e preferí dichiarare: – Bambini poveri non ne esistono piú! S’alzò Michelino e chiese: – È per questo, papà, che non ci porti regali? Marcovaldo si sentí stringere il cuore. – Ora devo guadagnare degli straordinari, – disse in fretta, – e poi ve li porto. – Li guadagni come? – chiese Filippetto. – Portando dei regali, – fece Marcovaldo. – A noi? – No, ad altri. – Perché non a noi? Faresti prima... Marcovaldo cercò di spiegare: – Perché io non sono mica il Babbo Natale delle Relazioni Umane: io sono il Babbo Natale delle Relazioni Pubbliche. Avete capito? – No. – Pazienza –. Ma siccome voleva in qualche modo farsi perdonare d’esser venuto a mani vuote, pensò di prendersi Michelino e portarselo dietro nel suo giro di consegne. – Se stai buono puoi venire a vedere tuo padre che porta i regali alla gente, – disse inforcando la sella del motofurgoncino. – Andiamo, forse troverò un bambino povero, – disse Michelino e saltò su, aggrappandosi alle spalle del padre. Per le vie della città Marcovaldo non faceva che incontrare altri Babbi Natale rossi e bianchi, uguali identici a lui, che pilotavano camioncini o motofurgoncini o che aprivano le portiere dei negozi ai clienti carichi di pacchi o li aiutavano a portare le compere fino all’automobile. E tutti questi

Babbi Natale avevano un’aria concentrata e indaffarata, come fossero addetti al servizio di manutenzione dell’enorme macchinario delle feste. E Marcovaldo, tal quale come loro, correva da un indirizzo all’altro segnato sull’elenco, scendeva di sella, smistava i pacchi del furgoncino, ne prendeva uno, lo presentava a chi apriva la porta scandendo la frase: «La Sbav augura Buon Natale e felice anno nuovo», e prendeva la mancia. Questa mancia poteva essere anche ragguardevole e Marcovaldo avrebbe potuto dirsi soddisfatto, ma qualcosa gli mancava. Ogni volta, prima di suonare a una porta, seguito da Michelino, pregustava la meraviglia di chi aprendo si sarebbe visto davanti Babbo Natale in persona; si aspettava feste, curiosità, gratitudine. E ogni volta era accolto come il postino che porta il giornale tutti i giorni. Suonò alla porta di una casa lussuosa. Aperse una governante. – Uh, ancora un altro pacco, da chi viene? – La Sbav augura... – Beh, portate qua, – e precedette il Babbo Natale per un corridoio tutto arazzi, tappeti e vasi di maiolica. Michelino, con tanto d’occhi, andava dietro al padre. La governante aperse una porta a vetri. Entrarono in una sala dal soffitto alto alto, tanto che ci stava dentro un grande abete. Era un albero di Natale illuminato da bolle di vetro di tutti i colori, e ai suoi rami erano appesi regali e dolci di tutte le fogge. Al soffitto erano pesanti lampadari di cristallo, e i rami piú alti dell’abete s’impigliavano nei pendagli scintillanti. Sopra un gran tavolo erano disposte cristallerie, argenterie, scatole di canditi e cassette di bottiglie. I giocattoli, sparsi su di un grande tappeto, erano tanti come in un negozio di giocattoli, soprattutto complicati congegni elettronici e modelli di astronavi. Su quel tappeto, in un angolo sgombro, c’era un bambino, sdraiato bocconi, di circa nove anni, con un’aria imbronciata e annoiata. Sfogliava un libro illustrato, come se tutto quel che era lí intorno non lo riguardasse. – Gianfranco, su, Gianfranco, – disse la governante, – hai visto che è tornato Babbo Natale con un altro regalo? – Trecentododici, – sospirò il bambino, senz’alzare gli occhi dal libro. –

Metta lí. – È il trecentododicesimo regalo che arriva, – disse la governante. – Gianfranco è cosí bravo, tiene il conto, non ne perde uno, la sua gran passione è contare. In punta di piedi Marcovaldo e Michelino lasciarono la casa. – Papà, quel bambino è un bambino povero? – chiese Michelino. Marcovaldo era intento a riordinare il carico del furgoncino e non rispose subito. Ma dopo un momento s’affrettò a protestare: – Povero? Che dici? Sai chi è suo padre? È il presidente dell’Unione Incremento Vendite Natalizie! Il commendator... S’interruppe perché non vedeva Michelino. – Michelino, Michelino! Dove sei? – Era sparito. «Sta’ a vedere che ha visto passare un altro Babbo Natale, l’ha scambiato per me e gli è andato dietro...» Marcovaldo continuò il suo giro, ma era un po’ in pensiero e non vedeva l’ora di tornare a casa. A casa ritrovò Michelino insieme ai suoi fratelli, buono buono. – Di’ un po’, tu: dove t’eri cacciato? – A casa, a prendere i regali... Sí, i regali per quel bambino povero... – Eh! Chi? – Quello che se ne stava cosí triste... Quello della villa con l’albero di Natale... – A lui? Ma che regali potevi fargli, tu a lui? – Oh, li avevamo preparati bene... tre regali, involti in carta argentata. Intervennero i fratellini. – Siamo andati tutti insieme a portarglieli! Avessi visto come era contento! – Figuriamoci! – disse Marcovaldo. – Aveva proprio bisogno dei vostri regali, per essere contento! – Sí, sí, dei nostri... È corso subito a strappare la carta per vedere cos’erano... – E cos’erano? – Il primo era un martello: quel martello grosso, tondo, di legno... – E lui?

– Saltava dalla gioia! L’ha afferrato e ha cominciato a usarlo! – Come? – Ha spaccato tutti i giocattoli! E tutta la cristalleria! Poi ha preso il secondo regalo... – Cos’era? – Un tirasassi. Dovevi vederlo, che contentezza... Ha fracassato tutte le bolle di vetro dell’albero di Natale. Poi è passato ai lampadari... – Basta, basta, non voglio piú sentire! E... il terzo regalo? – Non avevamo piú niente da regalare, cosí abbiamo involto nella carta argentata un pacchetto di fiammiferi da cucina. È stato il regalo che l’ha fatto piú felice. Diceva: «I fiammiferi non me li lasciano mai toccare!» Ha cominciato ad accenderli, e... – E...? – ... ha dato fuoco a tutto! Marcovaldo aveva le mani nei capelli. – Sono rovinato! L’indomani, presentandosi in ditta, sentiva addensarsi la tempesta. Si rivestí da Babbo Natale, in fretta in fretta, caricò sul furgoncino i pacchi da consegnare, già meravigliato che nessuno gli avesse ancora detto niente, quando vide venire verso di lui tre capiufficio, quello delle Relazioni Pubbliche, quello della Pubblicità e quello dell’Ufficio Commerciale. – Alt! – gli dissero, – scaricare tutto, subito! «Ci siamo!», si disse Marcovaldo e già si vedeva licenziato. – Presto! Bisogna sostituire i pacchi! – dissero i capiufficio. – L’Unione Incremento Vendite Natalizie ha aperto una campagna per il lancio del Regalo Distruttivo! – Cosí tutt’a un tratto... – commentò uno di loro. – Avrebbero potuto pensarci prima... – È stata una scoperta improvvisa del presidente, – spiegò un altro. – Pare che il suo bambino abbia ricevuto degli articoli-regalo modernissimi, credo giapponesi, e per la prima volta lo si è visto divertirsi... – Quel che piú conta, – aggiunse il terzo, – è che il Regalo Distruttivo serve a distruggere articoli d’ogni genere: quel che ci vuole per accelerare il

ritmo dei consumi e ridare vivacità al mercato... Tutto in un tempo brevissimo e alla portata d’un bambino... Il presidente dell’Unione ha visto aprirsi un nuovo orizzonte, è ai sette cieli dall’entusiasmo... – Ma questo bambino, – chiese Marcovaldo con un filo di voce, – ha distrutto veramente molta roba? – Fare un calcolo, sia pur approssimativo, è difficile, dato che la casa è incendiata... Marcovaldo tornò nella via illuminata come fosse notte, affollata di mamme e bambini e zii e nonni e pacchi e palloni e cavalli a dondolo e alberi di Natale e Babbi Natale e polli e tacchini e panettoni e bottiglie e zampognari e spazzacamini e venditrici di caldarroste che facevano saltare padellate di castagne sul tondo fornello nero ardente. E la città sembrava piú piccola, raccolta in un’ampolla luminosa, sepolta nel cuore buio d’un bosco, tra i tronchi centenari di castagni e un infinito manto di neve. Da qualche parte del buio s’udiva l’ululo del lupo; i leprotti avevano una tana sepolta nella neve, nella calda terra rossa sotto uno strato di ricci di castagna. Uscí un leprotto, bianco, sulla neve, mosse le orecchie, corse sotto la luna, ma era bianco e non lo si vedeva, come se non ci fosse. Solo le zampette lasciavano un’impronta leggera sulla neve, come foglioline di trifoglio. Neanche il lupo si vedeva, perché era nero e stava nel buio nero del bosco. Solo se apriva la bocca, si vedevano i denti bianchi e aguzzi. C’era una linea in cui finiva il bosco tutto nero e cominciava la neve tutta bianca. Il leprotto correva di qua e il lupo di là. Il lupo vedeva sulla neve le impronte del leprotto e le inseguiva, ma tenendosi sempre sul nero, per non essere visto. Nel punto in cui le impronte si fermavano doveva esserci il leprotto, e il lupo uscí dal nero, spalancò la gola rossa e i denti aguzzi, e morse il vento. Il leprotto era poco piú in là, invisibile; si strofinò un orecchio con una zampa, e scappò saltando. È qua? È là? No, è un po’ piú in là? Si vedeva solo la distesa di neve bianca come questa pagina.

