Lo spazio dell’anima. Vita di una chiesa medievale


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Storia e Società

© 2005, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2005

L’editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione

Michele Bacci

Lo spazio dell’anima Vita di una chiesa medievale

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2005 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-7714-0 ISBN 88-420-7714-3

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

a Barbara e Flavio Valerio

PREMESSA Negli ultimi tempi mi è capitato spesso di dedicare una parte dei miei corsi all’Università di Siena ad illustrare in che misura, e per quali aspetti, la concezione medievale dello spazio sacro differisse da quella in uso nelle epoche successive. L’argomento, come ho avuto subito modo di rendermi conto, è tutt’altro che semplice se lo si vuole affrontare da un punto di vista unitario, senza concentrarsi alternativamente sull’aspetto formale o su quello strutturale o ancora su quello iconografico, liturgico, musicale, storico-religioso, bensì cercando di elaborare una sintesi in cui ciascuno di tali elementi venga valutato per il ruolo svolto nell’elaborazione di un ambiente efficace e funzionale al culto e al rito divino. Poiché mi è stato presto evidente che, a dispetto delle tradizionali barriere fra le discipline, era proprio questo punto che maggiormente suscitava l’interesse e le domande incuriosite dei miei studenti, mi sono risolto ad accogliere l’invito dell’Editore Laterza a scrivere questo libro, pur consapevole dei limiti e delle difficoltà a cui sarei andato incontro. A conti fatti, credo che questa piccola impresa non sia stata inutile, almeno nella misura in cui può offrire a chi fa i suoi primi passi nello studio della storia dell’arte e, più in generale, a chiunque sia affascinato dalla cultura dell’Occidente medievale, una «guida» e assieme un «galateo» da utilizzare in un’immaginaria visita a un edificio sacro del XIII o del XIV secolo. Quella che propongo non è tanto una disquisizione storica o un’analisi delle forme d’arte che si sono sviluppate all’interno delle chiese – per questo esiste una sterminata bi-

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bliografia specifica, che in parte sarà richiamata nelle note e che comprende anche opere divulgative di buon livello, come ad esempio la Cattedrale di Anne Prache1 – bensì un percorso all’interno dello spazio sacro medievale che ci aiuti a mettere a fuoco le sue modalità di funzionamento, la sua articolazione interna e le diverse categorie di pubblici a cui era destinato. Quando facciamo ingresso in una chiesa romanica o gotica che è giunta fino ai nostri giorni spesso fatichiamo a comprendere, in molti suoi aspetti, quanto rimane dell’assetto originario e della sua decorazione. Come non chiedersi, ad esempio, per quale motivo spesso e volentieri le pareti della navata siano ricoperte da una sequenza irregolare e disordinatissima di pitture murali a soggetto religioso? E quale criterio sta alla base della disposizione di altari secondari, nicchie ricavate nello spessore delle pareti, piccoli armadi a muro, sostegni e mensole, transenne, barriere divisorie, tombe, sarcofagi, rialzi, pedane, volte e cappelle? Quello che vediamo è, inesorabilmente, il frutto di vicende secolari che hanno stravolto l’arredo originario degli edifici, com’è naturale che accada a qualsiasi organismo architettonico, che vive di un’esistenza propria e si adatta alle contingenze, ai gusti e alle mode dei diversi periodi storici. Nello specifico, anche prescindendo dai bombardamenti, dai saccheggi e dai terremoti, le chiese medievali ne hanno passate davvero tante: hanno dovuto conformarsi ai rinnovati criteri estetici del Rinascimento, recepire le direttive in materia di decoro ecclesiastico stabilite nel Concilio di Trento, rifarsi il trucco secondo i dettami barocchi e rococò, subire le ingiurie degli iconoclasti luterani, calvinisti e ugonotti e dei rivoluzionari francesi, piegarsi a destinazioni improprie (come a funzionar da caserme o da mercati del pesce) in occasione delle soppressioni napoleoniche e sabaude, per poi terminare con un attacco finale: quello di tutta una scuola di pensiero nel campo del restauro e della conservazione che, cancellando d’un colpo le stratificazioni accumulatesi lungo i secoli, mirava a ripristinare quel-

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l’«originario splendore» che non di rado finiva per rivelarsi altrettanto fittizio e storicamente inverosimile2. È evidente che, a causa di tutte queste vicende e di così tanti stravolgimenti, quello che è giunto sino a noi è quasi sempre il risultato di una ricostruzione a posteriori. Tuttavia, anche quando ci imbattiamo in quei rari edifici che hanno subìto solo piccole trasformazioni nel corso della loro storia, fatichiamo molto a comprendere numerosi loro aspetti perché si è profondamente modificato, nel frattempo, il nostro modo d’intendere le modalità d’uso dello spazio sacro e le forme di coinvolgimento individuale negli eventi che vi vengono allestiti. In primo luogo occorre tenere in conto lo spartiacque che, nella percezione del rito, è costituito dalla riforma liturgica messa in moto dalle risoluzioni del Concilio di Trento, quando si è proceduto all’omogeneizzazione dei culti sul modello della tradizione romana e si è registrata la tendenza a disciplinare la partecipazione dei laici allo svolgimento degli offici. Dal punto di vista «performativo», l’elemento più evidente è stato l’accresciuta enfasi posta sulla visibilità del rito, che è divenuto sempre più esibito ed ostentato, talora attraverso il ricorso a grandi artifici scenografici e retorici. Da allora (ossia dalla seconda metà del Cinquecento) fino ai giorni nostri (sia pure nella forma sempre più stilizzata ed essenziale elaborata dopo il Vaticano II), i fedeli cattolici sono stati abituati ad avere un’esperienza diretta dei gesti e dell’azione della messa, nonché ad interagire in prima persona, e ripetutamente, col celebrante, rispondendo in coro alle formule e assumendo singole pose del corpo in momenti esattamente determinati. Tutto questo fa sì che la nostra idea dell’officio liturgico si associ inevitabilmente con una sensazione di ordine e di disciplina ben ponderata che non ci è utile per comprendere l’atteggiamento dei laici nei confronti dello spazio sacro medievale. Più utile è semmai varcare la soglia di una chiesa di rito ortodosso: chiunque visiti la Grecia e nutra qualche curiosità diversa dal mero godimento delle spiagge e del mare, sa per esperienza quanto sia spiazzante, a pri-

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ma vista, la disinvoltura con cui la gente si rapporta all’edificio sacro e alla liturgia. A colpire è innanzitutto il fatto che dell’officio si riesce in realtà a vedere molto poco, specialmente nei momenti più solenni e più che mai alla consacrazione delle sacre specie, perché il clero, per la maggior parte del tempo, recita le formule liturgiche in una zona – il cosiddetto bema (o víma) – che è nettamente separata dallo spazio riservato ai fedeli (detto naós) da una vera e propria barriera, una struttura in legno o pietra le cui parti «a giorno» sono abitualmente occultate da icone e che per questo motivo è conosciuta oggi come iconostasi. Da questo muro di immagini, verso il quale si indirizzano gli sguardi durante il rito, il diacono e il sacerdote si affacciano solo in alcuni specifici e brevi momenti; una piena visione di tutto il consesso degli officianti non è praticamente mai possibile. Questa soluzione certamente esclude il popolo dalla partecipazione diretta all’evento, ma al contempo – è inutile negarlo – contribuisce a caricarlo di una straordinaria aura di sacralità, che è poi rinforzata da tutta una serie di accorgimenti che mirano a suscitare nello spettatore sensazioni «sinestetiche»: l’accumulo di odori (attraverso l’incenso), suoni (col ricorso al canto), effetti visivi (con la calibrazione delle luci, l’esibizione di immagini, il rifrangersi della luce sui mosaici) segnala la speciale solennità di una parte dell’officio rispetto ad altre3. I fedeli sanno bene tutto questo e si comportano di conseguenza. Di norma, non seguono ininterrottamente l’intero rito, in molti arrivano tardi, rimangono un po’, quindi escono e rientrano in un modo che a noi «latini» può sembrare caotico. Non sembrano seguire nessuna indicazione di massima per quanto riguarda i gesti e le pose del corpo da assumere: piuttosto ciascuno si prostra o fa un atto di devozione nel momento che reputa, per così dire, maggiormente investito di potere sacro. Accade così che in certi momenti, quando le porte dell’iconostasi si chiudono e il canto assume un tono più solenne, o allorché l’odore dell’incenso si fa più acuto, si veda una vec-

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chietta che improvvisamente – e indisciplinatamente secondo i nostri canoni – abbandona il suo posto e si avvicina a un’icona per baciarla o per accenderle una candela. Nel momento in cui uno degli officianti si affaccia nel naós (come accade, ad esempio, alla lettura del Vangelo) sono in molti quelli che accorrono per baciargli la mano; emozionante è poi il momento in cui le porte si aprono per segnalare che è avvenuto il mistero tremendo del miracolo eucaristico: si palesa improvvisamente il Santo dei Santi, ne escono fuori luci e suoni più intensi, e il fumo dell’incenso si diffonde nello spazio dei laici, coinvolgendoli fisicamente nell’evento. Attraverso accorgimenti come questi si ottiene il risultato di stimolare la partecipazione emotiva dei presenti, che a sua volta mira a suscitare quell’esperienza assolutamente umana che è la sensazione del sacro. Le modalità di orchestrazione «scenografica» e di articolazione spaziale di tali emozioni e sensazioni, o in altre parole la creazione di un ambiente funzionale all’incontro tra l’umanità e le potenze celesti, costituiscono un aspetto fondamentale, quanto difficile da analizzare, della storia della cultura, che non può essere compreso solo da un punto di vista liturgico o architettonico o artistico. A questo scopo, in un convegno che si è recentemente celebrato a Mosca, si è proposto di guardare a tali fenomeni come all’oggetto specifico di una disciplina autonoma a cui lo studioso russo Alexei M. Lidov ha attribuito l’etichetta di «ierotopìa», o «storia dell’elaborazione di spazi sacri». L’invito è a considerare ogni edificio di culto come un ambiente dinamico, in cui elementi diversi – come l’architettura, le immagini, la suppellettile liturgica, le vesti dei celebranti, la creazione simultanea di effetti visivi, olfattivi e uditivi – contribuiscono a suggerire un’idea di unità spaziale e temporale; in questo senso, coloro che realizzano le singole componenti di questo insieme – come i pittori, gli orafi o i musicisti – perdono di importanza rispetto a colui cui si deve il progetto globale e integrato, che può talora essere identificato con un finanziatore-committente o, più spesso ancora, con un distin-

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to ideatore o concepteur, come può essere ad esempio un eminente chierico che è al contempo un raffinato intellettuale4. In questo modo, tuttavia, si rischia di spostare il centro dell’attenzione da una figura leggendaria, com’è l’artista-creatore esaltato dalla storiografia occidentale dal Rinascimento fino ai giorni nostri, a un nuovo mito non meno fuorviante, quello del «creatore di spazi sacri», che, un po’ alla maniera dei moderni event-makers, riesce a vitalizzare un ambiente combinando forme d’espressione diverse. In realtà, anche se in qualche luogo molto particolare – vedi il Santo Sepolcro a Gerusalemme, Santa Sofia a Costantinopoli, la basilica di San Pietro a Roma, ecc. – si può ipotizzare l’intervento sin dalla fondazione di un progetto spaziale molto sofisticato, non credo che sia corretto ragionare in questo modo in relazione a qualsiasi edificio di culto, e in particolare a quelli del Medioevo occidentale. Non sempre, infatti, si riusciva a rendere un’idea di unità, un po’ perché i luoghi sacri prendevano spesso forma per accumulazioni progressive, un po’ perché, come alla liturgia canonica andavano sempre più spesso ad accostarsi offici e messe accessorie, lo spazio tendeva non di rado a suddividersi e segmentarsi in unità secondarie; come si cercherà di mostrare in questo libro, le chiese latine dei secoli XIII e XIV, piuttosto che una sensazione di uniformità, dovevano trasmettere un’impressione di disordine, vista la successione decisamente caotica di altari, cappelle e monumenti sepolcrali che si poteva osservare lungo le loro pareti. Anziché andare in cerca di anonimi «progettisti», mi sembra più interessante riflettere sulle modalità di funzionamento degli spazi sacri come sistemi di rapporti interpersonali. Ogni religione – è persino banale osservarlo – ha bisogno di luoghi speciali che si ritengano forniti di una sorta di «extraterritorialità», ovvero che sembrino corrispondere a una dimensione distinta dal contesto geografico e storico in cui si svolge la vita ordinaria degli esseri umani5. A questi luoghi fanno riferimento gruppi di persone spesso eterogenei dal punto di vista sociale, professionale e culturale o divisi tra lo-

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ro da inimicizie, faide e attriti, che tuttavia in un comune sentimento del sacro riconoscono un valido motivo di coesione: nello spazio del luogo di culto viene rappresentata un’intera comunità raccolta in assemblea per raccomandarsi alla protezione di un’entità superiore, che non è di questo mondo, ma al contempo ha in questo contesto dinamico e ambiguo la sua dimora terrena. Qui è evidentemente possibile la comunicazione diretta con le potenze ultraterrene, per mezzo di mediatori che sono gli officianti del rito e delle cerimonie propiziatorie. Qui si rinsalda ciclicamente il rapporto privilegiato che il gruppo ritiene di poter intrattenere col proprio interlocutore celeste, attraverso offerte, preghiere e sacrifici che vengono ricambiati con segni, benefici e miracoli. Qui la presenza concreta della divinità deve essere costantemente evocata per mezzo di artifici, suggestioni, gesti rituali che arrivano a far leva su tutti e cinque i sensi: la vista è stimolata da effetti scenografici, il tatto da tutta una serie di pratiche devozionali, l’udito dalla lettura, dal canto e dalla musica, il gusto dalla consumazione di cibi e bevande sacre, l’olfatto dallo spargimento di suffumigi odorosi e profumati. Le singole sensazioni, peraltro, non hanno un valore autonomo, bensì acquistano il loro significato più completo nella loro interazione reciproca, nella misura in cui questa riesce a destare il sentimento del divino, cioè di qualcosa che si trova completamente fuori dal sé individuale e che si palesa sotto diverse forme – come senso di dipendenza, come percezione di un mistero impenetrabile e spaventoso, come manifestazione incontenibile di potenza, energia o bellezza, o ancora come un’attrazione o una fascinazione quasi amorose6. Quanto più riesce a muovere gli animi in tali direzioni, tanto più uno spazio sacro può considerarsi efficace e funzionale. Per ottenere questi scopi, le diverse culture religiose si sono avvalse del concorso delle più nobili e antiche attività che l’umanità abbia saputo creare, dall’architettura alla musica, dalle arti figurative e decorative alla coreografia e alla

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rappresentazione drammaturgica, per arrivare fino a tecniche più sottili come ciò che oggi si direbbe «l’arredo di interni» o le diverse modalità di orchestrazione spaziale delle cerimonie e dell’accesso ai punti focali dell’edificio sacro. Nella loro interazione e combinazione queste attività mirano a coinvolgere lo spettatore in modo tale che non rimanga passivo sul piano delle emozioni e delle sensazioni, bensì sia fatto partecipe della dimensione eccezionale del luogo sacro così da provare assieme gioia e vergogna, paura e conforto, compassione e desiderio divino. L’idea del luogo sacro inteso non tanto, o non solo, come contenitore architettonico quanto come un concerto di forme espressive diverse che mirava all’evocazione di una dimensione nettamente distinta, o «completamente altra» (per utilizzare un linguaggio filosofico e antropologico), rispetto a quella dell’ordinaria esistenza, era ben presente agli uomini del Medioevo. Nessuno ha saputo esprimerla meglio del Boccaccio in un passo del Trattatello in laude di Dante in cui l’origine della poesia viene fatta risalire a una necessità specificamente religiosa: l’umanità dei tempi più remoti, si osserva, «come che rozzissima e inculta fosse», nondimeno si adoperò da subito per conoscere la verità delle cose, applicandosi all’osservazione del cielo; in questo modo non ci volle molto perché intuisse che le cose celesti, come quelle terrene, obbedivano a un ordine naturale che di necessità doveva procedere da qualcosa di più alto e sublime. Ritennero quindi di nominare questo qualcosa «divinità», e pensarono che fosse bene onorarla, portarle rispetto e venerarla, rendendosi subito conto che, affinché il culto potesse aver luogo, sarebbe stato necessario creare degli spazi riservati a questa attività: E perciò ordinarono, a reverenza del nome di questa suprema potenzia, ampissime e egregie case, le quali ancora estimarono fossero da separare, così di nome, come di forma separate erano, da quelle che generalmente per gli uomini s’abitavano; e nominaronle «templi».

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Tuttavia, tutto questo non era ancora sufficiente: la sola creazione di un ambiente architettonico diverso dalle abitazioni umane non garantiva ancora la reale comunicazione e lo scambio con la divinità. A questo scopo, si ricorse a ulteriori accorgimenti, tra cui la designazione di un rappresentante della comunità presso la casa divina e una serie di ornamenti che dovevano segnalarne la dignità: E similmente avvisarono doversi ministri, li quali fossero sacri e, da ogni mondana sollecitudine rimoti, solamente a’ divini servigi vacassero, per maturità, per età e per abito, più che gli altri uomini, reverendi; gli quali appellarono «sacerdoti». E oltre a questo, in rappresentamento della imaginata essenzia divina, fecero in varie forme magnifiche statue, e a’ servigi di quella vasellamenti d’oro e mense marmoree e purpurei vestimenti e altri apparati assai pertinenti a’ sacrificii per loro istabiliti.

Se è vero che la casa apparteneva alla divinità, spettava ai suoi fedeli custodirla e mantenerla, giacché evidentemente stava nel loro interesse propiziarsi la sua padrona attraverso un arredo prezioso e solenne; ma neanche questo poteva bastare, se non si era in grado di comunicare con lei con un linguaggio adeguato: E, acciò che a questa cotale potenzia tacito onore o quasi mutolo non si facesse, parve loro che con parole d’alto suono essa fosse da umiliare e alle loro necessità rendere propizia. E così come essi estimavano questa eccedere ciascuna altra cosa di nobilità, così vollono che, di lunghi da ogni plebeio o publico stilo di parlare, si trovassero parole degne di ragionare dinanzi alla divinità, nelle quali si porgessero sacrate lusinghe. E oltre a questo, acciò che queste parole paressero avere più d’efficacia, vollero che fossero sotto legge di certi numeri composte, per li quali alcuna dolcezza si sentisse, e cacciassesi il rincrescimento e la noia. E certo, questo non in volgar forma o usitata, ma con artificiosa e esquisita e nuova convenne che si facesse. La quale forma li Greci appellano poetes; laonde nacque, che quello che in contale forma fatto fosse s’appellasse

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poesis; e quegli, che ciò facessero o cotale modo di parlare usassono, si chiamassero «poeti»7.

Il linguaggio superiore che aveva permesso di interloquire con le potenze sovrannaturali veniva così riconosciuto nella poesia, l’arte di disporre le parole secondo un ordine ritmico, con la quale si potevano cantare le lodi divine e i riti potevano aver luogo. Questo racconto di Boccaccio delinea una fenomenologia basilare dell’esperienza religiosa che ci servirà come punto di riferimento per comprendere il modo in cui le chiese medievali erano percepite dai loro autentici fruitori e le funzioni di cui erano investite, il genere di esperienza che ci si attendeva di provare una volta entrati al loro interno e le tipologie di «pubblici» con cui miravano ad interagire. Per mettere a fuoco questo fenomeno ci avvarremo solo in parte, nelle pagine che seguono, dei trattati dei liturgisti (e in particolare di Guglielmo Durando di Mende, che è il più ricco di informazioni), giacché questi sembrano ogni volta più interessati a scorgere significati simbolici e allegorici che a illustrare le emozioni e i sentimenti religiosi dei fedeli nel loro rapportarsi allo spazio della chiesa. A queste testimonianze si accosteranno i riferimenti sporadici che si trovano sparsi nelle cronache e nella letteratura novellistica e allo stesso tempo le descrizioni ispirate di mistici e visionari come, in particolare, la beata Gherardesca da Pisa. Alle fonti scritte farà pendant la documentazione materiale e iconografica fornita da quanto rimane dell’arredo delle chiese tardomedievali e dalle rappresentazioni pittoriche di edifici sacri; in merito a queste ultime occorre osservare come, per il loro carattere parziale e stilizzato, spesso risultino poco utili per approfondire il tema che ci sta a cuore: se si fa eccezione per gli affreschi assisiati col Presepe di Greccio e l’Accertamento delle stimmate (Tavv. 3, 12), si dovrà ricorrere soprattutto a dipinti quattro-cinquecenteschi (per lo più fiamminghi) che riproducono l’assetto di edifici più antichi (Tavv. 4, 5, 8, 14, 15). Una parte di queste testimonianze è raccolta nell’apparato foto-

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grafico posto a corredo del volume, che propone un percorso di lettura parallelo ma al contempo autonomo rispetto al testo; a sua volta, la bibliografia riportata nelle note, lungi dal dichiararsi esaustiva, si concentra prevalentemente sui contributi più recenti e a carattere più generale, a cui si potrà attingere per approfondire i singoli temi e problemi che vengono toccati da questo libro. M. B. Pisa, 28 maggio 2005

LO SPAZIO DELL’ANIMA VITA DI UNA CHIESA MEDIEVALE

I LO SPAZIO E L’ESPERIENZA DEL SACRO La porta del cielo «Le chiese non sono luoghi più sacri delle case». Affermazioni di questo genere, nel tardo Medioevo, erano meno rare di quanto abitualmente si creda e si può dire anzi che stavano sulla bocca di parecchi liberi pensatori che disquisivano nelle botteghe e nelle taverne cittadine e dei quali si interessavano, di tanto in tanto, anche i religiosi che componevano i tribunali dell’Inquisizione1. Anche se formulare pubblicamente tali opinioni poteva ingenerare il sospetto di eresia, non c’era affatto bisogno di essere nemici dichiarati della curia romana per manifestare disagio rispetto a certi usi dello spazio sacro che sembravano impropri e biasimevoli: non erano pochi coloro, tra i cristiani osservanti, a cui dava fastidio vedere i luoghi di culto pieni di tombe, stemmi e marchi individuali appartenenti a persone di dubbia rispettabilità, come mercanti, usurai e assassini, o che si irritavano di fronte alla disinvoltura con cui il clero gestiva la manutenzione e la pulizia degli edifici. Certo, qualche spirito radicale poteva anche pensare che delle chiese non ci fosse bisogno, visto che, come si dice, Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo e quindi non si vede la ragione di supporre che debba risiedere in un dato punto dello spazio piuttosto che in un altro. Il passo successivo di questo ragionamento è evidente: se Dio è ovunque, anche la mia casa, la mia stanza da letto, l’ambiente più privato sono adat-

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ti a comunicare con lui; dunque, posso fare a meno di qualsiasi mediatore esterno, sarò io stesso, di persona, a rivolgermi alla Sua paterna protezione. La visione «interiorizzante» della pietà religiosa che sta alla base di tutto questo costituisce effettivamente una caratteristica molto importante della cultura tardomedievale e si può dire che abbia giocato un ruolo di grande rilievo nello sviluppo di pratiche devozionali che, in qualche modo, hanno finito col conferire all’ambiente domestico un significato anche sacro: l’indizio fondamentale ne è la diffusione negli spazi privati di piccole cappelle, altaroli e tabernacoletti in cui veniva simulato uno spazio cultuale in miniatura, destinato a far da controparte visiva agli esercizi individuali di preghiera. Tuttavia, la cappella fatta su misura per il singolo, come gli altaroli e i tabernacoli che campeggiavano nelle celle dei frati e nelle stanze dei laici, non poteva costituire una vera alternativa alla chiesa, giacché aveva un limite fin troppo evidente: se quella poteva al massimo esser utile a un piccolo gruppo familiare, l’altra serviva a cementare il legame tra un’intera società e i suoi celesti patroni, e se quella si ergeva in un angolo di un’abitazione privata, l’altra era essa stessa una casa, nel senso biblico di «casa di Dio e porta del Cielo». Questa espressione, conformemente al racconto contenuto nel Genesi2, si doveva a Giacobbe, che nella località detta Luz (vicino all’attuale Ramallah, in Palestina), dopo essersi coricato con la testa appoggiata su una pietra, aveva ricevuto in sogno la splendida visione della scala che univa la terra al cielo, sopra la quale gli angeli salivano e scendevano. Convintosi del fatto che in quel luogo risiedeva il Dio d’Israele, lo aveva rinominato Bet-El (cioè «casa di Dio») e, in memoria della sua visione, aveva preso la pietra che gli aveva fatto da cuscino e vi aveva sparso sopra dell’olio. Con questo gesto aveva manifestato per la prima volta la presenza di Dio attraverso la consacrazione di un rudimentale spazio cultuale en plein air (Tav. 1). Questo evento primordiale era poi stato ripetuto e perfezionato dagli altri grandi edificatori della storia biblica, Mo-

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sè e Salomone, che attraverso un rituale ben preciso, avevano consacrato rispettivamente l’Arca Santa e il Tempio di Gerusalemme. Su questo punto Dio era stato molto esplicito: «Prenderai poi l’olio dell’unzione ed ungerai il Tabernacolo e tutto ciò che vi è dentro; lo consacrerai con tutti i suoi arredi, e sarà santo»3. In questo modo doveva essere chiaro a tutti che un edificio funzionale al culto, sebbene costruito conformemente a istruzioni divine, non era ancora un luogo sacro; la presenza di Dio doveva essere, per così dire, «attivata» per mezzo di un cerimoniale che sancisse la discesa della potenza celeste sulla terra, ovvero che trasformasse un piccolo segmento di mondo in uno spazio eccezionale, investito di potere sovrannaturale. Nella tradizione della chiesa medievale, la trasformazione avveniva per mezzo di un rito di dedicazione subito dopo aver definito il perimetro delle fondamenta, che in teoria (ma non sempre questo avveniva) doveva essere orientato verso est, e più precisamente in direzione del punto in cui il sole albeggiava nei giorni dell’equinozio. Una volta stabilito il tracciato dell’edificio, il vescovo o un suo delegato lo percorreva aspergendolo con acqua benedetta, al fine di purificare il terreno da qualsiasi presenza demoniaca, dopodiché si passava a collocare la prima pietra, recante impresso il segno della croce. Si trattava di un rito particolarmente solenne, che, per qualche edificio molto speciale, poteva addirittura essere amministrato direttamente dalla divina misericordia. Celebre era il miracolo della neve caduta sul colle dell’Esquilino, a Roma, una notte tra il 4 e il 5 agosto ai tempi di papa Liberio (352-366), con cui Cristo e la Vergine avevano voluto indicare il luogo in cui avrebbe dovuto essere eretta Santa Maria Maggiore, la più antica chiesa a ricevere un’intitolazione alla Madonna4. Questo evento, raffigurato a mosaico sulla facciata della basilica alla fine del Duecento, fu spesso riprodotto nel corso del secolo successivo, di pari passo con la diffusione (soprattutto ad opera dei Francescani) della festa detta di «Sancta Maria ad Nives»; in tale immagine ci si sforzava di rendere l’eccezionalità di un

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evento atmosferico fuori stagione attraverso una fitta pioggia di bianchi fiocchi che, nel posarsi a terra, disegnavano la pianta di un edificio a croce latina, con transetto e abside semicircolare. Cose di questo genere, d’altra parte, non erano certo una prerogativa dei bei tempi andati. Poteva ad esempio capitare che la fondazione vera e propria potesse essere preceduta da una cerimonia celebrata per ministero angelico; alcune donne residenti vicino al luogo in cui fu in seguito costruito il convento domenicano di Lisbona raccontarono una storia simile a fra’ Geraldo di Frachet (1195-1271), che così ne scrisse nelle sue Vitae Fratrum: Orbene, poco prima della sua fondazione alcune donne, che abitavano a fianco della chiesa della Madonna (che sorge su un’altura, al di sopra del nostro convento), furono testimoni oculari di una meravigliosa visione. Stavano filando al chiaro di luna, come erano solite fare d’estate, quando all’improvviso videro il cielo aprirsi ed una scala d’oro e di argento di incomparabile bellezza scendere verso una pianta di fico, accanto alla quale anch’io, prima che in città avessimo un convento, avevo predicato più volte. Una estremità della scala toccava il cielo e l’altra il fico. Videro poi scendere dalla scala tre uomini rivestiti di preziosi paludamenti d’oro e d’argento: il primo sembrava un suddiacono e portava con le mani una croce di rara bellezza; quello di mezzo sembrava un diacono e portava il turibolo; il terzo era vestito come di paramenti sacerdotali. Scesi a terra, percorsero incensando tutto il perimetro del nostro futuro convento; poi tornarono in cielo risalendo per la scala, che in fine fu ritirata e sparì. Le donne intanto si erano buttate in ginocchio e per tutto il tempo che durò quella meravigliosa visione non cessarono di adorare Dio5.

Gli inviati del Signore avevano fatto uso ancora una volta di una scala per scendere dal cielo sulla terra e, come a BetEl, se ne erano serviti per annunciare la sacralità di un luogo, che per chissà quale incredibile casualità era già stato utiliz-

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zato dai frati per predicare alle folle. Di fronte a eventi così prodigiosi e così espliciti, si poteva davvero credere che una chiesa avesse lo stesso valore di una casa? A spasso per la Gerusalemme celeste «La chiesa materiale in cui il popolo si riunisce per lodare Dio», scrive il liturgista Guglielmo Durando (c. 1235-1296) citando una lunga schiera di autori precedenti, «significa la Chiesa che è edificata in cielo con pietre vive»6. Di questo edificio Cristo costituisce la pietra angolare, conformemente a quanto aveva scritto l’apostolo Paolo nella Lettera agli Efesini (2, 19-22) per mostrare che il Suo messaggio aveva definitivamente infranto le barriere sociali e culturali fra giudei e pagani: Voi dunque non siete più degli estranei né degli ospiti, ma siete diventati concittadini dei santi, e membri della famiglia di Dio. Voi siete, infatti, costruiti sopra il fondamento degli Apostoli e dei profeti, mentre Gesù Cristo in persona costituisce la pietra angolare. È in lui che tutto l’edificio si lega e s’innalza armonioso per formare un Tempio santo nel Signore; è in lui che voi pure siete edificati mediante lo Spirito Santo, per essere l’abitazione di Dio.

Con questa metafora si allude alla «Chiesa» vera e propria, all’ecclesia spiritualis, con cui si intende l’insieme, l’«assemblea» (per riprendere il significato etimologico del termine) dei credenti riuniti nella comunione con Dio e con i santi. Di fatto si può dire che le parole di Paolo vengono interpretate nel Medioevo come un sistema di relazioni gerarchiche che si presta ad essere illustrato in termini architettonici. Come nel sistema statico che sta alla base dell’edificio materiale, così ogni singolo elemento della società cristiana è necessario alla sua stabilità: i fedeli sono le pietre che compongono le pareti di questa struttura, il volgo «col cui lavoro la Chiesa si sosten-

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ta» ne è il pavimento, i vescovi e i dottori le colonne portanti, i principi e i sovrani le travi che rinforzano l’edificio, i soldati sono le tegole e i predicatori le campane. Parallelismi di questo genere possono essere moltiplicati pressoché all’infinito7. Dunque, secondo questa interpretazione mistica, ogni chiesa terrena non è, di fatto, che un pallido riflesso di quel sontuoso edificio che è l’ecclesia spiritualis, la cui costruzione non termina mai, bensì è continuamente ampliata e rinnovata da ciascun vero cristiano per mezzo delle opere di carità, che sono l’autentico cemento che rende solida la struttura. Secondo le antiche storie, trasmesse dagli atti apocrifi degli apostoli, san Tommaso si era distinto in quest’attività di costruttore celeste: pagato dal re indiano Gundafaro per costruirgli un palazzo, aveva eseguito l’ordine erigendogli una favolosa residenza nel mondo ultraterreno, ossia spendendo tutto il suo denaro in elemosine e atti di misericordia; il fratello del re in punto di morte fu condotto a visitare questa straordinaria reggia – che altro non era se non la chiesa spirituale – e desiderò ardentemente di farne la propria casa nell’oltretomba8. Tuttavia, l’immagine letteraria più efficace per descrivere questo «altrove» mistico, che valeva al contempo come allegoria della Chiesa in quanto istituzione universale, era fornita da un celebre passo dell’Apocalisse (21-22) in cui si vaticinava l’avvento, alla fine dei tempi, di una nuova Gerusalemme, la «Gerusalemme celeste», che avrebbe dovuto esser comune dimora di Dio e degli uomini, al contempo città e tempio, spazio profano e spazio sacro, benché privo di luoghi deputati al culto: di questi non vi sarà più bisogno, sentenziava la profezia, perché gli uomini «vedranno il volto di Dio e porteranno in fronte il nome di Lui» (Ap 22, 4). Questa città turrita e munita di dodici porte splenderà allora nelle sue mura fatte d’oro, cristallo e pietre preziose. Queste pagine hanno stimolato a lungo la fantasia dei pittori così come quella dei liturgisti, che vi si sono ispirati per tracciare parallelismi con la struttura e gli arredi di una chie-

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sa ideale e per giustificare l’impiego in abbondanza di oggetti preziosi nel suo decoro: infatti, come diceva un autore dell’XI secolo, le cose del cielo non si riescono a rappresentare se non attraverso quelle che, sulla terra, sono oggetto di desiderio e di diletto9. Questa non è la sede per approfondire un tema sul quale esiste un’ampia letteratura10, ma vale senz’altro la pena di farsi raccontare da chi nella Gerusalemme celeste ha creduto di esserci stato quali emozioni e quali associazioni di idee ha saputo stimolargli quella singolare esperienza. Va detto che simili viaggi sono una prerogativa di pochi, che ottengono un così grande privilegio solo per grazia divina, allorché si trovano in uno stato di trance e beneficiano di una visione che li trasporta con la mente in spazi lontani e remoti. Tra questi si annovera la beata Gherardesca da Pisa, una donna laica, conversa del monastero di San Savino sulla via Fiorentina, che di simili esperienze ne ebbe molte e piuttosto spesso nel corso della sua esistenza (conclusasi in odore di santità nel 1269). Che cosa accade, dunque, in simili casi? Ci si sente inondati di luce e quindi si ha la sensazione di esser trasportati in un altro mondo: la stanza e gli oggetti intorno a noi scompaiono improvvisamente per far spazio a una inesprimibile percezione di luminosità diffusa che a poco a poco si coagula in colori, forme e volumi. Dopodiché la città, luccicante nello splendore dei suoi ori e dei suoi cristalli, ci appare come dall’alto, in una visione a volo d’uccello, poi si mettono sempre più a fuoco le sue mura, le sue torri, le sue piazze e si finisce per trovarcisi dentro pienamente, circondati dalle sue solenni architetture. Come sottrarsi a questo punto al desiderio di inoltrarsi nel cuore del centro urbano, attraverso le sue strade popolate dalle anime dei giusti, che qui giungono, secondo l’auspicio formulato nel rito delle esequie, guidate dagli angeli? Una forza sconosciuta ci sospinge verso la cittadella che domina l’abitato. Esteriormente questa, che ha l’aspetto di una fortezza, è arricchita di ornamenti dal valore inestimabi-

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le ed è coronata da una bandiera che sventola vittoriosa esibendo l’effigie della Beata Vergine. All’interno ricorda il coro di una chiesa, decorato con splendidi stalli, in cui siedono secondo un ben preciso ordine gerarchico tutti i dignitari della corte celeste. La loro disposizione avviene rigorosamente dal basso verso l’alto: prima vengono gli uomini pii, poi le vergini, i confessori, e ancora i profeti e gli apostoli e gli angeli e gli arcangeli e, infine, nel luogo più alto, la Vergine, Cristo e Dio Padre. Naturalmente la Madre siede un po’ più in basso del Figlio, ma non tanto da non poterlo toccare, e il Figlio si dispone un po’ più in basso del Padre. Questo sacro consesso si anima in occasione dei giorni di festa. Alla domenica si celebra la messa, per mano di san Giovanni Evangelista, che è l’unico a cui sia concesso questo privilegio; vi assistono tutte le schiere dei santi, ciascuna nel proprio luogo, ma nessuno riceve l’eucarestia se non Maria Vergine, e questo accade solo in concomitanza delle maggiori feste, cioè il Natale, l’Epifania, la Pasqua, l’Ascensione, la Pentecoste e l’Assunzione della Vergine. Infatti, quegli uomini beati nella gloria del Signore non hanno bisogno del sacramento, mentre la Madonna ha facoltà di comunicarsi ben sette volte onde recar conforto all’umanità peccatrice. La si può vedere inginocchiata davanti all’altare, avvolta nel suo enorme manto in cui si riflettono miracolosamente tutti i cori degli apostoli e dei martiri, che pregano incessantemente per i loro assistiti sulla terra. Il momento è di grandissima solennità e, oh stupore, quando si intona il Dominus vobiscum e il Pax semper vobiscum tutti gli astanti rispondono con un’unica nota reverenziale, unanime e uniforme11. La cittadella della Gerusalemme celeste non solo mostra tutte le caratteristiche di uno spazio sacro materiale, ma anche è utilizzata per cerimonie che rispettano il tempo liturgico annuale in vigore sulla terra. Ogni sacerdote dovrebbe sapere che, quando celebra le messe solenni nella sua chiesa, nell’alto dei cieli san Giovanni compie gli stessi gesti all’unisono con lui.

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Spazi e sensazioni del sacro D’altra parte, la Gerusalemme celeste costituisce il Tempio perfetto, quello che avrà luogo alla fine dei tempi, che non consisterà né in mura né in arredi né in spazio, bensì in pura materia spirituale, giacché si identificherà con Dio stesso; infatti il Tabernacolo di Dio sarà fra gli uomini e il Signore abiterà con loro. In attesa di quel nuovo mondo, nel tempo presente l’Onnipotente ha nondimeno la sua casa in tutte le chiese in cui si riunisce il suo popolo, e va da sé che queste debbano anticipare qualcosa della dignità e dello splendore della città santa che verrà, se non altro per rendersi degne di Colui che vi dimora. Intorno a questo problema, fra’ Giordano da Pisa imposta così un suo ragionamento: Non hae casa Iddio in tutto ’l mondo, se non nel popolo cristiano. E quante sono, chi potrebbe dire? Ben n’ebbe al tempo de’ giudei una, ma non più; ma questa fu la più bella del mondo, la quale fece il re Salamone in Gierusalemme.

Il domenicano sostiene dunque che, nell’età della legge mosaica, esisteva una sola autentica residenza divina, il Tempio di Gerusalemme. Adesso che Dio ha inviato suo Figlio sulla terra per stringere con l’umanità una nuova alleanza, le cose sono nettamente cambiate: Nonn·ebbe Iddio più casa: e nonn·ha più case, se non nel popolo di Cristo.

In altre parole, solo le chiese possono definirsi «dimore divine», mentre tutti gli altri luoghi di culto (le sinagoghe, le moschee, i templi buddhisti e le chiese degli eretici) non possono esser altro che case disabitate o, peggio ancora, residenze di demoni. Prosegue poi il discorso:

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E chi ’l potrebbe dire, quante sono? Cotante migliaia, così grande, così care e di cotanto costo. Chi andasse in Francia o in Inghilterra, quivi vedrebbe le maravigliose chiese, i munasteri delle monache e delle vergine e de’ religiosi, che·ssono smisuratissimi. Quante sono queste case per tutto ’l mondo? Non si potrebbe dire. Leggesi d’Adriano imperadore, che fece la chiesa di Santa Sofia, ch’è la più bella e la maggiore che·ssia, che costoe numero sanza modo: che pure il tetto costoe migliaia di miglia’ di perperi d’oro; che·ssi dice, che·ssì disse allora così: «Ora ho vinto il re Salamone», che fece cotale tempio in Gierusalem12.

Dio risiede in tutte le chiese, ma ve ne sono alcune che sono senz’altro più adatte a manifestare la Sua gloria. Nella personale hit parade di fra’ Giordano la «Grande Chiesa» (cioè Santa Sofia) di Costantinopoli – costruita dall’imperatore Giustiniano, anziché da Adriano, nel VI secolo – ottiene ancora il primato della magnificenza, che viene calcolata in termini prettamente monetari, per lo sforzo economico sostenuto nella costruzione. Quanto alle dimensioni, tuttavia, ci sono adesso degli edifici che possono ben competere con questo mito: sono le grandi cattedrali e abbaziali gotiche della Francia settentrionale e dell’Inghilterra, che soprattutto hanno raggiunto in quegli anni altezze vertiginose (Fig. 2). Lo slancio verso l’alto viene incontro esplicitamente, oltre che a un particolare gusto estetico e alle peculiarità ambientali e climatiche dell’Europa del Nord, all’esigenza di celebrare l’incontro di cielo e terra che avviene all’interno dello spazio sacro. La leggerezza della struttura architettonica permette di aprire grandi finestre che lasciano filtrare più ampiamente la luce, ottenendo effetti (grazie anche alla presenza di vetrate colorate) di grande impatto emozionale e simbolico. In generale, queste modalità costruttive sono in grado di fornire al culto una cornice che esalti l’ansia dei fedeli di proiettarsi, con la preghiera e l’intensità della devozione, verso le sommità celesti, e riescono a far sì che l’osservatore si senta piccolo piccolo dinanzi all’immensità divina.

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Non è detto, però, che l’enfasi sulle grandi dimensioni e sullo slancio in verticale si riveli sempre e comunque l’accorgimento più efficace per manifestare la sacralità di un luogo. Un solido e severo interno romanico, con le sue mura spesse e la sua assai minore luminosità (alimentata quasi completamente da luci artificiali), potrebbe essere inteso come un sistema più valido per stimolare ansia e timore, due sensazioni che il fedele è chiamato a provare quando deve confrontarsi col mistero tremendo della divinità. Da questo punto di vista, si può anche dire che non sempre paga l’abbondanza di decorazioni e ornamenti; l’eccesso di immagini (specialmente se di soggetto profano), di oggetti preziosi e apparati può dare un effetto di ridondanza che distrae dalla devozione e dalla contemplazione, come fu spesso osservato da mistici e riformatori della vita regolare quali san Bernardo e i monaci Cistercensi, seguiti inizialmente (ma con minor successo) dai nuovi ordini dei frati Minori e dei predicatori, che miravano soprattutto un aspetto povero e dimesso in conformità con la loro natura di «mendicanti»13. Tipologie diverse di articolazione e costruzione dello spazio sacro continuarono effettivamente a coesistere nel tardo Medioevo, anche se nella pratica, città per città, luogo per luogo, finirono per assumere una fisionomia dettata più dal compromesso con contingenze locali che dal rispetto di modelli ideali di ordine architettonico e morale. Certo è che, nel momento dell’iniziale, straordinaria espansione dei Francescani e dei Domenicani, nella prima metà del Duecento, il fatto che utilizzassero come propri luoghi di culto piccoli e scarni oratori, annessi a modeste casupole in cui svolgevano la vita comune, deve aver giocato un ruolo fondamentale nell’enorme successo che ottennero di lì a poco agli occhi del popolo devoto. Il messaggio che trasmettevano era di un’efficacia estrema in un momento storico in cui erano in molti a non veder di buon occhio il fasto e la ricchezza esibite con tanta disinvoltura dal clero tradizionale: nel visitare questi conventi minuscoli e miseri, e quindi privi di qualsiasi orpello, era

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inevitabile che si facesse il confronto con l’ostentata magnificenza delle architetture e degli arredi nelle abbazie benedettine o nelle chiese cattedrali. In questo confronto, tuttavia, trapelava un’ambivalenza nella percezione delle cose divine che andava ben oltre il XIII secolo e l’ambito storico e geografico del cristianesimo. Un aspetto dimesso poteva sembrare «più devoto» (come si sarebbe detto allora) perché riusciva a stimolare emozioni differenti ma non meno intense rispetto a quelle prodotte dalla visita a un edificio maestoso e solenne. Se in quest’ultimo si finiva quasi per sentirsi sovrastati e abbagliati dalla potenza celeste, in una piccola e anonima chiesetta a prevalere era piuttosto la sensazione del vuoto, cioè di un’assenza che, quanto più intensamente si rendeva percepibile, tanto più appariva ricolma di sacralità. In realtà, l’assoluta mancanza o la sovrabbondanza di ornamenti costituivano, nella costruzione dei luoghi di culto, due possibilità intercambiabili, giacché venivano incontro a due forme diverse di esperienza del sacro. Un’altra opportunità era fornita, come già si accennato, dalla voluta insistenza sulla semi-oscurità di un interno, che aveva il suo perfetto pendant nel ricorso a una luminosità diffusa: della prima si potrebbe dire che ambiva a dar corpo al silenzio, alla sensazione interiore di ammutolimento e prostrazione al cospetto dell’Onnipotente, mentre l’altra inscenava abilmente la presenza divina che compenetrava l’edificio nella forma evocativa e simbolica dei raggi solari. Tutto questo si spiega col fatto che, allora come in qualsiasi altra epoca storica, nessun credente sarebbe stato in grado di spiegare che cosa fosse il «sacro», ovvero di giustificare l’esistenza di Dio (molti teologi, per la verità, ci hanno provato senza arrivare a risultati totalmente soddisfacenti), ma senza dubbio molte persone avrebbero potuto sostenere di averne la sensazione, ovvero di intuire la presenza di un soggetto «completamente altro» rispetto alla propria esistenza e al mondo, per esprimersi nei termini cari ai visionari e ai mistici. Questi ultimi svolsero senz’altro un ruolo di rilievo nel-

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la società tardomedievale e per questo motivo ci rivolgeremo a loro a più riprese anche nelle pagine seguenti. Non è tuttavia da credere che essi abbiano avuto il monopolio della «sensazione» di Dio: questa in realtà era, ed è, un’esperienza tipicamente umana, che prendeva forme e aspetti diversi da soggetto a soggetto, e che gli architetti, i pittori, gli scultori e, più ancora, quei chierici e laici, in gran parte sconosciuti, che ispirarono e finanziarono i cantieri delle chiese seppero spesso stimolare e sfruttare con grande abilità. Le case di Dio Gli edifici sacri non solo traggono ispirazione dalle diverse modalità di esperire il sacro, ma possono anche essere percepiti in modo diverso sulla base di diversi fattori: uno è il tipo di pubblico o di pubblici che li frequentano, un altro è il contesto ambientale in cui si trovano, un altro ancora è la funzione che sono chiamati a svolgere. Da quest’ultimo punto di vista, Guglielmo Durando poneva l’accento sulla grande varietà di interpretazioni a cui si prestava il termine ecclesia: a seconda dei casi, poteva esser tradotto con martyrium, cappella, cenobio, sacrario, sacello, «casa di preghiera» (domus orationis), monastero e oratorio, anche se «in generale [...] ogni luogo destinato alla preghiera può esser detto oratorio»14. Nessuno di questi termini era sinonimo esatto di «chiesa», bensì ne individuava una tipologia specifica, benché non sempre in modo univoco. «Cappella» era senz’altro il più discutibile di tutti: derivato dalla «cappa», ossia dalla reliquia del mantello di san Martino conservata nella cattedrale di Tours, in Francia, designava genericamente uno spazio degno di venerazione di dimensioni e funzioni variabili, o in altri termini un insieme di oggetti rituali sufficiente a recitare l’officio, per cui poteva benissimo adattarsi a indicare un altare secondario e il suo contesto architettonico all’interno di un edificio sacro. D’altra parte, era senz’altro una «cappella» una

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semplice chiesetta di campagna, come se ne costruivano spesso nell’età romanica a spese dei proprietari terrieri desiderosi di fornire ai propri sottoposti, intenti al lavoro dei campi, un luogo adeguato alla preghiera e alla celebrazione degli offici; ancora più genericamente, poteva essere designata «cappella» qualsiasi chiesa priva di diritti parrocchiali e sottoposta alla gestione o patronato di privati o di enti (come confraternite, ospedali, fondazioni pie, ecc.). Oggi si fa fatica a capire quanto potesse essere complessa la vita religiosa dei fedeli nel Medioevo. Per udir messa era sufficiente recarsi alla cappella più vicina, ma in caso di necessità più specifiche, come ad esempio per un funerale, era necessario recarsi presso la chiesa parrocchiale d’appartenenza: ciascun individuo, infatti, era inquadrato nella giurisdizione di una «cura d’anime» la cui sede ecclesiastica poteva trovarsi anche a una discreta distanza dalla propria casa o dal proprio villaggio (il disagio era particolarmente evidente nelle campagne, che erano spesso scarsamente popolate). Per un battesimo c’era il rischio di dover camminare ancora di più: questo infatti poteva essere somministrato solamente in una pieve, cioè in un edificio insignito del privilegio di ospitare un fonte, che in città si identificava solitamente con la cattedrale. Quest’ultima funzionava tradizionalmente come «chiesa del vescovo», anche se nel tardo Medioevo poteva capitare che gli ordinari diocesani si trovassero ad officiarvi solo in occasione delle solennità maggiori, delegando in gran parte l’attività liturgica al capitolo. Questo era composto da una comunità di canonici regolari, ossia di chierici secolari che, capitanati da un arciprete o decano o priore, conducevano una forma di vita comune non troppo dissimile da quella dei monaci. Simili comunità, che risiedevano in strutture abitative annesse alle cattedrali, rappresentavano un vero e proprio laboratorio per i ceti dirigenti del clero ed erano composti da persone di alta preparazione culturale che avevano compiuto gli studi giuridici o teologici presso le principali università dell’epoca (come Parigi o Bologna). Potevano essere affidate a loro anche altre chiese parrocchiali cit-

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tadine, note talora sotto la denominazione di «collegiate», che si riconoscevano subito perché annesse a complessi residenziali noti come «canoniche». Nel contesto urbano tardomedievale, queste istituzioni godettero di un’influenza e anche di una capacità di attrazione nei confronti della popolazione laica che spesso si tende a non porre nel giusto rilievo: rispetto alle parrocchiali affidate a preti spesso incolti e poco disciplinati, le chiese rette dai canonici, il cui rigore morale e competenza erano largamente apprezzati, godettero senz’altro di un notevole prestigio. Il loro fascino era dovuto al fatto che, almeno in via teorica, ambivano ad imitare il rigore della vita vere apostolica, ossia a riprodurre nella loro esistenza la povertà e lo zelo delle origini, ispirandosi a una regola che si riteneva composta da sant’Agostino. Questo modello di convivenza fraterna fu adottato, in quei secoli, anche da enti assistenziali e insediamenti di eremiti, che diedero vita a un fitto (e caotico) numero di congregazioni religiose che la Sede Apostolica arrivò solo faticosamente, tra il XIII e XIV secolo, a organizzare in gran parte entro un ordine detto, giust’appunto, «agostiniano», che conobbe ampia diffusione nelle città tardomedievali15. I gruppi di eremiti confluiti in questa forma di vita comune dovevano consistere inizialmente in piccole comunità di solitari che vivevano preferibilmente in zone appartate e impervie, ancorché non troppo isolate: poiché la loro sopravvivenza si basava sul soccorso e l’elemosina del popolo, oltre che sull’assistenza di famiglie nobili o di comunità rurali che detenevano diritti di giuspatronato sulle cappelle presso cui vivevano, dovevano comunque fare in modo di poter esser raggiunti da chi era intenzionato a recarsi in pellegrinaggio da loro; celebri furono, ad esempio, i romitaggi (detti anche carceri, celle o reclusori) delle colline livornesi, della Montagnola senese o del Monteluco in Valnerina, a cui le vicine comunità potevano accedere con fatica ma in tempi ragionevoli. A questi insediamenti si associavano spesso minuscole cappelle che dobbiamo immaginarci provviste di un arredo molto semplice (un altare, una croce, forse un’immagine).

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Altri eremi potevano prendere piuttosto l’aspetto di minuscoli conventi (Fig. 3), con una chiesa in muratura decorata con opere anche di grande valore, come quella di Montespecchio, vicino a Murlo nel Senese, che ospitò dapprima una tavola dipinta della Vergine e quindi anche un polittico dipinto da Pietro Lorenzetti16. I «romiti» (come si usava chiamarli), tuttavia, erano una categoria abbastanza numerosa e si dava il caso che parecchi tra loro si adattassero ad ambienti molto più umili ma in contesti non precisamente «extraurbani»: ce n’erano molti, ad esempio, nelle vie intorno a Pisa, pronti a chiedere l’elemosina, mentre a Firenze quasi su ogni pila del ponte Rubaconte (poi detto «alle Grazie») era costruita una casetta abitata da una reclusa: i fiorentini chiamavano queste donne le «murate», perché trascorrevano tutta la loro esistenza nella preghiera in quello spazio angusto, composto da una stanzetta con un altare17. Entro il recinto delle mura (o nelle immediate adiacenze esterne) si erano insediate da tempo, in particolare dopo l’XI secolo, anche le comunità monastiche maschili e femminili. Nei secoli più antichi le grandi abbazie benedettine erano sorte ben lontano dalle città e si erano semmai strutturate esse stesse come centri urbani, intorno ai quali si organizzava la vita economica dei vasti territori che erano compresi nelle loro enormi proprietà fondiarie: in questo non differivano molto dai castelli in cui risiedevano i grandi esponenti dell’aristocrazia terriera. Man mano, tuttavia, che l’attività economica e commerciale si era andata nuovamente concentrando nelle città, i maggiori monasteri vi avevano costruito i propri avamposti, ovvero degli stabilimenti monastici più piccoli, retti da un abate ma dipendenti formalmente dalla casa madre. All’interno o comunque in vicinanza delle prospere città dell’Italia tardomedievale ci si poteva imbattere facilmente in case appartenenti alle diverse ramificazioni monastiche: oltre ai Benedettini tradizionali, si erano impiantate varie comunità riformate come i Camaldolesi, i Vallombrosani, i Cistercensi, i Pulsanesi, i Certosini e, da ultimi, gli Olivetani. Era facile ri-

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conoscere questi insediamenti per la presenza di un grosso numero di edifici annessi alla chiesa – come chiostri, dormitori, refettori, biblioteche, cantine, granai, officine e stalle – nonché per la ricchezza dei materiali e degli ornamenti impiegati (fatti salvi i Cistercensi che cercarono di rispettare l’invito alla sobrietà espresso da Bernardo di Chiaravalle). Indubbiamente la maggiore novità del Duecento fu costituita dalla diffusione degli Ordini mendicanti – Francescani, Domenicani, Carmelitani, Servi di Maria – il cui successo fu garantito, almeno all’inizio, dall’adesione a un ideale di povertà che era allora molto sentito da una parte preponderante della popolazione. Tuttavia, fu proprio il successo ottenuto agli occhi dei laici a mettere in moto molto presto un meccanismo perverso: più i fedeli accorrevano ai miseri conventi dei frati, più erano stimolati a sostenerli con elemosine, donazioni e lasciti testamentari che, nel corso del secolo, furono indirizzati in modo sempre più massiccio all’esecuzione di opere architettoniche e artistiche. Nel giro di pochi decenni, le chiese triplicarono di dimensioni, si alzarono di altezza e si avvalsero di formule costruttive all’avanguardia, ispirate alla tradizione gotica oltralpina, mentre i conventi si ampliarono ed ospitarono nuovi ambienti e spazi; allo stesso modo, l’iniziale divieto di introdurre ornamenti e immagini fu presto dimenticato e gli edifici sacri si riempirono di affreschi, tavole, sculture, oreficerie, stoffe e molte altre cose. Per molti, gli insediamenti mendicanti costituivano gli spazi «più devoti» a cui si potesse ambire, per vari motivi: perché appartenevano a persone veramente sante, che obbedivano realmente all’ideale evangelico di povertà assoluta, perché ai laici era più facilmente concesso di essere coinvolti nella sacralità dei luoghi (attraverso la sepoltura nella navata o il concorso alla sua decorazione), perché rispondevano a impulsi devozionali e assieme estetici al passo coi tempi. Altri avevano l’impressione, per converso, che si trattasse di un imbroglio di dimensioni colossali. Tra le congregazioni assimilate, per regola di vita, ai mendicanti, c’era anche quella dei cosiddetti «Basiliani armeni» o

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«Bartolomiti», i cui insediamenti erano associati alle comunità della diaspora armena residenti in numerose città italiane, composte in parte da mercanti e in parte da rifugiati dal regno di Cilicia (nell’attuale Turchia) che cercavano scampo dall’avanzata mamelucca nel loro paese. I loro religiosi, benché avessero aderito al cattolicesimo, mantenevano elementi della loro autonoma tradizione liturgica, in particolare nell’uso della lingua armena; il loro aspetto venerabile, enfatizzato dalle lunghe barbe, e la solennità dei loro usi rituali esercitarono un certo fascino anche sulla popolazione indigena, che spesso volle favorirli con donazioni e lasciti pii. Per le funzioni si avvalsero di piccole strutture che della tradizione architettonica del loro paese mantenevano pochi elementi, come la decorazione della facciata con figure di croci: nell’interno, come dimostra il caso di San Matteo degli Armeni a Perugia, ammisero la decorazione con affreschi isolati commissionati da privati cittadini18. Gli ospedali e gli ospizi erano considerati «luoghi religiosi» in virtù del fatto che vi si praticavano la carità e l’assistenza (senza dubbio con più zelo che la cura dei malati); molto spesso erano annessi a edifici di culto, oppure recavano al loro interno se non altro un altare con tutto il corredo necessario per la recitazione di una messa. Questo carattere sacro colpì fortemente l’anonimo chierico russo che nel 1436 accompagnò nel suo viaggio in Italia il metropolita Isidoro di Mosca, come ci ha saputo trasmettere in quest’appassionata descrizione dello Spedale di Santa Maria Nuova a Firenze: C’è una grande chiesa in questa città e il suo ospizio conta oltre mille letti e finanche sull’ultimo letto sono stese lenzuola meravigliose di lino e preziose coperte; per amore di Cristo ciò si compie a beneficio degli infermi forestieri e dei pellegrini di altre terre; costoro là vengono nutriti e vestiti e calzati e lavati e onorevolmente custoditi; i risanati, dopo essersi prosternati alla città, si allontanano lodando Iddio; fra le corsie, nello spazio alle funzioni riservato, ogni giorno si canta messa19.