Guy De Maupassant Notte di Natale

– Il cenone; il cenone! Ah! No, nessun cenone, per me! Cosí diceva il grosso Henri Templier, furibondo come se gli avessero proposto un’infamia. Gli altri esclamarono ridendo: – Perché ti arrabbi tanto? – Perché il cenone mi ha fatto il piú brutto scherzo del mondo, lasciandomi un orrore invincibile per quella stupida notte di allegra imbecillità. – Ma come? – Come? Lo volete sapere? Ebbene, ascoltate: Ricordate quanto faceva freddo, due anni fa, in questi giorni? un freddo da ammazzare i poveri per la strada. Si era gelata la Senna, i marciapiedi ghiacciavano i piedi attraverso le suole delle scarpe, tutti sembravano sul punto di crepare. A quell’epoca, avendo da ultimare un importante lavoro, rifiutai ogni invito per il cenone, preferendo passare la notte a tavolino. Pranzai solo; poi mi rimisi all’opera. Ma ecco che, verso le dieci, il pensiero dell’allegria che correva per le vie di Parigi, il rumore che, pur non volendo, sentivo arrivare dalla strada, i preparativi della cena in casa dei vicini uditi attraverso le pareti, mi misero in agitazione. Non sapevo piú quel che facevo; scrivevo sciocchezze; e compresi di dovere rinunciare, per quella notte, alla speranza di scrivere qualcosa di buono. Passeggiai un poco su e giú per la stanza. Mi sedetti, mi rialzai di nuovo. Certo subivo la misteriosa influenza della gioia degli altri, e mi rassegnai. Chiamai la domestica e le dissi: – Angèle, andatemi a comprare di che

cenare in due: ostriche, una pernice fredda, gamberi, prosciutto, dolci; prendete in cantina due bottiglie di champagne; apparecchiate la tavola e coricatevi. Obbedí, un po’ sorpresa. Quando tutto fu pronto, m’infilai il pastrano ed uscii. Mi restava da risolvere una questione importante: con chi avrei consumato il cenone? Le mie amiche erano tutte invitate altrove. Per averne una, avrei dovuto pensarci prima. E cosí, pensai di fare nello stesso tempo una buon’azione. Mi dissi: «Parigi è piena di ragazze povere e belle che non hanno un pranzo in vista e girano in cerca di un uomo generoso. Voglio essere la provvidenza per una di queste sventurate. «Me ne andrò gironzolando, entrerò nei luoghi di piacere, domanderò, darò la caccia, sceglierò a mio piacere». E presi a percorrere la città. Ne incontrai certo molte di povere ragazze in cerca d’avventura, ma brutte da farti venire un’indigestione, o magre da trasformarsi in statue di ghiaccio, solo che si fossero fermate. Ho un debole, lo sapete: mi piacciono le donne ben pasciute. Piú sono in carne, meglio mi vanno. Per una donna-cannone, non ragionerei piú. D’un tratto, davanti al théâtre des Variétés, scorsi un profilo di mio gusto. Una testa, poi, sul davanti, due prominenze, quella del petto, bellissima, quella piú in basso addirittura sorprendente: un ventre da oca ingrassata. Con un fremito, mormorai: – Diavolo, che bella donna! – Mi restava da chiarire un punto: la faccia. La faccia è il dessert; il resto è... l’arrosto. Affrettai il passo, raggiunsi la passeggiatrice e, sotto un lampione a gas, mi voltai all’improvviso. Era magnifica, giovanissima, bruna, con due grandi occhi neri. Alla mia proposta, acconsentí senza esitare. Un quarto d’ora dopo, eravamo a tavola nel mio appartamento. Mi disse entrando: – Ah! Si sta bene, qui. E si guardò intorno con la visibile soddisfazione di aver trovato una tavola

apparecchiata e un rifugio, in quella notte glaciale. Era stupenda, bella da farmi rintontire e grassa da rapirmi il cuore per sempre. Toltosi il cappotto e il cappello, si sedette e cominciò a mangiare; ma non mi pareva in vena; e di tanto in tanto le si contraeva il volto un po’ pallido, come se avesse sofferto di una pena nascosta. Le domandai: – Hai qualche guaio? Rispose: – Bah! Dimentichiamo tutto. E si mise a bere. Vuotava in una sorsata il suo bicchiere di champagne, tornava a riempirlo e lo vuotava di nuovo, senza fermarsi. Presto le si colorirono un poco le guance; e cominciò a ridere. Io, già in adorazione, la coprivo di baci, accorgendomi che non era stupida, né ordinaria, né volgare come sono spesso quelle che battono il marciapiede. Le domandai qualche particolare sulla sua vita. Rispose: – Bimbo mio, non ti riguarda! Venne infine il momento di andare a letto, e, mentre scansavo la tavola, apparecchiata davanti al caminetto, quella, spogliatasi in fretta, si cacciò sotto le coperte. I vicini facevano un baccano spaventoso, ridendo e cantando come matti; e io pensavo: «Ho avuto proprio ragione andando a cercare questa bella ragazza; non sarei mai riuscito a lavorare». Un profondo gemito mi fece voltare. Domandai: – Che hai, gattina? – Non rispose, ma continuava a mandare sospiri dolorosi, come se avesse sofferto orribilmente. Ripresi: – Non ti senti bene? E all’improvviso udii un grido, un grido straziante. Accorsi con una candela in mano. Con la faccia sformata dal dolore, si torceva le mani, ansimante, e dal fondo del petto esalava quella specie di gemiti sordi che somigliano a rantoli e fanno mancare il cuore. Chiedevo disperato: – Ma che hai? dimmi, che hai? Non rispose e si mise a urlare. Improvvisamente i vicini tacquero, ascoltando quel che avveniva in casa

mia. E io a ripetere: – Dove soffri, dimmelo, dove hai male? Balbettò: – Oh la pancia! la pancia! Sollevai con un sol gesto la coperta, e scorsi... Stava partorendo, amici. Allora, persi la testa; mi precipitai verso la parete e cominciai a battere i pugni, con tutta la forza, gridando a squarciagola: – Aiuto, aiuto! La porta si aprí; irruppe in casa una folla: uomini in frac, donne in veste scollata, Pierrot, turchi, moschettieri. Quest’invasione mi atterrí al punto da non riuscire piú a dare spiegazioni. Avevano creduto in una disgrazia, quelli, forse in un delitto, e non riuscivano a capire. Dissi finalmente: – È... è... questa... questa donna che... che partorisce. Allora, tutti a esaminarla, a dare il proprio parere. Particolarmente un cappuccino pretendeva d’intendersene, e voleva aiutare la natura. Erano tutti ubriachi come zucche. Temetti che l’avrebbero uccisa; e mi precipitai giú per le scale, senza cappello, per chiamare un vecchio medico che abitava in una via vicina. Quando tornai col dottore, tutto il casamento era in piedi; avevano riacceso il gas per le scale; gl’inquilini di ogni piano m’invadevano l’appartamento; quattro uomini vestiti in maschera, seduti a tavola, davano fondo al mio champagne e ai miei gamberi. Alla mia vista, scoppiò un grido formidabile e una lattaia mi presentò in un asciugamano un orrendo pezzetto di carne, rugosa, grinzosa, che gemeva e miagolava come un gatto; mi disse: – È una bambina. Il medico visitò la puerpera, e, dato che il parto era avvenuto subito dopo una cena, dichiarò incerto il suo stato; poi se ne andò annunciando che mi avrebbe mandato immediatamente un’infermiera e una balia. Le due donne arrivarono un’ora dopo, portando un pacco di medicinali. Passai la notte in una poltrona, troppo smarrito per riflettere alle conseguenze. Appena giorno, tornò il medico. Trovò la puerpera in cattive condizioni.

Mi disse: – Vostra moglie, signore... Lo interruppi: – Non è mia moglie. Riprese: – La vostra amante, fa lo stesso –. Ed enumerò le cure che le erano necessarie, il vitto, le medicine. Che fare? Mandare quella disgraziata all’ospedale? Tutta la casa, tutto il quartiere m’avrebbe considerato un mascalzone. Me la tenni. Rimase nel mio letto per sei settimane. E la bambina? La mandai a Poissy, da certi contadini. Mi costa ancora cinquanta franchi al mese. Avendo pagato in principio, eccomi costretto a pagare finché avrò vita. E, tra poco, mi crederà suo padre. Ma, per colmo di sventura, quando la ragazza fu guarita... mi amava... mi ama perdutamente, quella poveraccia! – Ebbene? – Ebbene, è diventata magra come un gatto da grondaia; e ho cacciato di casa quella carcassa che mi spia per la strada, si nasconde per vedermi passare, mi ferma la sera quando esco, per baciarmi la mano, insomma mi annoia al punto da farmi impazzire. – Ecco perché non voglio piú saperne di cenoni.

Vladimir Nabokov Racconto di Natale

Cadde il silenzio. Teso, a testa china, impietosamente illuminato dalla lampada, Anton Golyj, un giovanotto dal viso paffuto che portava la camicia russa sotto la giacca nera, si mise a raccogliere i fogli del manoscritto che durante la lettura aveva messo da parte come capitava. Il suo protettore, il critico letterario di «Realtà rossa», guardava per terra palpandosi le tasche alla ricerca dei fiammiferi. Taceva anche lo scrittore Novodvorcev, ma il suo era un silenzio diverso, illustre. Un grosso pince-nez sul naso, una fronte straordinariamente alta, due bande di radi capelli scuri riportati sul cocuzzolo calvo, le tempie rasate spruzzate di bianco, Novodvorcev sedeva con gli occhi socchiusi, come continuando ad ascoltare; teneva accavallate le grasse gambe, con una mano infilata tra il ginocchio di una gamba e il poplite dell’altra. Non era la prima volta che portavano da lui tetri ed esaltati scrittori contadini di quel tipo. Né era la prima volta che nei loro maldestri racconti coglieva un’eco – finora mai rilevata dalla critica – della sua venticinquennale esperienza di narratore: giacché il racconto di Golyj riprendeva goffamente un suo soggetto, quello del Confine, la novella che Novodvorcev aveva scritto pieno di emozione e speranze e che, pubblicata lo scorso anno, non aveva aggiunto nulla alla sua solida ma scialba fama. Il critico accese una papirosa, sempre a testa bassa, Golyj infilò il suo manoscritto nella cartella, ma il padrone di casa continuava a tacere – non perché non sapesse quale giudizio dare del racconto, ma perché aspettava, timoroso e malinconico, che fosse il critico a dire le parole che lui provava imbarazzo a pronunciare: che il soggetto era di Novodvorcev, che da Novodvorcev veniva l’immagine di quell’uomo taciturno, disinteressatamente

devoto al nonno operaio, il vecchio che con una tranquilla forza interiore e non con la cultura trionfava psicologicamente sull’astioso intellettuale. Ma, seduto tutto curvo sul bordo del divano di cuoio come un povero uccello triste, il critico manteneva un disperante silenzio. Allora, rendendosi conto che neanche quel giorno avrebbe udito le parole lungamente attese, cercando di concentrarsi sul fatto che malgrado tutto era da lui e non da Neverov che avevano portato per un giudizio lo scrittore esordiente, Novodvorcev cambiò la posizione delle gambe, infilò tra le ginocchia l’altra mano, e dopo aver detto con aria professionale: «Ebbene...», guardando la vena che si gonfiava sulla fronte di Golyj, cominciò a parlare con voce bassa e piana. Disse che il racconto aveva una solida struttura, che lí dove i contadini si mettevano a costruire la scuola con i propri mezzi si sentiva la forza del collettivo, che nella descrizione dell’amore di Pëtr per Anjuta c’erano alcune pecche stilistiche ma si avvertiva il richiamo della primavera, il richiamo di un sano desiderio della carne, – e, chissà perché, mentre parlava continuava a pensare che poco tempo prima aveva scritto al critico di «Realtà rossa» una lettera: gli ricordava che in gennaio sarebbe caduto il venticinquesimo anniversario della sua attività letteraria, ma lui lo pregava vivamente di non organizzare festeggiamenti di alcun tipo in considerazione del fatto che continuavano i suoi anni di fervido lavoro per l’Unione... – Ecco, è la figura dell’intellettuale che non le è riuscita, – diceva. – Non si sente fino in fondo che è un individuo condannato... Ma il critico continuava a tacere. Era un uomo trasandato, magro, rosso di capelli, – secondo alcune voci soffriva di tubercolosi, ma in realtà doveva essere sano come un pesce. Aveva risposto a Novodvorcev, sempre per lettera, che approvava la sua decisione, e con questo la vicenda si era chiusa. Probabilmente gli aveva portato Golyj per una sorta di segreta compensazione... E Novodvorcev fu colto all’improvviso da una tale tristezza – non rabbia, pura e semplice tristezza – che troncò a metà il discorso e cominciò a strofinare col fazzoletto le lenti del pince-nez rivelando due occhi buonissimi.

Il critico si alzò. – Dove va? È ancora presto... – disse Novodvorcev, ma si alzò anche lui. Anton Golyj tossicchiò e si strinse la cartella contro il fianco. – Ne verrà fuori uno scrittore, è certo, – disse con voce indifferente il critico che si era messo a vagare per la stanza infilzando l’aria con la papirosa spenta. Si chinò sullo scrittoio canticchiando qualcosa tra i denti con un suono cavernoso, poi si fermò qualche istante davanti alla étagère dove un solido Capitale viveva tra un logoro Leonid Andreev e un anonimo volume senza dorso, infine, sempre con la stessa andatura pencolante, andò alla finestra e scostò la tenda blu. – Torni a trovarmi, – diceva intanto Novodvorcev ad Anton Golyj, che si inchinò a scatti e poi raddrizzò gagliardamente le spalle. – Quando scriverà altre cose, me le porti. – Quanta neve è caduta! – disse il critico lasciando ricadere la tenda. – A proposito, oggi è la vigilia di Natale. Recuperò con gesti lenti e pigri il cappotto e il berretto di pelo. – Nei tempi andati, in giornate come queste i suoi confratelli gettavano giú alla svelta brevi feuilleton natalizi. – Io no, – disse Novodvorcev. Il critico ridacchiò. – Peccato! E invece dovrebbe proprio scrivere un bel racconto di Natale. Di tipo nuovo. Anton Golyj tossí nella mano chiusa a pugno. – Da noi, al paese... – cominciò con rauca voce di basso, e tossicchiò di nuovo. – Dico sul serio, – proseguí il critico infilando il cappotto. – Lo si può congegnare abilmente. Grazie... Ho già fatto. – Da noi al paese, – disse Anton Golyj, – una volta è successo questo fatto. Al maestro venne l’idea di fare l’albero. Ai ragazzi. Per Natale... E in cima all’abete mise una stella rossa. – No, non funziona affatto. In un raccontino di poche pagine risulterebbe un po’ rozzo, – disse il critico. – Si può impostare la cosa in modo piú pungente. La lotta di due mondi. Il tutto sullo sfondo della neve. – In generale bisogna stare molto attenti coi simboli, – disse Novodvorcev

con aria tetra. – Prendiamo il mio vicino, per esempio... È un uomo per bene, iscritto al partito, militante attivo... Eppure si esprime cosí: «Il Golgota del proletariato...» Quando i visitatori se ne furono andati, Novodvorcev si sedette allo scrittoio appoggiando l’orecchio alla grassa mano bianca. Accanto al calamaio c’era una specie di bicchiere quadrato con tre penne infilate nel caviale turchino di minuscole palline di vetro. Quell’oggetto poteva avere dieci, quindici anni, aveva attraversato tempeste di ogni tipo, intorno a esso s’erano sbriciolati mondi interi, ma non una sola particella di vetro era andata perduta. Scelse una penna, avvicinò un foglio di carta, ci mise sotto altri fogli per scrivere sul morbido... – Ma di che? – disse ad alta voce Novodvorcev, poi si alzò, scostò la sedia con l’anca, e cominciò a camminare per la stanza. Aveva un intollerabile ronzio all’orecchio sinistro. «Quel mascalzone l’ha detto apposta» pensò, e come ripetendo l’itinerario percorso dal critico qualche minuto prima andò alla finestra. «S’è messo a darmi consigli... Con quel tono di scherno... Probabilmente pensa che non ho piú idee originali... Ma io adesso glielo scrivo per davvero un racconto di Natale... Poi ricorderà la cosa sulla stampa: una volta passo da lui e cosí, parlando del piú e del meno, gli faccio: “Lei, Dmitrij Dmitrievi™, dovrebbe rappresentare la lotta tra il vecchio e il nuovo sullo sfondo della neve di Natale, Natale tra virgolette. Sviluppare fino in fondo la linea cosí eccellentemente tracciata nel Confine, – ricorda il sogno di Tumanov? Ecco, quella linea lí...”. E quella notte, dunque, nacque l’opera che...» La finestra dava sul cortile. Non si vedeva la luna... anzi no, laggiú qualcosa riluceva dietro lo scuro comignolo. Uno splendente tappeto di neve ricopriva la legna accatastata nel cortile. Dietro una finestra era accesa una lampada con l’abat-jour verde: qualcuno lavorava seduto a un tavolo, brillavano le perline di un pallottoliere. Dal bordo del tetto caddero senza rumore piccoli blocchi di neve. Poi tutto tornò a un immobile torpore. Avvertí il solleticante vuoto che in lui accompagnava sempre il desiderio