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Passeggiando per una città capitava poi di imbattersi in ulteriori edifici a cui era attribuito un valore sacro. Sempre più diffuse, ad esempio, le cappelle (annesse a una chiesa più grande o indipendenti) utilizzate dalle organizzazioni religiose dei laici, dette compagnie o confraternite, che praticavano l’esercizio comune della preghiera, del canto delle laudi o dell’automortificazione fisica attraverso la flagellazione. Simili luoghi di culto esistevano – almeno da quando si era smesso di amministrare la funzione pubblica all’interno di chiese e cattedrali – anche all’interno dei palazzi di rappresentanza del Comune, come i palazzi pubblici e le residenze dei podestà e dei capitani del popolo. Anche le arti e corporazioni dei diversi mestieri, al pari dei maggiori clan familiari, si avvalevano talora di proprie cappelle e oratori, e ancora più minuscoli luoghi di preghiera presero a costellare lo spazio urbano nel momento in cui, fra Tre e Quattrocento, si cominciarono a installare altaroli e immagini, illuminati da lampade accese al calare dell’oscurità, agli angoli delle strade, sul fronte dei palazzi e sui crocicchi. Alcuni di questi sono giunti fino a noi: Firenze ne è particolarmente ricca, anche se non sempre si è in grado di risalire alle circostanze della loro costruzione. Sembra tuttavia che l’iniziativa di committenza spettasse prevalentemente ai proprietari dell’edificio a cui l’edicola stradale veniva addossata, oppure a un gruppo di cittadini accomunato dagli stessi interessi: ad esempio, la nicchia dipinta che ancor oggi fa bella mostra di sé in via Antonio Fratti a Spoleto si ritiene sia stata connessa alle botteghe di pellame che erano concentrate in quella zona, mentre si sa che il tabernacolo del Mercato Vecchio di Firenze fu costruito e decorato, già prima del 1361, a spese dell’Arte della Lana20. Talora ci è noto che l’erezione di tali strutture poteva esser motivata da un’occasione specifica, come nel caso di un sontuoso tempietto costruito nel 1354 a Norcia da un certo Vanni «Tutie» (forse Tuzzi), con tutta probabilità come forma di ringraziamento per esser scampato alla peste nera di pochi anni addietro21.

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Santi luoghi Ciascun edificio ecclesiastico può assumere un valore particolare se è associato con qualche fenomeno pubblico di venerazione che lo trasforma da semplice spazio rituale in «luogo santo», ossia marcato dalla presenza di un oggetto sacro che è in grado di richiamare un numero cospicuo di fedeli. Di luoghi così ce ne sono parecchi, e ciascuno possiede una fisionomia propria, ma è indubbio che fra tutti si distinguono soprattutto quelli che lo scrittore Franco Sacchetti (13321400) definiva «superlativamente notabili» e che per lui si identificavano soprattutto con il Santo Sepolcro di Gerusalemme e il santuario della Verna (laddove san Francesco aveva ricevuto le stimmate)22. Fin dai primordi del cristianesimo, la topografia sacra aveva avuto il suo centro in Palestina, nelle città in cui Gesù aveva vissuto, operato miracoli e sofferto la Passione: Nazareth, Betlemme, Betania, e soprattutto Gerusalemme, laddove si ergevano chiese che marcavano i singoli momenti del suo passaggio terreno. Queste costituirono per secoli le mete di pellegrinaggio per eccellenza, che le terribili condizioni del viaggio e le difficoltà politiche non riuscirono mai a interrompere veramente. La presenza cristiana in Terrasanta a seguito delle crociate (1099-1291) favorì la diffusione della pratica del passaggio in Oltremare e della visita ai Luoghi santi, il cui momento più solenne era costituito senz’altro dalla visita della basilica sul Golgotha, eretta sin dal secolo IV (ma con tutta una serie di successivi rifacimenti) nell’area in cui Cristo era stato crocifisso e sepolto. Il Santo Sepolcro proponeva un modello di spazio sacro complesso, composto da numerosi ambienti che corrispondevano a località connesse con gli eventi della Passione: il punto in cui Cristo fu spogliato delle Vesti, il Calvario (o meglio il punto preciso in cui era stata eretta la croce), la pietra della Deposizione, il terreno in cui furono sotterrate le tre croci e il luogo di sepoltura. A quest’ultimo corrispondeva la

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parte più monumentale dell’edificio, che non mancava di colpire il visitatore perché consisteva in una grande struttura circolare – la rotonda dell’Anastasis – che, alla maniera di un grembo materno, conteneva in sé un edificio più piccolo, cioè la vera e propria tomba di Cristo. La visita si faceva particolarmente emozionante se si riusciva a compierla durante la solenne cerimonia del Sabato Santo, che metteva in scena quel miracolo del «fuoco sacro» che si ripete ancor oggi ogni anno, con l’accensione miracolosa, per virtù divina, di una lampada posta nella parte meridionale della cappella del Sepolcro. L’evento veniva annunciato da segni prodigiosi: alcuni sostenevano che il fuoco nasceva nel momento in cui una candida colomba si posava in cima al ciborio che sovrastava il luogo santo, mentre altri lo associavano con l’attimo preciso in cui un raggio di sole illuminava il braccio dell’arcangelo Gabriele dipinto su quello stesso ciborio. Comunque fosse, solo dopo che la lampada si fosse accesa era concesso al patriarca greco di entrare nell’edificio e distribuire il «fuoco» alla folla congregata lì dinanzi; ciascuno quindi tornava al proprio altare con le candele accese in mano23. «Se volete sapere com’è fatta la chiesa del Sepolcro», scriveva nel 1330 fra’ Antonio de’ Reboldi da Cremona, «guardate quella di Santo Stefano a Bologna»24. L’osservazione coglieva pienamente nel segno, giacché l’edificio bolognese è ben noto agli storici dell’architettura medievale come una delle «copie» più elaborate del luogo santo di Gerusalemme25. A più riprese, nel corso del Medioevo, si era cercato di riprodurre l’eccezionalità di quello spazio realizzando edifici a pianta centrale – cioè poligonale o circolare – che richiamavano in modo generico la rotonda dell’Anastasis; allo stesso modo, le intitolazioni di chiese alla Santa Gerusalemme o al Santo Sepolcro (talora estese a interi centri urbani, come nel caso di Borgo Sansepolcro nell’alta Valtiberina) ambivano a riprodurre al di qua del mare la topografia sacra della Terrasanta. Questa tendenza si estendeva anche all’imitazione dei costumi liturgici, come nell’uso fiorentino di produrre il fuo-

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co, al Sabato Santo, strofinando tre schegge della pietra sepolcrale di Cristo che Pazzino, uno dei capostipiti dell’eminente famiglia dei Pazzi, aveva ricevuto in dono dalle mani di Goffredo di Buglione durante la prima crociata. Come a Gerusalemme, la fiamma passava di candela in candela e veniva trasportata, come benedizione, in tutte le case e tutti i focolari; erede di queste costumanze è, ai nostri giorni, la festa dello scoppio del carro26. A ciascuna tappa del viaggio in Oltremare corrispondeva un’indulgenza o perdono più o meno grande, ossia, per così dire, una detrazione di pene e colpe dal proprio fardello di peccati, di cui si doveva, presto o tardi, rendere conto a Dio. Nella visita di ciascun luogo, se si compivano gli opportuni atti di devozione, si poteva lucrare uno sconto di pena pari a un preciso numero di anni e giorni che ci si sarebbe risparmiati di scontare in Purgatorio: ad esempio, nella chiesa di San Pietro in Gallicantu a Gerusalemme si guadagnavano sette anni e settanta giorni, in Santa Maria Maddalena sette anni e quaranta giorni, nel luogo dell’apparizione di Cristo risorto alla Maddalena solo sette anni. La replica di simili spazi comportava di necessità anche la riproduzione dei vantaggi spirituali che questi offrivano e la ripetizione dei gesti rituali che vi erano comunemente associati. Nel Trecento invalse la credenza per cui le stesse perdonanze potevano essere ottenute anche ricostruendo mentalmente la topografia di Gerusalemme e della Palestina: bastava immaginare ciascun edificio avvalendosi di una descrizione scritta delle terre d’Oltremare, quindi recitare un paternostro e un’avemaria, e poi, pur rimanendo all’interno della propria stanza, ripercorrere le distanze tra l’uno e l’altro misurando il corrispondente numero di passi – cioè cinquanta fra il Sepolcro e il Calvario, cinquantacinque dal Sepolcro alla colonna della Flagellazione e ancora altri cinquanta da qui al luogo in cui Cristo fu imprigionato. Con questa faticosissima ginnastica le coordinate spaziali della Terrasanta prendevano una nuova forma tra le mura di un’abitazione privata27.

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Luoghi devoti L’uso dei pellegrinaggi si era indirizzato molto presto anche a luoghi di culto estranei alle terre legate al passaggio terreno di Cristo; degni di speciale venerazione erano i luoghi di sepoltura degli apostoli (come le basiliche romane in cui si conservavano i corpi dei santi Pietro e Paolo a Roma o il celebre sepolcro di san Giacomo Maggiore in Galizia), le basiliche erette sul terreno in cui gli antichi martiri erano stati inumati e, sempre più frequentemente nel tardo Medioevo, anche le tombe dei «santi nuovi» proposti al culto dagli Ordini mendicanti: tra queste ultime, godevano di una fama singolare, tale da oscurare i luoghi di pellegrinaggio tradizionali, la basilica di San Francesco ad Assisi, l’arca di san Domenico a Bologna, quella di san Pietro Martire a Milano (Fig. 13), il «Cappellone» di San Nicola a Tolentino e tutta una serie di mete devote di minor richiamo che, tra il XIII e il XV secolo, si andavano diffondendo a macchia d’olio un po’ dappertutto in Europa. Una delle caratteristiche della vita religiosa tardomedievale era la tendenza che ciascuna comunità aveva a creare nel proprio territorio una rete di «luoghi santi», il cui bacino d’utenza non superava l’ambito locale. L’idea che si potesse trarre un vantaggio maggiore da una visita «cumulativa» ai vari edifici sacri della città era stata incoraggiata dai leader spirituali del tempo, come ad esempio da san Francesco che, nella Lettera ai fedeli, aveva scritto: Dobbiamo anche visitare frequentemente le chiese e servire i sacerdoti, non tanto per loro stessi, che possono essere dei peccatori, bensì per il loro ufficio di ministri del santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo, che essi consacrano sull’altare e ricevono e distribuiscono agli altri28.

Erano sempre più numerose le chiese, anche all’interno di una stessa città, che dai vescovi venivano insignite di indulgenze particolari in occasione delle più solenni festività del-

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l’anno liturgico e specialmente nell’anniversario della dedicazione o nei giorni in cui vi si esponeva pubblicamente il corpo di Cristo: in tali circostanze si diffondeva la pratica di unire nello stesso percorso la visita del numero più alto possibile di edifici considerati particolarmente «devoti» e vantaggiosi per la salute spirituale e a questo scopo accadeva che le associazioni religiose laiche si prendessero la briga di unirli entro un percorso processionale appositamente organizzato. L’atto di visitarli, in sé, non era sufficiente a lucrare il «perdono»: si riteneva infatti che fosse indispensabile compiere un atto di carità o praticare qualche forma di devozione per avere in cambio uno sconto di pena dal proprio fardello di peccati. Pellegrinaggi molto simili a scampagnate avevano luogo anche ai santuari suburbani in concomitanza con le loro feste annuali: ad esempio la compagnia pisana di Santa Lucia de’ Ricucchi soleva andare alla basilica di San Piero a Grado la prima domenica di Quaresima, il Giovedì Santo e il giorno dell’Ascensione, a Santa Maria di Castello sopra Vecchiano per la Natività della Vergine e a San Iacopo del Poggio (poco a nord della città) per la sua festa nel mese di luglio; dopo essersi riuniti nel loro oratorio, i confratelli si mettevano in cammino recando davanti a sé una tavola con l’effigie della loro santa protettrice e, mentre si colpivano con i flagelli in segno di automortificazione, guardavano i documenti in cui erano elencate le indulgenze che avrebbero ottenuto una volta giunti alla meta: per ottenere il perdono, sarebbe stato loro sufficiente esibire la violenza subita dai loro corpi29. Se ciascuna chiesa, in occasione della sua festa, poteva trasformarsi in un posto molto speciale, c’erano tuttavia edifici sacri che erano considerati in possesso di qualità fuori dal comune; di quelli frequentati dai confratelli pisani, San Iacopo del Poggio era assimilato a Santiago di Compostela per il perdono che vi si poteva costantemente lucrare, mentre San Piero a Grado si considerava fondato sul luogo del primo approdo in Italia dell’apostolo Pietro: l’altare che lui avrebbe costruito sul punto esatto del suo approdo era posto in rilie-

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vo dal ciborio gotico che lo sovrastava, mentre il sontuoso ciclo pittorico della navata, realizzato dal pittore lucchese Deodato Orlandi alla fine del Duecento, imitava quasi alla lettera le Storie di san Pietro nell’atrio della basilica vaticana. Il messaggio era evidente: l’edificio era tanto venerabile quanto il suo corrispondente romano e forse, vista la sua maggiore antichità, era persino più degno di attenzione. Questa pretesa prendeva corpo in termini abbastanza espliciti nella sezione di muro più vicina all’altare di san Clemente, dove in due riquadri adiacenti fu raffigurata la nave dell’apostolo che si approssimava verso la chiesa alle foci dell’Arno30. I ben più umili luoghi devoti costruiti ad uso e consumo delle piccole comunità di villaggio conobbero una certa diffusione soprattutto a partire dal tardo Trecento. Nelle zone montane, specie lungo la dorsale appenninica, i pastori impegnati nella transumanza erano soliti frequentare grotte e cappelle rupestri interamente o parzialmente scavate nella roccia che erano per lo più custodite da eremiti. La fama di questi solitari esercitò per lungo tempo un fascino particolare sulla popolazione e molto frequentemente l’aura di santità attribuita loro finì per esser trasmessa anche alle caverne e spelonche in cui avevano abitato; anche se sappiamo poco sulle modalità di sviluppo del culto verso i «romiti», è significativo il fatto che alcuni dei più importanti santuari mariani dell’età moderna – un caso per tutti: la Madonna di Montenero sulle colline sopra Livorno – abbiano preso il posto di antichi insediamenti eremitici31. La predilezione per le grotte fu condivisa anche da tutta una corrente del primitivo movimento francescano, poi rivelatasi minoritaria: Francesco di Assisi in persona ne era stato l’ispiratore, non solo nel suo ritiro alla Verna e in altre spelonche tra Umbria e Toscana, ma anche quando, ormai prossimo alla morte, aveva accettato di curarsi nella grotta di San Michele sulla cima del Monte Pennino. Al pari di altre cavità della terra utilizzate come luoghi consacrati e intese come repliche del celebre santuario rupestre intitolato all’Arcangelo sul Monte Gargano, anche questa attraeva i fedeli per via del-

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la presenza di una «stilla», cioè di una goccia d’acqua che cadeva dal soffitto e si riteneva possedere qualità terapeutiche32. Luoghi di culto del tutto inediti, che venivano incontro alle nuove aspettative della pietà dei laici, cominciarono a prender forma nel corso del Trecento. I santuari in cui l’oggetto di venerazione era costituito non più da un corpo santo o da una reliquia, bensì da un’immagine sacra, cominciarono a diffondersi a ritmi sempre più sostenuti. A detta di Franco Sacchetti, nel giro di tre generazioni ben sette effigi miracolose della Madonna avevano mosso la devozione dei fiorentini, ma ogni volta, passato un periodo iniziale di speciale fervore e grande concorso di popolo, il fenomeno aveva finito molto presto per essere ridimensionato33. Anche le figure dei santi erano state in grado, nel frattempo, di imporsi all’attenzione dei fedeli: nella chiesa di San Francesco a Pisa, ad esempio, sin dal 1346, grazie all’attività di promozione svolta personalmente dal padre guardiano fra’ Bartolomeo degli Albizi, si sviluppò un’intensa devozione verso un affresco raffigurante il beato Gerardo da Valenza (c. 1267-1342), che conobbe nel corso degli anni successivi tutta una serie di riproduzioni dall’isola di Maiorca fino alle Marche. Il vantaggio di questi nuovi culti consisteva nel permettere di esportare la devozione verso un personaggio ritenuto santo anche molto lontano dal suo luogo di sepoltura: Gerardo, che giaceva nella sua tomba a Palermo, poté in questo modo godere di una forte popolarità anche in Italia centrale e nel Mediterraneo nord-occidentale34. Il lettore si chiederà a questo punto quali meccanismi facevano sì che una semplice cappella o chiesa venissero percepite come «luoghi devoti» o addirittura «superlativamente notabili». Di solito (ma generalizzare in questi casi è difficile) lo status di eccezionalità veniva rivelato da segni considerati inequivocabili come guarigioni, eventi atmosferici o climatici anomali, pericoli scampati, apparizioni e visioni ultraterrene, ma in altre circostanze poteva darsi semplicemente che il successo derivasse da un’abile operazione promozionale, per così dire, organizzata da settori del clero e dell’associazionismo reli-

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gioso laico: talora se ne ha una prova indiretta nelle reazioni sdegnate che certi nuovi culti provocarono in quelle persone che si sentivano danneggiate dalla nascita di un nuovo santuario, come ad esempio il prete Bindo, preposto di Cigoli, vicino a San Miniato al Tedesco, che fece di tutto per ostacolare la diffusione del culto della Madonna miracolosa venerata nella sua chiesa, per il semplice fatto che la sua gestione era affidata a una confraternita che ne incassava anche tutti i proventi35. Nella stragrande maggioranza dei casi gli oggetti e gli edifici sacri non nascevano «eccezionali», bensì lo diventavano nel momento in cui un numero di persone abbastanza consistente cominciava a frequentarli e a onorarli con una certa regolarità. Certo è che nessun manufatto considerato per qualche ragione miracoloso poteva esser conservato al di fuori di una chiesa: un ambiente sacro intorno a un’immagine taumaturgica o a qualsiasi altro cimelio era indispensabile per mettere in atto la sua venerazione, giacché quest’ultima era un’operazione che, prevedendo gesti e atti rituali del corpo, non poteva svolgersi se non in senso spaziale. Quando, nel 1372, un soldato distratto mise male un piede e precipitò dalle mura di Lucca rimanendo incolume, il merito fu attribuito a un affresco della Vergine che era collocato lì vicino, su uno dei bastioni della Porta San Gervasio; subito fu costruito un tabernacolo, fatto di assi di legno, per dare all’immagine il rilievo che meritava, ma siccome la gente di Lucca cominciò subito ad accorrervi per impetrare grazie e guarigioni, un privato cittadino di nome Vituccio di Torello pensò che non stava bene che si onorasse Maria così sciattamente, all’aperto: quindi si mise al lavoro e costruì con le sue mani una casetta in muratura che potesse far da riparo alla sacra effigie. Questa struttura, definita nelle fonti domus orationis, fu arricchita addirittura di un altare e di tutto il suo corredo di tovaglie ricamate, calici e croci, nonostante l’assenza di qualsiasi approvazione vescovile, finché la curia lucchese, alla morte di Vituccio, non propose essa stessa di trasformarla in un «luogo ecclesiastico», cioè consacrato36.

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Un evento miracoloso poteva motivare la costruzione di un edificio di culto anche in assenza di immagini o altri oggetti sacri. Di questo abbiamo notizie soprattutto dal tardo Trecento e dal Quattrocento, quando sembra infittirsi il numero delle apparizioni mariane, soprattutto nelle campagne dove erano anonime radure e campi coltivati ad essere nobilitati dalla manifestazione della Vergine. In particolare nel 1399 il movimento penitenziale dei cosiddetti «Bianchi», cioè gruppi di persone dalle candide vesti che attraversarono la penisola, dalla Liguria a Roma, invocando la pace e la protezione divina in vista dell’imminente fine del mondo, sembra aver dato origine a una serie piuttosto fitta di «mariofanie» fra la popolazione contadina. Ad esempio, nei dintorni di Assisi capitò a un fanciulletto di vedere la Madonna fra i rami di un ulivo; nel giro di poco tempo, sul luogo della visione, fu costruito un piccolo oratorio, intitolato alla «Madonna dell’Olivo», che godette per qualche tempo di una certa frequentazione, salvo poi fallire miseramente per la concorrenza sleale dei grandi santuari francescani della zona37. Incontri ravvicinati con i personaggi sacri In un libriccino contenente precetti morali diretto alle donne, l’agostiniano Girolamo da Siena (1340-c. 1420) così raccomandava: La mattina per tempo, se t’è prestato tempo e libertà, con timore e reverenzia di Dio moverai e’ tuoi passi verso la casa di Dio; e prima onorerai la tua chiesa coll’offerta e visitazione personale, e spezialmente le domeniche e le grandi festività. Ma pure, la conversazione cotidiana sia in quelle chiese nelle quali vedete più frequentemente e più divotamente laudare Iddio, e dove trovate cherici o religiosi di migliore vita e di più sano consiglio, e dove più spesso e più frequentemente prendete el dolce pasto della sementa del divino sermone; non prendendo per questo né conoscenza né dimestichezza con alcuna persona, cherico o religioso che sia, quantunque siano perfetti e di buona vita38.

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Qui l’invito non è a visitare luoghi sacri eccezionali e fuori dal comune, bensì a frequentare la casa di Dio in generale, vale a dire le numerose chiese che costellano le città medievali. Ogni donna è chiamata a frequentare la propria parrocchia soprattutto per la messa domenicale e per le grandi solennità liturgiche, ma se ha tempo e le è consentito non sarà male che ci vada anche in altre occasioni, possibilmente tutti i giorni, contribuendo anche al suo sostentamento. Detto questo, ci sono anche tanti luoghi devoti che si possono visitare, e verso i quali non si ha nessun obbligo canonico: questi saranno l’oggetto di una scelta personale, valutando fattori come il rigore morale, l’aura di santità e l’eloquenza nell’attività di predicazione delle comunità religiose a cui appartengono. Questi luoghi che ciascuno può selezionare a proprio piacimento sono quelli in cui si ha la sensazione di «conversare di più», ossia di intrattenere un dialogo più profondo e più intenso con i propri interlocutori celesti; complessivamente, tali chiese formano la vera «casa di Dio». La topografia sacra di una città qualunque può acquistare un significato più profondo quando a osservarla è una visionaria come la su ricordata Gherardesca da Pisa; una sua esperienza, in particolare, pone in evidenza come gli occhi di certi privilegiati, che possono beneficiare di un contatto mistico con la corte celeste, riescano a visualizzare ciò che gli altri possono solo intuire, ossia che i personaggi sacri sono davvero presenti dentro gli edifici di culto. Siamo nel profondo della notte e Gherardesca non ha sonno, per cui decide di dire qualche orazione; senonché, mentre è intenta a pregare, vede distintamente nella stanza il suo defunto marito che le parla con parole indegne e indecorose. La beata capisce che si tratta del diavolo e resiste alle sue lusinghe, al punto da forzarsi a dire che, se anche fosse davvero il suo uomo, piuttosto che cedergli lo ammazzerebbe con le sue mani. A queste parole Satana diventa una furia, si avventa su di lei e la scaglia contro il soffitto facendole sputar sangue dalla bocca, ma questi tormenti non gli bastano: l’afferra e la tra-

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sporta fino al greto del fiume Arno, presso la chiesa di San Giovanni al Gatano (nella zona di Porta a Mare), la carica su una barca che riempie d’acqua cercando di affondarla. Gherardesca, terrorizzata, comincia a urlare invocando l’aiuto della Madonna e di san Giovanni Evangelista che in un battibaleno compaiono nell’aria, assieme a una legione di angeli che si avventano sul diavolo gettandolo a testa in giù tra le acque fredde del fiume; una caterva di demoni comincia a strepitare bestialmente mentre la battaglia infuria contro di loro. La beata viene portata in salvo dentro la chiesa: è san Giovanni in persona, assieme con la Vergine, a scortarla dentro l’edificio a lui intitolato. Dopodiché rimane sola e viene presa da una terribile angoscia: che cosa penseranno la gente e il parroco se la troveranno lì, di notte, prima che le campane abbiano suonato a mattutino? Ma non fa a tempo a terminare questo ragionamento che il dolce, metallico suono che segnala l’inizio della giornata si fa udire, rallegrandole il cuore. Ora può uscire tranquillamente e far ritorno a casa, anche se questo significa dover attraversare – lei, una donna sola – tutta la città. Passa di là dall’Arno e nella grande piazza della città (oggi piazza dei Cavalieri) vede gli uomini che vegliano sopra il raccolto del grano e teme per la sua sicurezza; s’avvicina al Ponte Vecchio e vede un altro crocchio di persone, da cui si distaccano due donne che le si avvicinano e si qualificano come due sue antiche vicine di casa, oggi defunte. Sono due anime del Purgatorio che si rivolgono a lei perché sanno che è confidente della Vergine Maria e che quindi può intercedere al suo cospetto perché venga loro dato uno sconto di pena. In questo momento la Madonna, infatti, si trova in San Martino, una chiesa gestita da una comunità di canonici nella zona di Chinzica, ossia a sud dell’Arno. Gherardesca volge lo sguardo verso quella parte di città e osserva che l’intero quartiere in cui sorge l’edificio è splendente di luce e irradia fulgori luminosi, grazie a quella straordinaria presenza; e fra sé pensa: «Come potrò presentarmi di fronte alla Signora nostra con indosso quest’abito che è strappato da tutte le parti?». Senonché il de-

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siderio di parlare a Maria ha la meglio sulla vergogna, e in men che non si dica la beata fa ingresso nella chiesa. Appena entrata, corre a prostrarsi ai piedi della Santa Vergine, che è accompagnata da Maria Maddalena, a cui viene subito ordinato: «Accogli Gherardesca sotto il tuo manto e coprila». A quel punto arriva anche Cristo, assieme a Giovanni Evangelista e a uno stuolo di angeli, e cominciano a passeggiare tutti assieme allegramente finché, giunti nuovamente al Ponte Vecchio, la Maddalena non domanda alla beata: «Non hai da dirci qualcosa?». «Oh sì», dice lei trasalendo, «voglio rivolgere una petizione alla Signora nostra a favore di alcune anime defunte, alle cui preghiere ho acconsentito, affinché vengano liberate dalle pene del Purgatorio». La Maddalena chiama a sé Giovanni ed espone la richiesta a Maria; Gesù, che adesso è tornato ad essere un bambino, cammina afferrando la cintura della madre. Quando questa lo invita ad accogliere la preghiera, egli risponde quasi seccato: «Madre, molti che son testimoni della tua misericordia si rivolgono a Te: ma non dovresti esaudire tutti, perché non tutti i postulanti sono degni di esprimere suppliche». Ma la Vergine ribatte: «Poiché a causa tua, o umanissimo figlio, son chiamata da tutti ‘Madre di misericordia’, giammai chiuderò ad alcuno la porta della misericordia mia». Il risultato è che il Signore ordina agli angeli di trasportare quelle due anime in Paradiso ma nel contempo impone di collocare tutte le altre che si dimostrino impreparate nel luogo deputato allo sconto delle pene. A questo punto la scena si sposta, finalmente, laddove l’episodio aveva avuto inizio, cioè nella stanza di Gherardesca. Maddalena le toglie il manto di dosso, in modo che possa vedere le ferite che ha subìto a causa del demonio, e subito dopo Maria la riveste con nuovi abiti e le dice: «Poiché non hai voluto toccare il diavolo con le tue labbra, dolcemente bacio la bocca tua»; quindi Cristo accoglie le sue mani giunte fra le proprie e, dopo un breve, intenso momento, la sacra compagnia scompare39. Si può solo immaginare la letizia che tocca

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la beata a questo punto; probabilmente lei non saprebbe esattamente dire se tutto quello che le è successo è accaduto realmente o se si è trattato di un sogno, di un’esperienza estatica, o della semplice rielaborazione psichica di sensazioni e sentimenti che si provano quando si anela a percepire più nel profondo la sacralità dei luoghi. Probabilmente per lei queste distinzioni hanno poco significato: quello che conta, dopo tutto, è la convinzione rassicurante che i protagonisti della fede siano sempre vicini a noi, che siano sempre pronti a soccorrerci, e che si possa dialogare con loro, piangere con loro, gioire con loro, e persino toccare il loro corpo o baciarli sulla bocca. Nel contesto dello spazio urbano, le chiese sono i luoghi privilegiati in cui ogni relazione diretta con loro viene resa accessibile. Certo, le donne meno ispirate di Gherardesca cercheranno, nei limiti del possibile, di osservare un contegno come quello suggerito da fra’ Girolamo da Siena: Andando alla chiesa, uscite che sarete di casa nel nome della Santissima Trinità, làsciati dietro tutti gli altri pensieri e tutti gli pensieri di tua casa e famiglia, e per la tua via sì ti poni in cuore di contenere gli occhi tuoi dalle vane visioni della vanità del mondo, e va con gli occhi bassi e col viso rimesso e vergognoso40.

Quello che propongo adesso al lettore è di accodarci a una di queste pie signore nel percorso da casa sua al luogo di culto, in modo da capire com’era fatta una chiesa della sua epoca e, soprattutto, che cosa bisognava fare una volta giunti al suo interno.

II DALLA CASA ALLA CHIESA

Fuori dall’uscio di casa Ogni persona ben costumata sa che è più sano alzarsi presto la mattina che vegliare la sera; senonché è anche vero che è poco prudente uscire di casa prima che le campane abbiano suonato «a mattutino» e i vicini abbiano iniziato ad aprire le loro case e botteghe. Giunti sull’uscio non è male farsi il segno della croce e recitare questa preghiera che assomiglia molto a uno scongiuro: «Cristo innanzi, pace in via, lo Spirito Isanto sempre co noi sia»1. Dette queste parole, si acquisterà fiducia nel fatto che, anche per quel giorno, non si riceverà ingiuria e offesa. Chi è davvero devoto andrà in chiesa ogni mattina, anche nei giorni feriali e non solo la domenica, sia pure solo per affacciarsi e dire una preghiera, se non ha la possibilità di fermarsi per tutta la messa. Questa pratica è senz’altro un bene per tutti, in particolare per gli uomini affaccendati nei loro affari mondani, anche se a questi ultimi spesso fa fatica prendersi cura di tali cose. In primo luogo, si sa, gli uomini tendono a scansare certi obblighi morali e preferiscono le numerose distrazioni che offre la città, come «ritrovarsi in brigate e compagni a·rridare e a·ccianciare, e tuttodì parlare parole otiose e vane e disutigli», nonché giocare d’azzardo, spet-

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tegolare, truffare la gente con vendite e contratti ingannevoli, prestare a usura, andare a caccia, e ancora mangiare e bere e andare in cerca di merende e conviti, senza curarsi minimamente dei poveri e dei religiosi2. C’erano senz’altro, fra i laici, alcuni che, pur senza essere eretici, consideravano andare in chiesa un’offesa all’intelligenza e una concessione all’avidità di guadagno e alla bassezza morale del clero. Sul declinare del Duecento, a Bologna, c’era un tale – un ben noto usuraio – che dal suo banco sulla pubblica via si divertiva a canzonare quelli che andavano a vedere l’ostia consacrata al momento dell’elevazione: «O stolti», diceva, «cosa ci andate a fare, a vedere un pezzetto di pane! Vale di più il pane che ho io per pranzo, e più mi gioverà, di quello che andate a vedere!». Questa battuta, però, gli costò una citazione davanti al Sant’Uffizio, in seguito alla delazione di alcuni privati cittadini che, verosimilmente, volevano vendicarsi dei soprusi subiti con i suoi prestiti a strozzo3. In generale, anche senza arrivare a questi eccessi, non erano molti coloro che frequentavano assiduamente le funzioni e gli edifici sacri, anche se condividevano l’idea per cui sarebbe stato utile e onesto farlo; certo è che i bigotti che stavano sempre in chiesa attiravano spesso l’ironia degli uomini d’affari, come traspare efficacemente dal modo in cui uno di questi – un certo Puccio di Rinieri – viene descritto nel Decameron: un uomo ricco e anziano, terziario di San Francesco, senza granché da fare, idiota e di grossa pasta, sempre pronto a recitar paternostri, ad assistere alle prediche, alle messe, al canto delle laudi, ai digiuni e agli atti di automortificazione, ma assai meno versato quando si trattava di onorare il talamo della sua giovane moglie, a cui preferiva raccontare «la vita di Cristo e le prediche di frate Nastagio o il lamento della Magdalena o così fatte cose»4. Per le donne il discorso era diverso, giacché per loro, specialmente per le più giovani, il tratto di strada che separava la loro casa dalla chiesa costituiva uno dei pochi spazi e una delle limitate occasioni in cui potevano uscire e mostrarsi pub-

II. Dalla casa alla chiesa

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blicamente. Poiché la natura le faceva belle e piacevoli d’aspetto, allorché fioriva in loro la giovanile età, c’era sempre il rischio, ad ogni esibizione pubblica, che sollecitassero cattivi pensieri e risvegliassero indebitamente, in molti, la concupiscenza carnale. Per questo motivo i confessori raccomandavano di mantenere un contegno modesto e pudico, evitando gesti, sguardi e pose del corpo provocanti, vestendo in modo decente e soprattutto facendo a meno dei cosmetici. Il rispetto di questi sani consigli, tuttavia, non regnava certo incontrastato; soprattutto alla domenica, quando tutta la comunità – o una parte consistente di essa – assisteva all’officio, farsi vedere belle e ben vestite diveniva un imperativo ineliminabile che soddisfaceva non solo la vanità personale, ma anche la volontà di autorappresentazione e celebrazione perseguita dal clan familiare. Del resto, si sa, le donne in quest’arte si rivelavano addirittura geniali, al punto che in una battuta attribuita all’Orcagna venivano riconosciute come le più valenti artiste che l’umanità avesse mai conosciuto5. In quei secoli l’abbigliamento, prima che a impreziosire il corpo di un individuo, serviva a manifestare il suo status economico e la sua appartenenza a una categoria professionale: le leggi suntuarie vigenti in ciascuna città stabilivano infatti fin nel dettaglio come dovevano andare vestiti i medici, i mercanti, i giureconsulti, gli artigiani e tutti gli altri mestieranti con le rispettive consorti. Pertanto non era bene che una ragazza, come qualsiasi altro membro di una famiglia eminente, si facesse vedere in giro vestita in modo indecoroso, a meno che non sentisse la necessità di esprimere in questo modo un atto di penitenza o una deliberata automortificazione. Al pari del guardaroba, doveva curare anche il proprio aspetto ed esibire pubblicamente la propria avvenenza e piacevolezza, giacché anche questo corrispondeva ad aumentare il prestigio del gruppo; i mariti, in particolare, potevano trarre piacere dal sentirsi invidiati dagli altri uomini del vicinato, mentre le mogli potevano ritenere che il trucco fosse necessario a far sì che i loro uomini rimanessero innamorati e fedeli6.

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La bellezza coincideva in grande misura con la bianchezza del volto e delle mani, che assurgeva a simbolo evidente di dignità aristocratica quanto più si distingueva dal colore scuro delle pelli abbronzate e sporche dei contadini. Per questo si usava «lisciarsi», espressione con cui si alludeva ironicamente all’attenzione che hanno i gatti verso la cura del proprio pelo: ci si cospargeva il viso di biacca, dopo averlo lavato con oli resinosi e acque profumate, e ci si metteva in ordine con una serie di interventi estetici. Boccaccio, in un passo del Corbaccio che è senz’altro il suo testo più fortemente misogino, fa parlare così una signora che, intenta a prepararsi di fronte a due specchi, dà ordini alla fantesca: Questo velo fu poco ingiallato; e questo altro pende troppo da questa parte; manda questo altro più giù! Fa stare quello che mi cuopre la fronte! Leva quello spilletto che m’hai sopra le orecchie posto e ponlo più in là un poco, e fa più stretta piega a quello che andar mi dée sotto ’l mento! Togli quel vetro e levami quel peluzzo che m’è nella gota di sotto all’occhio manco!...7

Nonostante la vasta diffusione di tali attenzioni al proprio aspetto fisico, gli autori ecclesiastici e i predicatori spesso si pronunciavano accanitamente contro il lusso nel vestire e in particolare contro l’uso di «lisciarsi»: darsi il trucco, infatti, costituiva un’offesa a Dio, giacché era come se un pittore avesse visto la sua opera più bella imbrattata da qualcun altro; poteva forse non risentirsi per un simile oltraggio? Se si poteva chiudere un occhio per le donzelle, era assolutamente auspicabile che le donne maritate rinunciassero a consimili vanità. L’ideale di donna descritto dall’agostiniano fra’ Filippo degli Agazzari consisteva in una sposa che, persino in occasione delle maggiori solennità dell’anno, rinunciava a impiastricciarsi il volto con quella robaccia; in uno dei suoi Assempri ci parla di una giovane senese che, poco dopo il matrimonio, fu tentata dal demonio con queste parole:

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Tu non fai questo per piacere a·nnessuna persona del mondo, se non solamente al tuo marito, acciò che elli non abbia materia di far male e d’impacciarsi con altra femina, però che tu saresti cagione del suo peccato, e peccaresti dove tu credarresti meritare se egli, per tuo difetto, s’impacciasse con altra donna. Et però acconciati e fatti bella, però che non è quel peccato che tu ti dai a credare8.

La giovane, tuttavia, tenne fede al suo proposito di non truccarsi e «si vestì e s’adornò onestamente come s’aveniva al suo stato»; per aver tenuto banco a Satana ricevette, una volta in chiesa, un premio straordinario, giacché nel momento in cui il sacerdote elevò ed esibì il corpo di Cristo, vide distintamente il volto di Gesù Bambino che le sorrideva. Storie di campanili e di campane Lo skyline di una città tardomedievale si rivelava tanto più maestoso quanto più alte erano le sue torri e grandiose erano le sue chiese. Lo storico Opicino de Canistris, nel suo libro composto verso il 1310 in lode della città di Pavia, osservava che quest’ultima, a chi l’osserva da lontano offre uno spettacolo mirabile, non solo per l’altezza di un numero incalcolabile di torri, ma anche per la grandezza dei suoi palazzi e delle sue chiese, tre delle quali – ossia San Michele Maggiore, San Giovanni in Borgo e San Pietro in Ciel d’Oro – nelle loro dimensioni superano molte chiese cattedrali...9

La grandezza di una chiesa si apprezzava in primo luogo per l’aspetto alto e massiccio del suo campanile: questo non significa che dovesse superare per altezza tutte le altre costruzioni (anzi, molto spesso le torri private svettavano molto più in alto), bensì che dovesse essere anche sviluppato in larghezza, in modo da risultare più solido e stabile, e quindi capace di sorreggere campane molto grosse e pesanti che, proprio in virtù di questa caratteristica, erano in grado di

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spandere il loro suono il più lontano possibile, fino a seimila e più passi di distanza. L’impatto sonoro sulla città era alla base di una vera e propria gerarchia degli edifici sacri: le semplici cappelle e le chiese parrocchiali di solito si accontentavano di campane piccole, montate su torrette o campanili «a vela», giacché a loro era sufficiente farsi sentire dal ristretto numero di persone che abitava nelle loro adiacenze, mentre la cattedrale, che costituiva un luogo di aggregazione per tutta la cittadinanza, necessitava di un suono che riuscisse a giungere fino nei quartieri più decentrati10. A lungo quest’ultima era stata l’unico edificio a possedere tali strumenti acustici, in virtù del significato anche politico che era loro attribuito, mentre istituzioni minori, fra cui anche gli stabilimenti monastici, avevano fatto uso di tavole di legno non dissimili dal símandron dei Bizantini. Nell’Italia del XIII e XIV secolo, tuttavia, il loro impiego si era notevolmente diffuso: se li erano procurati sia le amministrazioni comunali, che spesso avevano fatto erigere veri e propri campanili che, come a Siena, gareggiavano in altezza con quello del duomo, sia gli Ordini mendicanti che ambivano in quel modo a richiamare i loro sempre più numerosi fedeli. Nella chiesa domenicana di Sant’Eustorgio a Milano, specialmente man mano che l’edificio cominciava ad esser frequentato per via dei miracoli che avevano luogo intorno alla tomba del nuovo santo Pietro Martire, i frati provarono presto vergogna della loro minuscola campana, il cui suono non riusciva neanche a penetrare dentro le mura della città: il loro sacrestano pensò bene, nel 1269, di appiccare il fuoco al campanile, affinché i suoi confratelli si risolvessero ad acquistarne una decente ed efficace11. I rintocchi scandivano le giornate delle città medievali e in questo senso svolgevano anche funzioni non propriamente religiose (o almeno che non sembrerebbero tali agli occhi di noi moderni). Come già abbiamo visto, quando suonavano all’alba non solo si capiva che nelle chiese aveva inizio l’officio mattutino, ma anche che, più in generale, il giorno era incominciato e che si poteva dare l’avvio alle attività quotidiane, che si

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sarebbero concluse con un ulteriore rintocco al calar delle tenebre: nell’uno e nell’altro caso, secondo un uso ben affermato nel secolo XIV, ovunque ci si trovasse conveniva fermarsi e recitare un’avemaria. La qualità dei suoni costituiva un codice di comunicazione molto efficace, che era in grado di segnalare ora una difficoltà, ora un motivo per rattristarsi, ora uno per provar gioia: se erano «a martello» o «a stormo» significava che era in agguato un pericolo (meno grave nel primo caso, sicuramente terribile nel secondo) e che bisognava raccogliersi nella chiesa per decidere sul da farsi; se «a distesa» o «a Dio laudiamo», che aveva inizio una festività molto solenne; se «a morto» annunziavano un lutto, se «a vespro», «a nona» o «a messa» invitavano la gente a partecipare agli offici; a Roma un suono scomposto e disordinato verso la metà della giornata del Giovedì Santo indicava che qualche eretico o usuraio manifesto era stato colpito ufficialmente da anatema12. Le campane erano una cosa seria, al punto che si usava battezzarle ungendole col crisma e conferir loro un nome, esattamente come alle persone, e a nessuno era permesso usarle a sproposito. Nel Trecentonovelle, Franco Sacchetti racconta di un pievano che si metteva a suonarle «a stormo» quando un suo rivale gli contestava una vittoria a scacchi; quella volta però che corse a suonarle perché gli stava prendendo fuoco la casa nessuno dei paesani abbandonò il lavoro dei campi13. I suoni che lanciavano l’allarme per un pericolo avevano indubbiamente un più forte richiamo di quelli che annunciavano l’inizio degli offici liturgici: ne sapevano qualcosa i poveri curati, specialmente quelli di città che officiavano per gente ricca, che nei giorni feriali, per quanto si affaticassero a tirar la corda del campanile, il più delle volte si trovavano a dir messa da soli. A uno di questi, il piovano Arlotto (1396-1484) disse che gli succedeva così perché i parrocchiani avevano troppi soldi e pensavano ad altro, al contrario dei suoi poveri contadini di San Cresci a Macioli che in chiesa non mancavano mai. Per convincere quegl’indolenti e viziati ad andare all’officio, escogitò poi uno scherzo da suo

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pari: anziché suonare a mattutino, suonò per più di un’ora a martello, al cui segnale tutta la popolazione accorse al sacro luogo. A quelli che chiedevano spaventati per quale motivo fosse stato dato l’allarme, lui perfido rispose: «Villani ribaldi che voi siete! Vedi, al bene niuno si muove, e al male ciascuno corre. Questo vostro prete tempesta tutta mattina questa campana e nessuno di voi ci arriva; e non vi vergognate voi?». Da allora furono più solerti nel frequentare le funzioni14. In situazioni di straordinaria letizia, come ad esempio alla cessazione di un assedio o in occasione del ritrovamento di una preziosa reliquia, si suonava pressoché incessantemente; lo stesso accadeva, e con ancora maggiore intensità, quando si verificavano terribili calamità naturali, come poteva essere, poniamo, una pioggia che durasse ininterrotta per settimane e facesse temere un’alluvione. In questo modo le campane erano molto più che uno strumento acustico, costituivano un vero e proprio simbolo di aggregazione per le comunità; fede ne sia il fatto che, secondo un’ottica ben diffusa, il modo migliore per umiliare una città nemica era depredare i suoi campanili. Veniva loro attribuita una tale autorità che se il suono si manifestava senza che alcuno le azionasse con la corda lo si reputava una prova evidente, ad esempio, della supposta santità di qualche pio personaggio sepolto nella chiesa. Non va dimenticato che si trattava di oggetti molto preziosi e che la loro realizzazione, che prevedeva la fusione in bronzo, era molto complessa, al punto che i campanai erano tra gli artisti più stimati, come testimonia anche il fatto che molto più frequentemente di pittori e scultori usavano apporre la propria «firma» sulle loro opere; in particolare i fonditori pisani, che nel XIII e XIV secolo passavano per essere i più abili in quest’arte, hanno lasciato i loro nomi su un gran numero di campane sparse un po’ dappertutto nell’Italia centrale15. Molto spesso vi erano presenti anche iscrizioni che registravano la data di esecuzione, segnalavano la committenza e, per quanto paradossale possa sembrare, cercavano di metterle al riparo dal vento e dal fuoco, gli unici elementi che po-

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tevano distruggerle: per questo si ricorreva al cosiddetto epitafio di sant’Agata, una formula latina molto simile a uno scongiuro che era riportata sulla tomba della santa nella sua chiesa a Catania (mentem sanctam spontaneam honorem Deo et patrie liberationem) oppure altre espressioni che, rifacendosi più o meno direttamente al Salmo XXIX, assimilavano i rintocchi alla voce di Dio che scaccia le tempeste, i tuoni o le insidie del Maligno. Qualcuna esprimeva addirittura in prima persona le sue minacce nei confronti delle tempeste e dei demoni che le animavano, con frasi del tipo: «Mi chiamo Giacomo e respingo i lampi e i colpi della grandine» oppure «la mia voce è il terrore di tutti i diavoli»16. L’efficacia delle formule si rivelava in occasione dei grossi temporali, quando terribili battaglie venivano combattute, sui tetti delle chiese, tra le potenze celesti e gli spiriti maligni: a quel punto le campane venivano suonate «a tempesta» e si riteneva che il loro effetto acustico fosse in grado di contrastare la furia dei tuoni e delle saette. In generale tutti gli eventi atmosferici eccezionali andavano considerati come segni di pessimo auspicio, come ad esempio quando venivano grosse grandini che distruggevano i raccolti, oppure se cadeva un meteorite, o piovevano rane, o arrivavano grossi pezzi di ghiaccio dal cielo: il più delle volte tutto questo era indizio di qualche azione demoniaca e la riprova evidente si aveva dalla tenuta o meno della parte sommitale della chiesa, la più sottoposta ai venti e alla pioggia. Quando moriva un assassino o un avido usuraio le torme infernali accorrevano con tutto il loro fracasso di saette e folgori a prendersi la sua anima; e mentre ascendevano dalle viscere della terra alla sua superficie poteva accadere di tutto, come un’infausta pioggia di «botte» (cioè grossi ramarri). Se, nonostante questi segni, il cadavere veniva sepolto nel cimitero o, peggio, dentro l’edificio di culto, i diavoli si scatenavano: di notte si sentiva che le sue pareti erano sconquassate, come in un terremoto, e attaccate con venti fortissimi, piogge torrenziali, tuoni e saette; con grida scomposte e terribili che squarciavano il silenzio delle tenebre i cavalieri

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di Satana si divertivano a far tornei intorno alla tomba, mentre altri duellavano con le spade e bestie ferocissime si divoravano l’un l’altra strepitando orribilmente17. Più che dal suono delle campane, l’azione degli agenti atmosferici veniva sventata, in realtà, dalla funzione di parafulmine che era svolta dai campanili e in particolare dal loro coronamento, che consisteva in una croce di ferro e in un anemometro (ossia un misuratore della direzione dei venti). Quest’ultimo poteva avere svariate forme: se il tipo più comune e antico aveva l’aspetto di un gallo poggiato su un’asta terminante in una freccia, altri simulavano l’aspetto di un angelo del cielo. Un oggetto di questo genere si può vedere ancor oggi sopra la facciata della chiesa di San Michele in Foro a Lucca, dove l’arcangelo titolare della chiesa è rappresentato da un’enorme statua provvista di ali metalliche, che in origine dovevano muoversi sospinte dall’aria, suggerendo l’idea per cui il generale in capo delle schiere angeliche si era effettivamente posato lì per proteggere l’edificio (Fig. 4). Simili figure, tuttavia, potevano essere utilizzate per coronare le torri campanarie di edifici non necessariamente dedicati al culto di Michele o di altri inviati celesti. Uno di questi rimase sulla sommità del duomo di Siena fino a quando, colpito da un fulmine, non precipitò sopra l’altar maggiore mentre si celebrava l’eucarestia: nel cadere provocò un incendio, tramortì cinque preti, stravolse gli arredi della sacra mensa e portò via con sé la croce e l’ostia consacrata. Era un bruttissimo segno, foriero di sciagura, e meglio avrebbero fatto i senesi a rafforzarsi nel timore e nel culto di Dio, giacché in quel modo il Signore aveva voluto ammonirli contro la loro dissolutezza18. Un’altra volta lanciò un avvertimento ai frati di Santa Maria Novella, a Firenze, affinché riflettessero sulla decadenza dei loro costumi: a mezzanotte, un temporale improvviso si abbatté sulla città e una folgore percosse nella punta del campanile de’ frati predicatori, dov’era uno agnolo di marmo di statura in altezza di IIII brac-

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cia con grandi alie di ferro, il quale volgea sopra una grossa stanga di ferro, mostrando col braccio steso il segno de’ venti, la quale figura i·molte parti spezzò, e la stanga volta in arco volse con una gran corteccia del campanile, e assai di lontano gittò le pietre, spargendole; e discesa nella maggiore cappella in più parti la ’ncese, e abronzò le figure, e il simile fé nel dormentoro sanza far danno a persona, vituperando le cose pompose19.

Il significato anche stavolta era evidente: Dio era adirato per il fatto che i seguaci di san Domenico avevano abbandonato il loro stato di mendicanti e, «vezzosamente intendendo alle dilicatezze e piaceri temporali», si erano concessi lussuosi decori nei conventi e negli edifici sacri. Uno dei più anziani frati del convento, maestro Pietro degli Strozzi, dichiarò che era già la terza volta, da quando si trovava lì, che un angelo-anemometro cadeva da lassù e giunse alla conclusione che il motivo della collera divina fosse, in realtà, la tendenza che i frati avevano all’idolatria così come quella figura rendeva evidente. Risolse dunque che l’unico rimedio fosse non rimpiazzarla e, come alternativa, «armò la vetta del campanile contro la forza delle folgori con orliquie [sc. reliquie] sante». Tuttavia, nemmeno questo fu sufficiente: nei giorni successivi caddero chicchi di grandine grossi come uova e i raccolti andarono quasi interamente perduti; qualche anno dopo, un fulmine squarciò interamente la torre campanaria20. Fuori dalla chiesa Uno degli aspetti lodevoli del tetto della chiesa era il fatto di esser rivestito in piombo, giacché questo lo rendeva più capace di resistere agli urti (almeno quelli di minore entità) e riusciva ad isolarlo in modo più efficace. Il più delle volte, in realtà, erano semplici tegole in laterizio a coprire l’edificio, e questo avveniva alla bell’e meglio, soprattutto quando il sottostante soffitto era in legno. Non doveva esser raro che la

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pioggia si infiltrasse tra le commessure, anche se si cercava di evitare che l’acqua cadesse se non altro nella zona del presbiterio; c’erano però anche dei preti sciagurati che se ne infischiavano, come quello di Montughi vicino a Firenze che, secondo il Sacchetti, teneva tutta la sua chiesa mal coperta, ma peggio di tutti teneva la porzione di tetto che sovrastava l’altare, cosicché si poteva distintamente vedere che ci pioveva sopra, bagnando anche il corpo di Cristo. Con un tipo del genere avevi voglia a protestare; senza far una piega ti rispondeva: «Tal sia di lui, se vuole che gli si piova addosso. E’ disse fiat, e fu fatto il mondo; ben può dir cuopri, e fia coperto, e non gli pioverà addosso»21. Il terreno antistante all’edificio di culto era considerato sacro (donde il nome «sagrato»), al pari di altri spazi circostanti che potevano essere adibiti a uso cimiteriale (nel caso, naturalmente, delle chiese dotate di cura d’anime); ai lati non utilizzati in questo senso, invece, venivano sovente addossate strutture diverse, come cappelle di fondazione laicale o abitazioni private oppure costruzioni appartenenti all’istituzione religiosa che gestiva il luogo (come un convento di frati, un monastero, una canonica o un eremo). Elemento comune, in ciascun caso, era il fatto che spesso il sagrato e i cimiteri costituivano, nel fitto reticolo urbanistico tipico delle città medievali, gli unici spazi aperti, in cui la gente poteva incontrarsi e socializzare anche indipendentemente dalle funzioni religiose che vi si svolgevano. Era inoltre qui che, alla domenica o in certe ricorrenze particolari, famosi oratori pronunciavano le loro prediche a larghe folle che si lasciavano affascinare e coinvolgere dalla veemenza, dall’efficacia retorica, dalla gestualità pronunciata e anche dalla spettacolarità dell’evento: per l’occasione veniva allestito un apposito palco ligneo presso la facciata, a meno che non esistesse una struttura stabile in pietra destinata a tali usi. Lo spazio antistante la cattedrale costituiva la «piazza» per antonomasia; seppure tra Due e Trecento un buon numero di governi comunali provò a costruire analoghi organismi urba-

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nistici anche di fronte ai palazzi pubblici, la funzione eminentemente civica del sagrato del duomo, resa evidente dalle grandi solennità, processioni e fiere che vi si svolgevano, non venne meno neanche in età post-medievale. L’effetto, anche psicologico, di questi luoghi era molto forte: in un mondo in cui le abitazioni erano simili a fortezze racchiuse attorno a una corte interna praticamente inaccessibile a chi non faceva parte del clan e in cui le strade, strette fra altissime torri, erano buie e con poco ricambio d’aria, andare sul sagrato di una chiesa significava potersi muovere con maggiore libertà, godere un po’ di più della luce solare e persino respirare meglio. Nei villaggi e nei castelli del contado, questo luogo consisteva in uno spiazzo erboso marcato dalla presenza di un olmo o di una quercia; qui la gente si riuniva sia per discutere e prender le decisioni comuni, sia per occasioni conviviali, come pranzi e bevute comuni all’ombra dell’albero, magari col fiasco del vino e una scatola di galle nel mezzo22. D’estate, alla sera, poteva esser piacevole raccogliersi in questi luoghi per scambiare quattro chiacchiere o farsi una partita a dadi o a zara, giochi allora molto in voga, ancorché severamente condannati dalla chiesa perché disonesti (vi si perdevano infatti anche grosse somme di danaro) e perché di solito erano accompagnati da un bel corredo di male parole e orribili bestemmie. Stando agli autori ecclesiastici, che cercavano con scarsi risultati di impressionare il loro pubblico di laici, questi peccati venivano puniti da Dio in modo esemplare: si diceva ad esempio che il tale soldato, per le tremende offese verbali che aveva pronunciato contro i santi dopo aver perso i suoi soldi, fu preso in consegna direttamente da un paio di diavoli e portato anima e corpo nel profondo dell’Inferno23. Nell’anno 1400 una piccola folla s’era radunata, una sera come tante, di fronte alla chiesa di San Vincenzo a Siena e fra questi c’era un certo Lomo, che si rivelò essere il pollo di turno, visto che perse tutti i suoi averi; per questo se la prese con l’immagine dell’Annunziata che coronava il portale dell’edificio sacro, colpendola con una pietra, ma,

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com’ebbe modo di vedere coi propri occhi un’anziana donna che proprio in quel momento usciva di lì e che quindi se lo trovò in faccia, non appena ebbe scagliato il sasso cominciò a «enfiare come un botticello» e poco dopo la mezzanotte se n’era già bell’e andato all’altro mondo. Quella signora non sapeva – o fingeva di non sapere – che quella storia era stata proposta già centinaia di volte dalla letteratura sui miracoli della Vergine Maria24. Di notte accadeva pure che questi luoghi divenissero segreti punti di incontro per gli amanti adulterini: il buio dei cimiteri, in particolare, offriva un sicuro riparo dagli sguardi indiscreti, a patto che non si avesse paura di imbattersi nell’anima di qualche defunto – cosa che era ritenuta ancora più probabile se c’era stata un’inumazione in giornata. Nelle campagne vi si svolgevano anche balli e danze di contadini che un autore di inizi Trecento come Domenico Cavalca giudicava «lascivi», se non altro per il fatto che il movimento faceva sì che si mostrasse la nudità delle braccia e delle gambe: a quanto pare avevano luogo in pieno giorno e capitava che sottraessero pubblico alle funzioni liturgiche, al punto che si poteva persino affermare «che questi e queste cotale saltatrice, cantori e cantatrice sono chierici e religiosi del diavolo che fanno l’uffizio e ’l canto al suo onore»25. Nelle località del contado capitava non troppo di rado che, in un certo senso in concorrenza o in alternativa alla chiesa e ai riti liturgici, fossero frequentati altri luoghi, come radure insignite dalla presenza di maestosi alberi, sorgenti, polle d’acqua e rocce dalle qualità singolari, perché associati con qualche pratica propiziatoria della fecondità, di un buon raccolto, della produzione di latte materno, e così via. Benché le fonti letterarie siano molto poco loquaci a questo proposito, capita di tanto in tanto di imbattersi in testimonianze che non si riescono a capire se non in una prospettiva «folklorica»: alcuni anni fa, ad esempio, nel rimuovere gli intonaci sulle pareti di fondo delle fonti pubbliche di Massa Marittima, è tornato alla luce un affresco, databile attorno al 1265, che ha suscitato la meravi-

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glia dei restauratori della Soprintendenza senese, giacché il tema che vi è rappresentato supera qualsiasi regola del bon ton attribuito alla pittura medievale; vi si vede infatti un albero che produce frutti tanto singolari quanto possono esserlo dei membri virili e un gruppo di donne che, per coglierli e metterli dentro i cesti, allungano le braccia, si esercitano nell’uso di bastoni uncinati e persino litigano fra di loro tirandosi per i capelli (Tav. 2). È probabile che quest’immagine vada intesa come l’illustrazione delle qualità propiziatorie della fecondità che dovevano essere connesse all’acqua della fonte, anche se è difficile non ravvisarvi pure un certo tono umoristico26. La fronte della chiesa La dignità di una chiesa si leggeva già sulla sua facciata. In primo luogo aveva un suo peso il numero delle porte: più ce n’erano (ossia tre, anziché una come nella maggior parte dei casi), più l’edificio dimostrava di essere importante. In secondo luogo giocava un ruolo fondamentale la ricchezza e la varietà delle decorazioni, soprattutto se si ottenevano begli effetti cromatici per mezzo di incrostazioni marmoree; Opicino de Canistris andava orgoglioso del fatto che alcuni edifici sacri di Pavia fossero ornati sul fronte e sui lati con diverse immagini, decorazioni e sculture, e fra queste si distingueva soprattutto San Michele Maggiore, «che è decorato di una bellezza incredibile e degna di ammirazione»27. Nel caso degli edifici più sontuosi, che spesso amavano rievocare le caratteristiche architettoniche delle basiliche paleocristiane, gli ingressi potevano essere preceduti da un porticato coperto, come un atrio o nartece, frequente soprattutto in età romanica. Al di sotto di queste logge non erano solo i mendicanti a trovar riparo: anche chi esercitava alcune attività finanziarie, come i cambiavalute, i notai, gli speziali e i mercanti in genere, soleva recarsi in quest’ambiente per svolgere le proprie contrattazioni. Tale spazio «liminale», al confine tra la

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città profana e la sacralità del tempio, conferiva agli scambi e ai commerci un’assicurazione contro le frodi e i furti; nel portico della cattedrale di San Martino a Lucca un’iscrizione risalente al 1111 dichiarava che, sulla base di un giuramento pronunciato dai cambiatores e dagli spetiarii della città, sotto quelle volte ognuno avrebbe potuto cambiare il proprio denaro, vendere e comprare senza tema di essere ingannato28. La facciata poteva ospitare figurazioni di diverso genere, sia di significato simbolico che iconico o narrativo. Il liturgista Giovanni Beleth, fra le immagini destinate a una collocazione in fronte ecclesie, ricorda specificamente «il bue e il leone», probabilmente alludendo alle figure di animali che erano utilizzate nella decorazione dei portali o come elementi stilofori posti a supporto del protiro (la struttura voltata posta a riparo dell’ingresso centrale)29. Nei nuovi edifici di concezione gotica, nella fattispecie al di là delle Alpi, uno dei temi più sfruttati nella decorazione dei portali era il Giudizio universale, utilizzato chiaramente allo scopo di impressionare il fedele che, nel momento in cui varcava la soglia dell’edificio sacro lasciandosi alle spalle la sua vita mondana, doveva essere indotto a meditare sulla sorte della sua anima; i rilievi di Lorenzo Maitani sul prospetto del duomo di Orvieto rimandano eloquentemente a questa consuetudine decorativa, anche se nell’uso italiano la collocazione più usuale per il tema viene individuata piuttosto sulla controfacciata, dove le è attribuito un analogo significato «liminale»: qui la ritroviamo, tanto per fare qualche esempio, nel mosaico di Santa Maria Assunta a Torcello (sec. XII) e in tutta una serie di affreschi realizzati fra Due e Trecento (come a Santa Maria in Vescovio, in Santa Maria Maggiore a Tuscania, nella cattedrale di Atri o nella Cappella dell’Arena di Padova, decorata da Giotto)30. Fra tutti gli schemi iconografici in uso nel XIII e XIV secolo il Giudizio era senz’ombra di dubbio il più spaventoso e lo si faceva rappresentare appositamente allo scopo di terrorizzare l’osservatore. Con tutta probabilità era proprio a questo tema che Boccaccio pensava quando, in una novella

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del Decameron, fece dire a uno dei suoi personaggi che tra le attività preferite dei frati c’era «ispaventare con dipinture» la povera gente, con l’obiettivo neanche troppo celato di impadronirsi dei suoi danari31. Certo è che in quest’epoca, man mano che l’immaginario dell’aldilà si arricchiva – sia sul piano teologico che su quello letterario – di dettagli e nuovi elementi, si registrava la tendenza a rappresentare analiticamente, e talora morbosamente, i diversi e singoli supplizi che sarebbero stati inflitti alle anime dannate; i fedeli dovevano rimanere colpiti e sconvolti dalla crudeltà parossistica con cui i diavoli, che assumevano forme sempre più bestiali e mostruose, si accanivano fisicamente contro i malcapitati peccatori, ma al contempo avrebbero potuto rassicurarsi guardando alla parte della composizione (a destra di Cristo, ossia alla loro sinistra) in cui erano raffigurati i giusti benevolmente accolti tra le schiere dei beati. D’abitudine, nelle chiese dell’epoca la facciata ospitava soprattutto le immagini, scolpite o dipinte, dei santi a cui l’edificio era dedicato, per lo più concentrate entro lo spazio ristretto della lunetta sovrastante il portale. L’ingresso centrale, in particolare, svolgeva il ruolo specifico di manifestare pubblicamente l’intitolazione e l’affiliazione istituzionale del luogo sacro. Una formula compositiva molto diffusa nel Trecento prevedeva la presenza al centro della Vergine col Bambino, affiancata dal santo titolare nel posto d’onore (ossia sulla destra) e da un altro personaggio sacro sulla sinistra: quest’ultimo poteva essere, a seconda dei casi, il patrono della città oppure – più frequentemente – un santo rappresentativo dell’Ordine, della congregazione o dell’ente a cui la chiesa apparteneva. Questo genere di composizione, per la sua collocazione e la sua evidenza visiva, aveva un impatto sull’osservatore paragonabile unicamente a quello degli oggetti figurativi che erano posti sopra l’altar maggiore, e per questo non c’è da meravigliarsi che singoli individui anelassero ad introdursi, per mezzo dei propri ritratti, al loro interno: per godere di un simile privilegio c’era un solo, efficacissimo si-

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stema, quello di finanziare l’esecuzione dell’opera e chiedere in cambio la possibilità di farsi rappresentare al suo interno in atto di raccomandare la propria anima a Dio. Grazie a una simile ubicazione l’intera città sarebbe stata indotta a riconoscere i meriti spirituali che il finanziatore si era guadagnato concorrendo a rendere l’edificio più bello e più devoto. Uno degli esempi più impressionanti in questo senso è il sontuoso portale della chiesa dei frati Minori di Vicenza, realizzato tra il 1342 e il 1345 grazie al cospicuo lascito testamentario di un privato, Pietro da Marano detto «il Nan» per la sua statura nettamente inferiore alla media. Nella lunetta sono stati senz’altro rispettati i parametri fondamentali che costituiscono l’articolazione iconografica: c’è la Vergine al centro, c’è il titolare della chiesa, san Lorenzo, e c’è san Francesco, ossia il fondatore dell’Ordine mendicante a cui l’edificio appartiene; in aggiunta, tuttavia, riconosciamo chiaramente «il Nan» in ginocchio e con le mani giunte, e con indosso le vesti minoritiche come si conveniva ai benefattori laici, a cui, su richiesta, era concesso il privilegio della sepoltura in habitu Ordinis, ossia col saio francescano (Fig. 6). In questo modo il significato universale dello schema iconografico veniva piegato a trasmettere un messaggio particolare: quei santi erano raffigurati, di fatto, mentre si impegnavano a intercedere specificamente per quell’anima, e tutti coloro che, entrando in chiesa, non potevano evitare di vedere quell’immagine erano tacitamente invitati a ricordarsi della salute spirituale di quel povero defunto. Si trattava di una soluzione, a conti fatti, abbastanza modesta per uno che aveva contribuito in modo sostanziale all’abbellimento della chiesa e all’incremento della fama di quei buoni frati. Non mancò tuttavia chi si fece ancor meno scrupoli e arrivò addirittura a collocare il proprio sepolcro sopra l’ingresso, come si vede ad esempio col monumento funebre del signore di Verona Cangrande I della Scala († 1329) in Santa Maria Antica a Verona32. Quest’ultima era uno dei tanti edifici che, nelle città italiane tardomedievali, veniva gestito direttamente da singoli

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individui o dalle loro famiglie attraverso l’esercizio del patronato; poiché la manutenzione era interamente a loro carico, i privati si sentivano particolarmente liberi di decidere anche sulle caratteristiche monumentali e sui programmi iconografici. A Viterbo la graziosa cappella di Santa Maria della Salute, costruita negli anni Venti del Trecento da un privato cittadino di nome Fardo, reca un portale scolpito che è quasi esclusivamente una celebrazione delle virtù del committente: in mezzo a sontuosi girali di vite sono illustrate analiticamente le opere di misericordia che quel signore – che si era distinto in particolare per aver fondato lì vicino un ospizio per le prostitute redente, cioè «pentite» della loro peccaminosa attività – poteva vantarsi di aver compiuto (Fig. 7)33. Le modalità di decorazione delle facciate variavano naturalmente da edificio a edificio, e si può dire che si andava dall’estremo dell’assoluta aniconicità alla sovrabbondanza di opere figurative che, realizzate in diverse tecniche, rivestivano la superficie; questa variabilità era spesso connessa alla grandezza e all’importanza delle singole chiese. Talvolta a distribuirsi sulle porzioni di parete adiacenti ai portali erano veri e propri cicli narrativi di diverso contenuto, come le rappresentazioni dei Mesi (resi attraverso il rimando alle singole attività agricole che si svolgono nel corso dell’anno) o i temi di significato astrologico. Potevano esser presenti anche veri e propri cicli relativi alle gesta del santo titolare: nel caso di San Martino a Lucca una serie di scene raffigurava i principali episodi della vita del patrono della città accanto al portale maggiore, sebbene in quest’ultimo fosse rappresentata l’Ascensione nella forma di un Cristo in maestà che sovrastava gli apostoli suddivisi in due gruppi ai lati della Vergine. Molto verosimilmente davanti a quest’ultima un inglese residente in città si curò di tenere accesa continuamente una lampada, come si apprende dal suo lascito testamentario del 1257: questo pone in evidenza come anche gli spazi esterni, specialmente quelli perpetuamente in ombra come l’atrio

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della cattedrale lucchese, potessero essere forniti di fonti di illuminazione autonome34. Talora si faceva ricorso alle pitture murali anche nelle porzioni di parete distinte dalla lunetta del portale, e si può congetturare che in grande misura queste ultime fossero associate con sepolture presenti sul terreno antistante, come quelle che si vedono ancor oggi, ad esempio, sul prospetto di San Francesco a Lucca (Fig. 5). L’uso di addossare alla facciata monumenti sepolcrali (detti avelli), così come si faceva lungo i lati comunicanti col perimetro effettivo dell’annesso cimitero, era talmente diffuso che, non infrequentemente, coloro che progettavano gli edifici prevedevano già la presenza di una serie di tumuli identici l’uno all’altro, disponendoli in sequenza lungo l’ordine inferiore dei muri. Questi avevano l’aspetto di cappelle-nicchia, ossia di strutture a terminazione arcuata (simili agli antichi arcosoli) ricavati nello spessore stesso della parete: alcune tra le soluzioni più elaborate si incontrano ancora ai nostri giorni in Santa Maria Novella di Firenze e in altre chiese delle principali città toscane, venete e lombarde35. Nelle chiese degli Ordini mendicanti, queste strutture venivano concesse ai principali benefattori e ai propri principali affiliati, tra cui i laici inquadrati fra i terziari, i conversi e gli oblati del convento, oppure i membri delle confraternite che gravitavano intorno alla comunità dei frati. La cavità che rimaneva libera al di sopra del sarcofago era di solito completata da un’immagine dipinta che suggeriva la protezione dei santi sulle anime delle persone lì sepolte: in qualche caso, piuttosto che di affreschi, si trattava di pitture su tavola, come quella raffigurante la Vergine e un gruppo di supplicanti che la compagnia dei Laudesi che faceva capo al convento del Carmine di Firenze fece dipingere nel 1280 per disporla sopra l’avello dei confratelli36. Le facciate dipinte sembrano esser state particolarmente diffuse, nella fattispecie nel tardo XIV e XV secolo, negli edifici sacri dell’area alpina. Occasionalmente, qualche viaggiatore di passaggio rimaneva colpito da questa curiosa consue-

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tudine: ad esempio il francese Pierre Barbatre, nel 1480, fu incuriosito da una «bella Passione di Nostro Signore» dipinta sull’esterno di una chiesa a Susa, fatto che forse può significare che, ai suoi occhi, doveva trattarsi di qualcosa di inconsueto37. Tra i temi più spesso raffigurati in tale ubicazione si annoverava la figura del santo-gigante Cristoforo, che era invocato come patrono dei viandanti: raffigurato in dimensioni colossali, doveva esser chiaramente visibile anche a chi gettava uno sguardo verso la chiesa da lontano; in questo modo, come si apprende dalle iscrizioni in versi che sovente accompagnavano le immagini, l’osservatore poteva ritenersi immune, nell’arco delle ventiquattr’ore, dalle malattie, dal dolore e anche da una morte improvvisa – nel senso che quest’ultima non avrebbe potuto essere di pregiudizio all’anima cogliendola nel peccato38. Un’innovazione degli ultimi secoli del Medioevo fu l’installazione di orologi meccanici, in grado di scandire il tempo in modo molto più esatto di quanto potevano fare i rintocchi delle campane, che corrispondevano alle ore liturgiche. Questi nuovi strumenti erano collocati, a seconda dei casi, sul prospetto dei palazzi pubblici, ovvero nelle sedi delle amministrazioni cittadine, oppure sulle facciate delle maggiori chiese; in virtù di quest’ultima collocazione, erano spesso associati con immagini di significato religioso, che talora potevano addirittura, per lo stupore degli astanti, mettersi in moto. I marchingegni più sensazionali erano senz’altro quelli costruiti dai maestri tedeschi, spesso attivi anche nella penisola italiana; uno di questo genere colpì profondamente il metropolita russo Isidoro durante la sua visita alla città di Lubecca: E vedemmo qui dell’ingegno [l’opera] irraggiungibile ed inenarrabile: semplicemente, come viva, siede la Purissima e sorregge in braccio il Redentore, in sembianze di fanciullo; e quando i rintocchi della piccola campana cominciano a risuonare dall’alto un angelo giunge in volo portando fra le mani una corona e la depone sulla Purissima; e avanza una stella, come se fosse in cielo; e fissan-

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do la stella le tengono dietro tre magi, e dinanzi a loro un uomo con una spada; dietro a loro, invece, un uomo con un’ascia; e portano doni a Gesù – oro, incenso e mirra; e giunti al cospetto di Gesù e della Madre di Dio s’inchinarono; e Cristo, voltatosi, benedisse loro e voleva prendere i doni con le mani, come i bambini, per giocare in grembo alla Vergine; essi s’inchinarono e s’allontanarono; e l’angelo prese il volo verso l’alto portando con sé la corona39.

Oltre la soglia dello spazio sacro Alla chiesa i fedeli accedevano dalla porta sulla facciata, mentre era riservato ai chierici il passaggio che dava sul chiostro della canonica, del monastero o del convento, e che immetteva direttamente nella zona più nobile e sacra dello spazio, quella prossima all’altar maggiore. Talvolta alle compagnie laicali che si riunivano in un ambiente annesso all’edificio sacro era concesso il privilegio di entrare attraverso una porta laterale: i Disciplinati, Raccomandati e Laudesi di Pisa, che avevano il loro comune luogo d’incontro nell’oratorio del Santissimo Salvatore posto in prossimità della chiesa domenicana di Santa Caterina, dovevano attraversare il cimitero e per questo erano tenuti a recitare in quel lasso di tempo «uno Pater nosso e una Ave Maria cum Requiem eternam» per le anime dei propri confratelli40. Tutti gli altri entravano dall’ingresso principale, che di per sé era caricato di un forte impatto simbolico, in primo luogo perché segnava il confine tra il mondo terreno, soggetto al peccato e alle insidie del demonio, e la «casa di Dio», in secondo luogo perché attraversare quella soglia corrispondeva ad abbandonarsi completamente a Cristo, giacché egli è, letteralmente, «la porta» (come è scritto in Gv 10, 9: Ego sum ostium). Allora come adesso, il comune senso della dignità dell’edificio di culto non permetteva che la sua porta rimanesse priva di un’adeguata serratura: non era bene infatti che, nottetempo, potesse rimanere aperta, col rischio di esser fre-

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quentata da delinquenti e buontemponi e di esporsi in particolare agli spiriti maligni, sempre in agguato contro la casa di Dio. Se non si correva ai ripari, potevano facilmente verificarsi situazioni incresciose come lo scherzo organizzato da un gruppo di giovinastri che, come racconta Franco Sacchetti, approfittarono del fatto che l’uscio di una chiesa non stava mai chiuso, in quanto il prete non voleva spendere i soldi del chiavistello, per legare un’orsa alla fune delle campane41. Animali più comuni s’aggiravano, con tutte le conseguenze che possiamo immaginare, nello spazio della navata: le disposizioni testamentarie di un alto prelato, che chiese per propria umiltà di esser sepolto all’ingresso del coro in modo che anche le capre e i cani potessero calpestare la sua tomba, la dicono lunga sui criteri di igiene diffusi all’epoca42. Era piuttosto comune che una lastra tombale venisse disposta anche presso la soglia del portale principale dell’edificio, per cui quando vi si entrava bisognava stare attenti a dove si mettevano i piedi. Non che l’atto di calpestarla fosse da ritenere particolarmente sconveniente, tuttavia non sarebbe stato male portar rispetto a quel defunto che probabilmente stava soffrendo le pene del Purgatorio e perciò aveva bisogno di qualcuno che recitasse preghiere per la sua anima; lui avrebbe ricambiato, d’altra parte, pregando per i vivi, e dunque l’interesse era reciproco, secondo un’interpretazione riduttiva e utilitaristica – ma ampiamente diffusa – della dottrina cristiana della comunione dei santi. Poiché dalla soglia dovevano passare tutti, è evidente che l’inumazione proprio in quel punto offriva un’opportunità in più di esser ricordati dai vivi: per questo non pensò male Ughetto del fu Donato Pieri, un cittadino lucchese, quando dispose nelle sue volontà testamentarie del 1289 di esser sepolto presso i gradini d’ingresso della chiesa del monastero di Guamo sotto una lapide recante l’iscrizione volgare Qui giace Ughetto Donati pregate Iddio per l’anima sua. La richiesta era esplicita, tutti l’avrebbero vista, molti l’avrebbero capita, qualcuno, forse, avrebbe accolto l’invito43.

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Naturalmente l’ingresso in chiesa era una di quelle azioni che si potevano anche fare con leggerezza, o con scarsa attenzione, ma una buona condotta avrebbe voluto che ci si attenesse ad alcune regole fondamentali. Così come quando si faceva visita a qualcuno si era tenuti ad onorare il proprio anfitrione, a maggior ragione bisognava mostrarsi rispettosi e devoti quando si entrava nella casa di Dio. Le donne, se ancora non l’avessero fatto, dovevano coprirsi la testa con un velo, conformemente a un uso che Franco Sacchetti attribuiva all’autorità del secondo papa, san Lino (67-76 d.C.): la sua decisione era stata motivata dalla preoccupazione di non destare «scandali», ovvero sconvolgimenti, tra i fedeli che assistevano alla messa44. I liturgisti insegnavano, più precisamente, che la testa coperta significava il maggiore coinvolgimento di Eva nel peccato originale, ragion per cui ogni esponente del sesso femminile doveva in quel modo manifestare la propria contrizione dinanzi al sacerdote nella misura in cui quest’ultimo rappresentava Cristo; d’altra parte, scriveva Durando, c’era stato un tempo in cui gli uomini e le donne si facevano crescere chiome rigogliose e sfruttavano l’occasione della messa per guardarsi a vicenda, cosa che, naturalmente, era considerata molto disonesta45. In conseguenza di questo fatto, si riteneva particolarmente degna di lode quella donna che, in segno di penitenza, avesse voluto velarsi in modo tale da lasciar liberi soltanto gli occhi46. Gli uomini, per converso, non erano ancora tenuti a togliersi il copricapo, o almeno le indicazioni in merito erano ancora imprecise: l’atto di scoprirsi la testa era reputato tassativo in alcuni momenti specifici della liturgia (nella fattispecie al momento dell’elevazione dell’ostia) oppure allorché ci si inchinava dinanzi alla croce, a una reliquia o all’immagine di Cristo e della Vergine. Il gesto che i rappresentanti di entrambi i sessi dovevano compiere appena entrati era segnarsi con l’acqua benedetta e inginocchiarsi in direzione dell’altar maggiore recitando una o più preghiere, ma qualche volta accadeva di non averne neanche il tempo: una vol-

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ta che il piovano Arlotto e un suo amico inglese erano andati a visitare la Santissima Annunziata di Firenze si trovarono subito davanti un frate che voleva convincerli a comprare candele e torchi per la Madonna47. Se si entrava in chiesa in un momento particolare, come ad esempio durante la lettura del Vangelo e dell’Epistola, si raccomandava di limitarsi al segno della croce e a una semplice inclinazione del capo48. A condizioni normali, la prima cosa da fare era cercare la pila dell’acqua santa (Fig. 8), che stava sempre alla propria destra ed era quindi facile da trovare anche se l’ambiente era buio e si andava a tentoni (come poteva capitare in quell’attimo necessario all’occhio per abituarsi alle nuove condizioni di luce). A Milano, nel secolo XIV, si consigliava vivamente di fare in questo modo: e quando tu entra ne la giexia, batendote lo pecto, toray de l’acqua benedeta, e butela sopra el capo49.

I liturgisti sostenevano che quest’uso risalisse a papa Alessandro I (105-115 d.C.), il quale aveva effettivamente disposto le modalità della consacrazione del sacro liquido50; il suo significato principale consisteva nel richiamare la purificazione che si era ottenuta col battesimo, cancellando le macchie del peccato dal proprio corpo e dal proprio spirito. Nella concezione comune, aspergersi con l’acqua santa corrispondeva a rendersi immuni, almeno per un po’, dalle insidie del demonio: in un famoso racconto di Cesario di Heisterbach (c. 1180-c. 1240), ampiamente sfruttato dai predicatori e dagli autori religiosi italiani del Trecento, a un cavaliere capitava di trascinarsi il diavolo nelle parti basse del suo abito; quando immergeva la mano nella pila della chiesa, Satana allarmato gridava di non toccarlo per nessuna ragione51. La funzione apotropaica del sacro liquido, cioè la sua capacità di tenere alla larga le entità maligne, era sfruttata normalmente anche in contesti diversi: si usava – e si è usato farlo fino a tempi relativamente recenti – richiedere al parroco un po’ di

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quell’acqua per disporla all’interno delle abitazioni private, nella fattispecie nelle stanze da letto dove si era maggiormente esposti alle insidie del Nemico; in un certo senso, si otteneva così il risultato di trasportare nel proprio ambiente privato un barlume dell’aura di potenza sovrannaturale che pervadeva lo spazio sacro52. Naturalmente, l’acqua avrebbe dovuto essere sempre limpida, senza impurità al suo interno; tuttavia, specialmente col decadere dell’istituto parrocchiale nel corso del XIV e XV secolo, persino questa poteva talora lasciare a desiderare. Stando a quanto si apprende dalle visite pastorali dell’epoca, nel contado era tutt’altro che raro imbattersi in acquasantiere ricolme di un liquido putrescente, divenuto covo di zanzare, mosche e finanche rane. Una delle facezie del piovano Arlotto mette in luce, d’altra parte, quanto i poveri preti di campagna potessero essere disinvolti nei confronti di questo elemento dello spazio sacro: per vendicarsi dei suoi parrocchiani che lo avevano escluso da un buon desinare, quel buontempone arrivò a riempire la pila per metà d’acqua e per metà d’olio, dimodoché, quando i fedeli giunsero in chiesa per la messa domenicale, si unsero completamente i vestiti – quelli buoni che indossavano nei giorni di festa53. Gesti e prostrazioni L’atto di segnarsi era uno dei più importanti e suggestivi dell’uso cristiano, che traduceva alla lettera l’invito a ‘prendere su di sé la croce’ espresso dalle Sacre Scritture (Mt 10,38). A questo gesto si ricorreva spesso e in circostanze diverse: lo si faceva prima di andare a letto, lo si ripeteva appena alzati, lo si usava senz’altro prima di mettersi a tavola o anche prima di uscire di casa. A quello che si disegnava sul proprio corpo all’ingresso in chiesa spettava senz’altro un valore tutto particolare, giacché prevedeva in un certo senso una controparte divina che, ancorché onnipresente, lì si percepi-

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va come fisicamente prossima. In quel momento, infatti, si doveva cercare con lo sguardo la zona dell’altare: in quel punto strutture architettoniche, elementi di arredo e immagini monumentali contribuivano in vario modo ad enfatizzare la sensazione della presenza divina, ad esempio con la rappresentazione di Cristo in maestà nella semicalotta absidale; non è un caso se nella decorazione della basilica romanica di Castel Sant’Elia presso Nepi, nella Tuscia laziale, l’effigie è accompagnata da un’iscrizione che invita coloro che entrano a rivolgere immediatamente lo sguardo verso di lei (O vos qui intratis me primum respiciatis)54. All’epoca la forma del gesto non era stata ancora stabilita con esattezza. Si ha motivo di ritenere che, se non altro nel XII e XIII secolo, sia la benedizione che l’atto di segnarsi fossero espressi con tre dita, ossia con mignolo e anulare piegati, medio e indice accostati e pollice volto all’insù55, secondo la maniera condivisa anche dai greci. Questi ultimi, tuttavia, in una serie di scritti polemici antilatini, osservavano come in Occidente vigesse una lamentabile anarchia in materia, e in particolare si dichiaravano infastiditi dalla frequenza con cui quei loro correligionari ricorrevano per segnarsi all’intero palmo della mano. La direzione del gesto era, come apprendiamo da un’opera di papa Innocenzo III, dalla testa al petto e dalla spalla destra alla sinistra, ossia nel modo tuttora in vigore presso la Chiesa ortodossa; senonché è proprio una fonte bizantina di poco più tarda a segnalarci l’uso latino del movimento opposto, da sinistra a destra, che è lo stesso attualmente utilizzato dai cattolici56. Molto verosimilmente l’incongruenza di queste informazioni tradiva il dato di fatto della varietà di costumanze rituali ancora non sottoposte a una precisa disciplina da parte della curia romana; anche Guglielmo Durando, nel suo Rationale, constata l’esistenza di modalità diverse e prova a giustificarle tutte in chiave simbolica: A onor del vero, alcuni si segnano dalla fronte verso il basso, in un gesto che esprime il mistero per cui Dio inclinò i cieli e discese sulla

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terra [...]. Quindi [portano la mano] da destra a sinistra [...]. Altri invece dirigono il segno della croce da sinistra a destra [...]. Cominciano infatti a segnarsi dalla parte superiore, che significa il Padre, e scendono in quella inferiore, che designa il mondo; quindi dalla parte sinistra, che è l’inferno, si spostano a destra, che significa il cielo.

La principale difficoltà consisteva nel fatto che il segno della croce poteva essere amministrato da chiunque su di sé e dai soli chierici sugli altri, attraverso il gesto della benedizione; l’impossibilità di un criterio univoco derivava, in ultima analisi, dal fatto che a seconda del punto di vista la direzione sarebbe risultata per forza di cose invertita: Bisogna considerare, tuttavia, che coloro che fanno il gesto da sinistra a destra impongono lo stesso segno su di sé e sugli altri; ma in quel caso fanno su di loro un segno di croce da destra a sinistra, giacché quelli che così contrassegnano non sono girati di spalle, bensì si presentano di faccia. Quando è principalmente su altre persone che imprimono il segno della croce, anche se su se stessi lo fanno da sinistra a destra, sugli altri lo formano da destra a sinistra57.

Se da questo dilemma non si usciva, molto più chiaro era il significato dell’atto di segnarsi, che scacciava le tracce del Maligno e purificava la persona. Immediatamente dopo bisognava manifestare di fronte a Dio la propria umiliazione: quest’ultima non era soltanto un modo metaforico di prender coscienza della propria condizione di peccatori, bensì coincideva con un atteggiamento del corpo che comportava l’inclinazione verso il basso e poteva oscillare tra i due estremi della genuflessione e della completa prostrazione. Il gettarsi supini sul pavimento era una delle posizioni di preghiera più antiche e più cariche di intensità emotiva, e come tale era praticata in particolare nei contesti monastici; affine era la proskynesis, ossia una posa in ginocchio che prevedeva però l’incurvatura del busto fino a terra. Nel Due e Trecento i fedeli laici usavano per lo più inginocchiarsi in direzione dell’altare accostando le mani davanti al petto58.

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Toccare il suolo, all’interno di una chiesa dell’epoca, poteva non essere perfettamente conforme ai moderni standard igienici. Non necessariamente ogni sezione dello spazio sacro era coperta con un impiantito: questa era una prerogativa delle maggiori e più ricche chiese che potevano vantare preziosissimi pavimenti resi con la tecnica dell’intarsio marmoreo, come quelli realizzati dalla famiglia romana dei Cosmati, mentre a edifici meno privilegiati poteva persino toccare la semplice terra battuta o una semplice gettata di calcestruzzo; ad esempio, quando i primi frati Predicatori giunsero in Sant’Eustorgio a Milano, videro con loro grande sorpresa che addirittura nella zona del presbiterio, e nello spazio antistante l’altare, non c’era alcun rivestimento59. Quando c’era, d’altra parte, in una buona percentuale finiva per esser composto dalle lastre che coprivano le tombe dei privati benefattori che, sempre più frequentemente, chiedevano e ottenevano l’inumazione dentro la chiesa; tra le conseguenze di questi usi va segnalato l’odore nauseabondo che doveva emanare in modo più o meno intenso dal sottosuolo. Tra il declinare del Duecento e gli inizi del Trecento le probabilità che le ginocchia del visitatore di una chiesa si posassero sopra una tomba erano già abbastanza alte; verosimilmente questo non sarebbe stato affatto scandaloso per i defunti che vi erano sepolti giacché si riteneva che in qualche modo, se non altro per effetto della prossimità fisica, le loro anime avrebbero potuto beneficiare delle preghiere che venivano lì recitate. Era senz’altro più da temere la scarsa pulizia del pavimento: anche se si riteneva indispensabile mantenere l’edificio in condizioni di decenza, capitava facilmente, sia per la frequentazione del luogo che per le cattive abitudini dei visitatori, che per terra si accumulasse sporcizia; sputare e grattar via le impurità della pelle doveva essere all’ordine del giorno se, almeno durante gli offici, si raccomandava di farlo in «un luogo adatto» oppure di disperdere ogni traccia passandoci la scarpa sopra. I chierici, stando al Boccaccio, si associavano pienamente a questi pessimi usi60.

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La posa in ginocchio con le mani giunte era associata specificamente con l’intento di esprimere la volontà individuale di porsi sotto la protezione di una persona potente e, al contempo, di ottenere da lei una grazia o una concessione importante. Come tale, era utilizzata anche nel rituale dell’omaggio vassallatico, ossia l’atto con cui un aristocratico di rango subalterno manifestava il suo porsi sotto la tutela del proprio signore, ed era anche memore dell’atto della manumissione, con cui veniva resa simbolicamente la libertà agli schiavi; la differenza era che un solo ginocchio, anziché due, era posato a terra. Nella percezione comune, corrispondeva al desiderio di esprimere affiliazione al proprio interlocutore, ossia di raccomandarsi alla sua potenza e di mettersi, letteralmente, nelle sue mani; tale intento valeva, ed era pertanto marcato dalle stesse pose e dagli stessi gesti, sia che ci si rivolgesse a un personaggio terreno sia che ci si raccomandasse a un patrono celeste. Era infatti questo l’atteggiamento da tenere quando si otteneva udienza, ad esempio, dall’imperatore: un dignitario ci avrebbe condotto dinanzi al trono, ci avrebbe fatto inginocchiare e quindi, a un suo cenno, avremmo avuto la possibilità di esprimere, a mani giunte e col capo chino, la nostra petizione; desiderosi di ottener risposta, avremmo alzato lo sguardo verso Sua Maestà Imperiale, nell’attesa di conoscere la sua decisione. Faceva parte del gioco, probabilmente, l’indifferenza ostentata dal sovrano, che faceva crescere l’ansia nel postulante: Arrigo VII, ad esempio, si divertiva a tagliare il legno con un suo coltellino, a vagare con gli occhi e a tenere i suoi interlocutori sulle spine61. Il silenzio, ben calibrato, poteva essere interrotto all’occorrenza da un consigliere o, meglio ancora, dalla regina, e a quel punto l’impasse si sarebbe sciolta in un modo o nell’altro. Tale contegno, se valeva per il monarca terreno, ancor più era giustificato al cospetto del sovrano celeste: bisognava manifestare la propria completa dedizione per poter chiedere in cambio una vita decente in questo mondo e la salvezza nel-

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l’aldilà. A seconda del proprio stato d’animo, naturalmente, il gesto poteva essere interpretato con intensità maggiore o minore: il capo inclinato avrebbe enfatizzato l’aspetto reverenziale della devozione, mentre lo sguardo diretto verso l’alto avrebbe dovuto essere immediatamente interpretato come una richiesta diretta ed esplicita di benedizione divina. Poiché la posa in sé rimandava a uno stato di soggezione e subalternità, come quella dello schiavo nei confronti del padrone, si considerava improprio ricorrervi durante alcune solennità dell’anno come la domenica di Pasqua, in cui Cristo riscattava col suo sacrificio l’umanità peccatrice, o il giorno di Pentecoste, in cui il popolo cristiano riguadagnava la propria «libertà» grazie alla discesa dello Spirito Santo, e in generale, secondo Durando, nelle maggiori feste, quando i fedeli compartecipavano della gioia sempiterna con gli angeli e i santi: allora bisognava limitarsi a inclinare la testa e non inginocchiarsi se non in presenza delle specie eucaristiche62. I frequentatori delle chiese: le donne Gli intenti di coloro che frequentavano le chiese si assomigliavano, ma potevano naturalmente assumere sfumature diverse, sulla base, ad esempio, dell’intensità della loro devozione. La signora che abbiamo immaginato ispirata dai consigli di fra’ Girolamo da Siena doveva rappresentare una sorta di modello ideale: il suo scopo era raccomandarsi alla clemenza divina, assistere costantemente agli offici sacri e recitare le proprie preghiere; anche se era senz’altro consapevole dei rischi a cui andava incontro esponendosi pubblicamente e partecipando a eventi a carattere eminentemente sociale come le funzioni religiose, probabilmente non se ne curava affatto e si atteneva a un contegno modesto, pudico e rispettoso. Una signora come questa mai avrebbe pensato di comportarsi in chiesa come se fosse in una riunione di comari; al contrario, avrebbe evitato accuratamente di scambiar chiacchiere

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con le amiche e le vicine in quel sacro luogo, giacché per la conversazione c’erano altre occasioni più adatte. Ella avrebbe dovuto concentrarsi sulla preghiera e fare molta attenzione a non dare nell’occhio, ovvero a stuzzicare l’attenzione degli uomini lì presenti, visto che, stando ai racconti certo compiaciuti dei novellieri, non solo ai maschi laici, ma anche ai religiosi capitava non troppo di rado di perder la testa per qualche bella donna proprio durante le funzioni. Le regole dunque che valevano nella pubblica via a maggior ragione andavano adottate in chiesa: assolutamente vietati erano i capelli scoperti, il trucco e i vestiti sgargianti, attillati e scollati. Tuttavia, quanto più i predicatori e gli autori di trattatelli morali insistevano su questo punto, tanto più disattesi dovevano essere i loro consigli. Se il IV Concilio Lateranense, nel 1215, ammoniva i sacerdoti a non prestare orecchio alle chiacchiere dei laici durante la messa, vuol dire che la partecipazione del «popolo» ai riti doveva essere piuttosto disinvolta63. Giordano da Pisa accusava le donne fiorentine di immodestia perché, nel presentarsi in chiesa, erano mosse più dalla vanità che dall’amor di Dio. Le grandi dame di Francia osservavano un contegno infinitamente più dignitoso e pudico: assistevano all’officio col breviario in mano, vestivano in modo decente, «di panno onesto, e tutte coperte»64. In termini assai più pesanti e misogini, il Corbaccio descrive il comportamento ambiguo di una vedova che, come si usava all’epoca, si era stabilita come conversa in una casetta posta in vicinanza di un convento francescano. Sarebbe stato ragionevole chiedersi se l’avesse fatto per devozione o per comodità, ma il suo defunto marito – ossia il protagonista di quest’opera di Boccaccio – su questo punto non aveva dubbi: l’aveva fatto per soddisfare il pungolo della sua sfrenata ed ipocrita libidine. Quella vedova, infatti, intendeva frequentare la chiesa non affatto per udir messa o per raccogliersi in preghiera, bensì «per tirare l’aiuolo», ossia per adescare i «giovani prodi e gagliardi e savi» che la frequentavano. Per questo si avvaleva di una raffinata tecnica di seduzione che si basava sul sottile di-

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scrimine tra l’apparenza e il desiderio. Pubblicamente girava avvolta in un mantello nero tirato fin sopra gli occhi, ma era sempre pronta, se l’occasione si rivelava propizia, a scoprirsi il volto e ad esibire la mano bianca, che risaltava ancor più nel contrasto con la sua veste. Una volta oltrepassata la soglia dell’edificio sacro, così, dissimulando, disponeva la sua esca: Giunta adunque nella chiesa e non sanza cautela avendo riguardato per tutto, prestamente avendo raccolto con gli occhi chiunque v’è, incomincia, senza ristare mai, a faticare una dolente filza di paternostri, or dall’una mano nell’altra, or dall’altra nell’una trasmutandoli, senza mai dirne uno, sì come colei la quale ha faccenda soperchia pur di far motto a questa e a quell’altra e di sufolare ora ad una, ora ad un’altra nell’orecchie e così d’ascoltarne ora una, ora un’altra; come che questo molto grave le paia, cioè d’ascoltarne niuna, sì bene le pare sapere dire a lei; e in questo, senza altro far mai, tutto quel tempo, che nella chiesa dimora, consuma65.

La signora in realtà si atteneva all’atteggiamento conveniente al suo status di vedova e conversa: dai suoi gesti si intuiva che trascorreva le sue giornate a recitar preghiere per l’anima del marito, giacché si vedeva chiaramente che, a intervalli regolari, faceva passare tra le dita i chicchi (detti paternostri) del suo circulum precatorium (l’antenato del moderno rosario, di derivazione musulmana)66. In realtà il defunto sapeva che non stava dicendo nulla perché non percepiva nessun sollievo nella sua pena in Purgatorio: tutta quella era in realtà una messinscena destinata a compiacere la vista dei bei giovani che, sin dal suo ingresso, aveva adocchiato. I penitenti in chiesa Era pressoché inevitabile che le chiese, in quanto luoghi di aggregazione per eccellenza, potessero essere utilizzate impropriamente anche come contesti in cui uomini e donne si co-

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municavano emozioni attraverso il gioco degli sguardi. D’altra parte, i fedeli erano abituati ad associare lo spazio sacro con l’esercizio della visione: qui ognuno doveva esibire se stesso all’attenzione altrui – del clero, dei propri concittadini, delle potenze ultraterrene – e al contempo sforzarsi di partecipare attraverso la vista al rito e in particolare ai suoi momenti più solenni. Qualsiasi gesto, qualsiasi posa o attitudine del corpo esprimeva un messaggio che era nello stesso momento rivolto a Dio ed esposto allo sguardo degli altri: se da una parte doveva essere recepito dalla divina misericordia e quindi doveva corrispondere a un sincero atto di devozione, dall’altra, per il fatto stesso di essere svolto in un contesto pubblico, era investito anche di un significato autocelebrativo, giacché gli astanti sarebbero stati impressionati favorevolmente dall’intensità di una preghiera o di una qualsiasi forma di umiliazione. Se si accorreva nell’edificio coscienti di correre un grave pericolo, oltre a piegare le ginocchia era bene «far croce delle braccia» sul proprio petto: questa estrema assimilazione del proprio corpo al sacrificio di Cristo era comunemente adottata anche da chi si arrendeva alla furia del nemico implorando che gli fosse risparmiata la vita67. Tale doveva essere anche il gesto compiuto da coloro che si rifugiavano in chiesa per avvalersi dell’immunità penale che il diritto, richiamandosi all’antica norma del Confugere ad statuas (o diritto d’asilo), garantiva loro. Per chi, viceversa, riteneva di esser scampato alla morte per intercessione del proprio santo protettore, c’erano mille modi diversi per enfatizzare la propria completa e totale umiliazione: ci si poteva presentare in chiesa in un abito misero e non allacciato in cima, alla maniera dei penitenti, senza mantello e a piedi nudi, magari anche con un cappio legato al collo e col volto bagnato di lacrime. Nell’inginocchiarsi si avrebbe avuto cura di sollevare l’abito, in modo che le gambe potessero posarsi nude sul pavimento ruvido e sporco. Tra le persone desiderose di manifestare pubblicamente il proprio pentimento c’erano i grandi peccatori – come, ad esempio, i rei d’omicidio volontario – che ricorrevano all’uso

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della cosiddetta «penitenza solenne», una cerimonia che aveva inizio ogni anno il mercoledì delle Ceneri nella cattedrale cittadina, quando i singoli «pentiti», dopo essersi confessati, chiedevano espressamente di esser puniti con l’incarcerazione in un ambiente annesso all’edificio. Si trattava di solito di una cella collocata sull’esterno, lungo uno dei lati o anche tra le volte del portico d’ingresso, dotata di aperture che consentivano ai passanti di guardare dentro. Lì bisognava rimanere per tutta la durata della Quaresima giacendo su un pagliericcio, indossando un’aspra tunica, senza potersi lavare e con l’obbligo di fare ogni notte e ogni giorno cento genuflessioni accompagnate dalla recitazione di altrettanti paternostri68. I peccatori comuni che trovavano utile ricorrere a pratiche di automortificazione fisica, come la flagellazione (Fig. 10), dovevano essere affiliati a una compagnia di Battuti e far uso, con i propri confratelli, di un ambiente apposito, ovvero di una cappella adibita alle riunioni confraternali: ci si poteva battere con lo scudiscio anche pubblicamente, per strada, durante le processioni rituali dei giorni di festa, ma l’esibizione di questa violenza sul proprio corpo era considerata del tutto fuori luogo all’interno dello spazio sacro vero e proprio. I membri di queste associazioni laiche, affiliate ora all’uno, ora all’altro ente religioso cittadino, erano tenuti, sulla base dei rispettivi Statuti, a rispettare delle regole di comportamento molto precise, ancorché non siamo in grado di valutare fino a che punto fossero realmente osservate. Certo è che, fin dai primi tempi, si cercò di suggerire un contegno da tenere negli edifici sacri che forse si auspicava che venisse adottato universalmente. Il lettore faccia conto, per un attimo, di essere un mercante del secolo XIII che è stato accolto in una compagnia di Battuti, ossia di persone che praticano su di sé la disciplina del corpo per mezzo di colpi di scudiscio ben assestati. C’è un luogo in città in cui ci si riunisce; è un luogo consacrato, dotato di altare e del relativo corredo, e può coincidere sia con un edificio autonomo sia con un vano architettonico adiacente e spesso anche comunicante con una chiesa (di so-

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lito appartenente a un convento); siccome però è anche il posto in cui ci si tolgono le vesti di tutti i giorni per indossare la cappa bianca che contraddistingue tutti gli affiliati, c’è anche chi lo chiama, confidenzialmente, lo «spogliatoio»69. Appena vi si entra, dopo aver indossato la cappa che si conserva, con tutte le altre, in una cassa posta vicino all’ingresso, bisogna inginocchiarsi davanti all’altare e recitare in silenzio almeno un paio di preghiere (poni caso, un paternostro e un’avemaria), dopodiché occorre dire, in modo che tutti i presenti odano, «Sempre sia laudato lo nostro signore Yhesu Christo crocifisso», al che i confratelli risponderanno all’unisono: «Sempre sia laudato e benedetto». A questo punto si ha licenza di alzarsi e disporsi al proprio posto, quello che è stato convenuto in precedenza, e attendere che siano presenti tutti i membri della Compagnia. A un certo punto il priore fa un cenno e tutti si denudano fino alla vita, a meno che la cappa non sia confezionata in modo tale da prevedere già un’apertura sulla schiena; dopodiché si comincia a battersi con lo scudiscio, ripetendo preghiere e senza muovere gli occhi da una parte e dall’altra, bensì avendo cura di tenerli fissi in direzione del crocifisso, che in questi ambienti non manca mai e, di solito, ha caratteristiche iconografiche che enfatizzano l’aspetto doloroso della Passione. Un primo colpo batte sulla schiena e fa abbastanza male, ma può essere anche lontanamente paragonato alle piaghe che il Nostro Salvatore ha ricevuto sul Suo corpo per la salvezza di noi peccatori? Secondo un calcolo ben diffuso, queste ultime ammonterebbero addirittura a 5.475, per cui, se vogliamo imitare la Sua Passione anche solo in minima parte, non dobbiamo essere tanto delicati verso il nostro corpo, quel corpo che è soggetto continuamente alle tentazioni e alle lusinghe del Maligno. Ecco allora che la scudisciata si fa un po’ più forte e stavolta ci fa nascere una smorfia sulle labbra, mentre gli occhi si posano sull’amara espressione che Cristo mostra nella sua immagine. Arriva il terzo, e poi il quarto, e poi il quinto colpo: ci sfugge un lamento, ma subito lo sguardo si incrocia con gli

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occhi spenti e sofferenti del crocifisso; è chiaro che non basta ancora, perché Lui ha sofferto per noi, si è immolato sulla croce per riscattarci dal peccato originale e offrirci una via di salvezza, in un supremo slancio di amore! Sesto e settimo colpo: stavolta la pelle comincia a rigarsi di sangue, ce ne accorgiamo perché sentiamo il fiotto caldo che scorre lentamente lungo la schiena, ed è allora che le ferite sulle mani, sui piedi e nel costato di Nostro Signore, così come sulla fronte offesa dalla corona di spine, ci sembra che acquistino un significato molto più evidente; ancora uno, due, cinque colpi e il dolore si farà acuto, terribile, intollerabile, cosicché potremo dirci finalmente più vicini a Lui e alla Sua sofferenza infinita. È tuttavia in questo frangente, al quindicesimo colpo, che il priore ammonisce, con un suo cenno, a posare gli scudisci; se ripeteremo l’esercizio integralmente tutti i giorni per un anno intero riusciremo ad eguagliare (in virtù del calcolo 15 x 365 = 5.475) le sofferenze del nostro Redentore70. Peccatori ed elemosine La disciplina fisica è comunemente ritenuta meritoria in quanto, attraverso l’adozione su di sé della croce, ossia di una parte delle sofferenze di Cristo, offre la possibilità di rimettere in pari (o tutt’al più di raddrizzare) la bilancia su cui vengono pesate le buone azioni e i peccati – e che di solito pende dalla parte di questi ultimi. C’è tuttavia un metodo che è molto meno doloroso e che forse il lettore troverà preferibile, anche se, a differenza del primo, non è gratuito. Si tratta della beneficenza, volta all’esercizio delle sette opere di misericordia o di altre attività pie, come ad esempio il sostentamento del clero e degli edifici sacri. Sebbene a questa medicina dell’anima si ricorra principalmente sul declinare della propria esistenza, e nella fattispecie nel momento in cui ci si accinge a dettare le ultime volontà, si verificano, nel corso della vita, numerose occasioni per contribuire finanziaria-

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mente alle necessità della Chiesa: sarà quindi considerato conveniente lasciare una piccola offerta nel momento in cui si visita un luogo di culto, soprattutto se questo coincide con un’importante solennità dell’anno liturgico. L’uso più comune prevede di depositare il denaro sulla mensa dell’altare. Di quest’uso ci dà un’attestazione molto interessante Franco Sacchetti in una novella che racconta di un fatto accaduto alcuni anni prima a San Miniato al Tedesco. Era la mattina del Venerdì Santo e per le strade della cittadina si aggiravano numerose compagnie di Battuti, precedute dal crocifisso e intente a prestare le proprie devozioni nelle chiese in cui capitava loro d’imbattersi. Nella locale prepositura ogni sorta di gente e di confraternite lasciò qualche moneta sulla sacra mensa e, verso mezzogiorno, quando ormai quel grande afflusso si era ridimensionato, il prete pensò bene di raccogliere il gruzzolo e metterlo al sicuro. Senonché, mentre ancora stava facendo i suoi calcoli, fece ingresso un nuovo gruppo di disciplinati e fra sé il chierico pensò che fosse meglio lasciar tutto sull’altare perché, alla vista di tutti quei soldi, i nuovi arrivati sarebbero stati stimolati ad aggiungercene ancora altri. Ma le cose non andarono esattamente come questi aveva supposto; infatti quelli, quando [...] ebbono dinanzi a quello altare orato inginocchione quanto vollono, vanno a baciar l’altare, e così giugnendo all’altare, uno di loro gittato gli occhi a quel monticello de’ dinari, mandato un poco la visiera dell’elmo, facendo vista di baciare l’altare, pose la bocca aperta su’ detti danari, e quanti con la bocca ne poteo pigliare, tanti ne pigliò...71

Le chiese più importanti, tuttavia, si provvidero abbastanza presto di un mobile apposito detto tronco o ceppo, il precursore della moderna cassetta delle elemosine, che tuttavia rispetto a quest’ultima poteva assumere forme anche molto curiose e bizzarre. Se infatti un centro eminente del cristianesimo occidentale come la basilica lateranense poteva vantarne un so-

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lenne esemplare in pietra (Fig. 9), nella maggior parte dei casi quest’oggetto era realizzato in legno e, nelle chiese piccole, era associato con l’altar maggiore oppure con un’immagine sacra, nella fattispecie il crocifisso monumentale che in molti edifici si ergeva al centro dello spazio sacro. Ancora il Sacchetti ce ne illustra vividamente l’uso in una delle sue novelle ambientata a Perugia, nella chiesa di Sant’Agapito. Qui ogni domenica il prete, durante la messa, raccoglieva l’obolo, come d’uso, e riponeva i denari «in uno ceppo che era ivi presso collegato nel legno appiè d’un crocifisso», sempre ripetendo la frase evangelica: «Per uno riceverete cento e avrete la vita eterna» (Mt 19, 29). Un certo Petruccio, che non era molto perspicace, intese che quell’offerta gli sarebbe stata restituita con un interesse del 100%, ma dopo un po’ di tempo, vedendo che il pagamento non arrivava, decise di regolare la questione a modo suo: E toglie una scure, e vassene un dì nella chiesa, rimpetto al Nostro Signore, e dice: «Rendimi li miei denari». Nostro Signore si stava, e fermo e cheto; dice Petruccio: «E’ par che tu mi gabbi; e peggio, che non mi rispondi; per le chiabellate e per le budella, che conviene che tu mi paghi»; e dà della scure sì fatta nel ceppo, dov’erano i denari, che ’l ceppo si spezzò, e con tutti li denari e con lo crocifisso ne viene in terra. Veggendo Petruccio li denari per terra, ricolse li denari e dice: «Va’, tu non mi credevi; così t’acconcerò io, se non mi paghi; non ci ho ancor del sacco le cordelle», e vassene con dieci lire, o circa72.

Per la raccolta dell’obolo si usava una scodella oppure uno strumento più sofisticato, come il Bedel tedesco, sorta di contenitore piatto, a forma di scatola, sormontato da un’immagine sacra. Col diffondersi degli altari laterali fra Due e Trecento, al ceppo principale se ne aggiunsero altri anch’essi associati con le figure dei santi lì venerati, e in particolare con l’effigie della Madonna. La vicinanza a oggetti figurativi stimolava fortemente l’esercizio della pietà nelle sue varie forme, compresa l’offerta di denaro, come aveva notato critica-

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mente già Bernardo di Chiaravalle nel secolo XII: «Dalla vista di cose vane, ma ammirevoli gli uomini traggono maggior stimoli ad offrire che a pregare [...]; si mostra una bellissima rappresentazione di un santo o di una santa e la si ritiene tanto più sacra quanto più è colorata»73. All’occorrenza una statua destinataria di devozione e un tronco potevano essere collocati appositamente in bella vista (ad esempio in prossimità della porta d’ingresso) affinché chiunque entrava nell’edificio fosse indotto a lasciare l’elemosina; sappiamo che raccolte speciali, con questo sistema, venivano fatte quando c’era bisogno di raccogliere fondi per un lavoro da fare in chiesa, per sostentare una comunità religiosa o anche per organizzare una crociata. Ancora nel 1467, nel duomo di Siena, fu esibita l’immagine di un turco, caratterizzata verosimilmente in modo tale da far spavento, allo scopo specifico di indurre la gente a contribuire alle spese per una spedizione che avrebbe dovuto liberare Costantinopoli dal giogo ottomano74. Eretici, scettici, liberi pensatori, curiosi e professionisti Dietro gesti convenzionali come l’obolo, il segno della croce o l’atto di inginocchiarsi potevano nascondersi, talora, personaggi che si comportavano in realtà in modo poco ortodosso. Molti eretici frequentavano le chiese per non destare sospetti: in certi periodi, come durante il processo dell’Inquisizione a Bologna alla fine del Duecento, poteva bastare un atteggiamento ambiguo, non sufficientemente devoto, a ingenerare il rischio di una denuncia. «Quelli come loro», si diceva, «si trovano costretti ad andare in chiesa a propria giustificazione, perché la gente non li sospetti di appartenere alla tale o alla talaltra setta»; tuttavia, si capiva che qualcosa non quadrava se, ad esempio, li si vedeva stare molto attenti durante la lettura del Vangelo e dell’Epistola mentre si tenevano in disparte o si allontanavano all’elevazione dell’ostia. Un certo Ricevuto, che era uno scettico piuttosto che un se-

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guace di dottrine eterodosse, fu accusato di fronte al tribunale dei frati Predicatori perché quando si presentava all’officio – cosa che faceva solo di rado – non teneva il contegno degli altri fedeli che si emozionavano alla vista del corpo di Cristo, bensì muoveva gli occhi all’insù e di traverso75. Paradossalmente, fra gli scettici e gli eretici erano probabilmente piuttosto questi ultimi i più assidui nella partecipazioni agli offici liturgici. I primi erano prevalentemente mercanti, usurai, uomini di cultura (o scholari, come si sarebbe detto all’epoca) che non si ponevano in realtà contro la Chiesa, bensì ne criticavano certi aspetti superstiziosi e certi cedimenti a istanze di religiosità popolare che interpretavano come frutto della corruzione morale delle gerarchie ecclesiastiche. Se venivano scoperti (cosa che accadeva di solito grazie alla delazione di qualcuno che aveva motivi di risentimento verso di loro, magari per questioni di soldi), la pena comminata era relativamente leggera (se paragonata al rogo inflitto agli eretici recidivi): certi liberi pensatori, come un tale Zaccaria del fu Zanni Bondi Bolbi di Bologna che si era messo a dire che la Chiesa aveva perso la perfezione dopo papa Silvestro e che baci e abbracci fra uomo e donna erano leciti anche fuori dal matrimonio, venivano condannati a girare per la città con un segno di riconoscimento addosso (di solito una o più croci rosse, sul torace e sulla schiena) e ad assistere ogni domenica alla predica nella chiesa dei Domenicani o in quella dei frati Minori. Ovviamente non bastava mettersi da una parte e ascoltare le parole dell’oratore di turno, era anche necessario presentarsi a quest’ultimo per esibire pubblicamente, inginocchiandosi ai suoi piedi, il proprio atto di umiliazione dinanzi all’autorità ecclesiastica76. Diverse persone si recavano in chiesa senza avere specifiche finalità religiose, bensì col solo scopo di godere dello spettacolo delle opere d’arte che vi si conservavano, e magari per fare commenti non propriamente lusinghieri nei confronti del clero. Nel visitare la Porziuncola verso la metà del Duecento un alto prelato francese si ricordò di come da pic-

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colino fosse rimasto affascinato dalla parabola del Buon Samaritano raffigurata in una vetrata, senza riuscire a comprenderne il significato; un giovane gli aveva allora spiegato che quell’immagine dimostrava chiaramente che la carità e la solidarietà verso gli umili erano virtù dei soli laici, e non dei chierici che erano buoni solo a pensare per sé77. Talora, in situazioni simili, si aveva persino l’occasione per far battutacce salaci. Nella Vita di san Pietro Martire – il cui culto era stato promosso dai frati Predicatori non senza suscitare qualche riserva – si racconta di un gruppo di giovinastri che si ritrovò, un giorno come tanti, in Santa Maria Novella a Firenze; passando di fronte a una tavola che raffigurava la crudele uccisione del frate veronese a colpi di coltello e d’accetta per mano di un gruppo di eretici (cfr. Fig. 11), uno di questi ragazzi si lasciò scappare queste parole: Or vi foss’io essuto, ch’io avrei dato maggior colpo!78

Anche se l’agiografo sosteneva trattarsi di un giovane corrotto dall’eresia, la reazione si può interpretare più banalmente come una bravata, una stupidaggine buttata lì per far ridere gli amici; forse avrebbe evitato di dirla se avesse saputo che Dio, immediatamente, l’avrebbe reso muto per il resto della sua vita. Proferir motti e spiritosaggini era uno degli esercizi intellettuali più apprezzati nel secolo XIV, almeno a Firenze e nelle altre città della Toscana; in quest’arte, stando a scrittori come Boccaccio e Sacchetti, eccelleva Giotto di Bondone quasi allo stesso modo che nella pratica della pittura. Il maestro (che non amava questo appellativo) aveva abitudini non dissimili da quelle dei suoi concittadini: come loro, ad esempio, era solito andare ogni prima domenica del mese alla chiesa di San Gallo, dove si sarebbe potuto lucrare una buona indulgenza, e aveva costume di andarci assieme con la sua brigata di amici, colleghi e assistenti; tutto questo avveniva, bisogna osservare, «più a diletto, che a perdonan-

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za»: in altre parole, lo si faceva più per fare una passeggiata in compagnia che per altro. Visitata San Gallo e guadagnato il perdono, il gruppetto prolungava il proprio percorso girando per diverse altre chiese poste lì nei paraggi, e stavolta più per fini profani che religiosi, giacché si fermava in San Marco o nella chiesa dei Servi allo scopo specifico di guardare le pitture: questo, specifica Sacchetti, avveniva perché era «usanza», probabilmente non solo per i professionisti del pennello, ma anche per gli altri abitanti di Firenze (la frase incidentale che lo scrittore usa è utilizzata infatti in senso generico, non in riferimento ai pittori). Di fronte a una scena della Natività, uno della brigata domandò: «Deh dimmi, Giotto, perché è dipinto Josef così sempre malinconoso?». In effetti, nell’iconografia dell’epoca Giuseppe era sempre raffigurato in disparte, col volto corrucciato e pensieroso; il maestro ne spiegò il significato in modo immediato e caustico: «Non ha egli ragione, che vede pregna la moglie, e non sa di cui?». Questa battuta, che a noi pare un po’ volgarotta, quasi da conversazione al bar, ai compagni sembrò invece molto arguta, giacché lo lodarono molto «affermando non che Giotto fusse gran maestro di dipignere, ma essere ancora maestro delle sette arti liberali». In realtà, egli non aveva fatto altro che redarguire coloro che «vanno e guardano più con la bocca aperta, che con gli occhi corporei, o mentali»79. Qui si ritrova il tema caro a Sacchetti e a molti autori del Trecento per cui il linguaggio delle immagini, nella misura in cui era in grado di simulare la realtà, poteva facilmente trarre in inganno le persone semplici e indotte: in particolare l’arte di Giotto dimostrava che la pittura poteva esser realmente compresa solo dagli intelletti raffinati, giacché nelle sue opere «si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto». A siffatte schiere di sempliciotti apparteneva anche Calandrino, un pittore fiorentino di cui sappiamo poco o nulla (salvo che viveva nel quartiere di San Lorenzo e che morì nel

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1318) ma che è stato immortalato da Boccaccio in alcune celebri novelle del Decameron. Stando a quest’ultimo, egli aveva gran dimestichezza con due suoi colleghi, Bruno e Buffalmacco, nonostante che questi due lo considerassero la vittima predestinata delle loro beffe meglio costruite. Una volta, con la complicità di un altro giovinastro (Maso del Saggio), gli dettero a credere dell’esistenza dell’elitropia, una pietra che avrebbe dovuto rendere invisibile chiunque l’avesse portata con sé; l’idea della beffa fu suggerita a Maso dal modo assorto con cui lo vide intento ad osservare una pala d’altare: E per avventura – scrive Boccaccio – trovandolo un dì nella chiesa di San Giovanni [sc. il Battistero di Firenze] e vedendolo stare attento a riguardare le dipinture e gl’intagli del tabernaculo il quale è sopra l’altare della detta chiesa, non molto tempo davanti postovi, pensò essergli dato luogo e tempo alla sua intenzione...80

Evidentemente, guardare troppo intensamente le immagini dentro le chiese era considerato da qualcuno indizio di scarsa intelligenza.