di scrivere. In quel vuoto qualcosa prendeva forma, ingrandiva. Un Natale nuovo, particolare. La vecchia neve e il nuovo conflitto... Sentí dei passi cauti al di là del muro. Era il vicino che tornava a casa: un uomo modesto, gentile, comunista fino al midollo. In preda a un’astratta ebbrezza, alla dolcezza dell’attesa, Novodvorcev si sedette di nuovo allo scrittoio. Lo spirito e le tonalità dell’opera in gestazione c’erano già. Restava solo da creare lo scheletro, il soggetto. L’albero di Natale – ecco da dove bisognava cominciare. Pensò che probabilmente in quel momento, in certe case, dei borghesi decaduti, terrorizzati, rabbiosi, condannati (se li raffigurava cosí chiaramente...) decoravano con pezzi di carta un abete abbattuto di nascosto in un bosco. Ora i fili d’oro e d’argento non si trovavano piú da nessuna parte, né c’erano piú mucchi di abeti all’ombra della cattedrale di Sant’Isacco... Un colpo alla porta, morbido, come avvolto in un panno. La porta si socchiuse di qualche centimetro. Delicatamente, senza infilare dentro la testa, il vicino disse: – Potrei chiederle per favore una penna? Meglio col pennino non troppo appuntito, se ce l’ha. Novodvorcev gli diede la penna. – Grazie infinite, – disse il vicino, e richiuse silenziosamente la porta. Quell’insignificante interruzione indebolí l’immagine che andava maturando. Ricordò che nel Confine Tumanov rimpiangeva lo sfarzo delle feste di una volta. Doveva evitare di ripetersi. E un altro ricordo gli attraversò a sproposito la mente. Poco tempo prima, a una serata, una giovane signora aveva detto al marito: «In molte cose somigli a Tumanov». Per qualche giorno Novodvorcev era stato molto felice. In seguito aveva fatto la conoscenza di quella giovane signora e aveva scoperto che il Tumanov a cui aveva alluso parlando col marito era il fidanzato della sorella. E non era stata quella la prima delusione. Un critico gli aveva detto che avrebbe scritto un saggio sul «tumanovismo». C’era qualcosa di infinitamente lusinghiero in quel sostantivo che iniziava con una minuscola. Ma il critico era poi partito alla

volta del Caucaso per studiare i poeti georgiani. C’erano state, comunque, anche cose che gli avevano fatto piacere. Il suo nome, per esempio, elencato in questa compagnia: Gor’kij, Novodvorcev, Čirikov... Nell’autobiografia che accompagnava le sue Opere complete (sei volumi con un ritratto dell’autore), aveva descritto con quanta difficoltà lui, figlio di gente semplice, era riuscito a farsi strada. In realtà aveva avuto una gioventú felice. Una cosí bella energia, fiducia, successi. Erano passati venticinque anni da quando il suo primo racconto era apparso su una rivista. Korolenko gli aveva voluto bene. Aveva subito alcuni arresti. A causa sua avevano chiuso un giornale. Adesso i suoi ideali civili si erano realizzati. Tra i giovani, tra gli uomini nuovi, si sentiva libero e a proprio agio. La nuova vita gli andava a pennello. Sei volumi. Il suo nome era celebre. Ma la sua era una fama cosí scialba, appannata... Tornò velocemente indietro, all’immagine dell’albero di Natale, – e di punto in bianco ricordò il salotto della casa di un mercante, un grosso volume di saggi e poesie con le pagine profilate d’oro (il ricavato delle vendite andava in beneficenza) in qualche modo legato a quella casa, ricordò l’albero di Natale nel salotto, la donna che lui allora amava, il riflesso di tutti i fuochi dell’albero che scivolava con un tremolio di cristallo negli occhi spalancati di quella donna mentre staccava un mandarino da un ramo alto. Era successo vent’anni prima, anche di piú, ma come restano impressi certi piccoli dettagli... Allontanò indispettito quel ricordo e di nuovo si raffigurò i miseri alberelli che sicuramente qualcuno in quel momento stava decorando... Non c’era di che tirar fuori un racconto – e tuttavia, esasperando la situazione... Degli emigrati piangono intorno a un albero di Natale, hanno indossato le loro uniformi odorose di naftalina, guardano l’albero e piangono. Da qualche parte a Parigi. Un vecchio generale ricorda come spianava le costole alla gente e intanto ritaglia un angelo da un foglio di cartone dorato... Novodvorcev pensò a un generale che aveva veramente conosciuto e che veramente adesso viveva all’estero, – e non riusciva in alcun modo a immaginarselo in lacrime,

inginocchiato davanti a un albero di Natale... – Però sono sulla strada giusta! – esclamò ad alta voce inseguendo impazientemente un’idea che gli sfuggiva. Ed ebbe una nuova, inattesa visione. Una città europea, persone sazie, impellicciate. Una vetrina illuminata. Dietro il vetro c’è un enorme albero di Natale: in basso, tutt’intorno al tronco, ci sono dei prosciutti, sui rami frutti costosi. Simbolo dell’agiatezza. E davanti alla vetrina, sul marciapiede gelato... E con una solenne eccitazione, sentendo di aver trovato quel qualcosa di unico che gli serviva, sentendo che avrebbe scritto qualcosa di prodigioso, che avrebbe rappresentato come nessun altro il conflitto tra due classi, tra due mondi, Novodvorcev si mise a scrivere. Scrisse di un opulento albero di Natale esposto in una vetrina sfacciatamente illuminata, di un povero operaio, vittima di un lock-out, che osserva l’albero con sguardo severo e cupo... «Lo sfrontato albero di Natale, – scrisse Novodvorcev, – risplendeva di tutte le luci dell’arcobaleno».

David Sedaris Natale significa dare

Per i primi dodici anni del nostro matrimonio, quanto a comodità e lusso io e Beth abbiamo felicemente rappresentato il modello del vicinato. Che fossimo piú brillanti e realizzati di tutti gli altri era un fatto acquisito, ma la comunità sembrava accettare la nostra superiorità, senza troppe lamentele e la vita seguiva il suo giusto corso. Io possedevo un tosasiepi, una ruspa elettrica e tre grill a gas Rolex che facevano bella mostra di sé allineati nel giardino. Il primo serviva per il pollo, il secondo per il manzo, e il terzo era stato da me personalmente equipaggiato per cuocere gli involtini primavera di cui andavamo ghiotti. Con l’approssimarsi delle feste, affittavo un camion da traslochi e mi recavo in città, dove facevo incetta di qualsiasi nuovo oggetto che catturasse la mia attenzione. I nostri figli gemelli, Taylor e Weston, potevano sempre contare sulle ultimissime novità in fatto di giocattoli elettronici o attrezzature sportive. A Beth capitava di ricevere in dono un aspirapolvere con sellino, oppure due paia di jeans bordati di pelliccia, e non era che un anticipo dei veri regali! Poi c’erano le barche usa e getta, i palloni da basket in camoscio ultrafine, gli zainetti di peltro e i mescolacarte a energia solare. Compravo scarpe e vestiti, e vagonate di gioielli nelle boutique e nei magazzini piú costosi. Lungi da me l’andare a caccia di offerte speciali o sconti! Puntualmente sborsavo fior di dollari, convinto com’ero che quei cartellini dei prezzi lunghi trenta centimetri contenessero davvero un profondo significato natalizio. Dopo aver aperto i nostri rispettivi regali, ci sedevamo a un sontuoso banchetto, cibandoci di carni e leccornie di ogni tipo. Una volta sazi, e magari leggermente nauseati, ci infilavamo una bacchetta d’argento giú per la gola, vomitavamo, e ricominciavamo a