III LE PARTI DELLA CHIESA Il corpo della chiesa Secondo una concezione ben diffusa, e ripetuta spesso nei commentari liturgici, l’articolazione interna delle chiese riproduceva quella del corpo umano e proprio in virtù di questo era scandita da una ben precisa gerarchizzazione spaziale: ogni edificio si suddivideva in tre zone il cui significato era definito dalla dignità morale delle persone che vi si disponevano durante gli offici (Fig. 1). Alla testa corrispondeva il «santuario», cioè il presbiterio, ovvero il luogo dove si ergeva l’altare e in cui risiedeva il sacerdote con i suoi assistenti durante la messa; lo spazio antistante, ossia il coro in cui le comunità di religiosi sedevano mentre assistevano al rito, assieme con i prolungamenti laterali (le due braccia del transetto, laddove presente) equivalevano chiaramente al busto con le braccia e le mani; infine, tutto quello che rimaneva verso occidente e verso la porta d’ingresso, ovvero la navata che era lo spazio riservato ai laici, poteva essere paragonato alla parte meno nobile della persona, quella dall’addome fino ai piedi. In questa disposizione tripartita si rispecchiava lo stato di perfezione spirituale di coloro che abitavano le diverse zone: in quella più ristretta, dove la liturgia veniva messa in atto, si riconoscevano immediatamente coloro che erano in uno stadio più avanzato. Se questi si attenevano a un ideale di verginità e purezza e i secondi perseguivano una vita da continen-

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ti, gli ultimi erano inevitabilmente associati alle debolezze mondane, giacché si sposavano e mettevano su famiglia, praticando il commercio carnale1. Secondo una concezione largamente diffusa, erano due i «generi» di cristiani, che differivano gli uni dagli altri «quanto la luce si distingue dalle tenebre»: c’erano le persone mondane che vivevano in uno stato di vita imperfetto, contaminato dal peccato, e c’erano quelli che, dediti agli offici e alla preghiera, agivano da mediatori per la comune salvezza del genere umano2. Un po’ come il busto è separato dalle parti disoneste del corpo dalla cintura, così, all’interno delle chiese del tardo Medioevo, i laici erano divisi dai chierici da diversi tipi di barriere architettoniche. In tutta una serie di edifici, perlopiù risalenti al periodo romanico, il coro, che era abitualmente delimitato da un «recinto» in pietra o legno, si disponeva sopra una struttura rialzata che sovrastava l’accesso a una cripta, ossia a un ambiente sotterraneo utilizzato per il culto di qualche antico e venerabile santo. Il dislivello, in qualche caso, poteva essere anche molto forte e molto probabilmente i fedeli dovevano avere una percezione piuttosto limitata (solo sul piano uditivo, molto meno su quello visivo) dell’azione liturgica. In altri contesti le singole zone erano contrassegnate semplicemente dalla presenza di recinzioni (cancelli) disposte sul livello del pavimento e sovrastate da elementi trasversali in legno o pietra (detti transenne), ai quali si fissavano veli per ostacolare la visione delle parti più nobili; talora tutti questi elementi erano uniti a formare strutture non molto dissimili dai templa, ossia le più antiche iconostasi delle chiese bizantine (Tav. 24). In entrambi i casi, si trattava di diaframmi sottili che potevano avere forme più o meno «aperte»: poteva trattarsi sia di una sequenza di arcatelle che, quando non erano coperte con le tende, lasciavano vedere la parte più nobile della chiesa (Tav. 5), sia di una superficie cieca e compatta, in cui erano ricavate una o più porte e, eventualmente, qualche minuscola finestrella (Tav. 4). Un elemento caratteristico dell’architettura occidentale

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era il ricorso, soprattutto nel contesto delle chiese monastiche subito imitate anche da quelle degli Ordini mendicanti, a un vero e proprio muro, talora di spessore molto profondo, che era detto jubé in Francia, Lettner in Germania, rood screen in Inghilterra e «muro dei cancelli» o «tramezzo» o anche «ponte» in Italia. La posizione più consueta era a metà circa della navata, ma non mancavano casi in cui, a seconda delle esigenze specifiche del luogo, si preferiva disporli più a ridosso del presbiterio o, persino (come nell’abbazia di Vezzolano in Piemonte), in stretta prossimità dell’ingresso; talora una chiesa poteva accogliere anche più di una barriera al suo interno, anche se va detto che abitualmente ciascuna di queste corrispondeva alla larghezza della navata centrale e non si estendeva necessariamente anche a quelle laterali. Di norma si trattava di strutture praticabili di varia foggia («a muro» oppure a forma di loggiato o di pergamo) in cui i celebranti potevano all’occorrenza salire per recitare qualche officio: vi era anche addossato il pulpito utilizzato per le letture e per le prediche e si aveva l’abitudine di disporvi sopra immagini sacre e altari. Alcuni avevano dimensioni così larghe da ospitare un certo numero di cappelle – ossia di vani voltati e dotati di altare che venivano utilizzati per lo svolgimento delle messe in suffragio dell’anima di singoli individui. Un caso piuttosto impressionante è quello di Santa Maria Novella a Firenze, di cui sappiamo che aveva uno spessore di oltre sette metri3. Nel loro complesso, tutte queste barriere, al di là della loro complessità o dell’apparenza più o meno massiccia, rispondevano sia alla volontà di enfatizzare la sacralità del «santo dei santi» creando una sorta di facciata interna della chiesa, sia all’esigenza di impedire o quantomeno di contenere la frequentazione del coro e del santuario da parte dei fedeli disposti nella navata. I frati mendicanti, già pochi anni dopo i loro primi insediamenti nelle città d’Italia, si resero presto conto che queste soluzioni architettoniche erano necessarie perché altrimenti i laici – uomini e donne – non si sa-

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rebbero fatti scrupolo ad avvicinarsi e a mescolarsi ai religiosi persino durante la liturgia. Già nel 1239 i Predicatori di Sant’Eustorgio a Milano costruirono degli spazi riservati per sé e per i propri conversi (con appositi cori dotati di stalli) e contemporaneamente separarono questi ultimi dalla navata per mezzo di un solido muro che li nascondeva quasi del tutto dagli sguardi indiscreti: c’era infatti solo una porticina, sulle cui ante furono dipinti i primi frati che san Domenico aveva inviato in città, e due finestrelle da cui i fedeli, a turno, potevano affacciarsi; al di sopra fu disposto subito il pulpito e, nel giro di qualche anno, vi furono anche costruiti tre altari4. Al giorno d’oggi abbiamo difficoltà a immaginare quanto dovesse esser faticoso assistere alla messa in edifici che erano provvisti di simili barriere visive soprattutto perché queste ultime, dopo esser divenute obsolete già nel corso del Quattrocento (e in qualche caso particolare già nel Trecento5), furono sistematicamente rimosse in seguito alla nuova disciplina ecclesiastica inaugurata dal Concilio di Trento. Per la Chiesa della Controriforma, paradossalmente, il coinvolgimento del popolo nel rito era un imperativo tanto forte quanto lo era stata la sua sostanziale esclusione nei secoli precedenti. Nel tardo Medioevo i fedeli laici non erano chiamati ad interagire con i celebranti nel corso dell’officio, salvo in alcuni momenti rituali ben definiti: a loro era richiesto piuttosto di concentrarsi nella preghiera e nel pentimento dei propri peccati, attraverso una serie di gesti e atti esteriori che acquistavano un valore aggiunto se svolti in sintonia con le singole parti della messa. Quella più importante, che coincideva con la recitazione del Canone, ossia delle formule di consacrazione del pane e del vino eucaristico, doveva avvenire sottovoce proprio per impedire che fosse udita dal popolo: se così fosse stato, si sarebbe corso il rischio che il mistero centrale della liturgia venisse impropriamente ripetuto da bocche profane e, al contempo, che i fedeli venissero distratti dalle loro devozioni6. A metà del diaframma divisorio tra il clero e il popolo si ergeva, in molti casi, un altare sormontato da una croce det-

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ta trionfale: nella messa, questo serviva non solo come luogo deputato alla celebrazione per i defunti, ma anche come vero e proprio punto focale per la contemplazione dei fedeli (cfr. Tav. 4)7. Anche laddove questo elemento non era presente la sua funzione era svolta da un crocifisso monumentale, dipinto o scolpito, posto sulla sommità del tramezzo; la sua funzione è ben illuminata da una delle Facezie del Piovano Arlotto che descrive così un uso che, nel Quattrocento inoltrato, sembrava ormai démodé: Fu in questa nostra città di Firenze una badia di monaci osservanti, la quale badia era edificata allo antico modo, cioè che nel mezzo della chiesa era uno muro o vero uno legno attraverso, in sul quale era uno antico e grande crocifisso legato al muro con una catena o vero corda. E come voi sapete si fa ne’ luoghi d’osservanza, li monici sempre dicono le sette ore canoniche e quelle cantano in coro, e li loro laici conversi dicono a ogni ora canonica, in iscambio del divino uficio, certi paternostri e avemarie, in quello modo come da’ loro maggiori è ordinato.

Da queste parole apprendiamo come la distinzione spaziale marcata dal tramezzo comportasse, da parte di coloro che stavano al di qua o al di là, un diverso impegno: da una parte si recitavano i riti liturgici, dall’altra si contraccambiava pronunciando devote preghiere. Il personaggio della storia è un converso che si dedica a tutto questo con un’intensità singolare: In questa badia – continua il piovano – era uno laico converso il quale era molto devoto e a tutte l’ore diceva divotamente li suoi paternostri e avemarie, sempre ginocchione, che mai non mancava a questo crocifisso; e come piacque a Dio, uno giorno quando quello converso diceva le sue divozioni a ora di vespro, ginocchioni innanzi al crocifisso, ruppesi quella corda o vero catena, in modo che il crocifisso gli cascò addosso e ruppeli la testa, le reni e un braccio8.

Incidenti come questo si capiscono facilmente se si considera il modo in cui i crocifissi erano fissati al «muro dei can-

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celli». Un’ottima illustrazione ci viene fornita dall’affresco che, nella basilica superiore di Assisi, rappresenta Il presepe di Greccio (Tav. 3). L’evocazione della Natività di Cristo che san Francesco realizza per mezzo di un artificio scenico si svolge nella zona dell’altare, contrassegnato dalla presenza di un ciborio, come nelle grandi basiliche romane; il tramezzo ci viene mostrato dal punto di vista del clero: si tratta di una divisione in muratura, rivestita in marmo, su cui si imposta anche il pulpito e che fa da base di appoggio a una croce dipinta, collocata giusto sopra la porta e fissata a un’asta in modo tale da incombere sui fedeli sottostanti. Sarebbe bastato che la corda a cui era appesa si fosse allentata perché la tavola crollasse addosso al popolo. Quest’immagine ci fornisce informazioni interessanti sulla disposizione della comunità in senso gerarchico. Addossati al muro dei cancelli sono gli stalli corali su cui sono disposti i frati, che vediamo intenti ad enfatizzare col canto la solennità dell’evento, mentre il sacerdote è presente dietro la sacra mensa, dove si dispone a celebrare «verso il popolo». A un gruppo di soli uomini è stato concesso di far ingresso nel coro dal lato destro, laddove probabilmente è ricavata una porta secondaria che l’immagine non raffigura, mentre le donne si vedono costrette a fermarsi sulla soglia dell’ingresso centrale del tramezzo: vediamo bene che si accalcano lungo quell’unica apertura, nel tentativo di godere anch’esse dello spettacolo, sebbene la vista sia evidentemente ostruita dalle persone disposte dinanzi all’altare e dalla presenza del leggio9. L’uso del tramezzo come strumento destinato soprattutto a segregare le donne fuori dallo spazio dell’azione liturgica vera e propria – un po’ come accade tuttora nelle chiese ortodosse dove l’accesso oltre l’iconostasi è vietato al sesso femminile – è posto in evidenza da un passo del libro in lode di Pavia di Opicino de Canistris. In questa città, scrive l’autore, tutte le chiese, sia le piccole che le grandi, hanno nel mezzo il muro dei cancelli, con cui si separano gli uomini dalle donne, tutto so-

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lido senza fori né finestre, per cui le donne non sono in grado di vedere l’altare se non per una piccola porta nel mezzo nelle chiese piccole e, nelle maggiori, per tre porte, le cui ante possono all’occorrenza esser chiuse una volta terminati gli offici10.

Come si apprende da altri testi (come le Costituzioni generali dell’Ordine dei Predicatori del 124911), se ai maschi era consentito di occupare quelle parti del «busto» della chiesa che si trovavano ai lati del recinto del coro (come la parte superiore delle navate laterali o le braccia del transetto), per le donne la possibilità di valicare la soglia del tramezzo era ristretta (o almeno tale era la tendenza) a circostanze molto particolari, nella fattispecie il rito del matrimonio. In qualche edificio le barriere servivano a creare una più stretta articolazione dello spazio per sessi: alle donne era riservata la parte della chiesa più prossima all’ingresso, mentre gli uomini di status laicale erano chiamati a stare nella parte superiore della navata, a sua volta separata da un secondo tramezzo dal settore destinato al clero12. Quando questo non era possibile, bisognava comunque che gli uomini, considerati più degni di ricevere un posto d’onore, si portassero subito dopo l’ingresso in chiesa sul lato destro della navata, mentre le loro madri, mogli e figlie dovevano occupare la meno nobile parte sinistra13. La chiesa dei vivi e dei morti Anche se ogni contesto particolare poteva trovare soluzioni specifiche, doveva molto spesso farsi strada la tendenza a considerare gli spazi al di qua e al di là del tramezzo come due organismi architettonici quasi del tutto indipendenti l’uno dall’altro, giacché servivano a scopi completamente diversi: da una parte si svolgeva l’azione liturgica e si governava l’economia della salvezza, dall’altra si recitavano le preghiere e ci si affidava all’intercessione particolare dei santi. Questa differenza funzionale trovava un’espressione eviden-

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te nelle diverse modalità di arredo che vi venivano utilizzate: se nel coro e nel presbiterio ogni programma decorativo era finalizzato principalmente ad esaltare le specificità rituali dell’edificio sacro e dell’istituzione ecclesiastica a cui esso apparteneva, nella navata si tendeva a venire incontro all’ansia individuale o di gruppo per la raccomandazione dell’anima e la sua salvezza nel mondo a venire. Nello spazio della navata l’iniziativa di committenza dei privati (in grande misura formulata tramite lasciti testamentari, necessariamente eseguiti dopo la loro morte) aveva modo di intervenire senz’altro con maggiore libertà di quanto potesse sperare di fare nelle zone più nobili della chiesa. Qui si poteva più facilmente ottenere il privilegio della sepoltura, sia nella forma della lastra terragna che in quello del sepolcro soprelevato (formalmente interdetto perché contrario al principio cristiano dell’inumazione, tuttavia largamente diffuso in età tardomedievale). L’impatto visivo doveva essere non dissimile da quello degli adiacenti cimiteri: vi si dovevano vedere numerosi monumenti, spesso accostati l’uno all’altro, talora addirittura costruiti l’uno sopra l’altro, e di norma associati a un altare deputato alla recitazione delle messe votive. Queste venivano svolte non necessariamente da preti appartenenti al collegio sacerdotale della chiesa in questione, bensì, più frequentemente, da «cappellani» che si guadagnavano da vivere grazie alle rendite di cui erano dotati dai privati per la cui salute spirituale operavano; su un singolo altare potevano dir messa, a turno, diversi di questi preti, a meno che il committente non fosse riuscito ad assicurarsi su di esso un controllo esclusivo14. La distribuzione di tali altari all’interno del «corpo» della chiesa poteva essere quantomai confusa: se ne potevano vedere addossati ai pilastri e alle colonne (Tav. 4), alle pareti della controfacciata e delle navate laterali, incassati entro nicchie ricavate nello spessore dei muri o anche, come già si è detto, all’interno del tramezzo. Le lastre tombali erano disposte sul pavimento senza un criterio chiaramente definito per quanto

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riguardava l’orientamento, ma regolarmente tendevano a combaciare per uno dei lati con la base dell’altare; a loro volta anche i sepolcri a parete erano spesso realizzati in modo tale da sovrastare la sacra mensa o anche da inglobarla direttamente al loro interno15. In questo modo si otteneva lo scopo di creare un minuscolo spazio sacro utilizzato in modo esclusivo per l’esercizio del suffragio in favore di singoli defunti o di un ristretto gruppo familiare: affinché l’officio potesse risultare efficace, era naturalmente importante dotare il luogo di tutto il corredo necessario, vale a dire tovaglie, calici, patene, croci stazionali, paramenti liturgici, candele ed elementi decorativi, come tavole singole, polittici o anche solo affreschi, con cui si mirava a riprodurre la sontuosità e l’impatto visivo dell’altar maggiore. Altri apparati, come stemmi, bandiere e armature, potevano essere collocati nelle vicinanze in modo da illustrare il valore e lo status del defunto lì sepolto. Tali unità minime dello spazio sacro venivano definite comunemente «cappelle», al pari delle chiesette del contado o dei piccoli edifici usati da enti e confraternite. In realtà corrispondevano a strutture il cui sviluppo architettonico poteva essere anche molto limitato. Un altare sormontato da un baldacchino in gesso o in legno poteva infatti meritarsi l’appellativo di «cappella» allo stesso modo di un vano autonomo chiuso da una cancellata di ferro e coperto con una volta a crociera; l’essenziale era che fosse provvisto di tutti gli elementi indispensabili allo svolgimento delle messe votive. Il risultato di tutto questo coincideva con un’articolazione dello spazio straordinariamente disordinata, che nel corso del tempo cominciò ad esser vista come poco gradevole: nel 1357 le autorità comunali di Orvieto, che avevano sostenuto le spese di costruzione del sontuoso duomo cittadino, vietarono espressamente di erigere tombe al suo interno perché avrebbero «guastato» la bellezza dell’edificio e fecero adibire all’uso funerario un ambiente sotterraneo sotto l’altar maggiore, prendendosi anche cura di farlo decorare con «penture belle e divote di storia di morti»16. Ciononostante, la gente

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continuava (e continuò anche nella città umbra) a preferire la costruzione di sacelli privati nel corpo della chiesa. Proveremo ad illustrare meglio questo punto avvalendoci di una testimonianza abbastanza singolare, il registro di esecuzione del testamento di un notabile lucchese, ser Niccolò di Nicolao Pettinati, che al momento di dettare le proprie ultime volontà, il 12 luglio del 1369, aveva richiesto la costruzione, all’interno della chiesa dei Santi Simone e Giuda di Lucca in cui aveva eletto la propria sepoltura, di un altare sulla parete della navata destra, in stretta prossimità della porta del tramezzo che immetteva nel coro. In merito a questo si era limitato a richiedere, col linguaggio stereotipato degli atti notarili, la presenza dei «paramenti, di un calice, di una croce, di un’immagine e degli altri oggetti necessari e consueti». Il registro è prezioso perché ci illustra passo per passo il modo in cui i fedecommissari o esecutori testamentari interpretarono la disposizione di ser Niccolò. Dopo aver ottenuto dal rettore della chiesa l’assenso all’istituzione di una cappellania (ossia alla creazione di una rendita per il mantenimento in perpetuo del sacerdote che avrebbe dovuto officiare all’erigendo altare), ci si rivolse a un lapicida che realizzò la mensa con l’uso di buoni marmi, dopodiché si pensò al suo corredo acquistando un numero sufficiente di pianete e camici, un calice in argento dorato, altri paramenti e vesti liturgiche ricamate e ben ventuno drappi di baldacchino (una stoffa molto pregiata) recanti la scena dell’Annunciazione. Successivamente firmarono un contratto con un pittore, Paolo di Lazzarino, affinché realizzasse un polittico «con quelle figure, intagli e modi che gli avrebbe detto e dichiarato Francesco del fu Lazzaro Guinigi cittadino lucchese», ossia uno dei fedecommissari; il pittore rispettò le indicazioni ma aggiunse a suo piacimento tutta una serie di ornamenti nella cornice, fatto che gli fece guadagnare un pagamento supplementare. Dopo che l’illuminazione del dipinto fu assicurata da alcuni ceri dipinti montati su aste, si arrivò al tocco finale: si ordinò a un falegname l’esecuzione di un «tabernacolo o

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taulito», altrimenti detto anche «cielo» perché si usava simulare sulla sua parte interna un cielo stellato, col quale si realizzò un’onesta copertura per tutto l’insieme17. La realizzazione di cappelle come queste, che non comportavano lo sfondamento delle pareti e quindi non minacciavano l’equilibrio statico degli edifici, si prestava particolarmente bene alle esigenze della committenza testamentaria, che ambiva a ritagliarsi spazi privilegiati per il suffragio individuale. Purtroppo nessuna di queste strutture effimere è giunta fino a noi, a causa delle trasformazioni subite dalle chiese nel corso dei secoli; è tuttavia possibile farsi un’idea del loro aspetto grazie ad alcune loro varianti più stabili e solenni, come la monumentale edicola dei Dragondelli (o Dragomanni) nella chiesa di San Domenico ad Arezzo. Questa, realizzata intorno al 1368 dal maestro Giovanni di Francesco da Firenze per una famiglia di vasai che abitava nella piazza antistante, consiste in una struttura semplicemente addossata alla parete destra, a circa metà navata (Tav. 6). Come si intuisce facilmente, sia l’altare che il baldacchino di pietra (che fra le altre decorazioni esibisce due draghi che assolvono a una funzione eminentemente araldica) furono sovrapposti a una preesistente decorazione ad affresco che rappresentava una serie di scene evangeliche: il risultato finale fu isolare dalla sequenza l’episodio di Gesù fra i Dottori, in modo, probabilmente, da esplicitare l’intitolazione della cappella al Salvatore. Per rendere l’ambiente funzionale al rito si pensò bene di ricavare nel muro anche una piccola nicchia, cioè quello che si sarebbe detto un «armarium seu sacrarium», nel quale venivano riposti e chiusi a chiave il calice, la patena e altri utensili liturgici: erano infatti oggetti troppo preziosi per lasciarli incustoditi sulla mensa. In qualche caso accadeva che ci si appoggiasse a una struttura preesistente per creare una nuova cappella. Nella chiesa di San Francesco a Gualdo Tadino il pulpito che si è conservato sulla parete destra (Tav. 7) reca un’iscrizione latina in cui si dichiara che i nobiluomini Iacobuccio e Simone di Fina-

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guerra (quest’ultimo noto da un documento del 1309) fecero fare lì (cioè proprio sopra il pulpito) un altare in onore dei dodici apostoli e che lo ornarono con ottimi paramenti e un messale; chiunque vi avesse officiato era invitato a pregare per le anime loro. Sul pulpito che si erge dalla parte opposta si trova invece scritto che un altro altare vi era stato fatto, per la cifra non indifferente di sessanta lire, a rimedio dell’anima di tale Bartolo di Ventura, che era sepolto proprio lì sotto. Tutto questo può sembrarci sorprendente, ma acquista un significato più chiaro se si considera che in origine quelle due strutture erano adiacenti al «muro dei cancelli»: con l’inumazione e la costruzione di altari per le messe votive proprio a ridosso dello spazio più sacro dell’edificio si riteneva di ottenere un maggior beneficio spirituale, e gli alti pulpiti, sorretti su esili colonne, offrivano ambienti già bell’e pronti per l’inserimento dei propri microspazi liturgici18. Un’ulteriore forma di cappella consisteva in una nicchia non troppo profonda ricavata nello spessore stesso della parete, come quelle che si vedono rappresentate in un dipinto attribuito al Sassetta oggi a Durham (Tav. 8)19. Strutture di questo genere riprendevano la forma, di derivazione tardoantica, dell’arcosolio, utilizzata come alloggiamento per i sarcofagi, e si portavano dietro una connotazione funeraria, anche se non è sempre facile stabilire quale fosse la posizione riservata alla tomba in relazione alla dislocazione dell’altare (o almeno il loro stato attuale, in assenza di indagini archeologiche, non ci consente sempre di comprenderlo esattamente). Una versione particolarmente elegante è quella, ricca di riferimenti all’arte antica, delle cappelle-nicchia della chiesa di Santa Maria Nuova a Viterbo, che constano di uno snello altare sovrastato da un affresco con immagini sacre e, in qualche caso, con i ritratti dei defunti donatori (Tav. 9). Verosimilmente, le tombe di questi ultimi dovevano essere lastre terragne disposte sul tratto di pavimento direttamente adiacente20. Il tipo di cappella, tuttavia, che si diffuse crescentemente nel corso dei secoli XIII e XIV fu quello del vano autonomo

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annesso all’edificio sacro e comunicante con esso per un lato21. Generalmente si trattava di spazi solenni pressoché autosufficienti giacché provvisti di tutti gli elementi necessari al culto e di un decoro adeguato e dignitoso. Rispetto a tutti gli altri generi ricordati fin qui, quest’ultimo si distingueva proprio per la sua spaziosità e quindi per essere in grado di ospitare un intero complesso di sepolture; mentre gli altri potevano andar bene per chi sceglieva di farsi inumare in forma individuale, questi si rivelavano particolarmente funzionali per le tombe comuni dei grandi gruppi familiari, articolate magari, per decenza, in avelli distinti per i membri maschi e per le femmine. Elemento focale era l’altare, che nel Trecento era di norma sormontato da un polittico in cui erano disposti in bell’ordine, ai lati del pannello centrale quasi sempre decorato con la Madonna col Bambino, i santi titolari della cappella assieme con altre figure associate con l’ente religioso a cui la chiesa apparteneva oppure con le preferenze devozionali dei donatori. Gli stessi soggetti potevano essere ripetuti anche sulla vetrata che chiudeva (se presente) la finestra retrostante, mentre lungo le tre pareti era costume raccontare per immagini le azioni devote, l’amor di Cristo e, eventualmente, il crudele martirio subìto da quegli stessi santi22. Da qualche parte, nella zona bassa del muro, era ricavata anche la piccola nicchia che serviva per conservare la suppellettile liturgica (Fig. 12). Le dimensioni maggiori facevano sì, tuttavia, che siffatte cappelle non potessero essere destinate esclusivamente al suffragio delle anime di coloro che ne finanziavano l’arredo e il decoro: o almeno non fu così in un primo momento. Infatti è dal tardo secolo XV che si trovano attestazioni chiare dell’uso strettamente privato di questi ambienti: in quell’epoca molti di essi vennero resi inaccessibili per mezzo di cancellate di ferro e si trasformarono in proprietà e dirette emanazioni di singole famiglie (attraverso il sistema del giuspatronato), nonostante che questo andasse contro l’idea stessa, sancita dal di-

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ritto canonico, dell’inalienabilità del terreno consacrato. In precedenza si era semplicemente consentito ai laici di contribuire all’abbellimento di questa o quest’altra cappella offrendo in cambio la possibilità dell’inumazione al suo interno o nelle sue vicinanze, senza che questo comportasse necessariamente la sua gestione effettiva da parte di tali «sponsor». Questi vani laterali, disposti sia lungo la navata come nel transetto, potevano del resto essere utilizzati per usi anche molto diversi: ad esempio per alcune cerimonie particolari, per l’esibizione di reliquie e immagini miracolose o, ancora, per ospitare le tombe dei santi in quegli edifici che non possedevano una cripta. Le tombe dei santi La santità, nei secoli del Medioevo, era spesso rivelata dal ritrovamento di un corpo «incorrotto», cioè non deteriorato dal decadimento dei tessuti e dalla putrefazione; era semmai allorché era offerto alla pubblica devozione che rischiava di subire le maggiori offese, nel senso che i devoti si facevano ben pochi scrupoli a staccare e portar via brandelli di pelle, dita, o porzioni anche notevoli delle ossa: questa è la ragione per cui, ad esempio, il cadavere di san Francesco fu sepolto in fretta e furia in un luogo segreto della basilica inferiore di Assisi. Le reliquie, d’altra parte, godettero di un culto incontrastato nel corso di tutto questo periodo e, nonostante lo sviluppo di forme alternative di pietà (come la venerazione delle immagini), la loro popolarità non fu mai realmente posta in discussione. Il loro uso era d’altra parte necessario alla stessa configurazione e creazione di uno spazio sacro. Nessun altare poteva essere consacrato senza la deposizione al suo interno di reliquie appartenenti al personaggio a cui doveva essere intitolato; il possesso di numerosi cimeli sacri, o magnalia Dei come si usava talvolta dire, esaltava l’importanza e il prestigio dell’edificio di culto, giacché erano simili oggetti a renderlo

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attraente agli occhi dei fedeli. Abitualmente conservati in un luogo sicuro e inaccessibile a sguardi profani, venivano esposti al pubblico all’interno di preziosi reliquiari in oreficeria che rendevano manifesto il cimelio in essi incluso attraverso accorgimenti diversi, il più suggestivo dei quali consisteva nel dare al contenitore la forma del contenuto (quella di un braccio se vi era incluso, poni caso, un omero, oppure un busto se vi era inserito un cranio). Le disposizioni canoniche non permettevano infatti che venissero mostrati cadaveri o loro parti se non all’interno di un’apposita «cassa»; questo faceva sì che l’aspetto materiale delle reliquie fosse in realtà poco conosciuto e che potessero facilmente esser fabbricate delle falsificazioni: ad esempio il Comune di Firenze, nel 1352, fu splendidamente gabbato da una potente badessa che, facendo finta di cedergli il braccio di santa Reparata, gli inviò invece un falso osso fatto di legno e gesso dipinto23. Le esibizioni avevano luogo solo in occasioni determinate dalle solennità liturgiche (nella fattispecie, per le feste dei santi a cui apparteneva questo o quell’arto) e avvenivano in condizioni di visibilità ridotte: i chierici le mostravano di solito dall’alto, come dal pulpito o dalla sommità del tramezzo, e non si ha modo di capire quanto a lungo tale spettacolo dovesse durare. Certo è che spesso gli uomini di chiesa si dichiaravano convinti del fatto che alla devozione giovasse piuttosto l’attesa e la suspence che un’esposizione frequente e duratura; come scrive Opicino de Canistris, sebbene vi siano [sc. a Pavia] infinite reliquie di santi, tuttavia non si mostrano mai al popolo, sia perché è vietato dalle regole giuridiche sia perché serve ad accrescere la devozione; infatti quando simili cose vengono esibite frequentemente, la devozione in loro va scemando e molto spesso si finisce per perdere la fede in loro24.

I corpi incorrotti dei martiri, dei santi vescovi, monaci e abati erano stati destinati tradizionalmente all’inumazione nella cripta, ma con la progressiva disparizione di quest’am-

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biente sotterraneo dagli edifici di impianto gotico furono preferite le collocazioni all’interno di apposite cappelle funerarie, non molto dissimili, nell’aspetto, da quelle utilizzate per i benefattori laici. Questo sviluppo fu favorito dalla moltiplicazione, fra Due e Trecento, dei cosiddetti «santi novellini», il cui culto, che sembrava adattarsi meglio alla nuova sensibilità religiosa, era promosso soprattutto dagli Ordini mendicanti. In questi casi accadeva che a un frate o a un converso o a qualche altro affiliato dei diversi conventi sparsi lungo la penisola e nel resto d’Europa venissero riconosciute particolari virtù spirituali: se al momento della sua morte si verificavano eventi interpretabili come segni miracolosi (come campane che suonavano senza che nessuno tirasse le corde, profumi e giochi luminosi che si percepivano intorno al cadavere o guarigioni prodigiose di ciechi, zoppi e indemoniati), il suo culto prendeva subito forma attorno al luogo di sepoltura e l’appellativo «santo» gli veniva attribuito con grande disinvoltura, senza attendere il riconoscimento ufficiale fornito dai processi di beatificazione e canonizzazione25. I devoti subivano il fascino di queste figure non tradizionali della santità per diversi motivi: rispetto agli altri personaggi sacri, appartenenti ad epoche lontane, dovevano sembrare più vicini alla realtà del mondo cittadino del XIII e XIV secolo e quindi più inclini a comprenderne i difetti; in molti casi, chi aveva avuto modo di conoscerli in vita non avrebbe fatto altro che perpetuare dopo la morte il rapporto privilegiato che aveva saputo instaurare con loro; inoltre, costoro piacevano perché appartenevano a quegli enti religiosi che avevano goduto di uno straordinario successo agli occhi dei laici nel corso del Duecento. Vederli sepolti in sarcofagi, arche e cappelle analoghe a quelle riservate ai privati cittadini avrebbe senz’altro contribuito a rinforzare la sensazione di appartenenza alla stessa comunità. I sepolcri dei santi corrispondono in grande misura ad alcune delle più importanti opere di scultura del periodo tardomedievale. L’arca contenente il corpo di san Domenico

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nella chiesa dei Predicatori di Bologna, prodotta nella bottega di Nicola Pisano e installata in loco nel 1267, si distinse per la sua forma solenne e classicheggiante, di grande impatto visivo grazie alla sua costruzione tridimensionale, visibile cioè per quattro lati, con il sarcofago sorretto da suggestivi telamoni e cariatidi; senz’altro colpì molto l’immaginario dei contemporanei, giacché servì da modello per una serie di monumenti successivi come la tomba di san Pietro Martire in Sant’Eustorgio a Milano, ultimata da Giovanni di Balduccio nel 1339 (Fig. 13), o quella di sant’Agostino in San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia (che si deve alla bottega dello stesso Giovanni di Balduccio)26. Aspetto fondamentale delle tombe dei santi più celebri era il fatto che ogni elemento di decorazione concorreva a promuovere il loro culto agli occhi dei fedeli. Se gli ornamenti sottolineavano la dignità del corpo lì sepolto, le rappresentazioni figurative presentavano all’osservatore, oltre alla rappresentazione del personaggio, una selezione significativa delle sue imprese più spettacolari e delle sue più evidenti virtù. Tutto questo serviva a glorificare il defunto e nel contempo a stimolare i devoti a venerarlo, ad affidarsi alla sua intercessione e, di conseguenza, a lasciare offerte in denaro o in natura, come qualche maligno ogni tanto veniva a rimarcare. Indubbiamente, in casi come questi era molto evidente che all’elaborazione artistica era affidato un ruolo che andava ben oltre la semplice celebrazione del santo, giacché mirava allo scopo ben preciso di promulgare e favorire il successo di un fenomeno di culto. In ragione di questo, si può comprendere come un sepolcro istoriato potesse trasformarsi all’improvviso in qualcosa di molto pericoloso se, per qualche motivo, l’attribuzione di santità a una persona si rivelava infondata. Accadde così, ad esempio, ad Armanno Pungilupo, un carismatico che i canonici del duomo di Ferrara, venendo incontro alla fama che si era guadagnato presso il popolo, avevano onorato con una preziosa sepoltura al momento della sua morte nel 1269; quando – correva l’anno 1300 – il tribunale dell’Inquisizione, composto da

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frati mendicanti ostili al culto, avviò delle indagini per vagliare l’ortodossia del fenomeno di venerazione e scoprì che Armanno era stato in realtà un attivista cataro, la prima decisione consisté nell’immediata dissepoltura del cadavere e nella sua deposizione sul rogo, dopodiché si stabilì che l’arca di pietra in cui sono stati collocati e sono sinora rimasti le ossa e il corpo di Armanno Pungilupo, e l’altare costruito accanto all’arca predetta con tutti gli elementi di sostegno e di ornamento che riguardano l’arca e l’altare predetto, insieme e singolarmente, siano demoliti, distrutti e fatti a pezzi, così che non possano essere adattati a nessun uso, senza alcuna speranza di riedificazione27.

Questa prescrizione così precisa dimostra che la presenza di immagini, l’abbondanza di decorazioni e in generale la sontuosità di una simile sepoltura era considerata uno strumento mediatico, per così dire, di estrema efficacia, che si rivelava indispensabile quando si doveva promuovere e «lanciare» il culto di un nuovo santo. La tomba era tuttavia solo un elemento di tale processo. Per potersi davvero imporre all’attenzione del pubblico il personaggio doveva disporre di un proprio spazio autonomo, più o meno articolato, all’interno dell’edificio sacro e di altri accorgimenti visivi in grado di suggerire la sua appartenenza alla dimensione ultraterrena. L’ideale era la collocazione dell’arca all’interno di un’ampia cappella: in questo caso si sarebbe potuto espandere il ciclo agiografico riportato nella decorazione scultorea del sarcofago attraverso una serie di pitture murali lungo le pareti, mentre sull’altare antistante si sarebbe potuto collocare un ritratto sacro, nella forma di una tavola dipinta o di una statua, che meglio poteva essere utilizzato come punto focale e controparte dei fedeli nelle pratiche di devozione28. L’«icona» del nuovo santo era chiamata ad enfatizzare la conformità alle tradizionali forme di rappresentazione della santità; in altre parole, doveva celebrare un individuo – che,

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nel momento in cui il suo culto veniva promosso, era un perfetto sconosciuto – suggerendo l’idea che aveva la stessa dignità degli antichi martiri e confessori. Questo veniva ottenuto rispettando alcune regole compositive fondamentali, come il ricorso alla posa frontale, l’impiego di gesti evocativi e attributi, l’uso spesso disinvolto delle aureole (che coronavano le teste dei santi) e dei raggi (che illuminavano quelle dei beati). Nel corso del Due e Trecento si fece strada l’idea per cui nessun nuovo culto riusciva veramente ad imporsi in mancanza di un’immagine dipinta; come scriveva il Sacchetti lamentando il proliferare di «santi novellini» sulle cui effettive virtù si aveva ragione di dubitare, e’ religiosi spesso ne sono cagione, dicendo spesso che alcuno corpo sotterrato alla chiesa loro averà fatto miracolo, e dipingonlo per tirare, non acqua a lor mulino, ma cera e denari; e la fede si rimane dall’uno de’ lati29.

Se era il corpo a rivelare la santità per mezzo dei miracoli, l’immagine era il mezzo che consentiva di divulgarla e di renderla presente dinanzi agli spettatori; la sua riproduzione in altri edifici sacri vicini e lontani consentiva poi di moltiplicare i luoghi e le modalità di culto di un singolo personaggio praticamente all’infinito. Questo spiega perché, subito dopo aver ordinato la distruzione della tomba di Armanno Pungilupo, l’Inquisizione ferrarese se la prese con le effigi del santo che, nel corso di un trentennio, si erano diffuse in città e nel contado: Ed inoltre prescriviamo ed ordiniamo che anche tutte le sculture, statue, immagini e figure fatte ed escogitate per la devozione e la venerazione di detto Armanno o Pungilupo nella chiesa cattedrale di Ferrara, in tutte e nelle singole chiese della città di Ferrara e del suo circondario ed anche in qualsiasi altro luogo siano ritrovate o compaiano le predette sculture, statue, immagini o figure siano distrutte, raschiate e interamente annientate da coloro che si trovano in quelle chiese o luoghi, nell’arco di dieci giorni dal mo-

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mento in cui il testo della presente sentenza sarà reso pubblico, o da quando sarà giunto a loro conoscenza30.

Omaggi per i santi Quando si andava a far visita ai santi presso le loro tombe o davanti alle loro immagini, di solito si avevano intenti ben precisi: si andava a chiedere la loro assistenza e intercessione in vista della remissione dei peccati e della vita nell’aldilà, si chiedeva conforto psicologico nelle fasi critiche dell’esistenza e, ancor più specificamente, si chiedeva una forma di collaborazione, o diciamo pure di mutuo scambio, per far fronte a qualche difficoltà particolarmente devastante. I casi potevano esser molti e diversificati, in un mondo in cui incombevano pericoli di ogni genere e in cui le cure mediche potevano offrire ben pochi rimedi anche alle malattie che, ai nostri giorni, sembrerebbero banali. Prendiamo ad esempio il caso di un’anziana signora che soffriva per un forte male al ginocchio: si sarebbe probabilmente recata subito in chiesa con la stessa convinzione e con la stessa ansia che si avrebbero oggi mentre ci si dirige verso l’ambulatorio. Nell’edificio sacro era possibile consultarsi non con un medico, bensì con un intercessore potente che avrebbe senz’altro potuto far pressioni sui suoi superiori (per così dire) in modo tale da ottenere per lei la grazia della liberazione da quell’acuto dolore. Il problema era che il santo, per poter intervenire, doveva prima essere adeguatamente stimolato, e questo poteva avvenire solo se si riusciva a stabilire un rapporto diretto con lui. Ecco dunque come bisognava fare: andare di fronte all’effigie, porsi in ginocchio con le mani giunte e, a seconda dell’enfasi che si voleva dare alla preghiera, mostrarsi in abito umile e dimesso, meglio se con i piedi scalzi e una semplice tunica addosso (e l’immancabile velo in testa, nel caso della signora), e infine deporre un dono ai piedi del santo, pronunciando parole come queste:

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O messer lo santo, tu vedi il dolore che affligge il mio ginocchio. Umilmente mi prostro ai tuoi piedi e ti offro questo pegno dichiarandomi tua serva: ti prego perciò di supplicare la Beatissima Vergine al cospetto del Suo figlio affinché sia liberata da questa sofferenza.

In questo modo la signora compiva l’atto di votarsi, ovvero di porsi letteralmente sotto la protezione di un interlocutore sacro, instaurando con lui un patto implicito di cui l’omaggio costituiva il suggello; in virtù di questo il santo doveva sentirsi in qualche modo obbligato a intercedere per lei, giacché il dono, secondo una concezione ben radicata all’epoca che si può riassumere con l’espressione latina do ut des, non era mai gratuito, bensì comportava di necessità l’impegno di chi lo riceveva a contraccambiare in modo adeguato. Il più delle volte, a dar retta ai testi agiografici, non appena ci si alzava in piedi ci si accorgeva che il dolore era già sparito. Se viceversa il pericolo ci coglieva all’improvviso occorreva pronunciare il voto subito, all’istante, promettendo di portare l’omaggio una volta che si era riusciti a scampare dalla malasorte. Mettiamo il caso classico della nave in preda al mare agitato, al vento, all’acqua e ai fulmini; mentre i marinai si affannano con le vele e la zavorra, c’è chi si dispera, chi piange e chi si inginocchia guardando verso l’alto. Se non fossimo distratti dalla visione terrificante che ci si presenta dinanzi, lo sentiremmo probabilmente dire: O beato messer tale, ti prometto che, se per grazia di Dio in virtù della tua intercessione mi farai giungere sano e salvo sulla terraferma, osserverò il digiuno nel giorno della tua festa e visiterò a piedi scalzi e col capo cosparso di cenere la tua tomba e ti farò dono di dieci libbre di cera buona e candida ogni anno fino al giorno della mia morte.

Solo in questo caso si può parlare, propriamente, di ex voto, ossia di offerte portate al santo dopo aver ottenuto una

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grazia; il meccanismo messo in atto, tuttavia, è esattamente lo stesso, anche se realizzato secondo una dinamica rovesciata. La quantità e la qualità dell’ex voto potevano cambiare a seconda delle circostanze ed erano calcolate sulla base dell’importanza del beneficio che si era ricevuto. Ancora nei secoli XI e XII era piuttosto frequente, al fine di ottenere un beneficio spirituale, l’uso di offrire la propria persona o un familiare a un monastero vita natural durante, ma contemporaneamente si fecero strada forme più blande di votazione, come l’impegno temporaneo di sé nel servizio divino, ad esempio intraprendendo un pellegrinaggio, affiliandosi a un ente religioso come conversi o lasciando i figli beneficati in un convento per qualche mese. Con lo sviluppo della società mercantile nel Due e Trecento, man mano che si affermava una concezione meno vincolante della relazione tra l’individuo e il sacro, la pratica della «dedicazione di sé» prese sempre più l’aspetto di un gesto rituale che si avvaleva di sostituti simbolici della propria persona in forme diverse, dalla donazione di beni pertinenti alla sfera vitale e all’attività economica di un individuo (generi alimentari, animali, beni immobiliari, porzioni più o meno grandi del proprio patrimonio) all’offerta di oggetti associati con gli affetti, le consuetudini o lo stile di vita di una persona, come le stoffe di uso domestico, i gioielli personali o certi utensili devozionali come i già ricordati circuli precatorii. Le vesti, anche a maggior ragione, esprimevano un ottimo parallelismo col singolo «vovente»: nel Processo di canonizzazione di Nicola da Tolentino tutta una serie di testimonianze relative a guarigioni miracolose di bambini in punto di morte pongono in evidenza che gli abiti, deposti dalle madri presso il sepolcro del beato, erano percepiti come veri e propri equivalenti simbolici dei loro figli, in quanto evocavano i corpi che avevano rivestito. Nel caso dei prigionieri, la promessa al santo degli strumenti materiali con cui erano stati legati obbediva a un simile intento sostitutivo: forme votive di questo tipo erano talmente diffuse nel Medioevo che l’impatto anche visi-

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vo esercitato dalle catene, manette e ceppi che pendevano dalle pareti doveva essere tutt’altro che trascurabile, tant’è che li troviamo persino riprodotti al di sopra di un altare, con la stessa dignità degli arredi liturgici, nel Giudizio universale del portale ovest della cattedrale di Sainte-Foy a Conques31. Per trovare qualcosa di comparabile dobbiamo spostarci a Lucca, dove, su un pilastro posto in prossimità della cappella del Volto Santo nella cattedrale di San Martino, si conserva una mannaia (Fig. 14) che mantiene il ricordo di un miracolo avvenuto nel 1334 nel castello di Pietralunga vicino a Gubbio: qui un povero pellegrino, Giovanni di Arras, fu condannato ingiustamente alla decapitazione, ma, dopo che ebbe richiesto l’intercessione della sacra effigie lucchese, la lama di quell’arma «cominciò ad ottundersi come se avesse colpito una pietra». Fu lo stesso podestà Branca de’ Branci, il responsabile dell’errore giudiziario, a inviare quello strumento di pena capitale a Lucca, assieme a una lettera ufficiale munita di sigillo, ad attestazione di quello stupendo prodigio32. In altri casi si tendeva a suggerire corrispondenze analogiche tra il singolo e l’entità dell’offerta, ad esempio con la promessa di una quantità di grano di peso identico a quello della persona «raccomandata» (si trattava, in questi casi, delle cosiddette «misure»); altrimenti ci si poteva avvalere di ex voto figurativi, in grado cioè di veicolare un messaggio, anche se questo non implicava che l’associazione con un individuo fosse necessariamente richiamata con mezzi artistici, ovvero col ricorso alla verosimiglianza fisionomica o a forme di rappresentazione narrativa. Quando si invocava la grazia per un arto malato, ad esempio, la riproduzione sommaria ma riconoscibile della parte anatomica in questione doveva essere più che sufficiente, mentre i cuori d’argento, diffusi a partire dal tardo secolo XIV in forme già piuttosto stilizzate, manifestavano la devozione dei singoli come in una sorta di sineddoche, esibendone il nucleo delle funzioni emotive e vitali. Le navi votive, con cui si suggellavano voti espressi durante tempeste o naufragi, alludevano solo genericamente ai

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pericoli del mare, senza includere riferimenti diretti alle circostanze specifiche in cui si era trovato coinvolto il donatore: la più antica di queste (oggi nel Maritiem Museum Prins Hendrik di Rotterdam) riproduce in scala ridotta una caravella spagnola della metà del Quattrocento e potrebbe esser facilmente scambiata per il modellino di un ingegnere navale, se non si conoscesse la sua originaria ubicazione nel romitorio di San Simón de Mataró in Catalogna33. «Imagines de cera» Quella degli ex voto è, per tutto il Medioevo, un’arte effimera, realizzata in quello che è allo stesso tempo uno dei materiali più duttili e deperibili che si conoscano, la cera. Le ragioni del suo prestigio sono molteplici: le si attribuiva un valore simbolico, che faceva di lei un segno allusivo all’Incarnazione, e la si associava con la mistica della luce, giacché con essa si fabbricavano le candele e i ceri di varie dimensioni e foggia con cui si illuminava lo spazio sacro. Questi ultimi costituivano di per sé uno dei generi votivi più in voga, proprio perché erano funzionali alla liturgia e alla recitazione delle preghiere e suppliche collettive. Persino l’offerta di cera grezza per la loro fabbricazione poteva quindi essere estremamemente meritoria, eppure, al di là di questo, è significativo che molto spesso l’entità dell’offerta fosse regolata, anche qui, dalla volontà di sostituire per via analogica il personaggio votato: sia i ceri che la materia non trattata venivano sovente presentati in quantità corrispondenti al peso del beneficando o beneficato, ma troviamo menzione anche di candele di altezza o larghezza equivalenti alle dimensioni di una persona. Allo stesso tempo, tuttavia, con la cera si potevano modellare ex voto di forme e fogge diverse: dalle riproduzioni di parti anatomiche (tra cui teste, mani, piedi, occhi, orecchie, gambe, seni e organi genitali) alle rappresentazioni di un intero corpo umano, designate nei testi come imagines de cera,

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che si confacevano specialmente a quelle patologie che comportavano un malessere fisico generalizzato o, più in generale, rispondevano al desiderio di evocare la guarigione di un corpo umano nella sua integrità. Documentati con certezza sin dal secolo X, nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di oggetti tipizzati e grossolani, che esibivano genericamente l’atto di votarsi, ad esempio rappresentando la figurina in ginocchio o con le mani giunte in segno di preghiera e sottomissione. Al pari delle gambe o delle mani di cera, si usava fissarle a un’asta trasversale (se offerte presso il sepolcro di un santo) o deporle ai piedi di un’immagine sacra o di un altare; dopo un po’ di tempo, al pari degli altri prodotti ceroplastici e delle candele, si potevano ammassare da una parte, entro un contenitore, in attesa che venissero fuse e trasformate nuovamente in materia grezza. Un’immagine scattata nel febbraio 2004 in un romitorio rupestre di Cipro, dove gli ex voto di questo tipo sono ancor oggi i più diffusi, può aiutarci a ricostruire l’aspetto e la destinazione d’uso di questi oggetti nelle chiese medievali (Tav. 10)34. Per la loro convenzionalità, queste sculture non erano intese, almeno inizialmente, come mezzi per suggerire l’identificazione con la persona votata, bensì come semplici manifestazioni figurative della dedicazione di sé al personaggio sacro. I testi mettono bene in luce che la percezione che se ne aveva comunemente non differiva molto da quella verso le candele o gli altri ex voto: potevano infatti essere apprezzati unicamente per le loro dimensioni o il loro valore economico e l’associazione con un individuo veniva quasi sempre richiamata col ricorso all’equivalenza di altezza o di peso, a corrispondenze numerologiche o ancora all’inclusione di oggetti personali; talora per una persona raccomandata all’intercessione di un santo potevano essere prodotte diverse immagini, il che fa pensare che la quantità delle offerte fosse comunque reputata più importante del desiderio di sottolineare l’associazione individuale35. Nel corso del Trecento la pratica di votarsi divenne tanto

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radicata che anche i beni che erano necessari o utili alla sopravvivenza dei singoli potevano essere offerti per mezzo di loro rappresentazioni in cera: l’agiografia tardomedievale ce ne offre un vastissimo campionario, che comprende sia esseri viventi (falconi, buoi, cavalli, asini, muli, tralci di vite, frutta, maiali, vitelli, serpenti, sardine e tonni) che oggetti inanimati (case, castelli, mulini, torri, barche, navi, orci, barili e botti)36. L’uso di simili figure era tanto diffuso verso la fine del secolo da suscitare il disgusto di Franco Sacchetti, che ricordandosi di un tale che, avendo perso la gatta, aveva fatto voto di «mandarla di cera» alla Madonna d’Orsanmichele a Firenze, giudicava siffatti costumi «uno gabbamento di Dio e di nostra Donna e di tutti i suoi Santi»37. Talora si trova menzione di oggetti anche più bizzarri: un testo spagnolo del tardo Trecento ricorda ad esempio un’effigie di cera che rappresentava, chissà in che modo, «una miniatura delle sette laudi di Maria Vergine»38. Come è stato osservato, questa crescente varietà del repertorio ceroplastico dell’epoca dovette comportare una certa abilità da parte degli artigiani che li producevano, anche se sappiamo che, per le forme più comuni, si faceva correntemente uso di matrici e che per le forme anatomiche e le figurine umane esisteva una sorta di produzione standardizzata che era disponibile, oltre che nelle botteghe specializzate, anche nei pressi dei luoghi di culto e nelle farmacie39. Più o meno nello stesso lasso di tempo si trova un numero crescente di riferimenti a imagines de cera in cui l’associazione con una persona viene rafforzata dal ricorso ad accorgimenti artistici che, se mirano fondamentalmente alla differenziazione, arrivano anche all’individuazione fisionomica. Talora si parla di donatori che promettono l’offerta della «propria immagine»40, espressione che può significare semplicemente l’introduzione di caratteri maschili o femminili oppure di riferimenti figurativi all’età infantile o adulta o ancora di segni allusivi allo status sociale; talaltra, il richiamo individuale sembra essere più preciso: nel Processo di canonizzazione di Nicola da Tolentino si racconta

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di due anziani coniugi che, temendo per la sorte del proprio figlio Venturino gravemente malato, fanno voto di donare al beato un’immagine di cera modellata «a somiglianza di quello stesso ser Venturino»41, mentre Franco Sacchetti, parlando di un vecchio stolto e superstizioso di nome Pietro Foraboschi che aveva donato alla Nunziata dei Servi di Firenze una statua di cera, sottolinea (forse con una punta d’ironia) «ch’ella somiglia proprio Pero Foraboschi»42. Probabilmente queste sculture riproducevano non solo l’altezza o le dimensioni in genere del donatore, ma imitavano anche certe sue caratteristiche fisiche, benché non ci sia dato di verificare fino a che punto si potesse parlare di rappresentazioni «realistiche». Lo sviluppo in questa direzione è stato senz’altro favorito dal radicarsi dell’uso di offrire immagini di dimensioni analoghe alle proprie, nonché dall’introduzione del colore, sulla quale si hanno indizi già nel secolo XIV43; tuttavia, occorre sottolineare che, sebbene nel corso del Tre-Quattrocento ci sia testimoniato l’emergere – a Firenze ma anche presso le grandi corti europee – di una produzione ceroplastica sempre più in sintonia col gusto e con le tendenze formali delle altre arti, quello dei ritratti votivi rimase probabilmente sempre un fenomeno limitato, circoscritto a una élite composta da regnanti, esponenti dell’aristocrazia, uomini di potere, ovvero da coloro che, per motivi di rappresentanza, di prestigio, di affermazione, abbisognavano più degli altri di immagini differenziate. La regina d’Aragona Eleonora di Sicilia, che si impegnò molto per l’esecuzione di ritratti in cera del marito Pietro il Cerimonioso da spedire nei maggiori santuari del suo regno, commissionò le sue opere a botteghe di pittori e richiese specificamente delle rappresentazioni verisimili che segnalassero il ruolo politico del personaggio: coerentemente, al monastero di Sant Martí di Valldosera inviò nel 1357 «un’immagine di cera che aveva fatta a somiglianza [semblança] del signor re, dorata e con diversi colori, col pomo e lo scettro che la detta immagine tiene nelle mani e con un tabernacolo di legno dipinto»44.