mangiare come se nulla fosse. Insomma, eravamo una famiglia come tante altre. Natale era il tempo dell’abbondanza e noi, agli occhi del mondo esterno, vivevamo nell’abbondanza piú assoluta. Pensavamo di essere felici, ma poi, poco dopo l’arrivo dei Cottingham, nel frizzante mattino di un giorno del Ringraziamento tutto cambiò. Se la memoria non mi inganna, i Cottingham cominciarono a causare problemi dal giorno stesso in cui si trasferirono, nella casa accanto. Doug, Nancy e la loro poco attraente figlia di otto anni, Eileen, erano persone enormemente invidiose e avide. La casa in cui abitavano era leggermente piú piccola della nostra, ma la cosa aveva senso, considerato che noi eravamo in quattro e loro in tre. Eppure, qualcosa nelle dimensioni della nostra dimora dovette da subito provocargli un tale fastidio che, ancor prima di iniziare a disfare le valigie, i Cottingham cominciarono a costruire una pista da pattinaggio al coperto e un padiglione di circa trecento metri quadrati in cui Doug potesse ostentare la sua collezione di divani letto precolombiani. Beth e io, allora, e solo perché ci andava di farlo, avviammo la costruzione di un campo da calcio al coperto e di una rotonda di quattrocentocinquanta metri quadrati in cui il sottoscritto avrebbe potuto comodamente esporre la sua collezione di divani letto pre-precolombiani. Doug si mise a raccontare ai vicini che gli avevo rubato l’idea, ma io avevo accarezzato il progetto dei divani letto pre-precolombiani ben prima che i Cottingham arrivassero in città. Il fatto è che loro dovevano piantare grane a tutti i costi. Quando io e Beth costruimmo un multiplex da sette sale, loro per tutta risposta si sentirono in dovere di metterne in piedi uno da dodici. E le cose continuarono di questo passo, finché, per farla breve, nel giro di un anno entrambe le famiglie si ritrovarono pressoché sprovviste di un giardino. A quel punto le due case praticamente si sfioravano, e noi facemmo murare le finestre sul lato ovest per non essere costretti a sorbirci la vista del loro pacchiano centro fitness o del poligono di tiro che avevano allestito al secondo piano. Nonostante la natura competitiva dei Cottingham, io e Beth facevamo del

nostro meglio per comportarci da buoni vicini: di tanto in tanto li invitavamo a una delle nostre grigliate sul tetto, e via dicendo. Io cercavo di intavolare discussioni da adulti, dicendo cose tipo: «Ho appena speso ottomila dollari per un paio di sandali che non sono nemmeno della mia misura». Allora Doug controbatteva che di dollari lui ne aveva appena spesi diecimila, e per un’unica ciabatta infradito che non avrebbe messo nemmeno se fosse stata della sua misura. Questo per farvi capire quant’era combattivo. Se tu avevi speso settantamila dollari per farti otturare una carie, potevi scommettere la testa che lui ne aveva spesi almeno centoventicinquemila. Dovetti sorbirmi la sua compagnia per quasi un anno intero, poi, una sera di novembre, si scatenò un battibecco su quale delle due famiglie spedisse i biglietti natalizi piú significativi. Io e Beth di solito ingaggiavamo un fotografo di fama per farci scattare un ritratto di famiglia che mostrasse tutti i regali ricevuti l’anno prima. Nel biglietto scrivevamo i prezzi di ogni singolo regalo, concludendo con il messaggio: «Natale significa dare». Il biglietto dei Cottingham consisteva in una fotocopia del portafoglio d’azioni di Doug e Nancy. Quella sera io dissi che avere i soldi era sí un’ottima cosa, ma che il loro biglietto non diceva nulla sul modo in cui li spendevano. Come recitava il nostro biglietto, Natale significa dare, e nemmeno se avessero agghindato il loro resoconto azionario con un paio di alberelli di Natale adesivi sarebbero riusciti a esprimere un messaggio festivo appropriato. La conversazione si fece piuttosto accesa, e tra le rispettive mogli volò qualche pugno. Avevamo tutti alzato un po’ il gomito, e quando i Cottingham uscirono da casa nostra demmo per scontato che la nostra amicizia fosse finita. Dal canto mio, dopo aver rimuginato sull’incidente per un paio di giorni, rivolsi le mie attenzioni alle imminenti festività. Io, Beth e i ragazzi avevamo appena terminato uno dei nostri pranzi del Ringraziamento sfasciabudella, e ci stavamo godendo una bella corrida alla tv. Potevamo vedere quello che piú ci pareva, perché all’epoca avevamo ancora la nostra parabola satellitare. Juan Carlos Ponce de Velasquez era appena stato incornato in modo piuttosto truculento e noi eravamo tutti presi

dall’entusiasmo, quando all’improvviso qualcuno suonò il campanello. Andai ad aprire la porta pensando che uno dei nostri figli avesse ordinato una pizza e, con mia grande sorpresa, mi ritrovai di fronte un barbone che emanava un fetore pestilenziale. Era magro, scalzo, aveva croste grosse come peperoni sulle gambe e una barba incolta imbrattata di vari tipi di marmellata. Intuii che si trattava delle marmellate che avevamo gettato la sera prima, e una rapida occhiata al nostro bidone della spazzatura ribaltato confermò la mia ipotesi. La cosa mi irritò non poco, ma prima ancora che potessi dire qualcosa al riguardo, il vecchio barbone sfoderò una tazza e cominciò a piagnucolare chiedendo soldi. Quando sentii Beth chiedere chi fosse risposi: «Codice blu», ovvero il nostro segnale segreto per sguinzagliare i cani. All’epoca avevamo due enormi dobermann, Caramella e Mr Lewis. Beth cercò di farli uscire dal soggiorno, ma i due, rimpinzatisi di tacchino ripieno, non poterono fare altro che sollevare la testa e vomitare. Vedendoli cosí conciati, mi buttai a terra su mani e ginocchia e azzannai il barbone personalmente. Chissà, forse era stata la corrida, ma di colpo mi sentivo assetato di sangue. I miei denti riuscirono a malapena a scalfirgli la pelle, ma fu sufficiente: il povero babbeo fuggí urlando dai Cottingham. Lo vidi picchiare freneticamente alla loro porta, e capii immediatamente cosa sarebbe successo una volta che l’ipercompetitivo Doug «Pappagallo» avesse scoperto che il sottoscritto non aveva saputo offrirgli altro che un misero morso a una gamba. In quella, Beth mi chiamò in casa per non ricordo piú quale ragione, e quando qualche minuto dopo tornai alla porta vidi Helvetica, la governante dei Cottingham, che fotografava Doug, Nancy e Eileen intenti a donare al barbone una banconota da un dollaro. Capii che c’era sotto qualcosa e, puntualmente, di lí a due settimane, ritrovai quello scatto sul biglietto di Natale dei Cottingham, corredato dalla frase: «Natale significa dare». Quello era sempre stato il nostro slogan, e lui me l’aveva rubato, distorcendo il messaggio nel tentativo di farci apparire egoisti. Dare agli altri non era mai stato nel nostro stile, ma quando vidi le reazioni fenomenali suscitate dal biglietto di Natale dei Cottingham cominciai

a ripensarci. Di colpo non si parlava d’altro. Andavi alle feste e sentivi la gente dire: «Hai visto? Per me è stato un gesto assolutamente incantevole. Regalare soldi a un perfetto sconosciuto! Roba da non credere! Un dollaro sonante a un vagabondo che non possiede nulla. Quei Cottingham sono persone estremamente coraggiose e magnanime». Quando anch’io decisi di diventare una persona generosa probabilmente Doug disse che gli avevo rubato l’idea. Niente di piú falso. Meditavo di diventare generoso da ben prima che lui facesse la sua comparsa, e comunque, se lui poteva appropriarsi indebitamente del mio slogan festivo, per quale ragione io non avrei dovuto prendere a prestito un’idea che mi ronzava in testa da almeno dieci anni? Quando cominciai a raccontare in giro che avevo donato due dollari al Fondo per la lotta all’emicrania, la gente dapprima mi liquidò incredula; ma quando i due dollari al Fondo per la lotta all’emicrania li diedi realmente, ragazzi! Non appena cominciai a mostrare a tutti la matrice di quell’assegno altroché se le cose cambiarono! Se solo la si sbandiera abbastanza, la generosità può mettere le persone davvero in imbarazzo. E non intendo «sgradevolmente in imbarazzo». Mi riferisco a qualcosa di ben piú complesso. Se praticata correttamente, la generosità può indurre un senso di vergogna, di inadeguatezza, e addirittura di invidia, solo per fare alcuni esempi. La cosa piú importante è conservare una prova scritta o visiva della donazione, altrimenti tanto vale non farla nemmeno. Doug Cottingham direbbe che gli ho rubato anche questa massima, ma sono quasi certo di averla letta in un manuale del fai da te fiscale. Portai la matrice dell’assegno a tutti i party festivi che contavano, ma all’indomani del Capodanno l’interesse della gente cominciò a scemare. Passarono le stagioni, e io dimenticai completamente la mia generosità, almeno fino al giorno del Ringraziamento successivo, quando il vecchio barbone si ripresentò nel quartiere. Memore con tutta probabilità del morso alla gamba dell’anno precedente, stava quasi per saltare a piè pari la nostra casa, quando fummo noi a chiamarlo, per riversargli addosso la nostra dose di bontà. Come prima cosa, lo filmammo mentre mangiava un’abbondante

manciata di ripieno avanzato, dopodiché io chiesi a Beth di fotografarmi mentre regalavo al poveraccio un videoregistratore. Si trattava di un vecchio Betamax, di quelli che si caricano dall’alto, ma con un filo nuovo avrebbe funzionato a meraviglia. Osservammo il barbone legarselo sulla schiena, per poi proseguire la questua presso la casa accanto. A quel fetente di Doug Cottingham bastò intravedere il videoregistratore. Entrò in casa e nel giro di qualche minuto tornò con un registratore a otto piste da regalare al vecchio rimbambito, seguito, manco a dirlo, dalla governante incaricata di immortalare l’evento. A quel punto noi richiamammo il barbone e gli regalammo un fon vecchio di un anno. I Cottingham risposero con un forno elettrico. Nel giro di un’ora eravamo passati ai tavoli da biliardo e ai tapis roulant. Doug gli donò una sacca per mazze da golf, e io la mia parabola satellitare. L’escalation accelerò, al punto che anche un idiota avrebbe capito come sarebbe andata a finire. Consegnando al barbone le chiavi della sua roulotte-sauna, Doug Cottingham mi lanciò un’occhiata come a dire: «Vediamo cosa tiri fuori adesso, caro il mio vicino!» Io e Beth avevamo imparato a conoscere quel suo genere di occhiate, e le detestavamo. Avrei potuto facilmente sbaragliare la sua sauna mobile, ma era rimasta poca pellicola e cosí preferii tagliar corto. Perché continuare a rincorrersi quando sapevamo tutti qual era la cosa davvero importante? Dopo un breve consulto, io e Beth chiamammo il barbone e gli chiedemmo se preferiva i maschietti o le femminucce. Con nostra somma gioia lui rispose che le femmine davano troppi problemi, ma che gli era già capitato di divertirsi con dei maschietti appena prima del suo ultimo soggiorno presso il carcere statale. Non ci fu bisogno di aggiungere altro: gli regalammo Taylor e Weston, i nostri figli, entrambi di dieci anni. Prendi e porta a casa, caro vicino! Avreste dovuto vedere la faccia di Doug Cottingham! Quell’anno realizzammo un biglietto natalizio memorabile. Ritraeva lo straziante addio dei nostri figli, accanto al messaggio: «Natale significa dare. Finché fa male». Divenimmo le celebrità del quartiere, tornando cosí a occupare la vetta che ci spettava. Finalmente eravamo di nuovo noi la coppia da avere a ogni cocktail o festa della potatura

degni di nota. «Ma dove sono quei signori cosí generosi che hanno fatto quel delizioso biglietto di Natale?» si chiedeva la gente, e a quel punto il padrone di casa ci indicava. I Cottingham, intanto, si mordevano le mani. Nel tentativo estremo di ridare lustro al loro nome, i due donarono la loro orrida figliola Eileen a una ciurma di pirati bisognosi, ma fu chiaro a tutti che si trattava di un gesto disperato. Eravamo di nuovo la coppia piú desiderata, e il calore dell’ammirazione ci accompagnò per tutte le festività. La dose di attenzioni fu poi rincarata l’estate successiva, quando i nostri figli vennero ritrovati morti nella sauna mobile un tempo appartenuta a Doug Cottingham. Tutti i vicini insistettero per mandarci dei fiori, ma noi rifiutammo chiedendo loro di fare una donazione a nostro nome al Comitato nazionale per il corretto uso delle saune, o al Fondo per la difesa degli stupratori. Fu un’ottima mossa, e ci guadagnò l’appellativo di «semidei». Manco a dirlo, i Cottingham erano fuori di sé dalla rabbia, e si misero immediatamente al lavoro per rinverdire la loro stanca fama di eterni concorrenti. Probabilmente il pensiero li ossessionava, ma a noi non toglieva certo il sonno. Per i biglietti natalizi di quell’anno decidemmo di puntare sullo slogan: «Natale significa dare. Finché non esce il sangue». Poco dopo il Ringraziamento, io e Beth ci recammo alla banca del sangue del quartiere, dove arrivammo a un passo dal prosciugare il prezioso conto biologico dei nostri corpi. Pallidi e storditi dallo sforzo, riuscimmo a malapena a sollevare una mano per salutarci dalle rispettive barelle. Ci riprendemmo appena in tempo per le festività, e stavamo giusto chiudendo le nostre buste quando il postino ci consegnò il biglietto di Natale dei nostri vicini, che recitava: «Natale significa dare una parte di sé». La foto sul davanti ritraeva Doug, disteso su un tavolo operatorio e circondato da un team di chirurghi intenti a espiantare, con attenzione e impegno, il suo lucido polmone marca Cottingham. All’interno del biglietto c’era una foto del destinatario dell’organo, un malconcio minatore che reggeva un cartello con su scritto: «Douglas Cottingham mi ha salvato la vita». Come aveva osato? Il tema della generosità medica l’avevamo

praticamente inventato io e Beth, e la tronfia espressione di superiorità che si intravedeva dietro la mascherina chirurgica del nostro vicino ci mandò in bestia. Nella difficoltà, qualsiasi coppia sposata da tempo è in grado di comunicare senza bisogno di parlare. La riprova fu che io e mia moglie ci mettemmo all’opera senza nemmeno aprir bocca. Beth gettò via la sua busta chiusa a metà e chiamò l’ospedale, mentre io contattavo un fotografo dal telefono della nostra auto. Prendemmo tutti gli accordi del caso, e prima dell’alba io avevo già donato entrambi gli occhi, un polmone, un rene e buona parte delle vene intorno al cuore. Beth, che possiede un innato attaccamento per i suoi organi interni, preferí ripiegare su cuoio capelluto, denti, gamba destra ed entrambi i seni. Solo dopo l’operazione scoprimmo che i contributi di mia moglie non erano trapiantabili, ma a quel punto per ricucirli era troppo tardi. Mia moglie decise allora di donare il cuoio capelluto a un’esterrefatta signora malata di cancro, con i denti si fabbricò una collanina ricordo e regalò la gamba e i seni al canile municipale, dove vennero utilizzati per sfamare una cucciolata di Border Collie denutriti. La notizia fu ripresa dal telegiornale regionale, e ancora una volta i Cottingham furono verdi di invidia di fronte alla nostra buona sorte. Donare organi a un essere umano era un conto, ma scoprendo ciò che Beth aveva fatto per quei poveri cuccioli abbandonati la comunità andò in brodo di giuggiole. Non vi fu ricevimento festivo in cui a mia moglie non venisse chiesto di stringere la zampa al cagnolino di casa, o di benedire il guscio di qualche tartarughina indisposta. Il minatore che aveva ricevuto il polmone di Doug Cottingham era morto carbonizzato a causa di una sigaretta che gli aveva incendiato le lenzuola e la fasciatura postoperatoria, e il loro nome oramai non valeva piú nulla. Fu al cenone di Natale degli Hepplewhite che per caso sentii Beth sussurrare: «Quel Doug Cottingham non è nemmeno riuscito a donare un polmone decente!» Detto questo, scoppiò in una lunga e sonora risata, e io le appoggiai una mano sulla spalla, gustandomi il delicato morso della sua collanina di denti. Anch’io attirai la mia buona dose di attenzione, non c’è dubbio, ma quella era la serata di Beth, e lasciai che se la godesse appieno. Il fatto è che sono una persona estremamente generosa. Io e lei formavamo una

squadra, e malgrado non potessi vedere gli sguardi ammirati degli altri ospiti, riuscivo tuttavia a percepirli, proprio come avvertivo il calore del bel fuoco che ardeva nel camino degli Hepplewhite. Ci sarebbero stati altri Natali, certo, ma sia io sia Beth ci rendemmo conto che quello sarebbe rimasto speciale. Di lí a un anno avremmo dato via la casa, tutti i nostri soldi e quel poco che restava delle nostre proprietà. Dopo aver cercato in lungo e in largo il quartiere appropriato, ci saremmo trasferiti in una sorta di baraccopoli nei pressi del Ragsdale Cloverleaf. I Cottingham, fedeli alla loro natura, avrebbero allora traslocato in una catapecchia piú piccola accanto alla nostra. Il giro di elemosine sarebbe andato bene fino alla stagione festiva, ma con l’approssimarsi dell’inverno le cose si sarebbero complicate, e una catena ininterrotta di dolori e malattie avrebbe investito le nostre vite. Beth sarebbe spirata dopo una lunga e atroce lotta contro la tubercolosi, non prima però che Doug Cottingham e la moglie morissero di polmonite. Io avrei cercato di non lasciarmi turbare dal fatto che fossero morti prima di lei, ma in realtà accettarlo sarebbe stato molto difficile. Ogni qualvolta l’invidia fosse stata sul punto di sopraffarmi, avrei ripensato a quel cenone di Natale perfetto a casa degli Hepplewhite. Tremando di freddo sotto la mia coperta di giornali umidi avrei cercato di rievocare il confortante, spensierato suono della risata di Beth, di immaginarmela mentre lasciava cadere la testa all’indietro divertita, con le sue splendide, luccicanti gengive vuote che riflettevano la luce di un lampadario di cristallo. Con un po’ di fortuna, il ricordo del nostro amore e della nostra generosità mi avrebbe cullato verso un sonno profondo e ristoratore, dal quale mi sarei risvegliato solo al mattino.