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Difficilmente i fedeli avrebbero potuto scambiare una simile effigie col ritratto di qualcun altro. In oggetti come questo, come più tardi nelle effigi ceroplastiche di Lorenzo il Magnifico45, intenti chiaramente politici e celebrativi si mescolavano inevitabilmente a quelli propriamente religiosi e si trattava di opere polimateriche, che comprendevano parti in legno e in metallo e potevano essere abbigliate con vesti vere e proprie; l’esempio più antico giunto sino ai nostri giorni è quello del conte di Gorizia Leonhardt (c. 1470) oggi nel Ferdinandeum di Innsbruck, ma proveniente dalla Val Pusteria46: rappresentato in ginocchio e con le mani giunte in preghiera, nell’abito che indica la sua speciale dignità, quest’uomo ha un aspetto fortemente individualizzato e l’artista ha avuto cura di renderlo riconoscibile, ispirandosi probabilmente ad altri generi di ritratto come quello funerario o dinastico. Detto questo, è interessante osservare come, nell’ottica dello scambio votivo, il ricorso a una rappresentazione verisimile, se non a una vera e propria ricerca di individuazione fisionomica, fosse comunque percepito come un mezzo efficace, al pari delle varie forme di corrispondenza analogica, per suggerire l’idea della sostituzione del «vovente». A questo processo si accompagnò la tendenza a utilizzare la cera anche per dar vita a soluzioni narrative, che potessero illustrare le situazioni di pericolo superate grazie alla formulazione del voto e al conseguente intervento miracoloso del santo. Se nel Processo di canonizzazione di san Ludovico da Tolosa (1274-1297) troviamo un intero equipaggio che, scampato da una tempesta, fa dono al santo di una barca di cera «con tante immagini di cera quanti erano gli uomini nella detta barca» e una madre che, per ottenere la protezione sul figlio nato prematuro, presenta al suo sepolcro la figura del bambino dentro la culla47, nella Vita del beato Gioacchino da Siena (1258-1306) un uomo ingiustamente imprigionato nelle carceri di Massa Marittima invoca il servita promettendogli «un carcere di cera con la sua immagine dentro», mentre

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un soldato disarcionato gli fa voto della propria immagine a cavallo48. Nel Trattato dei miracoli del beato Gerardo da Valenza, invece, si parla di un uomo che si vede perduto nel momento in cui viene sottoposto, a Pisa, alla terribile tortura dell’eculeo e, disperato, grida la sua innocenza invocando il frate francescano in modo tale da impietosire i carnefici. Liberato, si affretta a far rappresentare con esattezza la scena in una composizione che ci è così descritta e commentata: preparato immediatamente il voto, si presentò dinanzi al beato Gerardo [sc. alla sua immagine] offrendo umilmente una figura di cera a sedere su una tavola e legata con i ferri, col ceppo e la spada pronta per amputargli la testa, quasi a suggerire che per mezzo del beato Gerardo era stato liberato dal legame del ferro e dalla morte di spada49.

La chiesa come luogo delle immagini Gli oggetti figurativi erano presenti pressoché dappertutto all’interno delle chiese medievali; erano realizzati nei materiali e nelle tecniche più diverse, comparivano su supporti differenti tra loro e rispondevano a esigenze e funzioni disparate a seconda del contesto specifico in cui erano inserite50. In alcuni edifici prevaleva un progetto unificante della decorazione pittorica o scultorea, che comportava la disposizione lungo l’intero spazio dalla navata al presbiterio di una sequenza ininterrotta di scene e figure sacre (tratte ora dalle Sacre Scritture, ora da un racconto agiografico); questa soluzione era spesso stimolata dal desiderio di emulare i programmi figurativi in uso nell’antichità cristiana, e in particolare quelli prestigiosi e solenni conservati nella città di Roma. Una scelta in questo senso fu adottata, ad esempio, negli affreschi della basilica superiore di Assisi, dove gli episodi più significativi della vita di san Francesco, raffigurati nella parte più bassa delle pareti, furono associati con storie dell’Antico e del Nuovo Testamento nelle parti più alte e nella zona

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del presbiterio e del transetto. Per converso, la soluzione analoga che si era adottata a metà Duecento nella basilica inferiore fu stravolta nel giro di pochi anni, giacché si prese la decisione di sfondare le pareti per la costruzione di un buon numero di cappelle, ciascuna delle quali fu decorata da autori diversi (tra cui Giotto e Simone Martini) con scene relative ai santi lì commemorati51. In altri casi – forse i più numerosi – regnava una vera e propria distribuzione caotica delle immagini. Era soprattutto al di qua del tramezzo, nella parte della chiesa riservata ai laici, che le pareti e le colonne si trovavano ad essere rivestite di semplici riquadri ad affresco che contenevano figure di santi e, all’occorrenza, ritratti di donatori con stemmi e iscrizioni. Si trattava di opere che venivano realizzate volta per volta per iniziativa di singoli individui desiderosi di manifestare così la propria pietà e il proprio desiderio di salvezza; non avevano costi elevati, per cui erano sostanzialmente alla portata di una vasta fascia di popolazione e di solito non venivano considerati cose di gran pregio, al punto che, come si racconta nelle facezie del piovano Arlotto, potevano essere distrutte e cancellate senza troppi scrupoli per far posto a nuove immagini; nel duomo di Orvieto le autorità comunali arrivarono addirittura a vietarle per legge perché considerate inadatte al decoro di una chiesa così bella52. In grande misura venivano realizzate per il rimedio dell’anima di qualcuno che a questo scopo aveva disposto un lascito testamentario, oppure in seguito a una donazione individuale, motivata magari dal desiderio di propiziarsi o di ringraziare il personaggio sacro rappresentato, quindi con finalità analoghe a quelle degli ex voto. A titolo di esempio, nella bellissima immagine ad affresco con San Romualdo in trono che Tomaso da Modena, verso gli anni Cinquanta del Trecento, eseguì su un pilastro della chiesa di San Nicolò a Treviso53 sono raffigurati, nella parte inferiore, una donna che ha le manette legate alla veste e un uomo che, con l’abito sbottonato in segno di penitenza, offre al santo un grosso cero

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(Tav. 11): in questo modo veniva illustrato un atto rituale che all’epoca era molto comune, quello con cui una coppia liberata dalla prigionia dava soddisfazione materiale al voto pronunciato per ottenere la liberazione. In un affresco con San Ludovico di Tolosa nella chiesa di San Francesco ad Asciano è invece rappresentata, in un modo molto commovente, l’emozione di una madre che grazie al santo si è vista restituire vivo il suo bambino, scampato a chissà quale pericolo54. Nell’uno e nell’altro caso l’intento di fondo era quello di manifestare di fronte ai propri concittadini e, ancor più, agli occhi dell’Onnipotente la personale volontà di rimettersi alla misericordia divina, nella speranza di ottenere una buona sorte in questa e nella vita che sarebbe iniziata dopo la morte. Nel corso del Trecento il finanziamento di immagini votive e «pro anima» si impose come il metodo più comodo ed efficace per rimettere in pari la bilancia dei propri peccati, al punto che molti si infastidivano nel vedere gli edifici sacri pullulare di stemmi, nomi e ritratti di ladri, usurai e altre pessime persone; addirittura, come dimostra un improperio registrato in un documento lucchese del 1356, questo argomento veniva usato per rimproverare qualcuno di aver la coscienza sporca: Asino sanguinente che tu se’, furo e ladro che rubbi li buoni homini e le buone donne di questa terra e poi ve fe’ dipingere le chiese per essere tenuto buono homo... E se’ uno asino che vale meno che uno mulo55.

Le immagini «pro anima» erano presenti un po’ dappertutto, anche se dovevano essere particolarmente numerose nelle chiese degli Ordini mendicanti. All’interno di queste, che si proponevano all’attenzione del pubblico anche come le più moderne dal punto di vista architettonico perché realizzate sulla base di criteri costruttivi e stilistici di derivazione gotica, i cicli narrativi non erano assenti, bensì erano concentrati in spazi precisamente delimitati, vale a dire nella zona dell’al-

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tare (con le pitture murali disposte nella cappella maggiore, sull’arco trionfale, sulle pareti adiacenti, ecc.), nell’eventuale transetto e nelle finestre chiuse da vetrate policrome56. All’interno delle chiese francescane ci si rifece molto spesso al modello autorevole del ciclo giottesco di Assisi, proponendo una selezione degli episodi più significativi e adattandola ad ambienti più ristretti: in questi casi, probabilmente, i frati dovevano vigilare con maggiore attenzione sulle scelte iconografiche che venivano adottate e per questo qualche studioso ha anche proposto di leggere il fenomeno come una deliberata volontà di propaganda ed autopromozione da parte dell’Ordine; detto questo, non bisogna dimenticare che molto spesso il sostegno finanziario alle campagne di decorazione monumentale era fornito da singoli privati, ai quali premeva che il loro ruolo venisse ricordato e reso pubblicamente riconoscibile57. Una grande varietà di immagini, sia mobili che fisse, si addensava sul tramezzo e sulle altre strutture che marcavano la divisione tra il coro e lo spazio dei laici; giacché era verso di queste che si indirizzavano gli sguardi durante la liturgia e dato che solo alcuni momenti del rito, attraverso una sapiente regia, erano palesati agli occhi del popolo, gli oggetti figurativi che vi erano dislocati assumevano un ruolo di grande importanza. Poiché erano destinati a catturare l’attenzione dei fedeli durante le parti più solenni del rito (in particolare alla recitazione del Canone della messa), era naturale che venissero investiti di una forte carica emotiva; per converso, essi stessi potevano essere costruiti in modo tale da stimolare sentimenti forti nell’osservatore e suggerirgli l’atteggiamento da tenere durante il compimento del miracolo eucaristico. Il tema più ovvio per un tramezzo era l’effigie di Cristo crocifisso e la sua ubicazione giusta era esattamente nel mezzo: raffigurandolo morto sulla croce, e magari ponendo enfasi sul dolore sofferto con l’uso esasperato di certi dettagli come fiotti di sangue, occhi stravolti o pose contorte del corpo, si otteneva l’effetto di creare compunzione, cioè rimorso e desiderio di pentimento, nell’osservatore. L’inclinazione del-

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l’opera verso il basso, come si vede nel già citato affresco con Il presepe di Greccio (Tav. 3), doveva servire ad aumentare la sensazione di prossimità al Salvatore. Se gli si accostava poi una tavola con l’effigie della Madonna col Bambino, si era in grado di far passare il messaggio per cui il Figlio di Dio si era incarnato nel grembo di una Vergine allo scopo preciso di sacrificarsi per il riscatto dell’umanità peccatrice: su questo si doveva meditare, e piangere amaramente, per poter poi convincersi che porre rimedio ai propri errori era l’unica chance di cui si poteva disporre. Una bella immagine di san Michele Arcangelo, che figurava come lo «psicopompo» per eccellenza, colui cioè che era incaricato di trasportare le anime verso il Regno dei Cieli, stava a dimostrare che le insidie del demonio potevano essere sconfitte (come indicava la figura del drago da lui calpestata) e che chiunque, se veramente lo voleva, poteva aspirare alla vita eterna. Tale è la combinazione di immagini che si osserva nell’affresco con l’Accertamento delle stimmate, ambientato dentro la chiesa della Porziuncola, nel ciclo della basilica superiore di Assisi (Tav. 12)58. Il coinvolgimento emotivo dei fedeli che assistevano all’officio poteva essere ottenuto da tutta una serie di soluzioni iconografiche che ben si attagliavano ad illustrare il mistero dell’eucarestia e che potevano benissimo essere di tipo narrativo: fra i temi più consoni c’era il Giudizio universale, le sette opere di misericordia e, soprattutto, una selezione di episodi evangelici dall’Annunciazione fino alla Sepoltura di Cristo, con una particolare insistenza sui singoli momenti della Passione. In questo modo, in concomitanza con la recitazione in secreto (cioè sottovoce) del Canone, si sarebbe potuto ripercorrere mentalmente la storia sacra fino all’estremo sacrificio del Salvatore, il cui atto successivo, la Resurrezione, sarebbe stato reso evidente dall’elevazione dell’ostia da parte del sacerdote. Nella parte più bassa del tramezzo, poi, non sarebbe stato raro incontrare una sequenza di immagini di santi che godevano in quella chiesa di una venerazione particolare e la sua stessa

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struttura, se lignea, poteva addirittura essere costituita da un insieme di tavole dipinte disposte in successione59. Le immagini mobili potevano essere a due come a tre dimensioni e comprendevano oggetti come le tavole singole (realizzate a imitazione delle icone bizantine) e le loro diverse combinazioni (i dittici, i trittici e, a partire dal secolo XIV, i polittici), gli antependi o tavole frontali (con cui si copriva il lato anteriore di un altare), i dossali o «retabli» (che andavano a sovrastare la sacra mensa), le statue lignee (talora, ma non necessariamente, utilizzate anche come reliquiari), le loro più economiche varianti in gesso, le croci dipinte, i crocifissi tridimensionali, i gruppi «scenici» come le Deposizioni in uso soprattutto nella prima metà del Duecento60. Ciascuno di questi poteva essere realizzato in forme ridotte come in forme monumentali, a seconda della collocazione e della destinazione d’uso: se alcuni facevano parte integrante dell’arredo ecclesiastico, altri erano conservati per la maggior parte dell’anno in un armadio o in un ambiente di servizio e venivano esposti solo in occasione di particolari festività. I frontali, i dossali e le croci astili costituivano elementi specifici del corredo d’altare, mentre alcuni oggetti più «sui generis», come le tavole a terminazione semicircolare o ovale61, all’occorrenza potevano essere utilizzate per decorare una lunetta oppure l’incavo superiore di una cappella-nicchia; la tavola di Ilario da Viterbo nella chiesetta della Porziuncola costituisce probabilmente l’unico esemplare ancora in situ di questa categoria62. Altre figure sacre potevano trovare un’ubicazione al di sopra di mensole, travi e transenne, oppure finire appese al soffitto. Quest’ultima soluzione era condivisa da un nutrito gruppo di oggetti sacri, anche piuttosto bizzarri, come l’«asta di san Giorgio» che nel secolo XIII pendeva sopra l’altar maggiore di Sant’Eustorgio a Milano o la tavola del miracolo dei pani di san Domenico che era fissata a una trave nella navata della chiesa di Santa Maria della Mascarella a Bologna63. Le uova di struzzo, che si vedono raffigurate in tutta una serie di dipinti del Tre e Quattrocento mentre pendono da vol-

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te e archi trionfali, erano realmente utilizzate in questo modo nell’arredo degli edifici sacri: Durando ne approvava l’impiego in quanto oggetti curiosi che servivano per la loro forza d’attrazione nei confronti del popolo64. Le immagini destinatarie di un culto speciale erano in genere collocate all’interno di un’apposita edicola o tabernacolo (o, in altre parole, una «cappella»), al di sopra di un altare. Si considerava che tali strutture conferissero una particolare dignità all’oggetto contenuto e per questo motivo spesso accadeva che i committenti chiedessero l’esecuzione di un «cielo» completamente identico a quello che svolgeva analoghe funzioni in quella stessa chiesa o in un’altra. Le confraternite che non disponevano di un ambiente autonomo non di rado usavano raccogliersi di fronte a un simile tabernacolo disposto nello spazio della navata al di qua del coro. Tra Due e Trecento una compagnia di Laudesi nel piccolo castello di Cigoli, nel Valdarno inferiore, ne costruì uno addossandolo a una parete nella navatella settentrionale della locale prepositura di San Michele Arcangelo; il rettore della chiesa non se ne curò più di tanto finché non si accorse che all’«icona» che vi era inserita la gente aveva cominciato ad offrire cospicue somme di denaro, «provenienti», come si disse, «dalla vista ossia dall’aspetto devoto di quella stessa immagine»65. Per le comunità di penitenti laici l’effigie sacra svolgeva il ruolo di controparte visiva nelle pratiche di devozione; a lei era assegnata la funzione di catalizzare l’attenzione e al contempo di permettere la realizzazione di un vero e proprio dialogo con i suoi osservatori. La sua percezione era fortemente condizionata dal contesto cerimoniale in cui era coinvolta: nel momento in cui tutti i partecipanti si raccoglievano intorno ad essa, ciascuno con una candela accesa in mano, doveva risultare emozionante l’impatto della luce artificiale che rendeva presente il personaggio rappresentato evidenziando le sue forme ed amplificando i colori e il luccichio del fondo dorato. La preghiera che il gruppo intonava attraverso il canto delle laudi veniva espressa incrociando gli sguardi con

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quelli della Vergine e di Cristo raffigurati sull’icona; tutto concorreva, nella singolare esperienza che si metteva allora in atto, ad enfatizzare l’umanità di Maria e a suggerire l’idea per cui ci si poteva rivolgere a lei con confidenza e familiarità. Per onorarla, infatti, si faceva ricorso a testi composti nella lingua corrente, ossia in volgare anziché in latino, e ci si avvaleva di forme musicali «popolari», tratte dal repertorio della musica profana e basate sull’accentuazione ritmica, come in particolare la «ballata»: si trattava evidentemente di una possibilità inedita, che permetteva anche ai non chierici di sperimentare, attraversa una sorta di rito paraliturgico in cui l’immagine sacra era l’elemento fondamentale, un rapporto più immediato con i protagonisti della fede66. Il termine «ycona» designava solitamente una tavola dipinta raffigurante un santo personaggio, preferibilmente, come nei modelli bizantini, dall’ombelico in su, ovvero a mezza figura. Col passare del tempo il termine fu utilizzato genericamente per designare un ritratto sacro, talora anche in riferimento ad affreschi o a immagini in tre dimensioni. Di fronte a questi si usava raccogliersi per impetrare un beneficio in questa o nella prossima vita ed era a loro che si portavano le offerte e gli ex voto. Se gli oggetti più pesanti venivano deposti ai loro piedi, altri venivano fissati (anche malamente) alla sua superficie: più se ne potevano vedere, più si poteva dedurre che per mezzo di quella sacra immagine erano state concesse grazie straordinarie. Di tale caotica abbondanza possiamo renderci conto solo da rari documenti come gli atti di un processo celebrato a Macerata nel 1315 contro un gruppo di rapinatori sacrileghi che avevano fatto man bassa delle offerte nella chiesa della Vergine di Loreto (ancora non identificata con la casa di Nazareth); costoro, una volta entrati nell’edificio, portarono via tutte le oblazioni, i ceri, le candele e le figure di cera e d’argento e presero, asportandole dall’immagine della beata Vergine e dalla sua icona così come da quella di Nostro Signore Gesù

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Cristo che era nella stessa icona, tutte le ghirlande d’argento lì deposte, con gambe e senza gambe, nonché le bende, i veli e le tovaglie di seta e non di seta...67

Le statue si prestavano anche meglio delle tavole ad essere ricoperte di oggetti. L’uso più comune, soprattutto da parte delle donne, consisteva nel privarsi di un elemento del proprio guardaroba personale per farne dono alle effigi della Vergine Maria e dei santi. Le signore più abbienti, sia attraverso donazioni che per mezzo di lasciti testamentari, solevano spesso donare i propri mantelli più eleganti, così come le cinture e i gioielli più preziosi, alle statue mariane; quelle più modeste si accontentavano di portare in chiesa un bel fazzoletto ricamato per metterlo sulla testa della Madonna. Una volta, raccontava fra’ Filippo degli Agazzari, una di queste manifestò la propria reverenza alla figura della Madre di Dio che era nella chiesa di Castiglione in Val di Pesa adornandole il capo con un bello «sciugatoio»; ma uno dei giovani rampolli di una famiglia nobile a cui spettava il patronato sull’edificio, quando lo vide, se lo portò a casa e la sera dopo lo adoperò per asciugarsi i piedi (dopo esserseli lavati). Senonché quest’oltraggio non rimase impunito: infatti le sue gambe furono presto consumate da una lebbra mortale che nel giro di un anno lo spedì all’altro mondo68. Un modo anche più comune di onorare un’immagine consisteva nel fornirle una fonte di illuminazione. L’atto di devozione più comune consisteva nell’accenderle una o più candele davanti; queste si acquistavano dal ceraiolo (solo abbastanza tardi si cominciò a venderle anche presso i maggiori luoghi di culto) e avevano prezzi diversi a seconda del peso, delle dimensioni e dell’elaborazione artistica che le contraddistingueva: le forme più pregiate erano i grossi e pesanti ceri (all’occorrenza personalizzati con stemmi e altre pitture) e i torchi e torchioni, ben riconoscibili per la loro caratteristica forma serpentinata (Tav. 11). Al di là del valore materiale di questi ultimi, il loro prestigio consisteva nel fatto che erano

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in grado di illuminare la sacra effigie di una luce più intensa e più duratura; quella che risultava meglio illuminata era percepita al contempo anche come la più importante e più sacra, anche se questo contraddiceva il sistema dei rapporti gerarchici del Paradiso: Franco Sacchetti lamentava, ad esempio, che ai suoi tempi ai ritratti votivi di papa Urbano V, morto solo pochi anni prima (nel 1370), venissero accese candele più grandi e più belle di quelle destinate al crocifisso69. Più efficace ancora era indubbiamente l’illuminazione per mezzo di una lampada ad olio. Questa, spesso realizzata in metalli nobili e in forme che imitavano l’aspetto di un’architettura gotica – un testatore del 1257 parla ad esempio di una «lanterna con edifici»70 – spesso nelle intenzioni dei committenti doveva ardere in modo costante, di notte come di giorno, e per questo era mantenuta col ricavato della coltivazione di uno o più alberi d’olivo messi a disposizione per questo scopo. In alcuni ambienti particolarmente solenni, come potevano essere le cappelle maggiori o quelle che ospitavano tombe di santi, ci si avvaleva talora di maestosi lampadari circolari (coronae pendentes), che dovevano esercitare un impatto fortissimo sugli spettatori, non abituati a una simile intensità luminosa (Tav. 12)71. Lo spazio dei chierici Per entrare in chiesa i religiosi che seguivano una forma di vita comune utilizzavano di norma il passaggio che comunicava con le strutture residenziali della loro istituzione d’appartenenza (ossia il convento, il monastero o la canonica): da una porta laterale si poteva accedere alla parte dell’edificio più prossima al presbiterio e posta al di là del tramezzo principale, che era percepita come più nobile e solenne del «corpo» della chiesa in cui si disponevano i laici. Nella letteratura liturgica questo settore era designato col termine «coro», con cui si intendeva propriamente il luogo in cui una comu-

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nità religiosa si disponeva per assistere alla liturgia, nella quale svolgeva un ruolo attivo con l’esercizio del canto. Mentre per i laici non erano previste né panche né sedie, i frati, i monaci e i canonici si avvalevano di una struttura specifica – cioè il «coro» vero e proprio – in cui potevano accomodarsi con un certo agio: si trattava per lo più di un «recinto» in muratura o in legno a forma di pi greco, col lato aperto rivolto verso l’altare; al suo interno erano collocati ora semplici bancali, ora degli stalli individuali, forniti di sedile ribaltabile, schienale e braccioli, che nel corso del tempo si trasformarono in raffinati oggetti artistici, decorati con preziosi intarsi, pitture e figure a carattere sia sacro che profano (come nel caso delle «misericordie» inglesi), nonché con gli stemmi e le armi appartenenti ai donatori laici72. Altro elemento indispensabile dell’arredo di questa parte della chiesa era il leggio utilizzato dal religioso (propriamente il cantore) che dirigeva l’esecuzione dei brani cantati (Tavv. 3, 14, 16)73. L’illuminazione era assicurata, oltre che dalla lucerna che pendeva sopra il leggio stesso, da una serie di lampade appese al soffitto, che tuttavia si accendevano solo se ce n’era veramente bisogno: quando si verificavano le eruzioni dell’Etna, i frati Minori di Messina riuscivano a farne a meno anche nella semioscurità dell’officio mattutino74. L’ubicazione del coro poteva variare a seconda dei casi. Nell’uso delle grandi basiliche romane, dove si svolgeva il rito pontificale, i chierici stavano disposti dietro l’altare, ovvero nella zona absidale; questa consuetudine fu accolta e sviluppata anche in alcune delle chiese più importanti fuori dall’Urbe, come la basilica superiore di Assisi, il cui modello fu poi ripetuto, nel corso del XIV e XV secolo, anche in tutta una serie di edifici minori che accolsero gli stalli nella zona presbiteriale (dando vita alla formula architettonica del «retrocoro» che ebbe grande fortuna in età moderna)75. Più comunemente, questa struttura occupava la parte superiore della navata ed era posta a ridosso della barriera divisoria, talora fondendosi con quest’ultima fino a costituire

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un unico organismo architettonico. Un dipinto del Sassetta oggi al Louvre (Tav. 15) raffigura, in termini compendiari, l’aspetto di un comune coro ligneo tardomedievale, collocato a metà fra il corpo della chiesa e il presbiterio su cui si ergeva l’altare; da quest’ultimo era spesso separato da recinzioni lignee e marmoree, da transenne e cancelli o semplicemente da una serie di gradini. Una testimonianza importante ci è offerta dall’assetto della piccola chiesa dell’antico eremo francescano di Greccio (Fig. 15): qui, anche per le ridotte dimensioni dell’edificio, gli stalli corali sono posti in prossimità dell’altare e fanno tutt’uno col tramezzo, che è dotato di un’unica porta al centro e di due piccole finestre ai lati, che consentivano ai fedeli di gettare uno sguardo al di dentro nei momenti rituali in cui era loro consentito76. Le soluzioni più grandiose e monumentali si avevano nelle grandi cattedrali gotiche, dove il coro poteva essere anche molto profondo e consistere in una struttura chiusa, all’occorrenza rialzata, che inglobava nel suo perimetro anche il presbiterio con l’altar maggiore. In quello di Notre-Dame a Parigi i lati esterni furono decorati, intorno al 1320, da una serie di rilievi policromi che illustravano con grande efficacia narrativa i principali episodi della storia evangelica: il loro messaggio era rivolto, evidentemente, non ai canonici, che durante l’officio non potevano vederli, bensì ai laici di sesso maschile che erano ammessi a circolare nelle navate laterali e nel deambulatorio77. Come abbiamo visto, tale è la situazione descritta dall’affresco assisiate, in cui Il presepe di Greccio è rappresentato come se avesse luogo in un edificio sontuoso, piuttosto che in un umile eremo (Tav. 3). All’occorrenza – e segnatamente in certe circostanze particolari – la presenza degli uomini in prossimità del recinto del coro veniva tollerata, a patto che si tenessero da un lato, mentre alle donne non era concesso per nessuna ragione di valicare la porta del tramezzo: quando, in una visione, la beata pisana Gherardesca si sentì trasportare

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nel coro della chiesa abbaziale di San Savino, esclamò in preda al terrore: «Oh, quante ingiurie mi faranno i monaci se verranno e mi troveranno qui!»78. La restrizione valeva in teoria anche per i maschi, ma era naturale che si allentasse soprattutto negli edifici di piccole dimensioni, dove non era forse neanche fisicamente possibile costringere tutti nel solo spazio della navata inferiore. Certo è che il divieto spesso cadeva non solo nei confronti dei vivi, ma anche in relazione ai morti e alle sepolture, che si consideravano particolarmente vantaggiose per l’anima se collocate in prossimità dell’altare (tra i luoghi privilegiati c’erano senz’altro i gradini del presbiterio, che spesso recavano gli stemmi di coloro che erano inumati ai loro piedi). Anche in virtù della loro ubicazione durante il rito le comunità religiose che sedevano nel coro svolgevano un ruolo di mediazione tra il popolo e il clero officiante: in primo luogo dovevano essere d’esempio e rispettare certe regole basilari del galateo religioso, come portare abiti confacenti al loro ruolo e mostrarsi in un aspetto decente, da cui si potesse subito comprendere che si trattava di membri del clero; i canonici, ad esempio, dovevano indossare una cappa o un mantello o una pelliccia e fare attenzione ad avere sempre i capelli non troppo lunghi, affinché la gente potesse vedere bene la chierica. Analogamente, bisognava che stessero seduti in modo composto e non, come l’arcivescovo di Pisa Federico Visconti rimproverava ai suoi canonici, «con un piede sul sedile alla maniera del fabbro ferraio quando tiene il piede sull’asta del mantice»79. In seconda istanza, a loro spettava il compito di incitare i fedeli alla partecipazione emotiva all’officio sacro e fare letteralmente le loro veci rispondendo ad alcune formule recitate dal sacerdote; nel canto, in particolare, dovevano impegnarsi al meglio onde interpretare i brani nel modo più toccante e commovente, affinché la gente ne fosse affascinata. Infatti, come scriveva Durando,

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l’uso del canto nella chiesa è stato istituito non per i chierici [spirituales], bensì per i laici [carnales], affinché chi non è compunto dalle parole sia commosso dalla soavità della modulazione80.

In altre parole, il rapimento mistico doveva essere suggerito per mezzo di un’emozione estetica che, dal tardo XII secolo in poi, fu ottenuta anche grazie ai virtuosismi della composizione polifonica81. Questa tecnica musicale, basata sull’esercizio del contrappunto, ovvero della combinazione simultanea di note di differente altezza, si sviluppò in Francia settentrionale e in Inghilterra più o meno nello stesso periodo in cui si andava affermando il modello gotico di architettura sacra e al pari di quest’ultimo si diffuse rapidamente, nel corso dei secoli XIII e XIV, anche nel resto dell’Europa, pur suscitando resistenze e opposizioni. C’erano alcuni, nelle alte gerarchie ecclesiastiche, che trovavano sgradevole quel «canto fratto» che, per le continue interruzioni che comportava, impediva la comprensione delle parole: per questi bisognava a tutti i costi salvaguardare la tradizionale monodia gregoriana e non cedere alle lusinghe dell’innovazione. Per altri, al contrario, la nuova corrente musicale andava promossa perché era molto più capace di coinvolgere gli uditori e in questo obiettivo mistico doveva far leva non sulla ragione e sul significato delle parole, bensì sulla gioia interiore che l’assemblea dei fedeli doveva provare nel ricongiungersi a Dio – qualcosa cioè che non si poteva né esprimere a voce né tacere.

IV L’USO DELLA CHIESA Il Santo dei Santi Il canto era solo uno degli elementi che concorrevano ad esaltare la solennità e la dignità (in una parola: la sacralità) dell’officio liturgico, e in particolare del suo momento più importante, quello della consacrazione del pane e del vino eucaristici, in cui, come aveva precisato il Concilio celebrato al Laterano nel 1215 (IV Lateranense), avveniva il miracolo della Transustanziazione (ossia dell’autentica trasformazione delle sacre specie nel corpo e nel sangue di Cristo). Il compiersi di questo mysterium tremendum veniva enfatizzato attraverso tutta una serie di effetti visivi, sonori e anche olfattivi che possiamo tentare di comprendere solo nella loro stretta interazione, giacché il loro scopo era comune e unico: coinvolgere emotivamente i fedeli in un evento che, come scriveva Durando, «li avrebbe ammoniti a perseverare nell’unità di una devozione rivolta a un unico Dio»1. Innanzitutto, la messa doveva essere recitata in un ambiente che doveva immediatamente essere riconoscibile come più sacro di ogni altra parte dell’edificio: corrispondeva al «Santo dei Santi» biblico e in virtù di questo suo status doveva essere accessibile solo a chi ne era degno, ossia ai ministri del culto. Rispetto al coro, questo spazio si distingueva molto spesso per la presenza di qualche forma di separazione fisica, come poteva essere un piano rialzato a cui si acce-

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deva per mezzo di gradini o una barriera sottile come una transenna o una balaustra. Suo punto focale era l’altare maggiore, nei confronti del quale il sacerdote si disponeva in modo diverso a seconda degli usi liturgici del luogo in cui la chiesa si ergeva: se nelle grandi basiliche romane e presso le istituzioni che, fuori dall’Urbe, si richiamavano a tale modello papale si faceva ricorso all’antica forma di celebrazione «verso il popolo», in altri contesti prevaleva il costume di officiare dando le spalle ai fedeli. Questa differenza era sostanzialmente dovuta all’orientamento degli edifici: poiché il celebrante doveva compiere gli offici guardando verso est, lo faceva disponendosi in direzione della navata nei luoghi sacri che avevano l’abside rivolta verso occidente, mentre accadeva l’inverso quando la struttura era effettivamente «orientata». Tale è la situazione descritta nel Presepe di Greccio ad Assisi (Tav. 3): l’officiante è disposto dietro la mensa e, come a Roma, guarda verso i fedeli; i maschi laici che sono penetrati oltre il tramezzo provengono dal lato destro, cioè nord, che è loro destinato e che è lo stesso in cui non a caso è collocato anche il pulpito, giacché era da questo, coerentemente con un antico principio, che doveva affacciarsi il chierico quando leggeva il Vangelo rivolto «verso settentrione»2. Per il suo significato fondamentale, la sacra mensa doveva esser dotata di un adeguato corredo di utensili e ornamenti che non poteva esser meno prezioso di quello utilizzato nel resto della chiesa per gli altari secondari (Tavv. 13, 14, 16, 20). Non erano pochi gli oggetti necessari per lo svolgimento di un rito solenne com’erano tutti quelli che avevano luogo sull’altar maggiore: c’era bisogno di un calice, di una patena, di due ampolle per il vino e per l’acqua, di due candelabri e di una croce, e non era male se questi erano eseguiti in materiali preziosi, rilucenti e variamente ornati grazie alle raffinate tecniche dell’oreficeria. Altro elemento fondamentale era la presenza di un sacramentario o di un buon messale, meglio se arricchito da una bella rilegatura e da una serie di variopinte miniature al suo interno, tra cui era essenziale la pre-

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senza dell’effigie di Cristo crocifisso perché, come scriveva Durando, la vista dell’immagine richiamava alla memoria il Sacrificio di Cristo allo stesso modo in cui la lettura del testo lo evocava per mezzo dell’udito e l’ostia lo rendeva presente tramite il gusto3. La pisside era il contenitore tradizionale per le sacre particole, da cui, in alcuni edifici particolarmente eminenti, si usava estrarle per mezzo di uno strumento tanto speciale quanto potevano esserlo le pinze eucaristiche. Le disposizioni canoniche imposero, nel Due e Trecento, che le ostie consacrate venissero conservate in un luogo sicuro, di solito chiuso a chiave: questo poteva consistere sia in una cavità nella parete della tribuna absidale o della sacrestia, sia in un tabernacolo collocato direttamente sulla sacra mensa (noto come gradino d’altare). Il calice e la patena, dopo l’uso, dovevano essere lavati accuratamente in una vaschetta – la cosiddetta piscina (Fig. 12) – collocata nel santuario o nella sacrestia e quindi andavano anche asciugati con un panno (detto pannus tersorius o manutergium) che si teneva appeso all’altare stesso. L’insieme delle stoffe che costituivano la cosiddetta «biancheria d’altare» non era considerato meno prezioso degli oggetti in oreficeria, tant’è vero che di tanto in tanto accadeva che qualche spregiudicato prete di campagna li impegnasse per pagare i debiti di gioco4. C’erano i piccoli pezzi di stoffa pregiata, come le palle o animette con cui si copriva il calice quando non era utilizzato (allo scopo, fra l’altro, di evitare che mosche e altri insetti finissero nel vino eucaristico) o i corporali su cui lo stesso calice o la patena andavano collocati. La mensa vera e propria era coperta da una serie di tovaglie bianchissime che dovevano essere tenute sempre pulite; se accadeva tuttavia che vi cadesse sopra una goccia di vino, il sacerdote doveva cercare di lambirla con le labbra, quindi doveva lavare la stoffa per tre volte all’interno del calice e infine inserirla all’interno dell’altare: poiché era macchiata col sangue di Cristo, era ormai equiparata alle più preziose reli-

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quie, e per questo motivo se, invece che sulla tovaglia, il liquido cadeva sul pavimento non si poteva far altro che raccoglierlo con la lingua prima che qualcuno lo calpestasse5. Va anche ricordato, d’altra parte, che il suolo del presbiterio era spesso provvisto, al pari del coro, di tappeti6. Fra gli ornamenti più comuni dell’altare c’era il paliotto o antependio in stoffa, arricchito da decorazioni ora aniconiche o araldiche ora figurative, che veniva posto sul lato anteriore; di questo esistevano, come già si è visto, anche versioni in altre tecniche, come pannelli in oreficeria o tavole dipinte. Oggetti di quest’ultimo genere divennero sempre più frequenti, nel corso del Duecento, anche al di sopra della mensa, sul lato posteriore: qui furono collocate croci, tavole sagomate, icone, statue, rilievi, dossali e polittici; come negli altari secondari, svolgevano il ruolo di rendere presenti nel rito i personaggi sacri che godevano in quel luogo di una speciale venerazione, come il titolare dell’edificio, il protettore particolare dell’istituzione a cui la chiesa apparteneva e il santo o i santi le cui reliquie erano lì venerate. In molte diocesi, sin dalla seconda metà del Duecento, la presenza di immagini (in pittura o scultura) fu addirittura resa obbligatoria per disposizione episcopale e si suppone che questa innovazione abbia influito sullo sviluppo dimensionale delle mense eucaristiche7. Nel corso del Trecento la presenza di un polittico diventò pressoché irrinunciabile sull’altar maggiore, al punto che se ne cominciarono a fare delle stabili versioni in pietra o marmo, come si vede ancor oggi nelle chiese francescane di Pisa e Bologna; nelle chiese che prevedevano la presenza di un pubblico di chierici nella tribuna absidale si cominciò ad installare tavole decorate da ambedue i lati: l’esempio forse più antico è la celebre Maestà di Duccio di Boninsegna, eseguita nel 1311 per il duomo di Siena, dove il lato destinato alla visione da parte del popolo reca l’effigie della Vergine e dei diversi patroni della città, mentre nella zona retrostante compare uno dei più complessi e dettagliati cicli evangelici della storia dell’arte cristiana8.

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Il decoro della zona absidale non faceva altro che amplificare ed esaltare la bellezza e la dignità dell’altar maggiore. In alcuni luoghi si continuava ad erigere un maestoso ciborio al di sopra della sacra mensa, secondo un uso molto antico che non si è di fatto mai spento nella tradizione della città di Roma, ma anche laddove questa struttura non fosse stata presente la nobiltà del santuario poteva essere comunque suggerita dalla presenza di una volta a crociera. Nelle chiese degli Ordini mendicanti il ricorso a una copertura in muratura era stato inizialmente riservato unicamente alla cappella maggiore, così come solo a quest’ultima, nelle intenzioni delle prime generazioni di frati, avrebbe dovuto spettare il diritto di ospitare affreschi e finestre invetriate. Anche se queste disposizioni non furono rispettate molto a lungo per la diffusione incontenibile delle cappelle private, non si mancò mai di conferire alla zona presbiteriale l’aspetto più solenne e più sacro dell’intero edificio, dove particolarmente evidente doveva essere l’unità compositiva: gli affreschi disposti sulle pareti dovevano rappresentare storie relative al principale santo titolare della chiesa, lo stesso che compariva sul polittico e anche sulla vetrata nella parete di fondo; l’apparato decorativo, va da sé, era chiamato a rendere l’ambiente vario ed esuberante, mentre i materiali, la luminosità, gli arredi concorrevano a conferirgli un aspetto affascinante e «devoto»9. Bisogna sempre tenere in mente che il pubblico privilegiato della zona dell’altare era il clero celebrante; c’erano infatti elementi dell’arredo figurativo di cui il popolo nella navata poteva avere solo una percezione piuttosto scarsa: nel caso delle tradizionali absidi semicircolari sarebbe stato attratto soprattutto dalla decorazione della calotta emisferica della tribuna, così come in quelle poligonali sarebbero state soprattutto le vetrate e le figure disposte tra i costoloni ad attirare la sua attenzione. Che dire poi di una cappella maggiore di forma quadrangolare? La parete di fondo e la volta sarebbero state abbastanza ben visibili, più difficile doveva essere la lettura delle storie disposte sui muri laterali, specialmente

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nelle parti più basse. Non è un caso se, nelle sezioni inferiori di questi ambienti, comparivano sovente immagini il cui messaggio era rivolto esplicitamente ai chierici: ad esempio, il sacerdote doveva facilmente riconoscersi in un tema come San Zosimo che impartisce la comunione a Maria Egiziaca, che andò a decorare una nicchia vicino all’altar maggiore di San Francesco a Pistoia, laddove probabilmente si conservava l’ostia consacrata10. La funzione fondamentale degli ornamenti dell’altare e dell’abside stava non tanto nei suoi singoli elementi (che potevano apprezzare solo quei pochi a cui era concessa una visione ravvicinata) quanto nell’impatto complessivo che svolgeva sulla massa dei fedeli, nella misura in cui riusciva a creare un’aura di bellezza, di varietà, di ricchezza, di mistero, di straordinarietà intorno all’officio liturgico. Soprattutto in alcuni momenti particolarmente solenni del rito, il gioco dei colori e delle luci, l’abbondanza della figurazione, la sontuosità delle decorazioni dovevano combinarsi con gli effetti del canto, della musica e del profumo dell’incenso fino a creare una grandiosa e spettacolare scenografia, di cui era un elemento fondamentale lo stesso clero celebrante. L’attore principale del rito era il sacerdote, accompagnato nel caso delle celebrazioni più solenni da un numero variabile di accoliti (tra cui il diacono, il suddiacono, il ceroferario, il salmista, il lettore e l’ostiario); era importante che il suo aspetto fosse decoroso e che riflettesse la sua dignità di ministro del culto, e innanzitutto era bene che portasse attenzione a tenere i capelli corti e ad avere la barba sempre ben rasata, giacché si diceva che la peluria in eccesso nascesse dagli umori superflui dello stomaco e che fosse paragonabile ai vizi, di cui l’anima non ha bisogno: ma soprattutto in questo modo i preti avrebbero potuto richiamare l’innocenza e l’umiltà dei bambini e rendersi simili agli angeli, che erano sempre rappresentati come giovani imberbi11. In secondo luogo il sacerdote contribuiva all’effetto visivo della cerimonia attraverso gli abiti che portava addosso e che

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dovevano essere prima di tutto in buone condizioni: si raccomandava di presentarsi alle cerimonie con una cappa o una pianeta o una cotta, il cui colore mutava, a seconda del momento dell’anno liturgico e della festività particolare, come accade ancor oggi, con la differenza però che a quel tempo si può dire che quasi ogni chiesa locale seguisse i propri usi. Nella consuetudine romana si ricorreva al bianco (simbolo di purezza) nelle feste dei confessori e delle vergini, al rosso in quelle dei martiri (per via del richiamo al sangue da loro sparso per Cristo), al nero al Venerdì Santo e in generale nei giorni di astinenza e d’afflizione per i peccati, al verde nei giorni feriali e comuni; a queste quattro varietà cromatiche potevano sostituirsi, rispettivamente, il grigiastro, lo scarlatto, il viola e il giallo, ma in tutto questo non c’era assolutamente nulla di normativo12. Il celebrante si distingueva anche per il fatto che agiva come supporto di figurazione sacra allo stesso modo dei muri o delle tavole. Durando ricordava la consuetudine di raffigurare in particolare le immagini e le gesta degli apostoli e dei confessori «sia sulle pareti della chiesa, sia nella tavola che sta sul lato posteriore dell’altare, sia sulle sacre vesti e in altri luoghi»; in base a questo possiamo pensare che, in una chiesa intitolata a sant’Agostino, per fare un esempio, sarebbe stato possibile vedere l’effigie di quel padre della Chiesa sul polittico dell’altar maggiore e nella vetrata disposta nella finestra sul fondo, mentre le scene della sua vita, dispiegate sulle pareti della cappella absidale, sarebbero state in parte ripetute anche sulla pianeta del sacerdote. Tutte queste immagini, e nella fattispecie quelle che il prete «indossava», avevano un grande valore morale giacché invitavano a conformarsi a quegli antichi modelli di virtù; infatti, «portare sempre i suddetti padri sul petto equivale a meditare incessantemente sulla vita di quegli antichi santi»13. Di tutti gli indumenti liturgici il piviale era quello che meglio si prestava ad accogliere intere sequenze di scene sacre. Utilizzata nei grandi eventi rituali, quest’ampia sopravveste

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doveva mostrarsi preziosa e variopinta per mezzo di ricami a carattere sia ornamentale che figurativo; tra le più sontuose e apprezzate c’erano quelle che si producevano in Inghilterra (nella tecnica del cosiddetto opus anglicanum), di cui si conserva un celebre esemplare nel Museo Diocesano di Pienza che dispiega un intero ciclo di scene mariane (nei due ordini superiori) e due più brevi relativi alle gesta delle sante Margherita e Caterina d’Alessandria (Tav. 18). Molto probabilmente veniva indossato in origine in occasione delle feste della Vergine e delle due sante martiri e contribuiva ad illustrarne le straordinarie virtù agli occhi dei fedeli14. L’impatto visivo (ed emotivo) della liturgia Nei confronti del rito e, quindi, dello spazio deputato al suo svolgimento gran parte della popolazione doveva nutrire un sentimento misto tra l’attrazione e la difficoltà di comprensione. La lunghezza, l’uso del latino, la presenza di ostacoli visivi rendevano la partecipazione faticosa e impedivano di seguire con attenzione costante le diverse parti dell’officio. Il coinvolgimento dei laici era sempre molto limitato e variava da zona a zona, a seconda delle tradizioni locali, oppure sulla base delle diverse solennità annuali: in genere, gli unici veri momenti di contatto diretto tra i celebranti e gli astanti coincidevano con la processione dell’offertorio, col bacio di pace o ancora con la comunione, che tuttavia, per quanto possa sembrare curioso, in quei secoli era un evento raro, giacché implicava l’esercizio della confessione auricolare e l’assolvimento delle pene comminate secondo modalità spesso difficili da attuare (per un usuraio, ad esempio, sarebbe stato troppo controproducente restituire tutti i prestiti ricevuti ad interesse). Sebbene la Chiesa, anche per mezzo della predicazione in volgare praticata dagli Ordini mendicanti, cercasse spesso di convincere i laici a comunicarsi (e quindi a confessarsi) al-

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meno due o tre volte l’anno, il più delle volte fallì in questo intento: anziché l’ostia, molto frequentemente la gente si accontentava, anche per Pasqua e per le maggiori festività, di ricevere i pezzi di pane benedetto (le cosiddette eulògie) che venivano distribuite al termine della messa, un po’ come si usa fare ancor oggi nelle chiese ortodosse, ma soprattutto la tendenza più diffusa era a concentrare tutte le energie sulla visione del corpo di Cristo, anziché sulla sua assunzione come cibo liturgico15. Più in generale, della sacralità della messa in quanto tale si cercava di appropriarsi tramite l’udito o la vista: si considerava vantaggioso per l’anima mostrarsi devoti, cioè supplicare con particolare intensità i propri protettori celesti, nei momenti più evocativi del rito, pronunciando preghiere, accendendo candele, battendosi il petto e spargendo lacrime. Nel corso della liturgia della Parola (che è la parte iniziale della messa) particolare attenzione rivestiva la lettura del Vangelo, che uno dei chierici compiva affacciandosi verso il popolo dal pulpito e recitando i versetti latini, incomprensibili ai più ma tanto più sacri proprio in virtù di questo. L’aura quasi magica che marcava questo momento faceva sì che, in certe occasioni particolari, si cercasse di utilizzarla anche per scopi estranei alla vita religiosa; a Pavia, ad esempio, per la festa di sant’Agata si andava alla sua chiesa (quella cioè che le era intitolata in città) e, durante il Vangelo (non prima né dopo), si facevano scrivere a bambini innocenti dei brevi, ossia dei pezzetti di pergamena o di stoffa su cui veniva riportata la già ricordata formula dell’epitafio della santa. Questi oggetti, così benedetti dal fatto di trattenere qualcosa della sacralità dell’officio, venivano poi posti nei campi e nelle vigne per scongiurare la grandine; Opicino de Canistris lasciava libero il lettore di giudicare da sé se si trattava di devozione o di superstizione16. Le parole così come i gesti e gli atti compiuti dagli officianti erano caricati di una straordinaria intensità emotiva, giacché si riteneva che, nel rito di cui erano ministri, godes-

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sero di una relazione diretta e immediata con Dio; per questo motivo era vietato a chiunque profanare anche solo con lo sguardo l’unione mistica che, nella liturgia eucaristica, si metteva in atto fra Cristo e il sacerdote. Si raccontava ad esempio che il beato Francesco, un frate servita senese che nel recitare la messa appariva ricolmo d’una gioia incontrollabile, avesse così risposto a un suo compagno che aveva osato osservarlo al momento della consacrazione: Dio ti perdoni, figlio, per aver osato guardare la faccia del sacerdote. A nessuno è permesso guardarne il volto, né il sacerdote può guardare alcuno mentre è alla presenza del sacro Corpo di Gesù Cristo. Mosè entrava da solo nel Santo dei Santi e i figli di Israele non potevano fissare lo sguardo sul suo volto che era divenuto raggiante, perché aveva conversato con il Signore!17

Quello che avveniva durante la messa era un mistero troppo profondo e incomprensibile perché lo si potesse esporre alla vista e all’udito di tutti; ciò che accadeva era un vero e proprio miracolo, era l’autentica ripetizione dell’Incarnazione, del Sacrificio e della Resurrezione di Cristo che si metteva in atto nel punto più solenne dello spazio sacro grazie al ministero del clero celebrante. La rappresentazione di questo evento e le modalità di partecipazione della gente profana dovevano essere orchestrate con grande attenzione e saggezza, in modo tale da aumentare la devozione e la compunzione dei cuori: a tutto questo giovava molto creare un’atmosfera di suspence e di trepida attesa, alternando gesti di esclusione e di coinvolgimento, di assoluta inaccessibilità e di esibizione totale alla vista e agli altri sensi. Il popolo era tradizionalmente coinvolto nella processione dell’Offertorio, quando rappresentanti dei diversi ceti sociali facevano le loro offerte, cioè «li richi [riche] oferte, e li poveri povere oferte», come si tiene a precisare in una sorta di galateo religioso per laici composto a Milano agli inizi del Trecento18. I riti relativi alla deposizione del pane e del vino

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eucaristico si concludevano poi con un’abbondante incensazione che avvolgeva nel suo fumo odoroso e aromatico tutte le componenti dell’assemblea liturgica: la sacralità del Santo dei Santi si spandeva così per l’edificio attraverso l’azione del diacono che, mentre scendeva nella navata agitando il turibolo, spargeva incenso sulle offerte, sul sacerdote, sul coro e sulla comunità dei fedeli. Era come se, coralmente e all’unisono, tutta la comunità esprimesse una preghiera che saliva verso il cielo19. Dopodiché la celebrazione continuava letteralmente a porte chiuse. Le aperture del tramezzo (comprese le finestre) venivano serrate oppure occultate per mezzo di veli, e tutti coloro che rimanevano al di qua comprendevano in questo modo che stava per compiersi il mistero dell’eucarestia; ciononostante, i fedeli laici non rimanevano inattivi, in quanto era il sacerdote a chiedere il loro aiuto per mezzo di un’orazione che bisognava pronunciare prima che venisse recitata la formula Sursum corda: a quest’ultima («In alto i vostri cuori») rispondevano, per conto del popolo, i chierici disposti nel coro, dicendo: «Noi li abbiamo innalzati al nostro Signore». Al Sanctus, accompagnato da maestosi suoni d’organo, di tamburi e d’altri strumenti, il cielo scendeva letteralmente sulla terra: «Illora descendeno li angilli per aparegiare la tavola unde Deo pasce li Soy amixi», si diceva a Milano20, e non si trattava di un modo di dire. In effetti in quel momento straordinario i ministri del culto e i ministri celesti erano praticamente indistinguibili, e non facevano altro che preparare la strada per il rinnovato avvento del Salvatore attraverso l’ostia consacrata. Al di qua del tramezzo non si vedeva nulla, ma era chiaro che le cose andavano proprio così: chi, come la beata Gherardesca, assisteva alla messa con gli occhi del proprio spirito interiore, anziché con quelli del corpo, vedeva chiaramente sopra l’altare «un cielo d’angeli, che avevano le ali congiunte tra loro, e nulla si distingueva di loro se non il volto; e vi apparivano stelle da cui usciva uno splendore ammirevole», che a sua volta illuminava le

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teste degli officianti21. Perché questo messaggio fosse esplicito anche a chi non beneficiava di visioni, si sviluppò la consuetudine di simulare il firmamento sul soffitto della zona presbiteriale e di introdurvi intere schiere di angeli e arcangeli, spesso nell’atto di suonare strumenti musicali d’ogni tipo come vielle, ribeche, zampogne, organi portativi, campanelli e trombe (Tav. 19); talora, anche le loro immagini tridimensionali venivano poste tutt’intorno alla sacra mensa per rafforzare l’idea della compartecipazione celeste alla divina liturgia22. La recitazione del Canone proseguiva in secreto di modo che i fedeli non potevano più né vedere né sentire alcunché. Era il momento più sacro e solenne, quello in cui la divinità si manifestava realmente all’interno dello spazio sacro: erano pochi minuti che andavano colti e sfruttati, per così dire, al meglio; c’era a quel punto chi accendeva candele, c’era chi recitava preghiere rivolgendosi direttamente a Cristo, c’erano gruppi di ciechi, zoppi, mutilati che esibivano la propria infermità accostandosi il più possibile al tramezzo – l’istruzione milanese sull’atteggiamento da tenere a messa raccomandava che, mentre si attendeva la venuta di Cristo (cioè la Transustanziazione), «tugi li infirmi veneno denanze e ge mostrano le maiore infirmitade per melio guarire»23. Mentre i fedeli esprimevano le loro suppliche cercando con lo sguardo il volto di Cristo che si offriva alla loro devozione sull’alto del muro dei cancelli, il sacerdote, pronunciando fra sé il Te igitur, dirigeva la vista sul sacramentario o sul messale dove era raffigurato il crocifisso, talora nell’atto di essere sorretto da Dio Padre, alla presenza della bianca colomba dello Spirito Santo, così da formare una rappresentazione simbolica della Trinità. In queste effigi il celebrante si rispecchiava, s’immedesimava, facendo sì che «la passione che vi è rappresentata si rivolga agli occhi del cuore». Curvandosi verso il codice, baciava i piedi della Maestà divina e si faceva il segno della croce, manifestando a se stesso che da quel momento egli aveva accesso al mistero della morte e resurrezione del Figlio di Dio24.