Notizie sugli autori

Louise May Alcott (1832-1888) fu scrittrice prolifica e di grande successo, specialmente in seguito alla pubblicazione del capolavoro Piccole donne e dei successivi libri della serie. Il testo incluso in questa raccolta è tratto da Piccole donne, Garzanti, Milano 1988. Paul Auster (1947) scrittore, sceneggiatore e poeta statunitense, ha pubblicato numerosi romanzi tradotti in tutto il mondo, tra cui la Trilogia di New York e La notte dell’oracolo. La storia inclusa in questa raccolta, già raccontata nel film Smoke, è pubblicata in Esperimento di verità, Einaudi, Torino 2005. Ray Bradbury (1920), scrittore e sceneggiatore statunitense, con i racconti di Cronache marziane e con il romanzo breve Fahrenheit 451 è stato tra i grandi innovatori della fantascienza del Dopoguerra. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in La fine del principio, La Tribuna, Piacenza 1963. William Burroughs (1914-1997) ebbe natali altolocati ma dopo gli studi ad Harvard si ribellò al sistema di valori americano e si diede alle droghe e al vagabondaggio. Considerato il maggior narratore della beat generation, deve la sua fama alle cronache di La scimmia sulla schiena e al romanzo Il pasto nudo. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in Interzona, SugarCo, Milano 1994. Dino Buzzati (1906-1972) ha lavorato tutta la vita come redattore e inviato del «Corriere della Sera», attività cui ha sempre alternato quella di narratore. Tra i suoi libri Il deserto dei Tartari, Sessanta racconti e Un amore. Il racconto incluso in questa raccolta è tratto da Lo strano caso di Mr. Scrooge, Mondadori, Milano 1990. Italo Calvino (1923-1985), lo scrittore italiano piú amato e tradotto del Novecento, esordí giovanissimo con Il sentiero dei nidi di ragno, cui seguirono, negli interstizi di un intensissimo lavoro editoriale, la trilogia I nostri antenati e le sperimentazioni di Se una notte d’inverno un viaggiatore, Le città invisibili e Palomar. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in Marcovaldo, Mondadori, Milano 2002.

Truman Capote (1924-1984) nel Dopoguerra fu un protagonista della scena culturale e mondana americana. Autore di L’arpa d’erba e del celebre Colazione da Tiffany, con A sangue freddo inaugurò un nuovo genere di romanzo giornalistico. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in Un natale e altri racconti, Garzanti, Milano 1984. Anton Čechov (1860-1904) fu di professione medico. Deve la sua vastissima fama alle commedie, tra cui Il gabbiano e Il giardino dei ciliegi, e alla nutrita produzione di narrativa breve, della quale è considerato un maestro. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in Racconti e teatro, Sansoni, Firenze 1966. Arthur C. Clarke (1917) ha lavorato a lungo nel campo aerospaziale prima di dedicarsi esclusivamente alla fantascienza. Tra i suoi romanzi, oltre al celeberrimo 2001: Odissea nello spazio, si ricordano Le sabbie di Marte e Incontro con Rama. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in Le meraviglie del possibile 2, Einaudi, Torino 1961. John Collier (1901-1980) scrisse decine di racconti e romanzi sospesi tra fantasy, mystery e noir. Vincitore dei piú prestigiosi premi statunitensi per la narrativa di genere, fu tra gli autori prediletti di Alfred Hitchcock, che trasse diversi soggetti dalle sue storie. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in aa.vv., Delitti di Natale, Polillo, Milano 2004. Carlo Collodi, pseudonimo di Carlo Lorenzini (1826-1890), lavorò a lungo come giornalista ed ebbe incarichi amministrativi. Autore di numerosi libri per l’infanzia, è conosciuto in tutto il mondo per Le avventure di Pinocchio. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in aa.vv., Natale con i grandi scrittori europei, Paoline, Milano 2004. Arthur Conan Doyle (1859-1930), anonimo dottore di provincia, ottenne una fama straordinaria grazie all’invenzione di Sherlock Holmes, le cui avventure ebbero un successo tale da eclissare completamente il resto della sua pur imponente produzione narrativa. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in Tutto Sherlock Holmes, I, Newton Compton, Roma 1991.

Gabriele D’Annunzio (1863-1938) fu uno dei protagonisti culturali e mondani dell’Italia umbertina, che scioccò e affascinò con una lunga serie di imprese amorose, artistiche, politiche, militari. I suoi capolavori sono la raccolta di poesie Alcyone e il romanzo Il piacere. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in aa.vv., Natale con i grandi scrittori europei, Paoline, Milano 2004. Emilio De Marchi (1851-1901) fu tra i protagonisti della scena culturale di Milano, dove ebbe importanti incarichi amministrativi. Narratore di stampo realista, nel capolavoro Demetrio Pianelli ritrasse il mondo della nuova borghesia postunitaria. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in Notti di dicembre, Sellerio, Palermo 2001. Fëdor Dostoevskij (1821-1881), tra i maggiori romanzieri russi di sempre, ebbe un’esistenza travagliata sentimentalmente, economicamente, politicamente, e solo in tarda età raggiunse la grande popolarità e un relativo agio. Tra i suoi capolavori Il sosia, Delitto e castigo, I fratelli Karamazov e I demoni. Il testo incluso in questa raccolta è tratto da Memorie della casa dei morti, Newton Compton, Roma 1995. Friedrich Dürrenmatt (1921-1990), drammaturgo e narratore svizzero, è noto per la produzione teatrale (I fisici) e per i brevi romanzi Il giudice e il suo boia e La promessa, che pervertono la logica del genere poliziesco per denunciare l’irrazionalità del mondo. Il testo incluso in questa raccolta è pubblicato in Racconti, Feltrinelli, Milano 1988. Francis Scott Fitzgerald (1896-1940), protagonista e cantore della dorata Età del Jazz, raggiunse la fama giovanissimo ma ebbe un’esistenza molto travagliata, soprattutto a causa dei problemi con l’alcol e con l’amata-odiata moglie Zelda Sayre. Tra le sue opere piú note Il grande Gatsby, Belli e dannati, Tenera è la notte. Il racconto incluso in questa raccolta è tratto da I racconti di Pat Hobby, Theoria, Roma 1990. Eduardo Galeano (1940), scrittore uruguayano, fu costretto all’esilio in seguito all’instaurazione della dittatura militare del 1973 e poté fare ritorno nel suo paese solo nel 1985. Tra le sue opere piú famose la trilogia di

Memoria del fuoco e Splendori e miserie del gioco del calcio. Il testo incluso in questa raccolta è tratto da Il libro degli abbracci, Sperling & Kupfer, Milano 2005. Giacomo detto «il Giusto» visse probabilmente tra il i secolo a. C. e il i secolo d. C., ma non è dato sapere se fosse realmente un fratellastro di Gesú Cristo e di sicuro non ha composto di persona il Vangelo che gli è attribuito. Del vero autore, vissuto attorno al 150 d. C., non si sa nulla. Il passaggio incluso in questa raccolta è tratto da I Vangeli apocrifi, Einaudi, Torino 1990. Giovanni da Hildesheim (?-1375) fu frate carmelitano e lettore alla Sorbona di Parigi. Uomo di vasta erudizione, compose un gran numero di opere a carattere teologico e filosofico ma viene ricordato soprattutto per la stravagante storia dei Re Magi inclusa con alcuni tagli in questa raccolta. Il testo completo è pubblicato in La storia dei Re Magi, Newton Compton, Roma 1980. Guido Gozzano (1883-1916), iniziatore e maggior poeta del cosiddetto Crepuscolarismo, visse una breve e grigia esistenza minata dalla tubercolosi. Oltre che per le poesie dei Colloqui è ricordato per le prose di Verso la cuna del mondo e per il poemetto incompiuto Le farfalle. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in Un Natale a Ceylon e altri racconti, Garzanti, Milano 1984. Giovannino Guareschi (1908-1968), giornalista e scrittore, diresse a lungo il settimanale «Candido» e pubblicò diversi volumi di narrativa umoristica, tra cui Il destino si chiama Clotilde e la celebre serie di Don Camillo. Il racconto incluso in questa raccolta è tratto da Osservazioni di uno qualunque, Rizzoli, Milano 1988. Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776-1822), scrittore e musicista tedesco, ebbe una vita travagliata in cui alternò diversi mestieri, tra cui quello di magistrato. Le sue storie, sospese tra magia, sogno e orrore, hanno ispirato generazioni di scrittori e compositori. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in Romanzi e racconti, II, Einaudi, Torino 1990.

Washington Irving (1783-1859) visse in America e Inghilterra, legandosi di amicizia ai maggiori scrittori e uomini politici del suo tempo. Primo autore statunitense di fama mondiale, è ricordato per i racconti Rip Van Winkle e La leggenda di Sleepy Hollow. Il testo incluso in questa raccolta è pubblicato in Il libro degli schizzi, Rizzoli, Milano 1990. Jacopo da Varazze (1230-1298) fu uomo di Chiesa e teologo di grandissima fama, spesso chiamato a tenere sermoni anche fuori dalla sua Liguria. Dopo essere stato ordinatore dei domenicani di Lombardia divenne intimo del Papa e fu eletto arcivescovo di Genova. Il testo incluso in questa raccolta è ricavato, con alcuni tagli, dalla Legenda aurea, Einaudi, Torino 1995. Luca, autore del terzo Vangelo canonico e degli Atti degli Apostoli, visse nel i secolo e fu collaboratore di Paolo di Tarso. Della sua vita si sa poco: forse esercitò la professione medica. Mirando a completare la storia di Gesú Cristo narrata nei Vangeli precedenti, incluse nella sua versione fonti e testimonianze diverse, vagliate criticamente. Il passaggio incluso in questa raccolta è tratto da Il Vangelo di Luca, Einaudi, Torino 1999. Marchesa Colombi, pseudonimo di Maria Antonietta Torriani (18401920), fu attivista politica, giornalista e scrittrice. Sposata al fondatore del «Corriere della Sera», conobbe un vasto successo di pubblico grazie ai suoi numerosi romanzi e racconti, molti dei quali di ambientazione natalizia. Il testo incluso in questa raccolta è pubblicato in Notti di dicembre, Sellerio, Palermo 2001. Matteo, autore del primo Vangelo canonico, visse nel i secolo e fu uno dei dodici Apostoli di Gesú Cristo. Della sua vita si conosce soltanto il modo in cui venne chiamato a seguire il Cristo, narrato da lui stesso. Il passaggio incluso in questa raccolta è tratto da I Vangeli, Einaudi, Torino 1991. Guy de Maupassant (1850-1893), figlioccio del grande Gustave Flaubert, esordí con il fortunato racconto Palla di sego, cui seguirono diversi volumi di narrativa breve e sei romanzi, il piú famoso dei quali è

Bel-Ami. Grande amante della vita mondana e dell’eccesso, fu colto a quarant’anni da una crisi di follia e morí in manicomio. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in Tutte le novelle, I, Mondadori, Milano 1993. Vladimir Nabokov (1899-1977) nacque in una famiglia aristocratica della Russia zarista, che in seguito alla Rivoluzione del 1917 dovette espatriare. Dopo gli esordi letterari in russo, scelse l’inglese come propria lingua letteraria e si trasferí negli Stati Uniti. È noto al grande pubblico soprattutto per Lolita. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in La veneziana e altri racconti, Adelphi, Milano 1992. O. Henry, pseudonimo di William Sidney Porter (1862-1910), da autodidatta divenne il piú grande scrittore di racconti della sua epoca, baciato da un enorme successo di pubblico. Porta il suo nome il piú prestigioso premio statunitense per la narrativa breve. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in aa.vv., Il quarto re magio, Marcos y Marcos, Roma 2002. Giovanni Pascoli (1855-1912) è stato tra i maggiori poeti dell’Ottocento italiano. Dopo un’infanzia di ristrettezze funestata dall’assassinio del padre, conobbe il successo con le poesie di Myricae e con i Canti di Castelvecchio. Alla morte del maestro Giosue Carducci gli succedette alla cattedra di Letteratura italiana dell’Università di Bologna. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in Notti di dicembre, Sellerio, Palermo 2001. Pseudo-Matteo, autore di un famoso «Vangelo dell’Infanzia», è figura avvolta nel piú completo mistero. Probabilmente visse nel tardo ii secolo. Il passaggio incluso in questa raccolta è tratto da I Vangeli apocrifi, Einaudi, Torino 1990. Gianni Rodari (1920-1980), giornalista e scrittore, è stato il maggior autore per l’infanzia del Novecento italiano. Oltre alle numerose raccolte di racconti e filastrocche, si ricorda il saggio Grammatica della fantasia. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in Fiabe lunghe un sorriso, Editori Riuniti, Roma 1987.

David Sedaris (1956), umorista statunitense di origine greca, ha svolto i lavori piú disparati prima di approdare al successo come narratore, autore radiofonico e saggista brillante. Dei suoi libri, tutti best-seller in patria, sono tradotti in italiano Ciclopi e Me parlare bello un giorno. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in Holidays on ice, Mondadori, Milano 2003. Mario Rigoni Stern (1921) ha combattuto come alpino su diversi fronti della Seconda guerra mondiale, finendo prigioniero dei tedeschi dopo l’armistizio del 1943 e rientrando in Italia solo alla fine del conflitto. Autore di diversi volumi di narrativa e di memorialistica, è noto soprattutto per Il sergente nella neve, ormai un classico. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in Aspettando l’alba, Einaudi, Torino 2005. Robert Louis Stevenson (1850-1894) nacque in Scozia e morí nelle Isole Samoa dopo una vita inquieta e intensa spesa in viaggio tra Europa e America. La sua fama di narratore è legata al romanzo L’isola del tesoro e al celeberrimo Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mister Hyde. Il testo incluso in questa raccolta è pubblicato in I racconti, Einaudi, Torino 1999. Dylan Thomas (1914-1953) fu giornalista, narratore, sceneggiatore, attore ma soprattutto poeta. Autore di pochi, memorabili libri, morí non ancora quarantenne ucciso dall’alcol. Il racconto incluso in questa raccolta è pubblicato in Il mio Natale in Galles, Emme, Milano 1991. Henri Troyat, pseudonimo di Lev Tarassov (1911), fuggí dalla Russia con la sua famiglia allo scoppio della Rivoluzione d’Ottobre e si stabilí a Parigi, dove vive tuttora, membro dell’Accademia di Francia. Il racconto incluso in questa raccolta è la rielaborazione di una leggenda russa ed è pubblicato in La rosa di Natale, Principato, Milano 1966.

Indice

Copertina Frontespizio Introduzione di Nico Orengo Inizi Vangelo secondo Luca Vangelo secondo Matteo Protovangelo di Giacomo Vangelo dello Pseudo-Matteo Jacopo da Varazze. Natività ed Epifania di nostro Signore Giovanni da Hildesheim. I re magi Lo spirito del Natale O. Henry. Il dono dei magi Louise May Alcott. Un lieto Natale Carlo Collodi. La «pasqua» di Natale Truman Capote. Un Natale Ray Bradbury. Il dono Dylan Thomas. Il mio Natale in Galles Washington Irving. La vigilia di Natale Gianni Rodari. All’ombra di un albero di Natale Paul Auster. Il racconto di Natale di Auggie Wren Gli spiriti di Natale Giovannino Guareschi. La favola di Natale Dino Buzzati. Lo strano Natale di Mr Scrooge Ernst Theodor Amadeus Hoffmann. Schiaccianoci e il re dei topi Anton Čechov. Il calzolaio e lo spirito maligno Henri Troyat. Babouchka Robert Louis Stevenson. Markheim Bad Christmas Friedrich Dürrenmatt. Natale Arthur C. Clarke. La stella William Burroughs. Il Natale del tossicomane Giovanni Pascoli. Il ceppo Emilio De Marchi. Un povero cane John Collier. Di ritorno per Natale Francis Scott Fitzgerald. L’augurio natalizio di Pat Hobby Arthur Conan Doyle. L’avventura del carbonchio azzurro Sad Christmas Eduardo Galeano. Notte di Natale Guido Gozzano. Un Natale a Ceylon Marchesa Colombi. Cavar sangue da un muro Mario Rigoni Stern. Il Natale del 1945 Fëdor Dostoevskij. Le feste di Natale Gabriele D’Annunzio. Il tesoro dei poveri Lieto finale Italo Calvino. I figli di Babbo Natale Guy de Maupassant. Notte di Natale Vladimir Nabokov. Racconto di Natale David Sedaris. Natale significa dare

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