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Un suono di campanella, sostituito col tempo da uno scampanìo a distesa e rinforzato dal crepitare degli organi e di altri strumenti musicali, segnalava che il miracolo era avvenuto. A quel punto le porte e le finestre si aprivano e tutti si mettevano in ginocchio: gli uomini dovevano togliersi il cappello o il berretto in segno di reverenza, le donne dovevano assicurarsi di esser ben coperte dal velo e ai chierici nel coro spettava dare il buon esempio inchinandosi, gettandosi a terra e mostrandosi contriti. Tutti erano invitati, a questo punto, ad alzare lo sguardo verso l’alto e, nel contempo, a recitare devote preci supplicatorie dirette a Cristo e al suo corpo salvifico: queste bisognava che fossero espresse «de tuta la vertù del core e del corpo nostro», quindi con straordinaria ed ostentata intensità, come solo si poteva fare se si accettava di «butare fora tuta sozura de peccao per verax pentimento e per veraxe contricctione de core»25. Coloro che erano membri di confraternite di solito si accordavano già nei propri statuti su una preghiera comune per tutti: la più ovvia era, naturalmente, il Padre Nostro26. Dinanzi all’assemblea inginocchiata a terra compariva finalmente l’ostia consacrata, sorretta in alto con entrambe le mani dall’officiante. Questa aveva una forma circolare, simile a una grossa moneta, era bianchissima e talvolta recava impressa l’immagine di Cristo crocifisso27. In alcuni luoghi veniva stesa sullo sfondo una stoffa nera per meglio far risaltare il suo candore; molto frequentemente si usava anche incensarla, benché si ammonisse a non spargere troppo fumo in quanto avrebbe ostacolato una sua corretta visione. Immancabile era invece l’uso di illuminarla con uno speciale cero o torchione che uno degli accoliti sorreggeva in prossimità del sacerdote, come ci viene magnificamente illustrato in una delle scene della vita di san Martino di Tours dipinte da Simone Martini nella basilica inferiore di Assisi (Tav. 20). I laici di ogni ordine e grado facevano di tutto per ottenere il privilegio di poter far dono alla chiesa di una di queste enormi candele, per mezzo delle quali si riteneva di venir coinvolti

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più direttamente, e in prima persona, nel miracolo dell’eucarestia; anche a causa di questo si chiedeva spesso di introdurvi un segno distintivo come il proprio stemma o un’iscrizione, in modo da poter dire, mentalmente, a Cristo: «O Signore, Tu vedi che la fiaccola della mia candela illumina e onora con la sua luce il Tuo corpo glorioso; abbi memoria di questo quando mi darai il giudizio che merita l’anima mia»28. All’elevazione dell’ostia doveva seguire anche quella del calice contenente il vino eucaristico, che tuttavia venne praticata meno frequentemente e ottenne meno successo, forse per il fatto che, come scrisse Durando, il sangue di Cristo non si poteva vedere29. Nel corso delle formule che seguivano si continuava incessantemente a recitare preghiere, fino al congedo finale a cui i laici facevano seguire, giusto prima di abbandonare l’edificio, anche una propria supplica a Dio con cui si impetrava l’assistenza nelle cose temporali così come in quelle spirituali30. Quest’attività supplicatoria era interrotta, in pratica, solo da alcuni momenti di coinvolgimento comune, come il bacio di pace, anch’esso articolato in senso gerarchico: uno degli assistenti al rito, dopo aver ricevuto l’abbraccio fraterno del sacerdote, lo comunicava ai chierici disposti nel coro e quindi si affacciava fuori dal tramezzo per trasmetterlo anche a un rappresentante del popolo, di solito un uomo di potere o un personaggio eminente della società cittadina. Dopodiché, a catena, i laici si baciavano fra loro – gli uomini con gli uomini e le donne con le donne: il poeta milanese Bonvesin de la Riva raccomandava di farlo, per decenza, a capo coperto e porgendo non la guancia ma le labbra, ragion per cui bisognava far attenzione ad aver la bocca pulita e a non disdegnare il contatto con i poveri e le persone anziane31. La chiesa si muta d’abito L’impatto che lo spazio sacro esercitava sullo spettatore a livello visivo e sensoriale in genere era variabile sia per ragioni

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soggettive (lo stato d’animo, le condizioni particolari di ciascun fruitore), sia in virtù del fatto che le sue qualità scenografiche cambiavano continuamente secondo il calendario liturgico. Ogni giorno dell’anno aveva un suo preciso grado di «solennità»: i sabati e le domeniche si consideravano più «sacri» dei giorni feriali, a meno che questi non coincidessero con speciali festività dell’anno, tra cui si dovevano distinguere quelle osservate universalmente (come l’Annunciazione al 25 marzo o l’Invenzione della Croce al 14 settembre) e quelle che riguardavano unicamente una tradizione locale (come le feste dei santi patroni). L’intensità del culto da prestare a ciascuno di questi eventi era segnalata dal ricorso a apparati e decorazioni più o meno esuberanti a seconda delle circostanze32. Il mezzo fondamentale per ottenere questi scopi coincideva con una ben calibrata orchestrazione della luce, ovvero dell’accensione di un numero più o meno alto di candele e lampade per sottolineare l’importanza della festa. A Pisa, ad esempio, si parlava a seconda dei casi di luminarie maggiori, «mezzane» o minori, che nella chiesa dei Predicatori di Santa Caterina erano allestite dai confratelli laici della Compagnia dei Laudesi con la combinazione più o meno complessa di fonti d’illuminazione e arredi d’altare. Nei giorni feriali ci si accontentava di porre due candelabri sulla sacra mensa, mentre alla domenica e nelle altre feste minori se ne disponevano tre sopra una bella tovaglia. Nelle solennità «mezzane» si aggiungeva il tabernacolo, ossia una copertura a edicola in legno o in argento, e ai membri della Compagnia era richiesto di assistere all’officio in ginocchio con un candelotto acceso in mano. Nelle occasioni più importanti, come per Pasqua o per Natale, tutti gli astanti dovevano esser provvisti di una candela e ben sei «celostri» (cioè candelieri) andavano posti sopra l’altar maggiore, in modo che l’intero ambiente risultasse estremamente luminoso33. Ad enfatizzare la dignità e il significato di un evento liturgico erano anche le cortine colorate che venivano disposte a decorazione delle diverse zone dell’edificio. «Nota bene», scri-

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veva il teologo Prepositino da Parigi († 1210), «che si usa appendere tre generi di veli, cioè il velo che copre le sacre specie, quello che divide il santuario dal clero e quello che distingue il clero dal popolo»34. Se il primo era il corporale che si poneva sul calice e sulla patena, gli altri erano stoffe che venivano collocate nello spazio absidale (dove peraltro erano talora simulate anche nella decorazione ad affresco) e in connessione al tramezzo, che già di per sé svolgeva un’analoga funzione di occultare la vista degli offici sacri – ragion per cui Durando li riteneva pressoché equivalenti: «Ai nostri tempi quasi sempre si sospende o si frappone un velo o un muro fra il clero e il popolo»35. Indubbiamente si riconosceva che questi oggetti contribuivano decisamente ad esaltare lo spazio della celebrazione: Gherardesca vide distintamente gli angeli che scendevano nell’abside della chiesa di San Savino e decoravano l’ambiente con cortine che avevano portato con sé dal Paradiso, onde renderlo degno dell’officiatura da parte di Cristo stesso36. In occasione delle maggiori feste, sontuosi fregi e frontali ricamati venivano posti a decorazione dell’altare, mentre tende variopinte erano appese sui muri delle cappelle maggiori e sui tramezzi (Tav. 17): queste servivano a stimolare la gioia per l’evento liturgico in corso attraverso una sensazione estetica, ossia il piacere di vedere accostati colori diversi e di differente intensità, ai quali era naturalmente attribuito anche un significato morale: il bianco stava per la purezza, il rosso per la carità, il verde per la contemplazione, il nero per la mortificazione. Quest’ultimo dominava la vista nel periodo che precedeva la Pasqua, a partire dalla Domenica delle Palme secondo alcune tradizioni o già dalla prima domenica di Quaresima secondo altre. Veli neri venivano disposti intorno al coro e a separazione tra quest’ultimo e il santuario, affinché anche alle comunità religiose fosse impedito di vedere gli offici sacri, il che avrebbe dovuto stimolarle a provar compunzione per il sacrificio di Cristo; lo stesso valeva, a maggior ragione, anche per i laici, che si vedevano ostruita la vista, oltre che dalla consueta barriera, anche da un’ampia stoffa. Il

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nero era del resto il colore del lutto e stoffe di questo colore (interrotte solo dalle sagome degli stemmi dei defunti) venivano impiegate anche per coprire la bara durante il funerale, nonché per rivestire il sepolcro in occasione degli anniversari37. Le cortine facevano pendant con gli abiti indossati dai celebranti e in qualche modo ne amplificavano l’effetto visivo. Nel periodo quaresimale questo doveva essere particolarmente ridondante, giacché c’erano anche altri elementi che concorrevano a suggerire un’idea di oscurità: non solo si tendeva a contenere il numero delle candele e delle lampade accese, ma anche si rimuoveva dalla vista qualsiasi oggetto colorato o capace di luccicare e riflettere la luce, ovvero si nascondevano gli ornamenti più preziosi e si occultavano sotto un velo nero tutte le immagini, le sculture e le croci, comprese quelle processionali che non si potevano usare se non coperte38. Un inventario redatto nel 1369 ci informa che a quella data il duomo di Pisa disponeva a tali scopi di tre tende con ornamenti vegetali per coprire i crocifissi, di un’altra di lino con ricami in refe per l’immagine della Vergine incoronata, di un’altra molto grande che veniva appesa tutt’intorno al coro dei canonici e di un velo non meno imponente che serviva a nascondere il lato anteriore dell’altare39. La rimozione avveniva regolarmente al Venerdì Santo, nel momento in cui il clero dava lettura del passo di Luca (XXIII, vv. 44-47) secondo cui, al momento della Crocifissione, «fu scisso a metà il velo del Tempio». L’uso del nero, tuttavia, non era accettato ovunque: in Francia, ad esempio, più frequente era il ricorso al bianco o anche al rosso per l’intera durata della Quaresima. Frequente, soprattutto nell’Europa settentrionale, era la consuetudine di elevare al di sopra del coro grandi stoffe o veri e propri arazzi decorati con scene del ciclo della Passione, che sono conosciuti oggi soprattutto col nome tedesco di Fastentücher. Simili oggetti raffiguranti altri episodi evangelici o cicli relativi ai santi venerati nell’edificio sacro venivano appesi in analoghe ubicazioni nel resto dell’anno, come ci consta in parti-

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colare dal tardo Trecento in poi40. Nel pieno secolo XIV ci è tuttavia attestato l’uso di esibire drappi istoriati sul tramezzo o sul fronte dell’altare in occasione delle maggiori feste: il munifico arcivescovo di Nicosia Giovanni Conti († 1332) ne aveva commissionato uno con la Trasfigurazione che veniva disposto in mezzo alla cattedrale di Santa Sofia (ossia della Divina Sapienza, rivelata da Cristo sul Monte Tabor) in occasione della relativa festa (6 agosto); a simili usi doveva essere destinato anche quello con l’Incoronazione della Vergine e altri episodi neotestamentari che fece realizzare a Cipro per il duomo di Pisa (che era intitolato alla Vergine Assunta, festeggiata il 15 agosto)41. Oltre ai veli, c’erano anche numerosi altri oggetti che venivano posti ad ornamento di alcune parti dell’edificio a seconda delle festività liturgiche, con modalità che non sempre ci risultano chiare. C’erano immagini che venivano esibite sull’altare o sul tramezzo in concomitanza con solennità determinate: ad esempio nel duomo di Pisa si usava esporre una preziosa icona della Vergine ogni sabato, ossia nel giorno della settimana dedicato a Maria42, ed è probabile che le tavole duecentesche che celebravano le gesta di un santo, come quelle che raffiguravano san Francesco attorniato da una serie di scene tratte dal suo ciclo agiografico, fossero mostrate al popolo in un luogo eminente della chiesa solo quando se ne commemorava la morte al 4 ottobre43. Sempre più frequente era inoltre il coinvolgimento delle effigi sacre nelle processioni, modellato su antiche consuetudini cerimoniali di Costantinopoli e Roma44. Gli oggetti figurativi erano a loro volta rivestiti con una quantità variabile di decorazioni. Corone e coronette d’oro e d’argento solevano essere affisse sia sulle pitture su tavola che sulle statue, ma erano solo queste ultime che potevano essere completamente rivestite di tuniche, manti, anelli, collane, orecchini o copricapi regali con piume di pavone45. Veli colorati potevano essere disposti sopra i ritratti sacri o addirittura sopra le scene narrative, come quelle che decoravano i lati esterni dei pulpiti, in modo da creare effetti scenografici

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durante il rito: il celebre pergamo di Nicola Pisano nel duomo di Siena, col suo maestoso ciclo di episodi evangelici, veniva abitualmente tenuto coperto con una stoffa rossa che veniva tolta solo durante la messa domenicale e le principali festività religiose e civili (come il conferimento del titolo di cavaliere, che avveniva proprio su quella struttura)46. Uno dei motivi, tuttavia, che spingevano ad occultare questi oggetti era di ordine propriamente conservativo, giacché con tali stratagemmi si sarebbe impedito che le immagini fossero danneggiate dal vento o dalla polvere. La sensibilità nei confronti della tutela delle opere d’arte era certo molto diversa dalla nostra e si manifestava secondo modalità molto particolari, che non prevedevano l’idea del restauro quanto piuttosto l’intento di racconciare, ossia restituire o incrementare il decoro di un ambiente nel caso in cui sembrasse inadeguato. Grazie a un documento eccezionale, le ultime volontà dettate nel 1382 dal lucchese Lando di Arrigo Sartori, riusciamo a farci un’idea di che cosa significasse prendersi cura, ad esempio, della manutenzione di una cappella, quella eretta presso l’altare di San Nicola nella chiesa di San Frediano a Lucca. Qui era collocata, entro un’edicola lignea, una statua del santo che andava risistemata rifacendo lo sfondo in oro fino e aggiungendo tutta una serie di figure (il Volto Santo e i santi Michele Arcangelo, Ansano, Biagio e Zita). Sul fronte dell’altare doveva poi esser collocato un paramento dipinto su tavola, ossia un antependio, mentre l’impalcatura lignea del tabernacolo andava risarcita delle parti mancanti e ridipinta al suo interno «con indico fine e stelle dorate di orpello». In generale, tutte le immagini lì presenti, che probabilmente erano annerite dal fumo delle candele, dovevano essere lucidate e a quella del titolare Nicola doveva esser risistemato il ferro che la fissava all’altare; un panno doveva poi esser collocato in alto per impedire che ci piovesse sopra. Lungo i muri laterali bisognava disporre sedili e sgabelli, che mancavano del tutto, e vi doveva esser fatto un pavimento lastricato con pietra e calce. L’effigie sacra principale andava invece protetta in questo modo:

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Item sia fatta fare una tendina di pannolino o di valescio di colore azzurro dinanzi alla detta immagine e sia grande tanto da coprirla tutt’intorno per evitare il vento e abbia nel mezzo una croce di colore rosso entro una cornice47.

Ogni immagine poteva essere volta per volta schermata con un rivestimento metallico, ornata di gioielli, abbigliata con vesti profane e inserita in una cornice speciale, come poteva essere una stoffa di colore blu posta a simulazione di un cielo stellato sopra la statua della Vergine – per strutture simili, usate anche nella vita civile e talora sostituite da versioni in legno o gesso, si faceva spesso ricorso a un baldacchino montato su aste, ovvero a un tessuto con trama in seta e ordito in oro che doveva il suo nome alla città di Baghdad, suo originario centro di produzione: quello che si usava a Pisa per far da «cappella» all’effigie dell’Annunziata in duomo poteva vantare ben quarantotto rilucenti stelle d’argento dorato48. Stando agli inventari delle cattedrali, ogni singola scultura disponeva di un ricco guardaroba, composto da vesti e sopravvesti (cioè, nella lingua dell’epoca, gonnelle, guarnacche e mantelli o cappe) che dovevano alternarsi continuamente in conformità con i tempi liturgici. Si trattava di elementi di vestiario che singoli privati, e in particolare le signore, offrivano alle chiese per il rimedio della loro anima, di solito attraverso legati testamentari: i propri abiti migliori, quelli più preziosi e appariscenti, avrebbero abbellito le immagini nei giorni di gran festa, mentre le vesti vedovili sarebbero state particolarmente adatte per abbigliarle nel periodo di Quaresima49. Cerimonie speciali, feste e spettacoli Una delle occasioni più comuni per abbigliare le immagini coincideva con gli anniversari del santo patrono, che erano eventi molto solenni perché coinvolgevano l’intera cittadinanza e miravano a rinsaldarne la coesione interna. A Lucca

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per san Martino si usava, su disposizione delle autorità comunali, vestire la statua marmorea del santo a cavallo che campeggiava sulla facciata della chiesa episcopale: gli si metteva addosso un nobile manto bianco e vermiglio, mentre al suo destriero veniva fatta indossare una variopinta gualdrappa, dotata di aperture per gli occhi e di protezioni in ottone per le orecchie50. A Pistoia si suole ancor oggi, ogni 25 luglio, rivestire con un manto rosso la statua dell’apostolo Giacomo (cioè Iacopo, come lo si chiama in città) che domina la facciata del duomo. La consuetudine risale al tardo Medioevo, quando la solennità era celebrata secondo modalità spettacolari e coinvolgenti. L’aspetto della cattedrale, all’interno come all’esterno, doveva essere completamente diverso da quello di tutti gli altri giorni: appesi alle pareti e al soffitto si potevano vedere veli e tende dai colori sgargianti, scudi e stemmi dei maggiori benefattori, palii (cioè preziosi drappi ricamati) e drappelloni dipinti, esuberanti festoni vegetali fatti di bossolo, alloro, edera, rami di ginepro o addirittura di melo da cui pendevano i frutti; tutto l’ambiente era rischiarato da grandi luminarie, che tuttavia raggiungevano la massima luminosità nella cappella intitolata al santo, in cui stavano accese per l’occasione più di duecento lampade e un numero indefinito di candele e ceri. L’eccezionalità dell’evento trovava una conferma nello straordinario apparato che abbelliva questa parte dell’edificio: una speciale illuminazione era posta dinanzi a tutte le immagini presenti, che raffiguravano, oltre al santo titolare, Cristo, la Vergine e Giovanni Evangelista. Una statua lignea dell’apostolo veniva collocata anche sopra una trave che sovrastava l’altare, una splendida opera in argento che doveva risaltare in modo molto efficace nel baluginante luccichìo dei fuochi che bruciavano lì davanti. Questo era anche impreziosito da fregi e stoffe, e sulla sua mensa erano disposte le reliquie e tutto il suo tesoro con i vasi sacri e gli altri oggetti in oreficeria e pietre preziose, che in seguito al clamoroso furto di Vanni Fucci, ricordato anche nell’Inferno di Dante (XXIV,

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v. 138), venivano assicurati ai muri della cappella per mezzo di catene di ferro. Poiché si prevedeva una straordinaria affluenza, un altare provvisorio (o, propriamente, «portatile») veniva allestito sul sagrato antistante la cattedrale e poiché era luglio e faceva molto caldo vi si elevava sopra un enorme padiglione di stoffa che, per mezzo di canapi e arpioni, veniva fissato agli edifici circostanti ed era sorretto al centro da una pertica sormontata da una croce. Il suolo della piazza veniva invece ricoperto di rami d’olivo, alloro, edera e mortella: questi probabilmente erano semplicemente sparsi per terra e non formavano ancora composizioni figurative come nelle moderne infiorate (celebre è quella che si fa per il Corpus Domini a Genzano di Roma), che non ci sono note prima dell’Ottocento ma devono aver tratto origine da usi come questi (Tav. 21). I festeggiamenti erano organizzati dalle autorità comunali, che intendevano l’evento in primo luogo come l’occasione per rinnovare la speciale alleanza che legava la città al suo patrono e che veniva ogni anno suggellata dall’offerta di numerosi palii e di un certo numero di carcerati a cui veniva restituita la libertà. L’inizio era sancito alla vigilia da una grandiosa processione a cui ogni cittadino pistoiese era tenuto a partecipare con una candela accesa in mano; conformemente a un ordine ben preciso che rifletteva la struttura sociale della comunità, dovevano sfilare tutti i ceti e le categorie che ne alimentavano la vita economica. Il corteo, che aveva inizio dal sagrato della chiesa dei frati Minori, era aperto dai banditori del Comune, con le chiarine e i tamburi, a cui si aggiungevano numerosi altri suonatori, danzatori e istrioni d’ogni tipo, che annunciavano il passaggio del palio che la comunità intera andava ad offrire a sant’Iacopo, sorretto dai rappresentanti dei diversi quartieri. Seguivano i membri delle undici arti e corporazioni, ciascuna recante il suo drappo, e gli ufficiali designati dei comuni alleati, e ancora coloro che rappresentavano le istituzioni di carità, le opere delle diverse chiese e gli ospedali; quindi, preceduto dal gonfalone con gli araldi e i trombettieri, passava il podestà

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in tutta la sua pompa con le alte cariche del Governo comunale, e con loro sfilavano numerosi altri panni preziosi. Subito dopo arrivavano i soldati, il clero regolare, i rettori delle chiese parrocchiali, i cappellani, i canonici, il vescovo che mai si stancava di impartire la benedizione e, dietro di lui, due o tre carcerati vestiti di verde e le reliquie del santo, trasportate sopra un carro in cui era allestito un altare mobile entro un baldacchino. Accanto correvano cinquanta fanciulli e subito dietro chiudeva la processione tutto il resto del popolo. Giunto alla cattedrale, il corteo deponeva solennemente i palii dinanzi all’altare di Sant’Iacopo. L’indomani aveva luogo la messa solenne nel duomo e contemporaneamente sul sagrato, a cui facevano seguito due banchetti distinti, uno per il clero comune a base di frutta, pane e vino, l’altro per il vescovo con i canonici e i magistrati del Comune, che si sollazzavano con confetti e finocchiata annaffiandoli con qualche buon bicchiere di trebbiano. Gli altri potevano intrattenersi nella grande fiera di bestiame che si svolgeva sulla stessa piazza pubblica, la quale a sera si trasformava nella pista per una corsa di cavalli: come premio per il vincitore c’era un palio, uno di quelli portati in processione e santificati dall’offerta al santo51. Ritualità pubbliche di questo genere erano diffuse in ogni città d’Italia e in alcune tradizioni folkloriche, come nel palio di Siena o in quello di Asti, se ne può cogliere ancor oggi un’eco, ancorché trasfigurata dal passare dei secoli. La cosiddetta «Festa dei Ceri» a Gubbio non è altro che un particolare sviluppo della consuetudine tardomedievale dell’offerta di sontuosi e massicci ceri dipinti al santo patrono da parte delle autorità e delle corporazioni cittadine, oltre che dai castelli del contado sottomessi al dominio comunale. A Pavia, per san Siro, ogni arte o «paratico» (termine con cui si designava ogni singolo gruppo di figuranti nel corteo) si sfidava a farne di così grandi da pesare quanto un uomo robusto e a sostenerli sui muscoli delle spalle; i tavernieri usavano portare anche un oggetto tanto bizzarro quanto poteva esserlo un «castello di offerte», mentre i cacciatori stupivano

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tutti trasportando in chiesa un intero albero ai cui rami alcuni uccelli stavano legati per il becco52. Nella città lombarda, stando a Opicino de Canistris, praticamente ogni festa era arricchita da elementi spettacolari ed era sfruttata anche a scopi non propriamente liturgici53. Per san Sebastiano, grande protettore contro le pestilenze, si andava presso il suo altare nella chiesa di San Pietro in Vinculis e si facevano benedire delle colombe di pane o di pasta che poi si davano a mangiare a tutti i familiari e anche alle bestie di casa (cavalli, asini, mucche, gatti, ecc.): la loro forma non doveva essere dissimile da quella dei pani cerimoniali che ancor oggi vengono prodotti in Sardegna54. Per la stessa occasione, poi, i fabbri ferrai portavano in chiesa delle frecce di ferro, in memoria dello strumento di martirio del santo, e dopo averle fatte benedire dal prete se le appendevano al collo come degli amuleti. Più bizzarro era il rito che aveva luogo durante il vespro del giorno di Pentecoste, quando la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli veniva simulata lanciando dal tetto delle chiese dei tizzoni ardenti assieme a monete, frutta e petali di rosa. Ci possiamo immaginare la scena: non appena tutto questo cominciava a cadere sopra la navata i bambini prendevano a correre e ad azzuffarsi per afferrare chi una mela chi un denaro, ma era allora che i chierici facevano scendere una grossa striscia di lino infuocata, disperdendo la folla55. Nel duomo di Pistoia la stessa festa era onorata con l’accensione di una colombina che, dopo esser stata ricoperta d’acquavite e infuocata, percorreva tutto lo spazio della chiesa dal coro alla navata; contemporaneamente, dal tramezzo venivano gettate cialde e un gran numero di piccioni veniva lasciato libero, anche se molti finivano nelle mani dei fedeli che, una volta a casa, se li facevano arrosto56. Gli edifici sacri ospitavano anche cerimonie a contenuto politico e istituzionale: in assenza di spazi pubblici autonomi, come i palazzi comunali, erano le cattedrali a ospitare le riunioni pubbliche dei vari magistrati ed era in esse che si svol-

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gevano numerosi riti solenni, come il ricevimento di personaggi particolarmente autorevoli e il conferimento di titoli onorifici. Si può dire che in questo ogni città coltivasse le proprie costumanze particolari, non di rado caratterizzate da modalità di svolgimento che oggi desterebbero stupore. È il caso della cerimonia pistoiese di insediamento dei vescovi, abolita alla metà del secolo XV perché considerata sconveniente e a noi nota grazie alla testimonianza di un cronista che ce ne ha lasciato una descrizione nell’anno 1400. Giunto a una delle porte della città il presule veniva accolto dalle più eminenti famiglie cittadine e quindi scortato, su un maestoso cavallo bianco, fino all’abbaziale di San Pier Maggiore; qui andava ad adagiarsi su un letto che, fornito di saccone e lenzuola, era allestito in mezzo al coro, dove incontrava la badessa dell’annesso monastero con cui si scambiava un anello nuziale. Per mezzo di una costruzione scenica estremamente efficace si celebrava così il vero e proprio «sposalizio» tra il vescovo e la sua chiesa57. La chiesa come palcoscenico Una delle caratteristiche delle cerimonie religiose tardomedievali era la tendenza ad arricchire la liturgia e gli altri momenti di aggregazione con elementi scenografici e teatrali, calibrati secondo una sapiente regia che mirava a coinvolgere e a stupire il pubblico. Tale tendenza si registrava innanzitutto nelle prediche volgari che il clero regolare, i frati Minori e, ancor più, i Domenicani tenevano sia nelle loro chiese che in altri edifici sacri o, in caso di grande affluenza, sui loro sagrati. Parlando dai sontuosi pulpiti addossati ai tramezzi oppure su palchi improvvisati all’aperto, i predicatori sapevano far leva sull’emotività degli astanti giocando con le parole, ricorrendo agli artifici della retorica e accompagnando le loro frasi con un ben ponderato uso del linguaggio del corpo. Si è proposto che si avvalessero anche di immagini per

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illustrare alcuni dei loro argomenti; certo è che spesso prendevano spunto dalle opere d’arte presenti nell’edificio per costruire il loro discorso, come ci viene raccontato di un certo maestro Niccolò di Sicilia che additava le riproduzioni del Volto Santo di Lucca come esempio per eccellenza di una tradizione stupida e superstiziosa (giacché era troppo brutto perché una persona sensata potesse ritenerlo un ritratto autentico del Salvatore)58. Il ricorso ad artifici scenici e forme di rappresentazione drammatica riguardava ancora più nello specifico la stessa azione liturgica durante alcune solennità speciali. Caratteristico di questo periodo era il ricorso a immagini mobili che servivano a rievocare i principali episodi della storia sacra: troviamo così statue di Cristo sull’asina (note col termine tedesco di Palmeseln) dotate di ruote o maniglie, in modo da poterle trasportare facilmente nella processione della Domenica delle Palme (Fig. 16), immagini di Gesù Bambino da utilizzare nelle cerimonie natalizie, crocifissi con braccia mobili che permettevano di staccarli dalla croce per deporli nel sepolcro la sera del Venerdì Santo; spesso questi ultimi, per poter meglio stimolare la compunzione, assumevano forme «dolorose» in cui si distinguevano le bocche digrignate, gli occhi sconvolti, le pose contorte e il corpo solcato da numerosi rivoli di sangue. In ciò erano specializzati gli scultori tedeschi, che si erano stabiliti anche in numerose città d’Italia dove questo tipo di figure macabre e rivoltanti godeva, nel Trecento, di un successo crescente; per aumentare l’effetto «horror» si usava anche coronarne la testa con parrucche fatte di veri capelli. Alcune feste si prestavano naturalmente più di altre ad esser arricchite di elementi spettacolari: l’Assunzione poteva essere rappresentata da una statua della Vergine che veniva tirata su, per mezzo di una corda, dal tetto della chiesa, come accadeva a Firenze, così come per l’Annunciazione, con lo stesso sistema, un angelo ligneo poteva esser calato in basso fino a farlo incontrare con un’effigie della beata Vergine59. L’intento a cui miravano gli organizzatori di questi eventi

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era al contempo stupire, divertire e spaventare gli astanti. A Pistoia, durante le celebrazioni del Venerdì Santo, era il diavolo in carne ed ossa a far comparsa su un palchetto posto in prossimità del pulpito: in mezzo a fiamme e nubi di zolfo si mostrava a un certo punto l’enorme sagoma di Satana, impersonato da un attore che portava una truce maschera dipinta sul volto e aveva ali di ferro e code di cavallo fissate sulle spalle; nella mano destra reggeva uno scudo, alla maniera di un soldato. Non è ben chiaro che cosa facesse: probabilmente saltava, faceva versi bestiali e minacciava gli spettatori, finché non arrivava un altro personaggio noto come «il difensore» che cominciava a prenderlo a bastonate e lo cacciava via con ignominia60. Contemporaneamente, si erano andate sviluppando anche forme teatrali più complesse. Il cosiddetto Officium sepulchri, nelle sue diverse varianti, era indubbiamente uno dei drammi liturgici più diffusi; lo si recitava il mattino della domenica di Pasqua e consisteva nella messa in scena dell’arrivo delle Pie donne (impersonate da giovani diaconi) presso un ambiente identificato col Santo Sepolcro, allestito appositamente nel coro o nel transetto, in cui al Venerdì Santo si era deposta una croce o un crocifisso. Talora, come ad Aquileia sin dal secolo XI, il sacerdote e i concelebranti si recavano solennemente in questo luogo con turiboli e candele per estrarne l’immagine e portarla sull’altar maggiore, intonando le parole Surrexit pastor bonus, qui posuit animam suam («È risorto il buon pastore, che ha donato l’anima sua»); talaltra, tre giovinetti (che rappresentavano le tre Marie) venivano incaricati di avvicinarsi, tra un’antifona e un responsorio, alla pietra del sepolcro, dove ad accoglierli era un diacono che impersonava l’angelo del Signore. Dopo uno scambio di battute, le Pie donne dovevano mostrare pubblicamente un lenzuolo, onde significare che la tomba era vuota61. Da queste forme di teatralità semi-liturgica si andarono sviluppando, nel corso del tardo Medioevo, le «sacre rappresentazioni», vere e proprie azioni drammaturgiche che inscena-

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vano sia episodi evangelici sia storie tratte dalle vite dei santi. Del loro allestimento cominciarono a prendersi cura specialmente i nuovi Ordini mendicanti con le confraternite a loro associate, nell’intento di coinvolgere più profondamente le comunità dei laici nelle festività liturgiche. Già san Francesco, nell’episodio del Presepe di Greccio, aveva dato vita a una rudimentale scena teatrale, e i frati Minori seguirono il suo esempio favorendo la diffusione degli offici paraliturgici; non diversamente fecero anche i Domenicani, che apprezzarono ben presto l’importanza di simili accorgimenti nella loro opera di predicazione. Il cronista Galvano Fiamma ci rivela ad esempio quanto forte fosse stato l’impegno dei suoi confratelli, nel 1336, nell’organizzazione a Milano di uno spettacolo pubblico per la festa dell’Epifania che godette subito di uno straordinario successo. Per le vie cittadine furono fatti sfilare tre attori vestiti da re Magi, a cavallo con un gran seguito di persone e somari, guidati da una grossa stella che ci possiamo immaginare di legno dipinto; giunti alla chiesa di San Lorenzo, questi facevano atto di inchinarsi dinanzi a un’immagine di Erode, attorniato dalla sua corte, che era rappresentata su una colonna. Da qui, dopo aver recitato una scena che rappresentava la conversazione col re, i Magi si spostavano a Betlemme, identificata con la chiesa di Sant’Eustorgio: il popolo milanese li vedeva passare dietro alla stella solennemente coronati, nell’atto di reggere in mano contenitori preziosi con l’oro, l’incenso e la mirra, in mezzo allo schiamazzo delle trombe e al clamore del seguito, tra cui erano presenti anche animali di tutti i tipi, come scimpanzé e babbuini. Giunti dunque nel tempio domenicano andavano a inginocchiarsi dinanzi all’altar maggiore, dov’era disposto il presepe col bue e l’asino e, al centro, la Madonna col Bambino (probabilmente una statua lignea). Una volta deposti i doni, i re dovevano sdraiarsi a terra e far finta di addormentarsi: a quel punto si avvicinava un uomo vestito da angelo per intimar loro di non far rientro dalla contrada di San Lorenzo (cioè dalla Gerusalemme virtuale), bensì di passare per la Porta Romana62.

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I fedeli venivano attratti soprattutto dagli «effetti speciali» delle cerimonie festive, che consistevano in particolare nell’uso di quelle che, seppure in una estrema rudimentalità, potremmo definire delle macchine teatrali. In questo contesto, tuttavia, ci colpisce ancora di più il processo di spettacolarizzazione della liturgia eucaristica che, iniziato con l’istituzione dell’elevazione dell’ostia, andò arricchendosi nel corso del tardo Trecento di ulteriori accorgimenti che sottolineavano visivamente e «drammaturgicamente» l’origine divina delle sacre particole. Nel corso degli anni Settanta del secolo il capitolo della cattedrale senese provvide a fornire la Maestà di Duccio, sopra l’altar maggiore, di un adeguato «cielo» che conteneva anche tre nicchie dove andavano collocate tre statue di angioletti scolpite da Piero d’Angelo (il padre di Jacopo della Quercia) e dipinte dal pittore Lippo Vanni. Queste ultime, come apprendiamo da inventari successivi, erano utilizzate durante le messe delle festività maggiori, quando venivano calate lentamente dall’alto al momento dell’Eucarestia: il primo angelo reggeva in mano l’ostia consacrata, il secondo le ampolle del vino, il terzo il corporale, o pannicello, per le mani del sacerdote63. Con tali stupefacenti artifici si sottolineava con grande efficacia emotiva l’aura di sacralità del rito, addirittura mettendo in scena l’intervento degli stessi messaggeri celesti come veri ministri del culto, ovvero rendendo visibile a tutti ciò che in precedenza avevano potuto vedere solo i mistici e i visionari come la beata Gherardesca. Ognuno aveva la possibilità di intuire, in questo modo, la completa sintonia tra l’officio terreno e quello divino, tra l’assemblea dei viventi raccolta nell’edificio sacro e la comunità dei santi nella Gerusalemme celeste. La chiesa fuori dalla chiesa La frequentazione delle chiese era raccomandata caldamente a tutti e nella fattispecie i fedeli erano invitati a recar-

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visi per la messa domenicale e, nei giorni feriali, quantomeno ad affacciarsi in tempo utile per vedere il corpo di Cristo. Che potevano fare però coloro che erano impediti ad andarvi a causa di circostanze non legate alle loro volontà? Il caso più evidente era quello di colui che, costretto a letto nell’attesa di esalare l’ultimo respiro, attendeva il sacramento dell’estrema unzione, che costituiva l’autentico viatico per l’oltretomba. Durante questo rito il sacerdote impartiva al moribondo la comunione, dopo che questi aveva confessato fino in fondo tutti i suoi peccati e aveva solennemente recitato un atto di contrizione; secondo l’uso, ricevere il sacramento diveniva indispensabile dopo la seconda visita del medico, che non poteva riprendere la terapia fintantoché non fosse intervenuto il parroco. Questa situazione estrema era l’unica che, per ovvi motivi pratici, prevedesse la somministrazione dell’eucarestia al di fuori della chiesa: tuttavia, il costume cerimoniale suggeriva l’idea per cui, se non era il fedele a recarvisi, era lo spazio sacro a spostarsi fin dentro la sua casa. La consuetudine voleva, infatti, che lungo la strada che conduceva all’abitazione dell’infermo, il sacerdote procedesse vestito di congrui paramenti (cotta e stola), inizialmente reggendo l’ostia con entrambe le mani sul petto e più tardi (grosso modo dalla metà del Trecento) recando un ostensorio o reliquiario in cui era contenuto il pane eucaristico. Il diacono o un altro assistente dovevano precederlo trasportando una lanterna e suonando una campanella, ripetendo cioè l’artificio scenico usato al momento dell’elevazione: in questo modo veniva annunciato il passaggio del corpo di Cristo, che come durante la consacrazione sull’altare doveva essere illuminato e segnalato da uno squillo. Un ulteriore attendente, talora, precedeva il sacerdote spandendo incenso, in modo da richiamare ancora più efficacemente l’idea della sacralità della chiesa e della messa che penetrava nell’ambiente profano della città. L’evento era talmente emozionante che i passanti che l’incrociavano si ritenevano benedetti e si considerava che fosse necessario scendere da cavallo, to-

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gliersi il copricapo in segno di rispetto, inginocchiarsi sulla terra battuta, e adorare il Santissimo esibendo le mani giunte. Un comportamento particolarmente devoto, e talora premiato con la concessione di indulgenze, consisteva nel seguire la processione per un certo tratto, nel gettare mantelli e vesti ai piedi del sacerdote o nell’accendere lumi. Una fioca lucerna disposta sul davanzale di una finestra segnalava che si era finalmente arrivati alla casa del moribondo64. Per alcune categorie di persone erano le peculiarità della propria professione a impedire la frequentazione regolare delle chiese: questo era uno dei principali problemi di chi viaggiava molto, attività in cui erano specializzati i mercanti, i pellegrini e i soldati. Chi era impegnato in una spedizione bellica, specialmente se diretta contro pagani e infedeli, aveva bisogno più che mai del conforto della santa messa, ma poteva darsi benissimo che non potesse avvalersi di alcun edificio consacrato. Che si poteva fare allora? In queste occasioni era possibile organizzare uno spazio sacro all’aperto, avvalendosi di un altare portatile come quello che già abbiamo visto usare sul sagrato del duomo di Pistoia. Quest’ultimo consisteva in una sorta di «scatola», per lo più in legno, in cui erano poste la pietra consacrata e un certo di numero di reliquie; molto spesso era rivestito con metalli preziosi, gemme e altre decorazioni, e conteneva alloggiamenti per sorreggere la patena e il calice. Alcuni esemplari particolarmente lussuosi venivano coronati, durante la liturgia, con minuscoli cibori con i quali si era in grado di richiamare l’aspetto dell’area absidale di una chiesa65. Del modo in cui le cerimonie si svolgevano si sa tutto sommato poco. L’uso di celebrare una messa sui campi di battaglia, tuttavia, era piuttosto comune, sia come forma di propiziazione divina contro gli avversari sia come modalità di ringraziamento solenne per la vittoria ottenuta. Non di rado, del resto, i luoghi in cui si erano svolti combattimenti ritenuti epocali erano considerati sacri, giacché si era senz’altro convinti che nessun successo militare potesse aver luogo senza l’intervento

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diretto della divina provvidenza. Per questo motivo accadeva che veri e propri luoghi di culto vi venissero poi costruiti per onorare la memoria dell’evento: così ad esempio il re di Sicilia Carlo d’Angiò fece costruire una chiesa, dal titolo rutilante di «Santa Maria della Vittoria», sul luogo in cui aveva sconfitto Corradino di Svevia, presso Tagliacozzo, nel 126866. Possiamo immaginare che durante la funzione, di necessità un po’ approssimativa, che veniva svolta all’aperto i diversi attori si disponessero in modo da riprodurre il sistema di relazioni in uso all’interno degli edifici sacri, dove vigeva una precisa regola di articolazione gerarchica dello spazio. Anche in tali particolarissime contingenze doveva esser mantenuta una certa separatezza tra il clero e il popolo; questo significa che, una volta che il sacerdote aveva scelto il punto in cui disporre l’altare (verosimilmente orientandolo verso est), tutti gli astanti dovevano prendere posto alle sue spalle, cioè di fronte alla sacra mensa, e a una relativa distanza. Nel caso in cui fossero state presenti delle donne, avrebbero dovuto assistere, esattamente come accadeva in chiesa, tenendosi sul lato sinistro a loro riservato oppure disponendosi dietro agli uomini: se questo si verificava di rado sui campi di battaglia, era piuttosto frequente nelle piazze durante le maggiori feste, oppure in certe occasioni particolari come l’officio che si pronunciava prima di accendere le pire in cui sarebbero stati arsi gli eretici (Tav. 22). Quello che, nel complesso, si poteva arrangiare alla meglio sulla terraferma era tuttavia pressoché impossibile da realizzare per mare. Le disposizioni canoniche, infatti, vietavano espressamente di consacrare l’eucarestia all’interno di una nave, per tutta una serie di ragioni di opportunità: per l’umidità l’ostia consacrata, al pari di ogni forma di pane, rischiava di deteriorarsi nel giro di pochi giorni e quindi non la si poteva conservare; i venti e le onde avrebbero continuamente minacciato il corretto svolgimento del rito; inoltre, nessuna imbarcazione poteva esser consacrata, in ragione della sua mobilità e del fatto che era frequentata da marinai infedeli ed

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eretici, oltretutto dediti – osservava fra’ Felix Fabri nel 1480 – a pratiche turpi come giocare d’azzardo o prestarsi di tanto in tanto a rapporti omosessuali. Quella che si recitava sulla nave, in particolare quando trasportava pellegrini, era dunque una «messa secca» o «torrida» o anche «arida», perché sprovvista della sua parte eucaristica. Cionondimeno, verso mezzogiorno era consuetudine che quest’officio speciale venisse svolto e a questo scopo veniva allestito un ambiente sacro fittizio, destinato a una celebrazione molto rapida, che ci è noto soprattutto grazie alla tarda ma vivida descrizione di un viaggiatore quattrocentesco: Verso l’ora ottava prima di mezzogiorno viene dato ancora il segnale per la preghiera e la cassa che è collocata in alto a ridosso dell’albero maestro viene coperta con un bel panno e vi vengono posti sopra due candelabri, con le candele accese, e in mezzo ai due candelabri una tavola del crocifisso e un messale, così come si fa quando si deve celebrare l’officio della messa; e tutti i pellegrini salgono e circondano l’albero maestro. Allora si avvicina il sacerdote con la stola al collo, e inizia: «Confiteor»; dopodiché legge tutto quanto, con tutte le cose prescritte al celebrante, eccetto il Canone che non legge perché non è previsto: e in questo modo recita la messa, cioè senza il Sacrificio eucaristico, concludendola invece col passo evangelico In principio erat verbum67.

In questo caso lo spazio ristretto della galera veneziana non consentiva il rispetto della dovuta distanza tra il popolo e il sacerdote; ci si disponeva in cerchio, attorno all’albero maestro su cui era simulato il decoro di un ambiente presbiteriale, e forse in questo modo si riusciva a impedire che il vento e gli spruzzi d’acqua spengessero le candele (un evento che poteva esser considerato infausto e di cattivo auspicio dalla gente di mare, nota per essere un po’ superstiziosa).

V LE CHIESE DEGLI ALTRI Il modello spaziale latino e il giudizio degli altri Alcune caratteristiche, nell’ottica degli uomini dell’Occidente medievale, distinguevano inequivocabilmente le chiese latine dai luoghi di culto appartenenti alle altre confessioni religiose a loro conosciute. Innanzitutto gli edifici erano provvisti di campane, anziché di tavole e martelletti, per richiamare i fedeli e in generale di grande importanza era il ruolo svolto dagli effetti sonori, musicali e drammatici nell’evocazione della presenza divina; al loro interno, poi, oltre a un altar maggiore elegante e solenne, erano presenti numerosi altari minori per la celebrazione delle messe votive e altri offici liturgici. Quello occidentale era in sostanza uno spazio «polifunzionale» che molto spesso assommava in sé ambienti cultuali distinti e giustapposti tra loro, dove non di rado accadeva che singoli ambienti secondari o aggiunti godessero di un’attenzione particolare. In questi celebravano sacerdoti la cui dignità era segnalata da alcuni marchi speciali come la chierica e la faccia perfettamente rasata (da quest’obbligo erano esclusi solo i chierici che si trovavano ad operare nel Levante mediterraneo). Tra gli elementi decorativi, tuttavia, a saltare agli occhi era soprattutto il differente uso delle immagini. La loro assenza metteva, in questi secoli, sempre più a disagio: infatti a privarsi di quei perfetti strumenti di devozione erano coloro che es-

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si consideravano eretici, come i catari o i bosniaci, mentre oggi sappiamo che persino le comunità cristiane che si erano spinte fino ai confini estremi del mondo, come gli etiopici e i Siri orientali, ne facevano largamente uso. Paradossalmente, però, tutti i cristiani non latini usavano esclusivamente (o quasi) le pitture su tavola o la decorazione monumentale ad affresco, mentre rifiutavano seccamente le sculture a tutto tondo. Gli occidentali, che facevano uso di entrambi i generi tecnici, trovavano in questo più elementi di affinità con l’arredo dei templi buddhisti che con qualsiasi altro modello di spazio sacro a loro conosciuto: e questo non li poneva certo in una buona luce agli occhi delle altre civiltà dell’epoca. Infatti c’era poco da fare, con tutte le giustificazioni che si potevano trovare, niente avrebbe tolto di mente agli altri che le immagini tridimensionali dei santi simulavano l’aspetto di un corpo umano allo stesso modo degli idoli pagani dell’antichità e dell’Estremo Oriente. Inevitabilmente, la Chiesa latina si era presto sentita rivolgere l’accusa di idolatria, come scriveva a metà Trecento l’arcivescovo di Praga Giovanni de’ Marignolli (fiorentino di nascita e grande conoscitore dell’Asia): Invero ci giudicano pessimi idolatri i Giudei, i Tartari, i Saraceni e, oltre ai gentili, anche alcuni cristiani [sc. i Bizantini]; infatti sebbene quei cristiani prestino venerazione alle pitture, tuttavia hanno in abominio quegli spettri, quei volti e le quelle sculture orrende che si trovano in molte chiese; ne è un esempio il sepolcro di sant’Adalberto a Praga1.

Giovanni alludeva alla tomba di un santo locale che, stando a una ricostruzione recente, consisteva in un’arca decorata con motivi «barbarici», risalente al IX o X secolo, che nella prima metà del Trecento era stata reinserita in un tabernacolo gotico: possiamo immaginare che contenesse figurazioni mostruose che, come qualche autore ecclesiastico di tanto in tanto sosteneva, poco si addicevano al decoro di un luogo sacro2.

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Il modello spaziale delle chiese occidentali poteva, per questo e per altri motivi, apparire inadeguato al culto divino agli occhi di osservatori orientali, e nella fattispecie bizantini. I più accesi polemisti antilatini ponevano l’accento su tutta una serie di elementi che, a loro dire, non funzionavano e non andavano bene: l’accesso al «Santo dei Santi» non era impedito ai laici e alle donne in particolare, i sacerdoti portavano un abbigliamento indecente e mondano, ricco di anelli e stoffe preziose e riccamente decorate, e si presentavano privi di quella barba che ne segnalava lo status e la connotazione cristologica; nei momenti cruciali del rito, ci si segnava con cinque dita e si facevano abbondanti aspersioni con l’acqua santa. Ancora più cruciale, tuttavia, era l’argomento delle immagini, che erano scolpite anziché dipinte, con una netta preferenza per l’effigie di Cristo crocifisso. Anche se alcuni autori minimizzavano le differenze affermando che queste erano più di ordine teologico che pratico, altri esprimevano i loro dubbi e un certo disagio dinanzi al modo occidentale di intendere la figurazione sacra. Alcuni autori, come Costantino Stilbìs e più tardi Simeone di Tessalonica, puntarono il dito contro la tendenza latina ad arricchire le feste liturgiche con rappresentazioni sacre o eventi semidrammatici, in particolare durante la Settimana Santa: Simeone sembrava anche inorridito dal fatto che le statue fossero vestite con abiti reali di stoffa e decorate con parrucche fatte di capelli veri3. La sensazione di disorientamento più esplicita fu tuttavia formulata da uno dei padri greci che partecipò al concilio di Ferrara-Firenze del 1439, Gregorio Melisseno: Quando entro in una chiesa latina, non venero nessuno dei santi che vi si trovano, dato che non ne riconosco nemmeno uno; magari riconosco il solo Cristo, ma non riverisco nemmeno lui perché non capisco in che modo viene designato. Tuttavia mi segno e faccio le mie devozioni: sì, presto venerazione alla croce che mi faccio da solo su di me e a nient’altro di ciò che mi si presenta davanti agli occhi4.

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Il problema segnalato da questo rigorista ortodosso consisteva nel fatto che le immagini dei personaggi sacri non erano riconoscibili, e questo per due motivi: in primo luogo le convenzioni iconografiche utilizzate non coincidevano se non in parte con quelle tramandate dalla venerabile tradizione bizantina, in secondo luogo non erano presenti (o almeno non sempre) iscrizioni che indicassero chiaramente l’identità dei santi. Poiché non si poteva esser sicuri di chi si aveva davanti, meglio era segnarsi e venerare solo questa croce creata dal gesto della propria mano. C’erano tuttavia altri aspetti che, per converso, potevano risultare particolarmente affascinanti quando si visitavano gli edifici sacri latini. L’anonimo chierico che partì al seguito del metropolita di Mosca Isidoro, capo della delegazione russa al concilio di Ferrara-Firenze del 1438-1439 e fautore dell’unione tra Roma e Costantinopoli, osservò il modo eccezionalmente ricco e artisticamente gradevole in cui erano costruite le chiese della Germania e dell’Italia. È vero che lo colpì molto la basilica di San Marco a Venezia, di cui riconobbe subito la derivazione dal modello bizantino di spazio sacro. Tuttavia, anche le altre grandi chiese e cattedrali che gli capitò di visitare gli piacquero molto. La varietà degli oggetti che vi si potevano ammirare era davvero stupefacente: c’erano orologi meccanici, sete e broccati, una profusione continua di reliquie, immagini miracolose, ex voto di cera a dimensione naturale, libri, bellissime vesti liturgiche ricamate, baldacchini colorati, strumenti musicali, paramenti tempestati di gemme e perle, fino a quaranta altari per edificio officiati da altrettanti sacerdoti; all’esterno erano realizzate in solida pietra, e vi erano spesso annesse curiose strutture come campanili dall’altezza vertiginosa, cimiteri fortificati, ospizi enormi per gli infermi e i pellegrini, che giacevano su letti coperti con lenzuola di lino e ricevevano il beneficio della messa fin dentro le corsie di degenza5.

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Davanti alla moschea Nel secolo XIV Alessandria d’Egitto costituiva il necessario luogo d’approdo per i pellegrini che, imbarcatisi a Venezia o, più raramente, a Genova, giungevano dall’Europa occidentale desiderosi di visitare i Luoghi santi6. Per la prima volta venivano qui a contatto con una grande città del mondo islamico, alla quale guardavano con diffidenza ma anche con una certa malcelata curiosità. Come ci si poteva infatti sottrarre al fascino di un porto così ricco di popoli e confessioni diverse – arabi, «franchi», copti, nubiani, greci, turchi, curdi, tartari, berberi, e molti altri – e così abbondante di mercanzie, colori, odori d’ogni genere? L’attrazione si trasformava regolarmente in stupore nel momento in cui da lì ci si spostava al Cairo, che – come osservava fra’ Niccolò da Poggibonsi nel 1346 – non era molto diversa da una città italiana, se non per il fatto che era tanto grande che un corriere a cavallo impiegava tre giorni per percorrere il circuito delle sue mura7. Al centro si ergeva la cittadella costruita dal Saladino a partire dal 1176, nel cuore pulsante costituito dall’enorme piazza su cui si affacciavano moschee, scuole coraniche e mercati; al fiorentino Giorgio Gucci, che la visitò nel 1384, appariva molto familiare, come emerge da queste sue parole: La piaza è grandissima bene a guisa del prato d’Ognisanti, ed è a terreno; e sempre va suso infinite gente a cavallo ed a piede di soldati e providigionati del soldano e altre persone, e favisi mercati di più cose... Ed ha intorno a detta piaza gran casamenti ed altre case; ivi e per tutto il Caro ha grandi edifici di chiese ed assai, le quali sono state fatte per gli soldani passati e per gli grandi amiragli a loro memoria, come dicono. Le chiese sono ispesse, e di grandi lavorii ed edificii, come si sia Santa Maria Novella e Santa Croce, e sono dentro bianchissime sanza alcuna dipintura. E in loro chiese ardono molte lampane molto belle e bene ordinate e grandi, al modo le fanno di là8.

Il prospetto della maestosa piazza della cittadella (al-Rumayla), col suo contorno di residenze private (come l’elegan-

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te residenza dell’emiro Manjπk al-Yus∂f∞) ed edifici ad uso commerciale (come il mercato delle armi o quello dei cavalli), gli sembrava nel complesso non troppo diverso dal «prato d’Ognissanti» sul Lungarno di Firenze, così come le sontuose moschee, anche nel loro legame urbanistico con spazi aperti all’interno del reticolo delle case, gli sembravano perfettamente equivalenti alle più celebrate chiese della sua città. Questo parallelismo era fondato principalmente su un’analogia funzionale: gli edifici sacri, in Toscana come in Egitto, si presentavano come elementi privilegiati nel contesto urbano, in primo luogo perché delimitavano i confini dei luoghi riservati alla venerazione e al culto divino, in secondo luogo perché, anche in virtù di questo loro ruolo speciale, si aprivano sugli unici veri «spazi pubblici» (quali i sagrati, le piazze, i cimiteri) all’interno del denso tessuto abitativo delle città medievali. Il loro status e la loro presenza doveva essere segnalato dalla varietà e della bellezza degli elementi architettonici, dalle loro dimensioni, dall’associazione con una struttura verticale (un campanile, non poi così diverso da un minareto) ed eventualmente con altri edifici annessi (un convento o una residenza canonicale, che un viaggiatore come Giorgio Gucci poteva avere in mente quando s’imbatteva in una madrasa o scuola coranica). Elementi comuni potevano esser facilmente riconosciuti anche nelle decorazioni e negli abbellimenti delle mura esterne con pannelli marmorei intarsiati e portali che miravano a provocare effetti cromatici. Le cose cambiavano un po’ (ma forse neanche troppo) quando si faceva ingresso nella moschea (Fig. 17). Lo spazio poteva sembrare grosso modo equivalente, specialmente nel caso di edifici quadrangolari, ad aula unica oppure (nei casi più solenni) di andamento basilicale con ripartizione in tre o più navate (dove l’assonanza si fondava su un’effettiva matrice comune – l’antichità romana – di cui gli uomini del Medioevo erano ignari): il cortile, laddove presente, poteva richiamare alla mente l’atrio o magari anche il nartece delle

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grandi basiliche paleocristiane, la fontana delle abluzioni non era poi così dissimile da un fonte battesimale, ed era facilmente intuibile la funzione del minbar come pulpito e del mihrab (ossia la nicchia che decora la parete, o qibla, orientata in direzione della Mecca) come una sorta di piccola abside, che costituiva il vero e proprio centro cultuale dell’edificio9. Anche i tappeti non dovevano sembrare particolarmente esotici, visto che si usavano anche in Europa per decorare il pavimento soprattutto in corrispondenza del presbiterio e dell’altare10. A lasciare disorientati erano semmai altri aspetti, in particolare il fatto che le pareti fossero completamente rivestite di un intonaco bianco, per cui si faticava a capire come mai dal soffitto pendessero così tante e così belle lampade (l’arte mamelucca era a giusto titolo molto rinomata per questo genere di oggetti in oreficeria), soprattutto in considerazione del fatto che non c’era neanche un’immagine da illuminare. Il gentiluomo francese Ogier, ottavo signore di Anglure, che visitò Il Cairo nel 1395, ripeté grosso modo le stesse osservazioni del suo predecessore fiorentino circa le fonti luminose: «Le chiese dei Saraceni», scriveva, «sono grandiosamente illuminate con belle lampade, sebbene dentro quei luoghi d’orazione non vi sia alcuna pittura né immagine né alcuna cosa dipinta se non di bianco da ogni parte», un dettaglio che contrastava con lo sfarzo della decorazione esterna, dove apparivano «ben fatte di marmo con bei portali»; indubbiamente, aggiungeva, «vi sono alcune consimili chiese che sono molto grandi e molto belle, e sembrano essere belle chiese di cristiani», anche se si distinguevano da queste per il fatto che erano «tenute e rette con estrema pulizia», come non sempre capitava nelle chiese dell’Europa latina11. Il senso di questa affermazione si comprende meglio se si considera quanto frequentemente, nel corso del Due e Trecento, predicatori e alti prelati raccomandassero ai sacerdoti di tener nette le chiese e di non presentarsi sporchi (se non altro lavandosi le mani) al momento della celebrazione: fra’ Giordano da Pisa, agli inizi

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del secolo XIV, era cosciente del fatto che i cristiani sfiguravano al confronto con gli odiati Saraceni, che non solo si astenevano dal consumo della carne di maiale (che è molto grassa e quindi di sua natura sporca e unta), ma «anzi non mollano mai di lavarsi», tant’è che il loro primo dovere all’ingresso nel luogo sacro era (ed è) l’abluzione rituale12. Per quanto la valutazione delle moschee, così come tutti gli altri aspetti della religione e della cultura islamiche, fossero pesantemente condizionate da pregiudizi e incomprensioni pressoché insormontabili, non c’è dubbio che la pratica del pellegrinaggio d’Oltremare, proprio perché stimolava al continuo confronto con altre tradizioni del mondo mediterraneo, abbia favorito nei viaggiatori la riflessione su di sé e sulla propria identità. L’incontro con altre comunità religiose e l’osservazione dei loro costumi inducevano i viaggiatori a interrogarsi sugli elementi di affinità e di difformità che intrattenevano con loro e che giudicavano evidentemente sulla base della propria esperienza, della propria preparazione culturale e dei propri interessi. A grandi linee si può dire che nessuno di loro ha mai messo in dubbio il fatto che ciascuna «nazione», tra le numerose che popolavano le terre di Levante, fosse priva di forme di espressione religiosa a lei specifiche e come tali, in qualche modo, degne di rispetto anche se sembravano improprie o sbagliate. I viaggiatori si rendevano conto, ad esempio, dell’intensità con cui i musulmani osservavano i loro costumi devozionali: durante il Ramadan – annotava un compagno di viaggi di Giorgio Gucci, Lionardo Frescobaldi – digiunavano in effetti in un modo un po’ strano, giacché mangiavano e bevevano allegramente nottetempo mentre di giorno se ne andavano «per le loro moschete e a’ loro santuari e a’ loro perdoni», un po’ come in Italia si usava lucrare indulgenze e sgravi di peccati recandosi di chiesa in chiesa in occasione delle maggiori solennità13. Ciascuno di questi autori sembrava dare per scontato che la presenza di «chiese», ovvero di luoghi riservati al rito, alla preghiera e alle diverse forme di comunicazione con la divi-

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nità, fosse un elemento costitutivo e imprescindibile di qualsiasi tradizione religiosa. Indubbiamente variavano le modalità di arredo, di illuminazione e di organizzazione spaziale, di decoro o, in una parola, di manifestazione del sacro, ma comune a ciascuno era il ricorso ad ambienti architettonici provvisti di un «centro focale» (l’altare, il mihrab) verso il quale doveva orientarsi l’attenzione dei fedeli. Di questo si aveva modo di fare la riprova continuamente quando si viaggiava per la Terrasanta e capitava di visitare gli edifici sacri appartenenti alle diverse confessioni. La sinagoga Gli ebrei erano gli «altri» per eccellenza, anche se costituivano la comunità religiosa non cristiana più saldamente insediata nell’Europa occidentale. Le sinagoghe erano presenti nelle maggiori città, ma poco ci è noto del loro aspetto e del loro arredo prima dei secoli XIV e XV; le fonti non ci soccorrono granché, visto che molto raramente un autore cristiano provava curiosità per i luoghi di culto degli invisi giudei. Indubbiamente anch’essi, al pari dei musulmani, venivano talora additati perché nelle loro pratiche religiose dimostravano uno zelo straordinario, che i latini avrebbero fatto bene ad eguagliare e superare; scrive ad esempio Franco Sacchetti nella sua Canzone morale composta nell’anno 1400: E quanto vaglia quel che ciascun crede, Pur usan tal merzede, Che sempre tengon netti li lor templi, Nessun sputar non v’osa, Mai non bestemian Dio, perché sian empi, Non marcan niuna cosa Il sabato, se n’acquistasson Roma; E di lor altre cose assai si noma14.

Il confronto tra la sinagoga e la chiesa era sfavorevole alla seconda perché quest’ultima era frequentata da fedeli molto

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meno disciplinati, che non si facevano scrupoli a sporcare e a sputare sul pavimento. Le maggiori affinità si riconoscevano sul piano funzionale e architettonico, giacché si era consapevoli che la struttura e le finalità dello spazio sacro derivavano dai modelli biblici dell’arca santa fabbricata da Mosè, per comandamento divino, sulla cima del Monte Sinai e del Tempio costruito da Salomone a Gerusalemme15. Da questi lontani archetipi i luoghi di culto ebraici e cristiani avevano acquisito la propria distintiva articolazione interna in due zone distinte e connotate in senso gerarchico: «da questi due [modelli], ossia dal Tabernacolo e dal Tempio», scrive il liturgista Guglielmo Durando, «la nostra chiesa materiale ha tratto la sua forma, nella cui parte anteriore il popolo ascolta e prega, mentre nel santuario il clero pronuncia preci, predica, giubila e amministra»16. In virtù di questo la differenza tra la sinagoga e la chiesa può apparire molto sottile: il significato dei termini è analogo, giacché entrambe rimandano al concetto di «assemblea» o «congregazione», ma la funzione è diversa nella misura in cui la seconda è la naturale evoluzione della prima, migliora e perfeziona il suo modello biblico così come l’età della Grazia, inaugurata da Cristo, porta a compimento quanto era solamente in nuce nella precedente età della Legge. Nondimeno, quasi per ciascun elemento dell’arredo ecclesiastico si poteva risalire idealmente a precedenti la cui funzione e forma erano state stabilite da Dio stesso nelle disposizioni dettate a Mosè sul Monte Sinai – per essere poi eseguite dagli artisti Bezaleel e Ooliab – come quelle riguardanti l’altare, il recinto presbiteriale, i veli e le cortine, le lampade, i candelabri (come virtuali discendenti della menorah), i paramenti sacerdotali, gli oli profumati o l’uso dell’incenso17. In quest’ordine di idee si spiega anche il fatto che, nell’iconografia del Due e Trecento, il Tempio di Gerusalemme venga raffigurato con tutte le caratteristiche di una solenne architettura gotica: ad esempio nella Presentazione degli Uffizi, opera di Ambrogio Lorenzetti, il richiamo è immediatamente evidente nella si-

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mulazione di un ambiente a tre navate, col capocroce e le finestre a traforo, la decorazione a marmi policromi del pavimento e dell’altare, il rivestimento delle volte a crociera con un finto cielo stellato18. Indubbiamente lo stile gotico, le cui soluzioni statiche (prima che formali) erano apprezzate a largo raggio in Europa, fu utilizzato di tanto in tanto anche per edifici sacri non cattolici: così come esistono chiese ortodosse di stile «francese» (vedi San Giorgio dei Greci a Famagosta, Fig. 1919), si conoscono anche sinagoghe che recuperano quegli stessi moduli costruttivi, come appare evidente nella Altnayshul di Praga, risalente al 1280 circa, dove colpisce la presenza di eleganti volte a crociera20. Al di là di questo, tuttavia, l’arredo e l’assetto interno dei luoghi di culto giudaici differivano in modo sostanziale da quello delle chiese cristiane. Fra’ Niccolò da Poggibonsi ci ha lasciato una preziosa descrizione delle modalità di fruizione dello spazio sacro da parte di una comunità ebraica orientale, quella della città di Paphos sull’isola di Cipro (all’epoca governata da una dinastia di origine francese, i Lusignano); durante il suo soggiorno in quel luogo, infatti, gli capitò l’occasione (abbastanza inconsueta per un frate minore) di stringere amicizia con un rabbino: Stando io nella città di Baf, sì andai uno sabato alla sinagoga delli Ebrei, che facevano in quel dì grande festa. E stando io allato alla porta della sinagoga per vedere loro orazioni, e uno fariseo, il quale era mio amico e domestico molto, sì mi fece segno ch’io andassi a lui; e io subito mi trassi le suola che io portavo in piè e lassâle di fuora della sinagoga, sì come era loro usanza, e andai al detto fariseo. E quello si levò e per mano mi prese e posemi allato a·loro tabernacolo che eglino adoravano; e questo mi feciono per onore.

Una volta ammesso a entrare nel tempio (a cui si accedeva scalzi alla maniera di Mosè dinanzi al roveto ardente), fra’ Niccolò, pur senza capire nulla o quasi, ebbe occasione di osservare il modo in cui si svolgeva la preghiera, in particolare

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i movimenti ondulatori dei loro corpi e l’esposizione, alla maniera di una preziosa reliquia, dei rotoli della Torah: Eglino facevano loro orazione, ma niente intendeva, se non che alcuno di loro montò in sulla catedra e infra sue orazioni egli vi diceva: Alleluia, e altre volte vi diceva: Sabaoth e Israel e in excelsis e quando Osanna, e così altri vocaboli che noi abbiamo in ebreo. Quando fanno loro orazioni, tutti in terra segono, e sempre menano la testa e lo ’mbusto in qua e in là, che pareva che facessono beffe l’uno dell’altro a modo che se fussino matti e stolti. E quando ebbono così fatto per ispazio di più ore, e un altro fariseo si levò e aperse uno armario molto ornato e trassene fuora uno tabernaculo bellissimo, e in mano lo teneva e stava in mezzo alla sinagoga e volgevasi intorno più volte; e tutti gli ebrei ed ebree s’inchinavano e facevano grande riverenza a quello tabernacolo. E poi, questo fatto, e lo fariseo ch’era mio dimestico sì mi mostrò quello che stava in quello tabernacolo: e dentro vi stava una carta scritta de’ dieci comandamenti che Dio diede a Mosè in sul monte Sinai. L’orazione degli Ebrei si è lo Salterio di David profeta e le profezie de’ profeti. Altre orazione né altro sacrifizio non fanno21.

Il tempio buddhista La meteora mongola che si abbatté sul mondo nel XIII secolo fece sì che una serie di intrepidi avventurieri in cui s’annoveravano mercanti e religiosi (per lo più frati Minori), spinti dalle contingenze politiche e dal desiderio di guadagno oltre che dallo spirito di missione, si spingessero fino alle più remote plaghe del continente asiatico e venissero lì a conoscenza di popoli, lingue e religioni di cui in precedenza si avevano avute solo vaghe e imprecise informazioni. Senz’altro l’evento più sensazionale fu la scoperta di civiltà che, più a oriente dei territori musulmani, praticavano usi e costumi in qualche misura più simili a quelli della cristianità latina che a quelli dell’Islam, in particolare coltivando forme esteriori di culto che, a un’osservazione superficiale, potevano risultare

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familiari22. Tutto questo alimentò, sulle prime, il mito dell’esistenza nell’Estremo Oriente di un grande regno cristiano, governato da un saggio re-sacerdote (il cosiddetto Prete Gianni), col quale ci si auspicava che le potenze europee potessero riuscire ad allearsi per unire le forze contro il comune nemico, il Sultano mamelucco del Cairo23. Queste comunità, da secoli smarrite e innaturalmente separate dal corpo della Chiesa, dovevano intendersi come discendenti dai primi discepoli convertiti da san Tommaso e san Bartolomeo nel loro apostolato nelle terre orientali. Una parziale conferma a quest’idea era fornita dal fatto che, effettivamente, il cristianesimo era presente in quei luoghi nella sua variante «nestoriana»: con questa espressione si designava all’epoca una comunità cristiana di lingua siriaca originaria dell’Iraq, separata dalla Chiesa sin dal secolo V quando si era opposta alle risoluzioni del Concilio di Efeso (celebrato nell’anno 431). Nel corso dei secoli successivi aveva conosciuto una straordinaria diffusione verso Oriente: era arrivata ben presto nel sud dell’India, nei territori degli attuali Uzbekistan, Tagikistan, Kazakistan e Sinkiang-Uighur, in Mongolia e fino alla costa cinese. In seguito alle imprese di Gengis Khan e dei suoi discendenti, i nestoriani (che vantavano tra i loro adepti alcune tribù della steppa) avevano assunto un ruolo di un certo rilievo a corte, possedevano una tenda utilizzata come chiesa nell’enorme accampamento del sovrano e godevano dell’attenzione particolare di alcune delle sue favorite24. Quando i primi missionari occidentali giunsero in Asia Centrale, consci della presenza in quell’area di propri correligionari, faticarono molto, sulle prime, a distinguere i loro luoghi di culto da quelli delle religioni «idolatre», in particolare dai templi buddhisti. Come che sia, il primo incontro doveva rivelarsi molto suggestivo, tanto più in ragione del fatto che, dopo un lungo ed estenuante viaggio attraverso territori e climi proibitivi sotto tutti i punti di vista, la prima impressione (destinata più tardi a rivelarsi errata) era di esser giun-

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ti effettivamente in un paese cristiano, come tutta una serie di indizi portava a credere. Proveremo a condividere quest’emozione affidandoci al racconto di fra’ Guglielmo da Rubruk, un francescano che nel 1254, di malavoglia, si era trovato ad intraprendere un estenuante viaggio che l’aveva portato dalla Crimea fino alla capitale mongola, Karakorum. La città di Kajlak, nell’attuale Kazakistan, fu il primo centro abitato che ebbe modo di visitare dopo giorni e giorni di faticoso cammino attraverso una pianura tanto inospitale e sinistra quanto poteva esserlo la cosiddetta «Steppa della Fame». Ci si può facilmente immaginare che il suo stato d’animo fosse dei migliori, magari persino euforico, una volta che si fu ristorato dalla fatica ed ebbe ringraziato Iddio per esser tornato, sano e salvo, tra le schiere degli umani. Spinto dalla curiosità, cominciò a passeggiare, in compagnia di un interprete, per le strade di Kajlak, che era un animato centro commerciale abitato da comunità religiose diverse – buddhiste, musulmane e cristiane – che si intendevano fra loro nella lingua locale, l’uighuro. Grazie al suo resoconto, possiamo immaginarci la gioia del frate quando credette di essersi imbattuto in una chiesa nestoriana. Come poteva non equivocare, a un’osservazione superficiale? Dal di fuori vedeva grandi campane, come se ne potevano vedere nelle chiese latine ma non in quelle ortodosse (eccezion fatta per quelle dei russi e dei greci di Crimea) né tantomeno sui minareti delle moschee; mentre nell’interno poteva vedere distintamente un coro rialzato e separato dalla navata per mezzo di una recinzione, con un altare abbondante di candelabri e offerte, e sovrastato da statue come negli edifici sacri dell’Europa settentrionale (Fig. 18). Ce n’era in particolare una di dimensioni così enormi da ricordare immediatamente la figura di san Cristoforo, che si usava rappresentare alto come un gigante: in realtà si trattava di un Buddha colossale. Altre immagini rappresentavano sia entità alate, che si potevano facilmente scambiare per san Michele Arcangelo, sia varie emanazioni dell’Illuminato (bodhisattva) rese in

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pose e gesti che richiamavano alla mente l’atteggiamento usuale dei santi vescovi. L’effigie colossale si imponeva evidentemente come il centro focale dell’edificio, intorno al quale venivano collocate le sculture minori, tutte gradevolmente dorate come spesso si usava fare anche nel mondo latino. Inoltre proprio in quel momento i sacerdoti disposero ulteriori ornamenti, sparsero incenso, accesero i candelabri e presero a consacrare le offerte (di pane e di frutta) portate dal popolo; i fedeli pregavano prosternandosi al suolo, con le ginocchia piegate e con le mani raccolte sulla fronte. In poche parole, veniva proprio da pensare di essere entrati in una chiesa; tutto sembrava quadrare se non per un dettaglio: da nessuna parte, per quanto fra’ Guglielmo si guardasse intorno con estrema attenzione, riusciva a riconoscere la croce o il crocifisso. Provò allora a chieder spiegazioni a un tizio che si trovava lì per caso: «Come mai», disse, «qui non avete la croce o l’immagine di Cristo?». E quello, probabilmente stupito dalla domanda, rispose: «Perché non ne abbiamo l’abitudine». «Oibò, come può essere?», avrà pensato il frate, «e che significa questo? Può davvero essere che questi Nestorini (così si usava dire) siano tanto mancanti di dottrina da aver dimenticato il segno più venerabile della nostra fede?». Mosso da così enormi dubbi, decise di indagare la questione più a fondo e si avvicinò a un tempio più grande e solenne. Questo era provvisto di un bel sagrato, chiuso in fondo da un muro, dove sedevano i lama intenti a conversare, mentre nelle mani reggevano una collana da preghiera o circulum precatorium composta da più di cento nodi. Se si fosse stati in Europa, non si sarebbe esitato a prenderli per canonici seduti nel portico della chiesa o nel chiostro mentre praticavano le loro devozioni e scambiavano quattro chiacchiere. A fra’ Guglielmo, in particolare, sembravano francesi, perché avevano il mento ben rasato (come in Oriente non capitava facilmente di vedere, giacché una lunga barba era prescritta sia per i sacerdoti bizantini, siriani, armeni e copti sia per gli imam musulmani); inoltre, sem-

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pre come loro avevano lunghe tuniche gialle, allacciate alla vita con una grossa cintura, e coperte con «un mantello sulla spalla sinistra, che scende coprendo il petto e le spalle fino al fianco destro, come la pianeta che il diacono porta durante la quaresima». Sulla testa portavano copricapi simili a mitrie. Confortato da questa visione, fra’ Guglielmo porse il suo saluto e si recò a visitare l’interno del tempio, che trovò affollato di statue grandi e piccole. «Mah», pensò, «cosa è mai tutto questo? Qui vedo strane facce, figure con quattro braccia e più, uomini seminudi, persino qualche brutto animale. Mi sa proprio che questi sono idoli e che i preti qua fuori non sono affatto buoni cristiani...». Il sospetto si tramutò in certezza poco dopo, quando si risolse a sedersi accanto ai lama e a interrogarli su questioni religiose in modo da capire chi si trovava di fronte. Riporto la conversazione così come si è svolta, o almeno come fra’ Guglielmo l’ha intesa, tenendo conto che si svolgeva per mezzo di un interprete che probabilmente non era in grado di rendere il significato di certi termini propri della riflessione teologica (già la parola «Dio» si presta a traduzioni molto improprie): IL FRATE: Cosa credete di Dio? IL LAMA: Noi crediamo in un solo Dio. IL FRATE: Pensate che sia spirito o abbia qualcosa di corporeo? IL LAMA: Siamo certi che sia spirito. IL FRATE: Credete che abbia mai preso forma umana? IL LAMA: Ma neanche per idea! IL FRATE: Ma se credete che sia soltanto uno spirito perché realizzate così tante immagini di lui in forma corporea? E ancora, se non credete che si sia fatto uomo, perché queste sue immagini le fate più nell’aspetto di un uomo che in quello di un altro animale? IL LAMA: Non è Dio il soggetto di queste immagini; capita invece che quando un uomo ricco muore, o mettiamo suo figlio o sua moglie o qualcun altro che gli sia caro, egli fa fare l’immagine del defunto e la mette qui, e noi la veneriamo in memoria di lui. IL FRATE: Ma allora voi fate tutto questo per compiacere gli uomini!

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IL LAMA: Ma per nulla al mondo! Si fa per onorare la loro memoria. Ma ditemi voi, piuttosto, sapete dov’è Dio? IL FRATE: E voi sapete dov’è la vostra anima? IL LAMA: Ma è chiaro, è nel nostro corpo! IL FRATE: Risiede nel nostro corpo e lo sostiene completamente, tuttavia non la si vede. Allo stesso modo, Dio è dovunque e governa tutto, e ciononostante rimane invisibile, perché è intelligenza e saggezza. L’INTERPRETE: Con questo basta, sono stanco, non tradurrò più una sola parola.

Lo scambio di battute, benché interrotto così presto e così bruscamente, aveva permesso a fra’ Guglielmo di chiarirsi un po’ le idee. Purtroppo, quelli non erano cristiani e quei begli edifici non erano chiese, bensì templi degli idoli, come quelli che, prima dell’avvento del cristianesimo, erano stati frequentati dagli empi e dissoluti pagani25. Il tempio pagano Si deve ammettere che è molto sottile la differenza tra un’immagine sacra e un idolo. L’una è uno strumento cultuale che, attraverso l’evocazione visiva di un personaggio sacro, inoltra la devozione dei fedeli verso il suo archetipo, mentre l’altro è un oggetto concreto che è destinatario esso stesso dell’adorazione ed è investito di qualità divine. Certo, talvolta questa distinzione rischia di essere disattesa, giacché non tutti sono capaci di separare la rapprentazione dal rappresentato, o il «significante» dal «significato»: i buoni cristiani, tuttavia, non dovrebbero cadere in tentazione: l’idolatria è il peccato più grave in assoluto, giacché contravviene al primo comandamento («Non avrai altro Dio all’infuori di me»). Ciononostante, i templi antichi venivano immaginati anch’essi, nel Medioevo, non molto dissimili dalle chiese, nel loro arredo e nelle loro modalità di funzionamento26. Per alcu-

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ni celebri edifici si era coscienti della continuità d’uso dall’antichità romana: così ad esempio si sapeva che il Pantheon, intitolato a tutte le divinità pagane, continuava ad esistere a Roma come chiesa dedicata a tutti i martiri (Sancta Maria ad Martyres). Altri racconti spesso e volentieri facevano risalire erroneamente all’età precristiana alcuni celebri luoghi di culto, come ad esempio il Battistero di San Giovanni a Firenze (risalente nel suo aspetto attuale al secolo XII), che si diceva esser stato fondato per onorare un’effigie prodigiosa del dio Marte, come racconta il cronista Giovanni Villani: I cittadini di quella [sc. di Firenze], essendo in buono stato, ordinaro di fare nella detta cittade uno tempio maraviglioso all’onore dello Iddio Marte, per la vittoria che’ Romani avieno avuta della città di Fiesole, e mandaro al senato di Roma che mandasse loro gli migliori e più sottili maestri che fossono in Roma, e così fu fatto. E feciono venire marmi bianchi e neri, e colonne di più parti di lungi per mare, e poi per Arno [...]. Molto nobile e bello il feciono a otto facce, e quello fatto con gran diligenzia, il consecraro allo Iddio Marti, il quale era Idio di Romani, e feciollo figurare innintaglio di marmo in forma d’uno cavaliere armato a cavallo; il puosono sopra una colonna di marmo in mezzo di quello tempio, e quello tennero con grande reverenzia e adoraro per loro Idio mentre che fu il paganesimo in Firenze27.

All’epoca di papa Silvestro, ossia nel IV secolo, l’edificio sarebbe stato convertito in chiesa con la semplice rimozione della statua, che tuttavia i fiorentini, ancora «poco perfetti nella santa fede», preferirono non distruggere, bensì collocare su un’alta torre in Ponte Vecchio, giacché erano convinti che la città avrebbe dovuto patire gravi offese se l’idolo avesse subìto ingiuria o guasti. Molto più tardi, nell’autunno del 1333, ci pensò l’alluvione dell’Arno a portar via con sé quel dio falso e bugiardo, ormai incapace di proteggere il centro urbano dalle calamità naturali28. Certo è che, se non fosse stato il fiume a prendere l’iniziativa e a lasciare sul ponte solo una «pietra scema», i cittadini

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di Firenze non si sarebbero mai azzardati a muovere un dito contro quel loro antico idolo, verso il quale sappiamo che erano previste, su interessamento delle autorità comunali, vere e proprie forme di culto pubblico. Secondo un modo corrente di ragionare, la falsità degli idoli, quale era stata rivelata dal cristianesimo, non dimostrava affatto la loro natura di oggetti inerti, bensì, proprio al contrario, smascherava il loro fondamentale inganno, quello cioè di essere finte immagini sacre, non residenze di divinità ma abitazioni di dèmoni. Un gran numero di antiche leggende narrava come le entità maligne fossero state cacciate di lì dentro per opera dei campioni della fede, tra cui gli apostoli che avevano convertito i templi in chiese, le vergini e i martiri che si erano rifiutate di far sacrifici in loro onore, gli eremiti che si erano stabiliti nelle rovine degli antichi luoghi di culto. Cionondimeno, al pari di certe reliquie e icone eccezionali di santi personaggi per i cui meriti Dio si degnava di concedere guarigioni e grazie, si era convinti che le statue antiche possedessero alcune qualità magiche e fossero in grado di agire benignamente o malevolmente nella vita degli uomini; il predicatore Giordano da Pisa provò in questo modo a sminuirne il valore: Gli idoli de’ pagani non faceano miracoli, ma alcun’otta operavano cotale malizia, per ingannare la gente: che tormentando alcuni, quando lasciavano di tormentarli, pareano che fossono guariti quelli cotali [...] e ciò era tutta falsità e inganno29.

L’immaginazione dei letterati che leggevano e interpretavano i testi antichi descriveva gli idoli come elementi d’arredo caratteristici dei templi antichi. Questi disponevano inoltre di un gran numero di altari (o, più precisamente, di are) sopra i quali si sacrificavano animali (in particolare tori e vitelli), si deponevano offerte e si allestivano fuochi in cui bruciare l’incenso. In prossimità degli altari avevano luogo, come accadeva anche nelle chiese, le apparizioni dei personaggi sacri. In generale, il comportamento dei pagani e le moda-

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lità con cui si rapportano ai loro interlocutori celesti vengono descritti, sia pure involontariamente, sulla base di atti e gesti caratteristici delle pratiche devozionali cristiane. In un passo del Filocolo del Boccaccio, i cavalieri Ascalion e Florio vanno ad impetrare la protezione degli dèi visitando i loro santuari nella città di Montoro: in quello dedicato a Marte accendono fuochi sugli altari, nei quali devotamente pongono «graziosi incensi», dopodiché si spogliano delle armi e le depongono sulle sacre mense. Passano quindi nel tempio di Venere, alla quale si presentano vestiti in candidissime vesti penitenziali, e vi immolano altrettanto devotamente un vitello, le cui interiora vengono gettate nel fuoco «con divota mano». A quel punto la dea ricambia l’offerta mostrandosi «sopra i santi altari [...] coronata d’alloro»30. Questo modo di immaginare i luoghi di culto dell’antichità pagana fu contaminato, nella fantasia dei pittori, con la descrizione ideale del Tempio di Gerusalemme. Nel dipinto di Ambrogio Lorenzetti agli Uffizi, quest’ultimo è raffigurato in modo tale da assomigliare a una chiesa gotica, ma nello stesso tempo l’osservatore deve arrivare a comprendere che si tratta di uno spazio che prelude, ma non è ancora, l’ambiente sacrale specifico del cristianesimo. Una serie di indizi, ispirati al repertorio immaginario dell’arte greco-romana, permettono di collocare l’edificio nell’antichità: tali sono il fuoco sulla mensa dell’altare, le statue issate in cima alle colonne e le figure che sorreggono i festoni. Simili anacronismi e contaminazioni erano molto frequenti nella cultura dell’epoca: qualcosa di analogo si osserva nel modo in cui era immaginata la preghiera dei pagani, quale ci viene descritta in un altro passo del Filocolo, in cui il protagonista si prende cura di un tempio da lungo trascurato, manifestando una forma di pietà tipica dell’Italia tardomedievale; giunto in un luogo deserto, scopre il luogo sacro nel fitto della boscaglia: Quivi piacque a Filocolo di fare sacrificii a’ non conosciuti e strani iddii, poi che i fati nel tempio recati li aveano: e fatte levare

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l’erbe e le fronde a’ pruni, cresciute per lungo abuso sopra il vecchio altare, e similemente le figure degl’iddii con pietosa mano ripulire e adornare di nuovi ornamenti, domandò che un toro gli fosse menato. E vestito di vestimenti convenevoli a tale uficio, fece sopra l’umido altare accendere odorosi fuochi; e con le proprie mani ucciso il toro, le interiora di quello per sacrificio nell’acceso fuoco divotamente offerse; e poi inginocchiato davanti all’altare, con divoto animo incominciò queste parole...31

La preghiera che, come un buon cristiano, l’eroe pronunziava in ginocchio ai piedi dell’altare, era in realtà una richiesta d’aiuto alla quale quegli «strani iddii», da lungo abbandonati, si trovarono costretti a dar risposta in ragione del devoto modo in cui era stata presentata. I cristiani d’Oriente L’esperienza del pellegrinaggio portava i viaggiatori a rendersi conto dell’esistenza di tradizioni cristiane diverse dalla loro; nel Levante, e in particolare in Palestina, si aveva più volte occasione di imbattersi nei cristiani indigeni delle diverse osservanze religiose, come gli ortodossi greci o georgiani, i melkiti (arabi e siriaci di rito bizantino), i nestoriani d’Iraq e quelli dell’India, i maroniti libanesi o i diversi gruppi anticalcedonesi – armeni gregoriani, Siri occidentali o «giacobiti» (detti all’epoca anche Iacobini), copti, etiopici – che avevano adottato una posizione teologica che enfatizzava l’aspetto della divinità nella persona di Cristo. In particolare la basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, quello che era considerato il maggiore luogo santo della cristianità, ospitava altari officiati da ciascuna di tali confessioni. Chi per la prima volta, provenendo dall’Occidente, si imbatteva in qualcuno di questi suoi correligionari il più delle volte non si sentiva granché attratto da loro: dopo tutto, ai suoi occhi, si trattava di eretici che coltivavano false dottrine e sempre gli era stato insegnato che ver-

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so gli eretici che rifiutavano di convertirsi non si doveva avere misericordia. In fin dei conti, per usi e costumi, non erano poi molto diversi dai musulmani, se si considera che Maometto stesso era considerato da molti (tra cui Dante nell’Inferno) un cristiano scismatico e un seminatore di discordia, piuttosto che l’iniziatore di una nuova religione32. Detto questo, la curiosità era sempre molta, giacché si considerava comunque un miracolo che, in seno ai territori mamelucchi, turchi o persiani, continuassero ad esistere comunità e luoghi di culto cristiani, in particolare in seguito alla cacciata dei Franchi da Gerusalemme nel 1187 e più tardi da Acri nel 1291. L’incapacità occidentale di comprendere il cosmopolitismo e il mélange religioso e culturale del Levante, che in grande misura era frutto della straordinaria tolleranza (per usare un termine moderno) dell’Islam, faceva sì che nascessero leggende circa la speciale grazia che Dio accordava ad alcuni importanti luoghi sacri che, «difendendosi miracolosamente»33, continuavano pacificamente ad essere onorati e visitati, oltreché dai cristiani più o meno buoni, anche dai fedeli di Maometto; questi erano in particolare il monastero ortodosso di Santa Caterina al Monte Sinai, la basilica della Santa Vergine a Tart∂s (Tortosa) e il santuario mariano melkita di Saidnaya presso Damasco. In quest’ultimo, in particolare, si poteva vivere un’esperienza davvero inaudita: una volta entrati nella navata, per un piccolo uscio, si vedevano folle di persone, uomini e donne, cristiani, musulmani ed ebrei, ognuno intento a venerare secondo il proprio costume la sacra effigie di Maria posta in una nicchia dietro l’altare, sotto una coltre di veli e una grata, che dalla sua superficie rivestita di carne umana (così si diceva) emanava un olio prodigioso che operava guarigioni a favore di chiunque, senza badare alla sua osservanza religiosa34. Ciascuna comunità cristiana, in paese d’Islam, officiava nelle proprie chiese, che si avvalevano di forme d’uso e modalità d’arredo anche molto diverse tra loro, così come differenti erano le pratiche di culto e di devozione ivi coltivate dai

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fedeli. Tra quelle dei melkiti si distingueva senz’altro per eccellenza il katholikon (chiesa abbaziale) del monastero del Sinai, che colpiva in particolare per l’abbondanza dei suoi arredi: il suo aspetto era reso particolarmente devoto da un numero esuberante di lampade perennemente accese (Giacomo da Verona, nel 1335, ne contò trecento35), che illuminavano altrettante venerabili icone di dimensioni variabili appese ai pilastri, nonché affreschi, mosaici, rivestimenti marmorei, reliquie (nella fattispecie il sepolcro di santa Caterina d’Alessandria), luoghi santi come la cappella del Roveto Ardente e curiosi ornamenti, come le uova di struzzo appese per mezzo di catene al soffitto36. Il Sinai era un luogo devoto e una importante meta di pellegrinaggio, che traeva il suo prestigio dalle sue associazioni con la storia biblica; lo si riteneva talmente sacro e benedetto da Dio che addirittura le mosche e le zanzare, se osavano avventurarsi entro il perimetro del monastero, cadevano immediatamente a terra morte stecchite37. Altrove le chiese dei melkiti avevano una forza d’attrazione assai minore, e consistevano in piccoli e scarni edifici che i pellegrini designavano col termine «cappelle». Relativamente più ricchi erano i luoghi di culto dei copti, la comunità cristiana più diffusa in Egitto. Questi colpivano soprattutto per il fatto di essere completamente decorati con affreschi e icone; persino in mezzo al deserto capitava continuamente di imbattersi in monasteri e altri devoti edifici del tutto abbandonati, ma ancora «ottimamente dipinti», ancorché guastati qua e là dai beduini di passaggio38. Per converso, i cenobi ancora in funzione, come quelli di Sant’Antonio del Deserto o di San Paolo di Tebe, apparivano piuttosto grandi, popolati e abbondanti d’acqua e piante; i monaci erano di solito molto più ospitali di quelli greci del Sinai e offrivano ai visitatori sostanziose pietanze, purché poi partecipassero con loro a offici interminabili recitati nella loro incomprensibile lingua. Negli usi liturgici e devozionali differivano non poco dagli altri cristiani, ad esempio per il fatto di segnarsi col solo dito indice della mano destra39.

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Niccolò da Poggibonsi, per la sua irrefrenabile curiosità, non perse l’occasione di partecipare alla messa copta in una chiesa di Alessandria, di cui ci ha lasciato un’accurata e compiaciuta descrizione40. Una volta ammesso nell’edificio, intendendosi a gesti, provò a ripetere tutto ciò che vedeva fare agli altri fedeli: come tutti quanti, si mise a sedere per terra «a modo di donne» (ossia, com’è probabile, con le gambe incrociate), sopra i tappeti che ricoprivano il pavimento, e si tenne a rispettosa distanza dalla zona dell’altare, alla quale potevano accedere solo i sacerdoti con i diaconi e i suddiaconi. Di regola, il presbiterio era separato dalla navata dal cosiddetto haikal, un vero e proprio divisorio ligneo fornito di un’apertura centrale e spesso anche da due laterali; questa struttura era quasi sempre ornata con eleganti decorazioni ad intaglio, immagini sacre, veli e finanche inserti in madreperla o avorio41 e doveva lasciar trapelare ben poco dei momenti più solenni della liturgia. Infatti fra’ Niccolò racconta di aver visto gli officianti solo brevemente, con un candeliere con tre candele accese nel mezzo, enormi nubi di incenso, e incessabili canti nella loro lingua; a colpirlo erano soprattutto le vesti liturgiche dei due accoliti, che «pongonsi uno sciugatoio, e l’una parte si mette in testa e l’altra parte si manda di rietro alle spalle, che giugne infino a terra». Li aveva potuti osservare soprattutto quando erano usciti per la lettura dell’Epistola e del Vangelo, che si era svolta non sul pulpito, bensì sulla porta d’ingresso; con suo stupore, al termine di entrambi i riti, i fedeli erano accorsi a baciare i piedi del sacerdote. Ancora più esotici dovevano essergli sembrati gli etiopici, che solo formalmente dipendevano dal patriarca copto mentre formavano, di fatto, una comunità a sé, fiera delle proprie tradizioni liturgiche, architettoniche e artistiche originali. Ad osservarli mentre recitavano il loro officio nella loro lingua, il ge’ez, gli pareva che ridessero e mostrassero «tutti li denti loro» (probabilmente perché era la prima volta che gli capitava di vedere quanto risalta lo smalto bianco in un volto scuro di pelle). Il momento più curioso del rito si aveva al mo-

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mento della consacrazione del pane, che veniva reso invisibile da un bellissimo drappo d’oro che un paio di uomini stendevano davanti ai fedeli: questo avveniva durante la messa al loro altare nel Santo Sepolcro, mentre strutture divisorie fisse erano presenti nelle loro chiese sull’altopiano abissino, nel quale pochissimi europei si erano spinti sino ad allora. Tra questi temerari si annoverava un mercante napoletano, un tale Pietro, che il viaggiatore fiammingo Bertrandon de la Broquière incontrò a Pera, vicino a Costantinopoli, nel 1432: a questi confidò, un po’ confusamente, che, sebbene usassero il pane lievitato come i greci, le loro formule liturgiche erano più simili a quelle latine, anche se le cerimonie non corrispondevano esattamente; un fatto singolare era che ricevevano la comunione tutte le domeniche42. Ben più note erano senz’altro le chiese dei maroniti e dei giacobiti, con cui i latini avevano stretto forti legami all’epoca delle crociate, anche se non ci hanno lasciato particolari descrizioni dei loro arredi e costumi; ci dicono genericamente che erano belle e ornate e, del resto, è noto che non erano poi molto diverse da quelle dei melkiti. Il domenicano Ricoldo da Montecroce, che forte della sua conoscenza dell’arabo ardì spingersi fino in Iraq, fu ospite per qualche giorno del monastero di Mar Mattai presso Mossul, dove allora risiedeva il patriarca giacobita. Fu impressionato dalle forti mura e dalle tracce di passati miracoli che i monaci vollero indicargli: ad esempio un masso enorme che uno stuolo di curdi gli aveva fatto precipitare contro e che per grazia di Dio si era appoggiato alla cinta in modo addirittura da consolidarla. Più di questo, però, lo incuriosirono alcuni riti e il modo di assistere alla messa, ossia sempre in piedi, senza mai sedersi; al pari dei greci usavano il pane fermentato, purché fosse appena tolto dal forno e fumante, e invece dell’olio santo solevano cospargere i defunti, a tre giorni dalla morte, con acqua di rose43. Gli usi dei nestoriani erano ancora più singolari. Quelli d’Iraq, stando alla stessa fonte, distribuivano l’eucarestia nelle mani dei fedeli, e usavano comunicarsi anche col vino; inol-

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tre ritenevano un’offesa gravissima alla dignità del luogo di culto l’ingresso nella zona dell’altare (marcata anch’essa da una barriera divisoria) di gatti, cani e altri animali (eccezion fatta per i topi), di eretici e musulmani, di uomini a capo scoperto, nonché dello stesso sacerdote una volta ricevuta la comunione. In tutti questi casi, così come quando si rompeva una lampada e cadeva a terra, era necessario far intervenire il vescovo con le sue benedizioni; se a cadere era una goccia d’acqua dal soffitto, occorreva riconsacrare l’edificio; se qualcuno andava lì per bestemmiare la loro fede, erano costretti a lavarlo con l’acqua di rose: così fecero i sacerdoti di Baghdad dopo aver cacciato fuori fra’ Ricoldo44. Guglielmo da Rubruk, che conobbe queste comunità in Mongolia, notò che appena varcata la soglia i fedeli si prostravano a terra fino a lambire il suolo con la fronte, dopodiché toccavano le immagini e gli altri oggetti sacri con la mano destra, che portavano poi alla bocca per baciarla e per farla baciare alle altre persone lì dintorno. L’unica immagine che non gradivano era il crocifisso, di cui si vergognavano, preferendogli la nuda croce45. Quest’ultima era l’ornamento pressoché esclusivo delle chiese di un altro gruppo cristiano che i latini conoscevano bene, quegli armeni che tra il 1073 e il 1375 avevano costituito un regno indipendente in Cilicia, fortemente legato alle potenze occidentali e in gran parte influenzato dalla cultura latina (francese in particolare). L’aspetto dei loro luoghi di culto, dominato dalla presenza dei khacˇ‘kar, stele scolpite con raffigurazioni della croce (Fig. 20), ci è così descritto da un viaggiatore tedesco di inizi Quattrocento: Nelle loro chiese fanno solo una croce e nient’altro oltre a questo; dicono che sarebbe un peccato se si facesse più di un sacrificio di Nostro Signore in una chiesa. Non hanno alcuna immagine sui loro altari [...]. Certo adornano le loro chiese in un bel modo e hanno buone vesti liturgiche di sciamito e stoffe di buona seta con colori di ogni tipo46.

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Le chiese dei greci A basarsi sul criterio della presenza o meno di immagini, la tipologia di arredo caratteristica delle chiese greche stava all’esatto opposto di quella usata dagli armeni. La sovrabbondanza di figurazione costituiva un elemento distintivo dello spazio sacro ortodosso, riconosciuto e apprezzato pressoché dappertutto in Europa e nel Mediterraneo, dove per secoli si era guardato alla pittura sacra bizantina sia come a una tradizione venerabile (che si faceva risalire alle stesse origini cristiane), sia come a un paradigma di bellezza. Secondo un’antica leggenda, nel 988 il re russo Vladimiro si era risolto ad abbracciare l’Ortodossia sulla base di criteri puramente estetici, dopo aver inviato suoi emissari a informarsi sugli edifici di culto e il loro uso presso i greci, i tedeschi e i bulgari musulmani del Medio Volga. Le loro impressioni erano state nettamente a favore della bellezza del rito bizantino: Siamo andati dai Bulgari – dissero – e abbiamo visto come prestano devozione nel tempio, cioè nella moschea, stando senza cintura; per adorare si siedono, e guardano qua e là come ossessi, e non vi è gioia in loro, bensì tristezza e lezzo grande. Non è buona la fede loro. E siamo andati dai Tedeschi, e vedemmo che nei templi molti riti officiavano, ma di bello non vedemmo nulla. E dai Greci andammo, e vedemmo dove officiavano in onore del loro Dio, e non sapevamo se ci trovavamo in cielo oppure in terra: non v’è nel mondo uno spettacolo di tale bellezza, e non riusciamo a descriverlo; solo questo sappiamo: che là Dio vive assieme all’uomo e che il loro rito è migliore di quello di tutti gli altri paesi. Ancora non possiamo dimenticare quella bellezza: così come ogni uomo che gusta il dolce poi non accetta l’amaro, così anche noi non saremo più pagani47.

In grande misura, questa fama si legava alla celebre chiesa di Santa Sofia, la «Grande Chiesa» per antonomasia, con la cui costruzione l’imperatore Giustiniano si era vantato di aver superato la gloria del re biblico Salomone. Per così tanti secoli i latini lodarono la preziosità dei suoi arredi, dei suoi

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mosaici sfavillanti, delle sue suppellettili d’oro e d’argento, che quando si impadronirono di Costantinopoli durante la IV crociata (diretta non più agli infedeli, bensì ai propri confratelli cristiani) si affrettarono a introdurvisi dentro con dei muli in modo da caricarli con i suoi tesori: un autore bizantino, Costantino Stilbìs, lamentò che opere di grande valore, come la mensa marmorea dell’altare, un oggetto di gran pregio, erano state allora fatte a pezzi, mentre patene e calici erano stati in parte fusi per farne orecchini, speroni e collane, in parte erano stati utilizzati per comporre servizi da tavola48. Tra coloro che parteciparono a questo vergognoso oltraggio c’era anche il crociato Robert de Clari, che ci ha lasciato un’emozionata descrizione di questo spazio sacro eccezionale così come ebbe modo di osservarlo durante il sacco della città: All’interno dell’edificio – osservava stupito – c’erano volte tutt’intorno, che erano sorrette da grandi e ricchissime colonne, e non ce n’era una che non fosse di diaspro o di porfido o di ricche pietre preziose. Non ce n’era neanche una che non avesse qualità medicinali: a strofinarcisi contro, l’una ti guariva dal mal di reni, l’altra dal mal di vita, e altre ancora da ulteriori malattie. Ogni porta e cardine e catenaccio e qualsiasi altro elemento che di solito è in ferro, in quella chiesa era immancabilmente d’argento. L’altare maggiore – quello di lì a poco fatto a pezzi – era così ricco che non si poteva neanche stimarne il valore, perché la mensa era in oro e pietre preziose spezzate e macinate [...]. Intorno all’altare c’erano colonne d’argento che sorreggevano un’edicola sopra l’altare, che era fatto alla maniera d’un campanile, tutto d’argento massiccio [...]. Nel mezzo all’edificio pendevano cento lampade; non c’era lampadario che non fosse fissato a una grossa catena d’argento, della misura d’un braccio umano, e ciascuno di questi conteneva fino a venticinque lampade e passa...49

Nonostante le devastazioni subite, il mito del tempio della Sapienza Divina sopravvisse alla sua spoliazione; ancora un secolo più tardi, il tedesco Wilhelm da Boldensele affermava convinto: «Credo che sotto il cielo, da quando è stato creato

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il mondo, non sia stato edificato nessun edificio paragonabile a questo per nobiltà e grandezza»50. Per trovare qualcosa di simile bisognava abbandonare la terra e ascendere alla Gerusalemme celeste, giacché in questo mondo non c’era niente di simile, soprattutto per la ricchezza delle decorazioni in marmo e in oro e l’incredibile quantità di oggetti sacri e reliquie che vi erano conservati, tra cui il pozzo della Samaritana con cui aveva conversato Cristo, un’icona dipinta da san Luca e pugnalata da un giudeo, un pezzo della colonna della Flagellazione, la graticola su cui fu martirizzato san Lorenzo e numerosissimi altri cimeli della fede cristiana: in particolare, alla bellezza ed estrema preziosità dei materiali, alla complessa articolazione dello spazio e all’abbondanza degli arredi si accompagnava l’idea ben radicata dell’efficacia taumaturgica associata al luogo sacro, quale veniva manifestata persino dalle sue colonne e dalle sue pareti51. Oltre Santa Sofia, altri edifici della capitale bizantina stimolarono per secoli la fantasia degli occidentali per la loro grandiosità e per la loro capacità di coinvolgere lo spettatore in un ambiente assieme solenne, misterioso e affascinante. Tale era la cappella del Pharos all’interno del Palazzo imperiale, la cui funzione (di luogo di custodia delle reliquie della Passione di Cristo) e aura di sacralità furono trasmesse alla Sainte Chapelle di Parigi, costruita e consacrata nel 1248 per ospitare i più preziosi cimeli di Costantinopoli52. Non meno celebri erano le chiese dei Santi Apostoli e della Vergine delle Blacherne; quest’ultima in particolare aveva la singolarità di consistere in un complesso di edifici comunicanti, tutti caratterizzati da un decoro esuberante, riassumibile in queste parole di un testo del secolo XII: Il pavimento di questa chiesa è di marmo, le pareti e le colonne sono anch’esse di marmo, i capitelli d’oro, il soffitto d’oro, all’esterno è tutta coperta di piombo e, per farla breve, è splendente e bellissima e non vi si vede altro che oro o argento o splendido marmo o vetro53.

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In questo bel luogo erano collocate numerose immagini, anch’esse realizzate in tecniche sontuose, ad esempio scolpite nel marmo o realizzate in preziose tecniche orafe, anche se mai sviluppate in forma tridimensionale. Le si potevano vedere grazie alla presenza di candele e lampade e l’intensità della loro illuminazione serviva a segnalare la loro maggiore o minore venerabilità ed efficacia taumaturgica. Una in particolare era destinataria di una devozione straordinaria, che si manifestava in un prodigio che aveva luogo a scadenze regolari, ogni venerdì sera, tanto che gli abitanti di Costantinopoli lo chiamavano confidenzialmente «il miracolo abituale». Accadeva dunque, come ci racconta un testimone oculare, che sulla sera, al richiamo dei sacerdoti che, all’uso greco, si faceva non per mezzo di campane bensì di una serie di colpi di martello su una lunga tavola detta símandron, si accalcasse in uno degli edifici secondari – una graziosa cappella a pianta circolare – una folla così numerosa di persone che «se uno ci andasse nudo in pieno inverno riuscirebbe solo con gran fatica a sopportare il calore». Ciascuno cercava di avvicinarsi il più possibile a un’icona raffigurante la Vergine col Bambino che di solito rimaneva parzialmente occulta, perché coperta dalla cintura fino ai piedi da un panno di seta. Ora, capitava per divino prodigio che, mentre il popolo pregava e i sacerdoti cantavano spargendo nubi d’incenso, quel panno, benché fissato alla tavola con due chiodi, scendesse da sé per rivelare la sacra effigie nella sua interezza54. Questo evento colpì talmente l’immaginazione degli occidentali che la Chiesa di Roma, stando alla testimonianza del liturgista Giovanni Beleth, decise di consacrare il sabato al culto di Maria55. Dal punto di vista dell’articolazione dello spazio, le chiese bizantine presentavano singolarità che le distinguevano da quelle latine. L’ambasciatore Ruy González de Clavijo, a Costantinopoli nel 1403, ci ha lasciato numerose sue annotazioni a questo proposito56. In primo luogo fu colpito dal fatto che la decorazione degli interni obbediva a un principio di unitarietà; ad esempio nella navata (naòs) del monastero del

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Pantokrator, la superficie a mosaico (così come altrove, più comunemente, accadeva con l’affresco) occupava tutte le pareti dalla cupola fin quasi al pavimento, dove passava il testimone al rivestimento marmoreo. Nella cupola era immancabilmente raffigurato Cristo «Signore dell’Universo» (che il buon castigliano scambiò per «Dios Padre») e tutto il resto delle figurazioni era disposto sotto di lui secondo un ordine gerarchico verticale (Tav. 23): subito intorno a lui si potevano vedere angeli e profeti, i quattro evangelisti spesso erano disposti nei pennacchi, mentre una selezione di scene evangeliche decorava la parte alta delle pareti e una sequenza di santi la sezione più bassa. La navata era separata dall’abside da una recinzione alta detta templon (Tav. 24), simile a un colonnato sormontato da un architrave, chiuso in basso da pannelli marmorei o lignei e dotato di un’apertura centrale (più due laterali nelle chiese grandi). Su questa struttura, ci racconta Clavijo, si usava appendere veli di seta affinché ai fedeli fosse impedito di vedere gli officianti durante il rito; sappiamo tuttavia che, almeno a partire dal secolo XI, si era incominciato a inserire delle icone negli intercolumni e sopra l’architrave, anche se non necessariamente in forma stabile. Certo è che, col passare del tempo, questa barriera aperta andò trasformandosi in quell’elemento fondamentale dell’arredo ecclesiastico ortodosso che è l’iconostasi, abitualmente decorata in basso con ritratti di santi (nella fattispecie Cristo, la Vergine, il patrono dell’edificio) e in alto, sopra l’architrave, con sequenze di scene evangeliche e rappresentazioni della Deisis (l’atto di supplica a favore dell’umanità rivolto dai santi, capeggiati dalla Vergine e da Giovanni Battista, al cospetto di Cristo Signore dell’Universo). Nelle versioni sviluppatesi in Russia a partire dal tardo secolo XIV, questa struttura, trasformata in un vero e proprio muro di icone, finì per raggiungere un’altezza vertiginosa e si caratterizzò per la sua maestosa imponenza57. Al di là dell’iconostasi, nello spazio dell’altare (vima) era normativo rappresentare la Vergine nella semicalotta absida-

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le, mentre lo spazio inferiore della tribuna era di solito occupato da figurazioni ad evidente significato liturgico: più in alto l’Ultima cena, resa come una scena di impartizione dell’Eucarestia agli apostoli da parte di Cristo; più in basso, una sequenza di santi vescovi raffigurati nell’atto di celebrare la liturgia e in un certo senso di amplificare e ripetere i gesti compiuti lì, davanti a loro, dall’officiante in carne e ossa. I temi prescelti venivano naturalmente incontro al pubblico speciale, di soli ecclesiastici, a cui erano rivolti; i laici solo molto raramente vi erano ammessi, ma in nessun caso poteva esser concesso a una donna di valicarne la soglia (questo divieto è a tutt’oggi pienamente in vigore)58. Ad attrarre i latini erano soprattutto le grandi chiese della capitale, ricche di arredi, materiali preziosi e colori sgargianti. C’erano tuttavia altri aspetti che piacevano molto meno o parevano decisamente sgradevoli, soprattutto per quanto atteneva al modo in cui le chiese venivano usate e fruite. L’entusiasmo per le icone e il loro culto, ad esempio, non convinceva proprio tutti in Occidente, tant’è che a tacciare i greci di superstizione a causa di questo non erano solo ecclesiastici, come papa Innocenzo III, ma anche gente indubbiamente più rozza come alcuni soldati normanni durante l’assedio di Tessalonica del 118059. Un buon conoscitore di Costantinopoli, il pisano Leone Tosco (che esercitò l’attività di traduttore a Palazzo tra il 1177 e il 1181), condannò alcune usanze come quella di intingere pezzetti di papiro nell’olio delle lampade appese davanti alle immagini sacre e di ungersi la fronte con quelli, onde riceverne una benedizione, o l’altra, certo molto singolare, di utilizzare le icone della Vergine come madrine nei battesimi. Su molte altre questioni Leone volle dire la sua. Per esempio sull’aspetto dei monaci e dei preti, che gli sembravano frivoli e vanitosi: anziché portare la chierica, si lasciavano crescere i capelli e se li pettinavano come le donne, con la scriminatura a metà della fronte (in realtà ispirata all’iconografia tradizionale del Cristo). Con le donne avevano ampio com-

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mercio i sacerdoti, che usavano prender moglie facendosi poi comandare anche nelle faccende di chiesa: tant’è vero che, sostituendosi ai diaconi, non di rado le consorti entravano nel coro per sparecchiare la mensa dell’altare dopo la liturgia. Il significato universale di quest’ultima finiva spesso per esser svilito a una questione familiare, specialmente durante il mattutino, che veniva recitato così presto da esser disertato completamente: ma il prete, senza scomporsi, officiava tranquillamente alla presenza della sola moglie e dei figli. I fedeli, anziché frequentare le chiese, preferivano di gran lunga forme di pietà privata allora in gestazione; in particolare usavano costruirsi dei microspazi di culto, dei tabernacoli domestici che replicavano l’arredo di quegli edifici sacri che così poco gradivano frequentare: Nelle loro case costruiscono delle casette in cui collocano le immagini dei santi e a cui manifestano ogni ossequio possibile con lampade, ceri e incenso, mentre lasciano che le chiese sinodali, che furono erette dai loro padri, cadano in solitudine e in povertà; e poco ci manca che facciano celebrare l’officio nelle loro stanze da letto...60

A parte questo, c’era tutta una serie di differenze rituali che saltavano agli occhi, come la presenza di un solo altare, l’uso del símandron, la celebrazione dell’eucarestia col pane fermentato, da cui veniva ricavata la sola parte centrale (detta amnòs, cioè agnello), senza nessuna forma di elevazione, come si faceva quando in Occidente si mostrava l’ostia al popolo; lasciamo che sia ancora una volta fra’ Niccolò da Poggibonsi a informarci sull’argomento: Li Greci fanno svariato offizio da noi Latini. Nelle loro chiese si fanno uno altare, e ivi si dice la messa e none agli altri altari e così dicono solamente una messa lo dì per ciascuna chiesa e non più. Campane non usano; e quando vogliono sonare le loro ore, overo a messa, el loro prete, lo quale chiamano papas, si sale in sul campanile e tiene in collo uno regolo di legno, largo una spanna e lungo ben sei braccia, e tiene in ciascuna mano uno maglio e bussa in

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ciascuna faccia del regolo; e sempre tenendolo in collo, e’ fa uno suono tanto alto che la città non è sì grande che lo detto suono non sia udito. La messa dicono sempre in ora di sesta – ossia verso mezzogiorno – e non cantano con boce né a note, ma fanno cotali atti colle mani a modo di come debbono andare le note, cioè in giù e in su. E lo sacrifizio fanno che pigliano uno pane e del mezzo levano una fetta, e quello sacrificano; e quando lo prete leva su alto quello che ha sacrificato, e lo populo mette lo viso in terra per non vederlo, ché dicono che nonne sono degni di vederlo61.

Complessivamente, fra’ Niccolò non apprezzava affatto la liturgia bizantina; colpisce in particolare la scarsa empatia nei confronti del canto ortodosso, che cercò di sminuire pretendendo di dimostrare che in realtà era poco più di un mugulio accompagnato da gesti delle mani. Poco meno di due secoli prima il re di Francia Luigi VII aveva avuto un’impressione esattamente opposta durante il suo soggiorno a Costantinopoli nel 1147, quando il clero greco, per la festa di san Dionigi, aveva recitato l’officio in modo decisamente spettacolare: Invero quelli [sc. gli ecclesiastici greci] erano diversi dai nostri chierici nelle parole e nel modo di armonizzare le voci, ma erano piacevoli per la loro melodia soave. Infatti ad allietare gli animi dei Franchi erano le voci miste, vale a dire le più robuste assieme alle gracili, ossia quelle degli eunuchi con quelle virili (molti di loro, infatti, erano eunuchi). Anche con la posa decente e modesta del corpo, col battere delle mani e il piegarsi delle membra offrivano allegrezza al viso62.

Può darsi che questo apprezzamento non fosse casuale, cioè che il re francese e il suo seguito ritrovassero in queste pratiche qualcosa di simile alle tecniche del contrappunto e della polifonia allora in gestazione nelle grandi cattedrali della Francia settentrionale.

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Le chiese del diavolo Tutte queste generazioni di cristiani che vivevano separate dalla comunione con la Chiesa romana da un lato attraevano perché mantenevano elementi di affinità con i latini o perché, specie nel caso dei Bizantini, erano in grado di magnificare Dio attraverso soluzioni spaziali, rituali e artistiche che sembravano molto efficaci. Questi «altri» un po’ sgraditi e un po’ affascinanti, fors’anche un po’ esotici, non risiedevano tuttavia soltanto in Oriente, al contrario: l’Italia e il resto dell’Europa occidentale, in particolare nel secolo XIII, pullulavano di comunità ereticali che coltivavano il proprio cristianesimo alternativo, propugnando in particolare l’idea di una necessaria purificazione del mondo e della società. Ma può davvero esistere questa alternativa, quando si sa che la Verità rivelata può essere una soltanto? Se questa va bene per noi, non può esserlo per questi altri, le cui menti si diranno più facilmente offuscate dal Diavolo, che ispirate da Dio. Il Maligno, a quei tempi, svolgeva la sua attività di subdolo ingannatore soprattutto negli ambienti delle città, allora in pieno boom economico e animate da un prospero commercio internazionale, di cui i mercanti italiani erano i principali protagonisti; era un’epoca di cambiamenti che avvenivano a ritmi sempre più incalzanti (anche se non paragonabili a quelli dei nostri giorni) e che avevano le loro inevitabili ricadute anche nel sentire religioso della popolazione. L’Italia centro-settentrionale, e in particolare la Lombardia (che nel Medioevo corrispondeva grosso modo alla pianura padana), erano caratterizzate dalla presenza di numerosi adepti del catarismo, l’unico di questi movimenti ereticali ad essersi dotato di una struttura gerarchica parallela a quella della Chiesa ufficiale. In alcune città, come a Vicenza, erano talmente numerosi da occupare un intero quartiere e da possedere un luogo di riunione – la domus Catharorum – che rimase in piedi, alla luce del sole, almeno fin quando il vescovo Bartolomeo di Breganze, negli anni Sessanta del Duecento, non si pose il fine di

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estirpare quella mala pianta dalla sua diocesi: a tale scopo si avvalse di un’arma non convenzionale, una spina della corona di Cristo donatagli da san Luigi di Francia, che fece deporre nella locale chiesa domenicana, fondata appositamente in mezzo alle case dei catari63. Questi ultimi (a loro volta divisi in correnti e movimenti distinti) propugnavano una visione più o meno drammatica del mondo, inteso come una prigione intollerabile, un girone infernale dominato dalla materia, da cui l’anima doveva cercare di fuggire, e per ottenere questo risultato, era necessario rendersi puri dedicandosi unicamente alla cura spirituale. Questa non poteva aver luogo nel contesto della Chiesa istituzionale, perché anch’essa era dominata dalla materia, dal denaro e dalle occupazioni mondane. A loro modo di vedere, le chiese andavano disertate perché frutto dell’inganno e del Male; gli arredi fastosi e mondani ne erano la dimostrazione più palese. I loro luoghi di riunione dovevano essere piuttosto essenziali: case, o piuttosto semplici stanze, prive di qualsiasi decorazione e fornite unicamente di un tavolo, che servivano come punto di aggregazione comune; l’unico rito a carattere sacramentale che vi si svolgeva era quello del consolamentum, una specie di battesimo impartito a persone adulte che significava l’abbandono della materia e la prossima liberazione dell’anima64. Ovviamente tutti costoro non vedevano di buon occhio le immagini e i simboli sacri (ivi compresa la croce), giacché li ritenevano strumenti che servivano all’istituzione ecclesiastica per rafforzare il suo ruolo di mediatrice privilegiata e indispensabile tra la comunità e la corte celeste. Si sapeva che la gente, temendo più gli affanni del corpo che quelli dell’anima, era portata naturalmente ad affidarsi alla protezione dei santi per mezzo delle loro effigi e di tali pratiche il clero aveva tutto l’interesse a mantenere il controllo. I catari disprezzavano tutto questo e se ne facevano beffe: verso il 1230, in un castello della Linguadoca, alcuni di loro scolpirono una statua della Madonna che aveva un aspetto ridicolo e para-

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dossale, dopodiché recitarono la parte ora dello zoppo, ora del cieco, ora del muto che ottenevano la guarigione per virtù della sacra immagine; e il popolo ottuso e credulone (fra cui c’erano anche alcuni poveri preti di campagna) gridò subito al miracolo e fece fare delle copie per portarle in processione anche nei villaggi vicini65. Questi comportamenti non erano isolati, giacché era ben noto che gli eretici avevano il costume di dissimulare i loro errori dietro uno stile di vita apparentemente ortodosso, onde sottrarsi alle persecuzioni. Dei Bogomili, un gruppo diffuso nell’Oriente bizantino con cui i catari furono in contatto, si raccontava che si divertissero a costruire chiese che a un’osservazione superficiale potevano sembrare identiche a quelle normali, mentre in realtà non erano altro che latrine camuffate, con tanto di sistema di scarico, in cui andavano a fare i loro bisogni. Più banalmente, una caratteristica degli adepti di queste varie sette era quella di far finta di esser devoti cristiani, ad esempio frequentando le parrocchie d’appartenenza ed assistendo alla messa e alle prediche. I valdesi, ampiamente diffusi nelle valli alpine del Piemonte, si presentavano regolarmente in chiesa perché altrimenti, come dichiarò un testimone al tribunale dell’Inquisizione nel 1335, la gente avrebbe capito che appartenevano a quella setta. Il loro modo di fruire lo spazio sacro non poteva tuttavia che differire nettamente da quello degli altri fedeli, come ebbe modo di apprendere un tizio che domandò loro come mai non andassero in chiesa a venerare i santi come tutti gli altri. «Noi», risposero quelli, «andiamo senz’altro alla chiesa e diciamo quello che ci sembra di dover dire, ma non vogliamo adorare le pitture che sono sulle pareti»66. La presenza della figurazione costituiva agli occhi di molti che ambivano a ritornare alla purezza e povertà delle origini cristiane un elemento rivelatore della decadenza dei costumi, imputabile in primo luogo al clero che, per bramosia di guadagno, aveva aperto la strada agli usi superstiziosi del popolo. Per più secoli la Chiesa aveva mantenuto un’attitu-

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dine sospettosa nei confronti delle immagini: aveva faticato a comprendere ed accettare la riflessione dei teologi bizantini sulla funzione religiosa delle icone, aveva sempre ammonito a valicare certi limiti nel culto delle immagini e semmai aveva incoraggiato a utilizzare i cicli narrativi come mezzi per educare gli incolti con storie a contenuto agiografico e morale67. Nel Due e Trecento, tuttavia, gli edifici sacri abbondavano di pitture e sculture e la loro utilità liturgica e cultuale era ampiamente riconosciuta e valorizzata da teologi e liturgisti; solo in qualche remoto angolo del mondo di allora resistevano sacche di «iconofobi». Tra questi remoti angoli c’era senz’altro la Bosnia, terra di confine tra gli ambiti d’influenza della Santa Sede e del Patriarcato di Costantinopoli. Impervia e isolata per secoli, questa regione aveva molto probabilmente ricevuto una cristianizzazione piuttosto superficiale, affidata a comunità monastiche che sembrano aver mantenuto a lungo consuetudini del cristianesimo primitivo. Anche se vi erano sicuramente presenti alcune sette (nella fattispecie i Bogomili), oggi gli studiosi tendono a leggere le singolarità cultuali della Chiesa bosniaca non come il risultato di una deviazione ereticale bensì come una specificità locale, legata a un contesto culturale molto conservativo. Certo è che, quando nel 1203 i legati papali si incontrarono (forse per la prima volta dopo secoli) con i loro colleghi locali nella cittadina di Bolino Polje, si resero conto che tutte le chiese si trovavano entro le mura di monasteri che, come nell’età tardoantica, comprendevano comunità miste di monaci e monache, ed erano prive di immagini, croci e altari. Benché in quell’occasione fosse firmata una dichiarazione in cui si prometteva solennemente di ripristinare questi arredi e di sottomettersi all’autorità papale, nei successivi due-trecento anni la Chiesa bosniaca continuò a vivere secondo i propri usi, di fatto separata dalla comunione sia con Roma che con Bisanzio68. Tali erano le chiese che piacevano al Maligno: spoglie, sgradevoli, puzzolenti, prive di decorazioni e abbellimenti,

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officiate per suo conto da sacerdoti ignoranti, lussuriosi, ambigui ed eretici. In questi ambienti quell’insana bestia stabiliva la propria residenza e ne faceva il quartier generale per le proprie campagne belliche contro i devoti cristiani. Una volta cacciati i suoi adepti, la maggior difficoltà stava nel rimandar lui nel profondo dell’inferno. Antiche storie, riprese e tradotte in volgare dai predicatori, raccontavano della sua riluttanza ad abbandonare gli edifici da lui occupati; era allora necessario operare una vera e propria «disinfestazione», che aveva luogo a colpi d’acqua santa. A papa Gregorio Magno, ad esempio, era capitato di convertire una chiesa di eretici al culto divino: l’abluzione dello spazio con l’acqua benedetta lo costrinse ad andarsene e di questo il popolo si accorse benissimo perché lo sentì grugnire come un porco; tuttavia, non si diede per vinto e, una volta calate le tenebre, scatenò un putiferio. Infatti, scrive Domenico Cavalca, fece sì gran romore su per lo tetto che parve che tutta la chiesa rovinasse, sì che per questo volse monstrare che malvolentieri n’uscìa.

Per risolvere la situazione, dovette intervenire immediatamente il Padreterno: E poi cessata la predetta tempesta del nimico, subitamente una mattina discese sopra l’altare una nube da cielo con tanto odore che nullo vi poté stare a·ffare l’ufficio, e tutte le lampane s’accesano per lume celeste. Per le quali cose volse Idio monstrare che quel luogo era traslatato di puzza e di tenebre a stato di santità e di luce69.

Siccome il demonio era invidioso del culto dei santi, di tanto in tanto sobillava qualche suo adepto con tali lusinghe da convincerlo a creare degli espliciti luoghi di culto in proprio onore. Come tali furono interpretati dagli inquisitori della Marca Anconitana gli ambienti privati (la camera di un’abitazione e un tabernacolo esterno) che un po’ prima del 1320 due cittadini di Recanati, Aioletto di Cruciano e Filip-

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puccio di Rinaldo detto «Papeola», adibirono a oratori in cui venivano venerati due fantocci, uno in forma di prelato e un altro nell’aspetto di un soldato che portava un berretto di vaio sulla testa e una spada al fianco e teneva in mano una mazza. Diversi loro concittadini furono testimoni dei riti satanici che vi si compivano, ad imitazione e parodia degli spazi sacri cristiani; così si svolgevano, secondo la deposizione di uno di loro: L’anno scorso [sc. 1319], un giorno di settembre, Bertuccio di Gualterotto da Recanati [...] intimo amico del suddetto Aioletto, entrò nella camera e vide Aioletto che stava dinanzi a un idolo, che era vestito alla maniera di un prelato entro un’edicola, e sentì parlare il suddetto Aioletto; non sa tuttavia che parole proferisse, perché parlava a voce bassa. Sentì però rispondere l’idolo alle richieste di Aioletto, in questo modo: «Si può ben fare e potete andare tranquilli» [...]. E disse che vide l’idolo, non appena che ebbe così risposto, girare le terga. Interrogato su chi fosse presente, disse che c’erano il signor Spedanerio di Matteo e Bertuccio di Smiduccio; e aggiunse che, mentre stavano di fronte all’idolo, Aioletto si tolse il cappuccio e si inginocchiò e cominciò ad adorare, dicendo al suddetto Spedanerio: «Perché non onori questo dio che ci è signore?». Spedanerio allora disse: «Ma sì, lo faccio volentieri». Il teste disse anche che mentre quelli uscivano dal palazzo e la gente si dirigeva verso la chiesa, Aioletto domandò loro: «Ma dove andate, sempliciotti? Andate a veder Dio in chiesa? Venite con me, se lo volete vedere, perché ce l’ho io in camera mia!»70.

Nel caso dell’edicola stradale costruita dal Papeola lo scontro fra la chiesa divina e quella diabolica era immediato e palese: infatti sullo stesso canto di strada, l’uno di fronte all’altro, stavano l’idolo del demonio-soldato e un affresco della Vergine Maria, collocato sul muro esterno di una cappella intitolata a Santa Lucia. Chi passava di lì si trovava costretto a onorare una delle due immagini sotto lo sguardo vigile della sua rivale: i due eretici minacciavano e costringevano chiunque a onorare il loro fantoccio, ma chi si ribellava e gli

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preferiva la Madonna doveva allora sopportare parole come queste: «Voi non onorate questa divinità, che ci ha dato la vittoria sui nemici, ma adorate gli inganni che sono dipinti sui muri: avete fatto male a capitare qui!»71. Bilancio finale Da quanto si è detto sinora emergono alcune considerazioni interessanti circa il modo in cui lo spazio sacro era percepito sia nei suoi elementi di base, comuni a tutte le confessioni e persino a tutti i credi religiosi, sia nelle caratteristiche distintive rispetto ai luoghi di culto degli altri; alcune informazioni ci illuminano sullo stato reale degli edifici di culto, sulle loro modalità di gestione e fruizione, sul loro decoro e sulla loro funzionalità più o meno raggiunta, altre ci rivelano piuttosto l’aspirazione a un modello di chiesa ideale che probabilmente non è mai esistita. Per quanto attiene alla messa e al modo in cui i fedeli dovevano esperirla, si capisce che i latini gradivano poco la tendenza orientale a non coinvolgere minimamente i fedeli nell’azione liturgica; in particolare, non apprezzavano il fatto che il pane liturgico non venisse mostrato, come avveniva in Occidente all’elevazione dell’ostia, nel corso del rito eucaristico. Per converso, erano attratti da alcuni elementi scenograficamente efficaci delle liturgie orientali, come lo spargimento di incenso, la creazione di effetti luminosi o il ricorso a modulazioni di voci che risultassero in accordi polifonici. Molto meno comprensibili erano altri costumi, come il fatto di sedere per terra, l’uso di baciare i piedi del sacerdote o quello di toccare un oggetto e trasmettere agli altri la benedizione ricevuta. I diversi ambienti descritti dalle fonti avevano un unico elemento in comune: tutti si articolavano in due zone fondamentali, una destinata al pubblico dei fedeli e l’altra destinata ai ministri del culto, fossero essi officianti o semplici orchestratori,

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se così si può dire, della preghiera comune. Di queste la seconda era chiaramente considerata più sacra dell’altra e questo suo status poteva essere manifestato dalla presenza di elementi di arredo o decoro particolarmente solenni, come l’abside con l’altare, il mihrab o il tabernacolo ebraico. Un effetto simile poteva essere ottenuto anche celando o ostacolando la visione del «Santo dei Santi» per mezzo di barriere perennemente chiuse (come l’haikal copto) oppure coperte con veli solo in concomitanza con i momenti liturgici più solenni (come nel caso del templon bizantino). L’accesso allo spazio della celebrazione poteva essere regolamentato secondo criteri diversi: c’era chi, riservandolo ai soli officianti, lo vietava di fatto a tutti gli altri (uomini e animali, chierici e laici, maschi e femmine) e chi invece si limitava ad escludere i soli laici; comunque le donne non vi erano quasi mai ammesse. La decenza e l’onorabilità di un luogo di culto era segnalata da tutta una serie di fattori ben precisi: in primo luogo l’intensità dell’illuminazione per mezzo di lampade e candele, che manifestava la devozione dei frequentatori dell’edificio. In secondo luogo, veniva apprezzato il fatto che disponesse di tutti gli strumenti e utensili necessari allo svolgimento dei riti. In terzo luogo, giocava un ruolo non secondario la presenza o meno di abbellimenti e decorazioni, soprattutto se realizzate in materiali nobili e costosi come l’oro, l’argento o il marmo; la presenza di pavimenti e volte conferiva una speciale dignità all’edificio, mentre l’esposizione di stoffe e veli aggiungeva una nota di colore. Inoltre, l’eventuale assenza di immagini veniva giudicata poco appropriata, perché poco attraente per i fedeli, mentre all’abbondanza di figurazione di solito si guardava con animo favorevole. Infine, l’ambiente rituale doveva, o almeno avrebbe dovuto, esser mantenuto pulito – ma in questo erano molti ad ammettere che le chiese perdevano nettamente il confronto con le moschee e le sinagoghe. Nessuna delle fonti esaminate fin qui ci permette ancora di rispondere all’interrogativo, per noi così affascinante, su chi fosse il responsabile della «progettazione» degli spazi sa-

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cri. Ci si può chiedere infatti se i luoghi di culto, specialmente se si rivelano particolarmente funzionali perché provvisti di un’organizzazione interna tale da evocare con efficacia la presenza divina, devono essere considerati il risultato della creatività e dell’inventività di singoli individui particolarmente dotati. Nella Premessa ho già espresso alcune riserve intorno a questa questione e al modo stesso in cui è stata recentemente formulata, soprattutto se finisce per configurarsi come l’esaltazione retorica di grandi personalità. Nelle pagine di questo libro abbiamo avuto modo di constatare come l’articolazione spaziale di una chiesa, il suo arredo, le sue modalità di funzionamento e i diversi accorgimenti miranti a suscitare il coinvolgimento degli spettatori fossero dettati dall’interazione di fattori diversi che ciascuna delle parti in causa (i celebranti, il clero, i fedeli laici) contribuiva a definire. Il sistema di rapporti verticali (comunità-corte celeste, anima individuale-interlocutore ultraterreno) e orizzontali (officianti-popolo, officianti-clero, clero-popolo, maschi-femmine, poveri-ricchi, sani-malati, vecchi-giovani) che si metteva in atto all’interno degli edifici contribuiva a dar forma a un’articolazione spaziale mutevole, che si adattava alle contingenze del momento in un processo perenne di trasformazione; la caoticità della distribuzione degli altari e delle cappelle, il diverso modo di esperire i riti e le cerimonie, la stessa variabilità degli arredi e delle modalità di illuminazione rendevano sempre differente la percezione di questo ambiente dinamico, che di solido aveva soltanto l’involucro architettonico che lo delimitava. In altre parole, a definire la fisionomia dello spazio sacro non erano tanto (o soltanto) gli artisti, i committenti, gli ideatori e i «creatori di eventi» quanto i fruitori della chiesa, ossia tutti coloro che, nonostante il trascorrere del tempo e delle generazioni, continuavano a raccogliersi al suo interno per dare espressione, sia collettivamente che intimamente, all’antica e profonda ambizione degli uomini di porsi in comunicazione con la dimensione divina per trovar riposo dalle in-

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certezze e dalle paure da cui erano afflitti nel mondo terreno. Detto ciò, rimane il fatto che, nel momento in cui un edificio veniva costruito ed arredato, riceveva una struttura e una serie di elementi di decoro che miravano ad evocare la rete di relazioni interne che la comunità a cui era destinato vi sarebbe venuta di lì a poco ad instaurare; di questo, entro certi limiti, gli edificatori, gli artisti e gli ideatori-ispiratori dovevano essere in qualche modo consapevoli, come proveremo ad illustrare, a mo’ di conclusione, nelle pagine che seguono.

Epilogo IMPROVVISATORI DI SPAZI SACRI: STORIA DI DUE GUGLIELMI ALLA CORTE DEL GRAN KHAN Durante le loro razzie in Dalmazia, Ungheria, Polonia, Prussia orientale e Lituania tra il 1240 e il 1242, i mongoli portarono via con sé un gran numero di uomini e donne di fede romana, costringendoli a un viaggio massacrante attraverso la steppa e i pascoli innevati dell’Asia centrale. Se alcuni (i tedeschi) erano stati inviati a lavorare nelle miniere e altri erano stati impiegati nell’esercito, altri ancora erano stati portati come schiavi presso la corte del Gran Khan, una sorta di città mobile composta di tende (yurte) montate su carri che si spostava continuamente nelle vaste pianure lungo il corso del fiume Orkhon. Come ci si poteva adattare a vivere in un mondo del genere, con un clima rigidissimo, fra gente spaventosa ed estranea, sempre in mezzo a mandrie di cavalli e bovini, senza neanche un sia pur minimo appiglio alle proprie origini e alla propria cultura religiosa? Come si poteva continuare a vivere e restar fedeli al proprio credo in una terra priva di luoghi consacrati secondo il culto latino? Quando, sia pur controvoglia, li raggiunse il già ricordato francescano Guglielmo da Rubruk, nel 1254, provò a far qualcosa per loro. Si accorse infatti che a nessuno di loro era stato concesso di frequentare le chiese del luogo, appartenenti ai cosiddetti «nestoriani» – ossia le comunità di cristiani di rito siriaco orientale presenti nell’Asia profonda sin dal-

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l’alto Medioevo – giacché questi ultimi pretendevano la conversione al loro credo e l’obbligo di ricevere nuovamente il battesimo. Fornire a questi disgraziati un luogo in cui raccogliersi sarebbe stato un nobilissimo atto di carità cristiana, ma poteva un povero frate realizzare qualcosa di conveniente con le sole sue forze? Il caso volle che, alla corte del Khan, fosse presente un abile orafo parigino, di nome Guillaume Boucher, che era stato fatto prigioniero in Ungheria, laddove molti artisti francesi, negli anni precedenti, erano andati ad operare, esportando i modi dello stile gotico; niente però avrebbe potuto fargli sospettare che, attraverso di lui, l’arte dell’Île-de-France avrebbe avuto un’effimera espansione fino ai desolati pascoli della Mongolia. Tra lui e fra’ Guglielmo nacque un’intesa che si rivelò subito molto solida e si tradusse nella progettazione congiunta di un luogo devoto. Alcuni elementi erano già in possesso del frate: infatti era partito dalla Crimea caricando un carro con una «cappella», termine con cui si intendeva, in questo caso, l’insieme dei paramenti e degli utensili in oreficeria necessari per la recitazione degli offici, nonché un insieme di libri liturgici e testi religiosi, tra cui il breviario, il messale, una Bibbia in latino e una sua versione versificata in volgare francese (cioè in lingua d’oïl), una copia del Liber sententiarum del grande teologo del secolo XII Pietro Lombardo, e un salterio, decorato con «bellissime figure», donatogli dalla regina di Francia. Per inavvertenza, tuttavia, aveva perso una parte consistente di questi oggetti: giunto alla corte di Sartakh, il bisnipote di Gengis Khan che dominava sulla regione del basso Volga, gli era stato suggerito di presentarsi a lui cercando di colpire la sua immaginazione con la magnificenza del culto latino, per cui, assieme col suo compagno fra’ Bartolomeo da Cremona e con un prete nestoriano incontrato nell’accampamento (tale Coiac), aveva inscenato una sorta di cerimonia religiosa, facendo ingresso nella tenda con indosso gli abiti sacerdotali per offrire i manoscritti più belli all’ispezione incuriosita del Khan:

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Dopo aver indossato gli abiti più preziosi – raccontava fra’ Guglielmo, scrivendo a san Luigi IX di Francia – portai, reggendolo contro il petto, un cuscino che era molto bello e la Bibbia che mi avevate dato e il bellissimo salterio che mi aveva dato la signora regina, in cui c’erano bellissime pitture. Il mio compagno prese il messale e la croce, mentre il chierico [nestoriano], con indosso la cotta (superpelliceum), recava il turibolo. Così ci avvicinammo alla sua abitazione, e da dentro scansarono il velo che pendeva davanti alla porta, così che [Sartakh] potesse vederci... Dopodiché siamo entrati cantando il Salve Regina... Quel tale Coiac gli portò il turibolo con l’incenso, che osservò attentamente tenendolo in mano; poi gli portò il Salterio che guardò molto a lungo assieme con la moglie seduta accanto a lui; infine gli portò la Bibbia. Domandò se vi era contenuto il Vangelo; gli risposi: «Anche tutto il resto della Sacra Scrittura». Allora prese in mano la croce e, incuriosito dall’immagine, chiese se si trattava dell’effigie di Cristo; risposi di sì (i nestoriani e gli armeni non fanno mai la figura di Cristo sopra le loro croci, da cui si capisce che hanno un’opinione errata della Passione, ovvero che se ne vergognano). Poi ordinò che si ritirassero tutti quelli che ci stavano dintorno, per poter vedere più distintamente i nostri ornamenti1.

Evidentemente Sartakh era rimasto molto soddisfatto dello spettacolo offertogli dai religiosi, e in particolare lui e la moglie avevano subìto così tanto il fascino delle belle miniature gotiche che ornavano i manoscritti (verosimilmente realizzati in qualche atelier parigino), che il giorno seguente ordinarono di requisire i carri di quegli stranieri. Fra’ Guglielmo fece in tempo a sottrarre i libri a cui teneva di più, tra cui il breviario e il messale, ma non si era sentito di tenersi il salterio della Regina, «perché era stato troppo notato a causa delle pitture dorate che vi si trovavano». Giunto dunque alla città mobile del Gran Khan, il francescano si avvide subito che l’architettura sacra cristiana si era lì adattata alla vita nomade, creando oratori montati su carri alla maniera delle yurte mongole. Si distinguevano dalle altre tende per il fatto che, in cima all’albero centrale che le sor-

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reggeva, recavano la croce; entrato in una di queste, vi riconobbe un altare con arredi molto preziosi: Infatti c’erano, ricamate su una stoffa dorata, le immagini del Salvatore, della beata Vergine, di san Giovanni Battista e di due angeli, in cui i lineamenti del corpo e i panneggi erano evidenziati con delle perle, nonché una grossa croce d’argento che aveva pietre preziose sulle estremità e al centro, e molti altri ornamenti, e ancora una lanterna ad olio accesa davanti all’altare, composta da otto luci2.

Si trattava di un vero e proprio luogo di culto mobile, gestito da un macilento monaco armeno che si rivelò presto un impostore, disposto ad accattivarsi il favore del Gran Khan rivaleggiando in gare di magia con gli sciamani mongoli. Anche se quella chiesa-tenda, verosimilmente ornata con oggetti provenienti dal Levante mediterraneo, disponeva di tutto il necessario per l’officiatura, la presenza di quel losco individuo non permetteva di usarla per il culto divino. Tuttavia, si approssimava la settimana santa e c’erano lì tanti devoti fedeli che da anni non ricevevano il sacramento, con grave pregiudizio delle anime loro. Meglio sarebbe stato farsi prestare un altare dai nestoriani, anche in considerazione del fatto che il sovrano mongolo contava di bivaccare, proprio intorno al giorno di Pasqua, nella città di Karakorum, da poco fondata come luogo di rappresentanza dell’impero, dove era presente una chiesa in muratura. Per quella circostanza, a fra’ Guglielmo fu concesso di officiare la messa secondo il rito latino nel locale adibito a battistero e a questo scopo gli furono dati in prestito un altare portatile, un calice d’argento e una patena. Tali ornamenti, tuttavia non erano ancora sufficienti per una cerimonia decente ed onorevole: per questo si rendeva indispensabile la collaborazione dell’orafo parigino. Questi realizzò innanzitutto uno stampo per la confezione delle ostie, che lì non esisteva perché le locali comunità cristiane, come in tutto l’Oriente, usavano comunicarsi col pa-

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ne lievitato; con questo strumento il frate fu in grado di preparare il corpo di Cristo secondo l’uso della Chiesa romana. Per conservarlo, fece una pisside in argento, ossia nel materiale più diffuso per questo genere di utensili liturgici nell’epoca gotica; la sua singolarità maggiore consisteva nel fatto che prevedeva due cavità laterali destinate a conservare le «oblate», ossia le ostie non consacrate, che nella prassi comune avrebbero dovuto esser tenute in un contenitore apposito: evidentemente in una situazione così estrema doveva sembrare saggio condensare in pochi oggetti le diverse funzioni cultuali. A questo punto il minimo indispensabile per il rito era a disposizione, ma Guillaume Boucher volle aggiungervi qualcosa in più: fece infatti un’immagine della Vergine «scolpita alla maniera francese», i cui «pannelli di chiusura» erano decorati con scene evangeliche. Si trattava forse di una «Vierge ouvrante», ossia una statuetta in legno o in metallo che si apriva sul davanti e al suo interno conteneva l’effigie di Cristo e una serie di scene sacre. In ogni caso, la sua presenza durante la messa pasquale doveva servire a richiamare l’assetto visivo di una chiesa occidentale, certo profondamente radicato nella memoria di quegli sfortunati schiavi. Fra’ Guglielmo, tuttavia, ottenne dopo un po’ di tempo il permesso di ritornare in patria, e ai prigionieri latini, rimasti senza sacerdote, rimase solo il conforto di potersi raccogliere dinanzi all’effigie della Madonna. Affinché questo non avvenisse più in luoghi sconvenienti, Guillaume Boucher realizzò una domus orationis mobile, cioè una struttura coperta montata su un carro e agganciata alle yurte del Khan, dipinta all’interno con scene sacre. Dovettero passare alcuni decenni prima che un edificio sacro in muratura, destinato al culto latino, venisse costruito in quelle remote plaghe: agli inizi del Trecento il missionario francescano Giovanni da Montecorvino riuscì a convertire al cristianesimo romano una parte della tribù turca degli Öngut, per i quali eresse una chiesa le cui rovine, assieme ai resti di una statua, sono stati rinvenuti dagli archeologi a Olon Süme, nella Mongolia in-

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terna; non è improbabile che questa, come i due luoghi di culto da lui costruiti a Pechino, ospitasse anche un ciclo ad affresco con gli episodi più importanti del Nuovo Testamento3. Tutta questa vicenda è illuminante in primo luogo perché ci insegna che, per poter funzionare, uno spazio sacro necessitava di pochi elementi fondamentali: un altare consacrato, alcuni utensili liturgici, le vesti dei celebranti e, preferibilmente, anche un ambiente riparato. Il resto lo facevano i partecipanti al rito con l’intensità della loro partecipazione, ovvero della loro capacità di interagire col fuoco visivo della cerimonia: l’efficacia della costruzione spaziale risiedeva di fatto nelle modalità secondo le quali venivano suggerite, filtrate e calibrate quelle sensazioni alternative di prossimità e distanza che regolavano i rapporti fra una comunità e i suoi protettori celesti come fra gli officianti e il pubblico dei fedeli e, all’interno di quest’ultimo, fra uomini e donne, ricchi e poveri, giovani e vecchi, grandi peccatori e persone di santa vita. L’altro spunto di riflessione deriva dall’amicizia e dalla stretta collaborazione tra il religioso e l’artista: il primo elaborò e curò l’allestimento del luogo di culto in modo tale che possedesse tutte le caratteristiche necessarie per il suo corretto funzionamento rituale, l’altro ne realizzò le singole componenti non senza apportare qualche innovazione originale. Frutto del loro dialogo, che teneva conto delle circostanze particolari di quel contesto geografico e ancor più delle attese dei fruitori laici, fu un edificio concreto che, sebbene fosse effimero ed instabile quanto poteva esserlo una tenda oscillante su un carro che si muoveva per le steppe mongole, riusciva nondimeno a stimolare in chi lo usava il sentimento della presenza di Dio.

NOTE Abbreviazioni TESTI ANTICHI E MEDIEVALI

Gn Es I Re Mt Gv Ap If Pg

Genesi Esodo Primo libro dei Re Vangelo secondo Matteo Vangelo secondo Giovanni Apocalisse di Giovanni Dante Alighieri, Inferno Dante Alighieri, Purgatorio

COLLEZIONI DI TESTI

PL PG MGH Scriptores

Patrologiae cursus completus. Series latina, a cura di J.-P. Migne, Parisiis 1844-1864 Patrologiae cursus completus. Series graeca, a cura di J.-P. Migne, Parisiis 1844-1866 Monumenta Germaniae Historica. Scriptores rerum Germanicarum, Hannover 1826-

Premessa 1 A. Prache, La cattedrale dalle origini al Gotico, Jaca Book, Milano 1999. In un certo senso questo libro discende da una lunga tradizione precedente che interpreta questa tipologia di edificio, nella fattispecie nella sua declinazione gotica, come «opera d’arte totale»: cfr. E. Castelnuovo, Il fantasma del-

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Note

la cattedrale, in Arti e storia nel Medioevo. IV. Il Medioevo al passato e al presente, a cura di E. Castelnuovo e G. Sergi, Einaudi, Torino 2004, pp. 3-29. 2 Cfr. F. Gandolfo, Cosa è giunto fino a noi. Distruzioni e perdite, in Arti e storia nel Medioevo. IV, cit., pp. 33-76. 3 Per una sintesi sullo spazio sacro bizantino e ortodosso in genere cfr. Heaven on Earth. Art and the Church in Byzantium, a cura di L. Safran, Pennsylvania University Press, University Park 2000, e Le sacré et son inscription dans l’espace à Byzance et en Occident. Études comparées, a cura di M. Kaplan, Publications de la Sorbonne, Paris 2001. 4 A.M. Lidov, Ierotopija. Sozdanie sakral’nih prostranstv kak vid tvorcˇestva i predmet istoricˇeskovo issledovanija [Ierotopìa. L’elaborazione di spazi sacri come forma di creatività e come oggetto di analisi storica], in Ierotopija. Issledovanie sakral’nyh prostranstv. Materialy me◊dunarodnovo simpoziuma [Ierotopìa, studi sugli spazi sacri. Abstracts del convegno internazionale], a cura di A.M. Lidov, Radunitsa, Moskva 2004, pp. 15-31; cfr. anche le osservazioni di G. Wolf, Holy Place and Sacred Space. Hierotopical Considerations Concerning the Eastern and Western Christian Traditions from Late Antiquity to the Middle Ages, ivi, pp. 34-36. Per il termine concepteur cfr. B. Brenk, Committenza, in Enciclopedia dell’arte medievale, a cura di A.M. Romanini, Istituto della enciclopedia italiana, Roma 1991-2001, vol. V, pp. 203-218. 5 Per la categoria di «spazio sacro» nella riflessione storico-religiosa, in gran parte influenzata dalle teorie di Mircea Eliade (per cui vedi Id., Trattato di storia delle religioni, Einaudi, Torino 1954, pp. 377-398), cfr. J.P. Brereton, Sacred Space, in The Encyclopedia of Religion, a cura di M. Eliade, Macmillan, New York 1987, vol. XII, pp. 526-535. Lo studio più approfondito su questo tema rimane il volume di H.W. Turner, From Temple to Meeting House. The Phenomenology and Theology of Places of Worship, Mouton Publishers, The Hague 1979, che fornisce al contempo una lettura della storia dell’architettura cristiana dal punto di vista della fenomenologia religiosa. 6 Dichiaro qui il mio debito intellettuale verso il tentativo di «tassonomia del sacro» operato da Rudolf Otto (1869-1937), in particolare nel saggio Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee der Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, Gotha 1926 (trad. it. Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, Feltrinelli, Milano 19842). 7 Giovanni Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, in Giovanni Boccaccio. Opere minori in volgare, a cura di M. Marti, Rizzoli, Milano 1972, vol. IV, pp. 309-388, in part. 353-355.

Capitolo primo A. Vauchez, Movimenti religiosi fuori dall’ortodossia nei secoli XII e XIII, in Storia dell’Italia religiosa 1. L’antichità e il Medioevo, a cura di A. Vauchez, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 311-346, in part. 344. 2 Gn 28, 10-19. 1

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Es 40, 9. V. Saxer, Sainte-Marie-Majeure. Une basilique de Rome dans l’histoire de la ville et de son église, École française de Rome, Roma 2001, pp. 367-379. 5 Geraldo di Frachet, Vitae Fratrum, trad. it. a cura di P. Lippini, Storie e leggende medievali. Le «Vitae Fratrum» di Geraldo di Frachet o.p., Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1988, pp. 43-44. 6 Guillelmi Duranti Rationale divinorum officiorum, a cura di A. Davril e T.M. Thibodeau, Brepols, Turnhout 1995-2000, lib. I, cap. I, 4, vol. I, p. 13. 7 Sul tema cfr. ultimamente A.C. Quintavalle, Il viaggio, l’immagine, l’eresia: la trasformazione del sistema simbolico della Chiesa fra Riforma gregoriana ed eresia catara, in Arti e storia nel Medioevo. III. Del vedere: pubblici, forme e funzioni, a cura di E. Castelnuovo e G. Sergi, Einaudi, Torino 2004, pp. 593-669, in part. 627-642. 8 La storia era nota all’Occidente medievale nella versione contenuta nelle Memorie apostoliche di Abdia (secc. VI-VII), disponibile in traduzione italiana in Tutti gli apocrifi del Nuovo Testamento. Atti degli Apostoli, a cura di L. Moraldi, Piemme, Casale Monferrato 19992, pp. 658-659. 9 Thiofridi abbatis Epternacensis Flores epytaphii sanctorum, a cura di M.C. Ferrari, Brepols, Turnhout 1996, lib. II, cap. 5, p. 42. 10 È adesso disponibile la buona sintesi di C. Carozzi, Dalla Gerusalemme celeste alla Chiesa: testo, immagini, simboli, in Arti e storia nel Medioevo. III. Del vedere cit., pp. 145-166, da integrare con i testi citati in nota, a cui bisognerà però aggiungere i saggi raccolti nel volume miscellaneo The Real and Ideal Jerusalem in Jewish, Christian and Islamic Art, a cura di B. Kühnel, Hebrew University, Jerusalem 1998 (= «Jewish Art», XXIII-XXIV, 19971998). 11 Per il testo, redatto poco dopo la morte della beata nel 1269, cfr. De beata Gerardesca pisana camaldulensi tertiaria, edito in Acta sanctorum Maii. Tomus VII, apud Michaelem Cnobarum, Antwerp 1688, pp. 164-180, cap. IV. 12 Giordano da Pisa, Esempi, in Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, a cura di G. Varanini e G. Baldassarri, Salerno Editrice, Roma 1993, vol. II, pp. 279-280. 13 Fra le recenti pubblicazioni su questi temi cfr. L. Pressouyre, L’espace cistercien, Comité des travaux historiques et scientifiques, Paris 1994; M. Untermann, Forma Ordinis. Die mittelalterliche Baukunst der Zisterzienser, Deutscher Kunstverlag, München 2001; W. Schenkluhn, Architektur der Bettelorden. Die Baukunst der Dominikaner und Franziskaner in Europa, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 2000 (trad. it. Architettura degli ordini Mendicanti. Lo stile architettonico dei Domenicani e dei Francescani in Europa, a cura di G. Valenzano, Editrici francescane, Padova 2003). 14 Guillelmi Duranti Rationale divinorum officiorum, cit., lib. I, cap. I, 4, vol. I, p. 13. 15 Per le complesse vicende relative all’istituzionalizzazione degli eremiti cfr. C. Caby, «Finis eremitarum?» Les formes regulières et communautaires 3 4

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Note

de l’érémitisme médiéval, in Ermites de France et d’Italie (XIe-XVe siècle), a cura di A. Vauchez, École française de Rome, Roma 2003, pp. 47-80. 16 J. Cannon, The Creation, Meaning, and Audience of the Early Sienese Polyptych: Evidence from the Friars, in Italian Altarpieces 1250-1550. Function and Design, a cura di E. Borsook e F. Superbi Gioffredi, Clarendon Press, Oxford 1994, pp. 41-62, in part. 45. Sugli aspetti architettonici degli eremi toscani cfr. I. Moretti, Architettura degli insediamenti eremitici in Toscana, in Ermites de France et d’Italie cit., pp. 277-289, con l’appendice a cura di P. Pozzessere, ivi, pp. 290-298. 17 Vedi in merito il mio Luoghi devoti e committenza privata nella Toscana del Trecento, in Santuari cristiani d’Italia. Committenze e fruizione tra Medioevo e età moderna, a cura di M. Tosti, École française de Rome, Roma 2003, pp. 127-144, in part. 130. Sulle cellane e recluse cfr. soprattutto A. Benvenuti Papi, «In castro penitentiae». Santità e società femminile nell’Italia medievale, Herder, Roma 1990, pp. 305-402, e Eadem, Eremitismo urbano e reclusione in ambito cittadino, in Ermites de France et d’Italie cit., pp. 241-253. 18 Sui Basiliani armeni cfr. in generale Ad limina Italiae/Ar Druns Italioy. In viaggio per l’Italia con mercanti e monaci armeni, a cura di B.L. Zekiyan, Editoriale Programma, Venezia 1996; C. Delacroix-Besnier, I monaci basiliani in Italia (secoli XIII-XV), in Roma-Armenia, catalogo della mostra (Città del Vaticano, 25 marzo-16 luglio 1999), De Luca, Roma 1999, pp. 208-211. 19 Il testo è disponibile nella traduzione italiana di A. Giambelluca Kossova, Da Mosca a Firenze nel Quattrocento, Sellerio, Palermo 1996, p. 43. 20 R. Quirino, Edicole urbane, in Spoleto, argomenti di storia urbana, Silvana Ed., Milano 1985, pp. 109-112; R. Offner, A Critical and Historical Corpus of Florentine Painting. Section III: The Fourteenth Century. Vol. I: The St. Cecilia Master and Its Circle, nuova ed. a cura di M. Boskovits e M. Gregori, Barbera, Firenze 1986, pp. 406-413. Per alcuni esempi di tabernacoli tardomedievali cfr. P. Bargellini, Cento tabernacoli a Firenze, Banca Toscana, Firenze 1971; A. Leoncini, I tabernacoli di Siena. Arte e devozione popolare, Nuova Immagine, Siena 1994; M. Scudieri-C. Calvaresi, I tabernacoli nascosti: repertorio degli affreschi staccati nei depositi della Soprintendenza, in Arte storia e devozione. Tabernacoli da salvare, Soprintendenza per i Beni artistici e storici di Firenze e Pistoia, Firenze 1993, pp. 23-65. 21 M. Sensi, Santuari «contra pestem»: gli esempi di Terni e Norcia, in Dall’Albornoz all’età dei Borgia. Questioni di cultura figurativa nell’Umbria meridionale, Atti del convegno (Amelia, 1-3 ottobre 1987), Ediart, Todi 1990, pp. 347-362, in part. 351-353. 22 Franco Sacchetti, Il Trecentonovelle, a cura di A. Lanza, Sansoni, Firenze 1984, novella CCVII, pp. 485-488. Per la distinzione fra «spazi congregazionali» e luoghi in grado di «localizzare» il sacro cfr. H.W. Turner, From Temple to Meeting House. The Phenomenology and Theology of Places of Worship, Mouton Publishers, The Hague 1979. 23 J. Krüger, Die Grabeskirche zu Jerusalem. Geschichte – Gestalt – Bedeutung, Schnell und Steiner, Regensburg 2000, pp. 150-153.

Note

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Antonio de’ Reboldi da Cremona, Itinerarium ad sepulchrum Domini [1326, 1330], a cura di R. Röhricht, in «Zeitschrift des deutschen PalästinaVereins», XIII, 1890, pp. 153-174, in part. 161. 25 Cfr. ultimamente C. Morris, Bringing the Holy Sepulchre to the West: S. Stefano, Bologna, from the Fifth to the Twentieth Century, in The Church Retrospective, a cura di A. Swanson, Ecclesiastical History Society, Woodbridge 1997, pp. 31-59. 26 Sul «fuoco santo» fiorentino come replica dell’uso gerosolimitano cfr. Giovanni Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, Guanda, Parma 19901991, lib. II, cap. 23, vol. I, pp. 88-90; per la storia della festa cfr. L. ArtusiE. Giani-A. Valentini, Festività fiorentine. Tradizioni e ricorrenze dell’anno, Pagliai Polistampa, Firenze 2003, pp. 53-62. 27 La testimonianza più interessante di quest’uso è fornita da un anonimo testo trecentesco (edito in Pellegrini scrittori. Viaggiatori toscani del Trecento in Terrasanta, a cura di A. Lanza e M. Troncarelli, Ponte alle Grazie, Firenze 1990, pp. 315-318) che reca l’intitolazione Questi sono i viaggi che debbono fare li pellegrini che vanno Oltremare per salvare l’anima loro e che può fare ciascuna persona stando nella casa sua, pensando in ciascuno luogo che di sotto è scritto, e in ogni santo luogo dica uno Paternostro e Avemaria. 28 Francesco di Assisi, Epistola ad fideles, in Fontes franciscani, a cura di E. Menestò, S. Brufani et alii, Porziuncola, Assisi 1995, p. 82. 29 Cfr. i Capitoli e ordinamenti della Compagnia di Santa Lucia de’ Ricucchi, in Statuti inediti della città di Pisa dal XII al XIV secolo, a cura di F. Bonaini, G.P. Vieusseux, Firenze 1854, vol. I, p. 709. 30 Sugli affreschi di San Piero a Grado cfr. J.T. Wollesen, Die Fresken von San Piero a Grado bei Pisa, A. Theine, Bad Oeynhausen 1977. 31 I. Gagliardi, Santa Maria alla Sambuca presso Livorno: un eremo gesuato tra fine ’300 e ’500, in Santità ed eremitismo nella Toscana medievale, atti delle giornate di studio (11-12 giugno 1999), a cura di A. Gianni, Cantagalli, Siena 2000, pp. 131-150, in part. 145-150. 32 È merito di Mario Sensi aver portato per primo l’attenzione su questa tipologia di santuari: cfr., tra i suoi contributi più importanti, Santuari micaelici e francescani nell’Umbria meridionale, in Il beato Antonio da Stroncone. IV, atti delle giornate di studio (Stroncone, 27 marzo 1999 e 25 novembre 2000), a cura di M. Sensi, Porziuncola, Assisi 2002, pp. 53-91; Santuari micaelici e primordi del francescanesimo, in «Collectanea franciscana» LXXII, 2002, pp. 5-104; Alle radici della committenza santuariale, in Santuari cristiani d’Italia cit., pp. 207-255, in part. 219-230. 33 Lettera a Iacopo di Conte da Perugia, in I sermoni evangelici, le lettere ed altri scritti di Franco Sacchetti, a cura di O. Gigli, Le Monnier, Firenze 1857, pp. 218-219. Per un commento a questo passo rimando al mio «Pro remedio animae». Immagini sacre e pratiche devozionali in Italia centrale (secoli XIII e XIV), Gisem-Ets, Pisa 2000, pp. 9-76. 34 Ho trattato di questa vicenda in Le bienheureux Gérard de Valenza, O.F.M.: images et croyances dans la Toscane du XIVe siècle, in «Revue Mabillon», XII, 2001, pp. 97-119. 24

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Note

P. Morelli, Per una storia delle istituzioni parrocchiali nel basso Medioevo: la propositura di S. Maria e S. Michele di Cigoli e la pieve di S. Giovanni di Fabbrica, in «Bollettino storico pisano», LI, 1982, pp. 33-65; Bacci, «Pro remedio animae» cit., pp. 38-42. 36 Le vicende sono illustrate nel dettaglio nel mio già citato saggio Luoghi devoti e committenza privata nella Toscana del Trecento. 37 M. Sensi, I Bianchi tra Umbria e Marche. Mariofanie e transferts di sacralità, in Sulle orme dei Bianchi (1399). Dalla Liguria all’Italia Centrale, a cura di F. Santucci, Assisi 2001, pp. 237-270. 38 Girolamo da Siena, Il soccorso dei poveri, in Scrittori di religione del Trecento. Testi originali, a cura di G. De Luca, Einaudi-Ricciardi, Torino 1977, cap. XXVII, p. 312. 39 De beata Gerardesca pisana camaldulensi tertiaria, cit., lib. V, capp. 4952, pp. 175-176. 40 Cfr. nota 38. 35

Capitolo secondo È uno dei consigli forniti dal mercante Paolo da Certaldo nel suo Libro di buoni costumi, in Mercanti scrittori. Ricordi nella Firenze tra Medioevo e Rinascimento, a cura di V. Branca, Rusconi, Milano 1986, par. 148, p. 33. 2 Filippo degli Agazzari, Assempri, in Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, a cura di G. Varanini e G. Baldassarri, Salerno Editrice, Roma 1993, assempro LXI, vol. III, pp. 450-454. 3 Acta S. Officii Bononie ab anno 1291 usque ad annum 1310, a cura di L. Paolini e R. Orioli, Istituto storico italiano per il Medio Evo, Roma 1982 (‘Fonti per la storia d’Italia’ 106), doc. 54, pp. 87-88. 4 Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Einaudi, Torino 19923, giornata III, novella IV, pp. 361-367, in part. 361. 5 Franco Sacchetti, Il Trecentonovelle, a cura di A. Lanza, Sansoni, Firenze 1984, novella CXXXVI, pp. 272-274. 6 Sull’uso sociale dell’abbigliamento cfr. il recente volume di M.G. Muzzarelli, Guardaroba medievale. Vesti e società dal XIII al XVI secolo, Il Mulino, Bologna 1999. 7 Giovanni Boccaccio, Corbaccio, in Giovanni Boccaccio. Opere minori in volgare, a cura di M. Marti, Rizzoli, Milano 1972, vol. IV, p. 262. 8 Filippo degli Agazzari, Assempri, in Racconti esemplari cit., assempro IV, vol. III, pp. 305-309. 9 (Opicini de Canistris) Liber de laudibus civitatis Ticinensis, a cura di R. Maiocchi e F. Quintavalle, Lapi, Città di Castello 1903 (‘Rerum Italicarum Scriptores’, II ed., vol. XI, parte I), cap. XI, p. 19. 10 In generale sull’uso delle campane nel Medioevo cfr. S. De Blauuw, Campanae supra urbem. Sull’uso delle campane nella Roma medievale, in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», XLVII, 1993, pp. 367-414. 1

Note

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Gualvanei de la Flamma Chronicon maior Ordinis Praedicatorum, ed. a cura di G. Odetto, La Cronaca maggiore dell’Ordine domenicano di Galvano Fiamma. Frammenti editi, in «Archivum fratrum Praedicatorum», X, 1940, pp. 297-373, in part. 330. 12 De Blauuw, Campanae cit., p. 393. 13 Sacchetti, Il Trecentonovelle, cit., novella CLXXXIV, pp. 411-413. 14 Motti e facezie del piovano Arlotto, a cura di G. Folena, Ricciardi, Milano-Napoli 1963, facezia LXXXVI, p. 137. 15 Cfr. G. Lera, Le antiche campane di Lucca e del suo circondario e i maestri fonditori dei secoli XIII e XIV, in «Actum Luce», I, 1972, pp. 35-55. 16 J. Leclerq-Marx, «Vox Dei clamat in tempestate». À propos de l’iconographie des Vents et d’un groupe d’inscriptions campanaires (IXe-XIIIe siècles), in «Cahiers de civilisation médiévale», XLII, 1999, pp. 179-187. 17 Filippo degli Agazzari, Assempri, in Racconti esemplari cit., assempro XXXIV, vol. III, pp. 389-394. 18 Matteo e Filippo Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, Guanda, Parma 1995, lib. IX, cap. 21, vol. II, p. 311. 19 Ivi, lib. VIII, cap. 46, vol. II, pp. 194-195. 20 Ivi, lib. XI, cap. 80, vol. II, pp. 699-700. 21 Sacchetti, Il Trecentonovelle, cit., novella LXXXIX, pp. 185-186. 22 Cfr. il pasto che Bruno e Buffalmacco danno ai vicini di casa di Calandrino, secondo Boccaccio, Decameron, cit., giornata VIII, novella 6, pp. 934-943. 23 Filippo degli Agazzari, Assempri, in Racconti esemplari cit., assempro XIII, vol. III, p. 481. 24 Ivi, assempro LXII, vol. III, p. 481. 25 Domenico Cavalca, Pungilingua, in Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, a cura di G. Varanini e G. Baldassarri, Salerno Editrice, Roma 1993, excerptum n° XXVII, vol. III, pp. 119-121. Cfr. J.-C. Schmitt, Spiriti e fantasmi nella società medievale, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 246. 26 A. Bagnoli-P. Clemente, Massa Marittima. L’albero della fecondità, Comune di Massa Marittima, Massa Marittima 2000. 27 (Opicini de Canistris) Liber de laudibus civitatis Ticinensis, cit., cap. XI, p. 20. 28 Sull’iscrizione vedi, da ultimo, G. Concioni, San Martino di Lucca. La cattedrale medievale, Istituto storico lucchese, Lucca 1994, p. 31, nota 31. 29 Ioannis Beleth Summa de ecclesiasticis officiis, a cura di H. Douteil, Brepols, Turnhout 1976, cap. LXXXV, pp. 154-155. 30 Sul tema, cfr. in generale Y. Christe, Il Giudizio Universale nell’arte del Medioevo, Jaca Book, Milano 2000. 31 Boccaccio, Decameron, cit., giornata III, novella 7, 36-37, pp. 399-400. 32 L. Bourdua, The Franciscans and Art Patronage in Late Medieval Italy, Cambridge University Press, Cambridge 2004, pp. 71-88 (per Vicenza). Per la tomba di Cangrande I e il suo significato cfr. M.M. Donato, I signori, le immagini e le città. Per lo studio dell’«immagine monumentale» dei signori di 11

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Note

Verona e di Padova, in Il Veneto nel Medioevo. Le signorie trecentesche, Banca popolare di Verona, Verona 1995, pp. 381-454, in part. 389-393. 33 Il centro storico di Viterbo. Chiese, conventi, palazzi, musei e fontane, a cura di M.G. Gimma, Betagamma, Viterbo 2001, pp. 220-222; C. Miano, Santa Maria della Salute in Viterbo, in «Informazioni. Periodico del Centro di catalogazione dei beni culturali», X/18, 2002, pp. 62-70. 34 Concioni, San Martino di Lucca cit., p. 70. 35 H. Körner, Grabmonumente des Mittelalters, Primus Verlag, Darmstadt 1997, p. 84. In generale per la storia delle tombe ad arcosolio cfr. I. Herklotz, «Sepulcra» e «monumenta» del Medioevo. Studi sull’arte sepolcrale in Italia, Liguori, Napoli 20012; nonché G. Tigler, Tipologie di monumenti funebri, in Storia delle arti in Toscana. Il Trecento, a cura di M. Seidel, Edifir, Firenze 2004, pp. 45-74. 36 Libro degli ordinamenti de la compagnia di Santa Maria del Carmine (1280-1288), a cura di G. Piccini, Commissione per i testi di lingua, Bologna 1867, pp. 10, 19, 25-26. 37 Pierre Barbatre, Voyage à Jérusalem [1480], ed. a cura di P. TucooChala e N. Pinzuti, Le Voyage de Pierre Barbatre à Jérusalem en 1480, in «Annuaire-bulletin de la Société de l’histoire de France», 1972-1973, pp. 73-172, in part. 93. 38 D. Rigaux, Usages apotropaïques de la fresque dans l’Italie du Nord au e siècle, in Nicée II 787-1987. Douze siècle d’images religieuses, a cura di XV F. Bœspflug e N. Lossky, Cerf, Paris 1987, pp. 317-331. Sull’origine dell’iconografia di san Cristoforo cfr. M. Exner, Wandlungen des ChristophorusBildes im 12. Jahrhundert, in «Iconographica», II, 2003, pp. 11-17. 39 A. Giambelluca Kossova, Da Mosca a Firenze nel Quattrocento, Sellerio, Palermo 1996, pp. 31-32. Cfr. J.J. Berns, Sakralautomaten. Automatisierungstendenzen in der mittelalterlichen und frühneuzeitlichen Frömmigkeitskultur, in Automaten in Kunst und Literatur des Mittelalters und der frühen Neuzeit, Harrassowitz, Wiesbaden 2003, pp. 197-222. 40 G.G. Meersseman, Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, Herder, Roma 1977, p. 1054. 41 Sacchetti, Il Trecentonovelle, cit., novella CC, pp. 466-469. 42 J. Smet, The Life of Saint Peter Thomas by Philippe de Mezières edited from hitherto unpublished manuscripts, Institutum Carmelitanum, Rome 1954, p. 148. 43 D. Osheim, I sentimenti religiosi dei Lucchesi al tempo di Castruccio, in «Actum Luce», XIII-XIV, 1984-1985, pp. 99-111, in part. 107. 44 Franco Sacchetti, Il libro delle Rime, a cura di F. Brambilla Ageno, Olschki/University of W. Australia Press, Firenze-Melbourne 1990, rima CCV, vv. 10-13, p. 321. 45 Guillelmi Duranti Rationale divinorum officiorum, a cura di A. Davril e T.M. Thibodeau, Brepols, Turnhout 1995-2000, lib. I, cap. 1, 47, vol. I, p. 27. 46 Luca Dominici, Cronaca della venuta dei Bianchi e della morìa 1399-

Note

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1400, in Cronache di ser Luca Dominici, a cura di G.C. Gigliotti, A. Pacinotti, Pistoia 1933, p. 94. 47 Motti e facezie del piovano Arlotto, cit., facezia VII, pp. 20-21. 48 Cfr. M. Pellegrini, Una città in chiesa. Laici e prassi liturgica a Siena nel primo Duecento, in «Quaderni di storia religiosa», VI, 1999, pp. 23-84, in part. 38. 49 Testo di inizi Trecento citato in M. Degli Innocenti, Testi italiani delle origini sulla devozione alla messa, in Medioevo e latinità. In memoria di Ezio Franceschini, a cura di A. Ambrosioni, M. Ferrari, C. Leonardi, G. Picasso, M. Regoliosi, P. Zerbi, Vita e pensiero, Milano 1993, in part. 168. 50 A. Franz, Die kirchlichen Benediktionen im Mittelalter, Herder, Freiburg im Brisgau 1909, vol. I, pp. 109-125. 51 Iacopo Passavanti, Specchio di vera penitenza, in Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, a cura di G. Varanini e G. Baldassarri, Salerno Editrice, Roma 1993, cap. XV, vol. II, pp. 558-560. Sul significato dell’acqua santa cfr. H. Schneider, «Aqua benedicta» – Das mit Salz gemischte Weihwasser, in Segni e riti nella chiesa altomedievale occidentale, Atti della XXXIII settimana di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo (Spoleto, 11-17 aprile 1985), CISAM, Spoleto 1987, pp. 337-364. 52 Per una sintesi sugli usi extraliturgici dell’acqua santa cfr. A. Angenendt, Geschichte der Religiosität im Mittelalter, Primus Verlag, Darmstadt 2000, pp. 416-417. 53 Motti e facezie del piovano Arlotto, cit., facezia CXCV, p. 256. 54 Inscriptiones Medii Aevi Italiae (saec. VI-XII). Lazio – Viterbo, 1, a cura di L. Cimarra, E. Condello, L. Miglio, M. Signorini, P. Supino, C. Tedeschi, CISAM, Spoleto 2002, pp. 25-26. 55 Guillelmi Duranti Rationale divinorum officiorum, cit., lib. V, cap. II, 12, vol. II, p. 20. 56 Innocentii III De missarum mysteriis, in J.-P. Migne, Patrologiae cursus completus. Series latina, apud autorem, Parisiis 1844-1891, vol. CCXVII, col. 825D; Costantino Stilbìs, Opuscolo contro i Latini, ed. a cura di J. Darrouzès, La mémoire de Constantin Stilbès contre les Latins, in «Revue des études byzantines», XXI, 1963, pp. 50-100, in part capp. 101-102, p. 89. 57 Guillelmi Duranti Rationale divinorum officiorum, cit., lib. V, cap. II, 12-15, vol. II, pp. 20-21. 58 In generale sui gesti di preghiera cfr. M. Barasch, Giotto and the Language of Gestures, Cambridge University Press, Cambridge 1987, pp. 56-87; R.C. Trexler, The Christian at Prayer: An Illustrated Prayer Manual Attributed to Peter the Chanter (d. 1197), Center for Medieval and Early Renaissance Studies, Binghamton 1987; J.-C. Schmitt, Il gesto nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1991, in part. cap. VIII, pp. 263-294. 59 Gualvanei de la Flamma Chronicon maior Ordinis Praedicatorum, cit., pp. 323-324. Un pavimento in calcestruzzo è citato da Filippo degli Agazzari, Assempri, in Racconti esemplari cit., assempro XXIII, vol. III, pp. 356-364, in part. 363. 60 Bonvicini de Ripa Vita scholastica, ed. a cura di A. Vidmanová-

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Note

Schmidtová, Quinque claves sapientiae, Teubner, Leipzig 1969, vv. 387-388, p. 66. Boccaccio, Decameron, cit., giornata I, novella I, pp. 49-70, in part. 64. 61 M. e F. Villani, Nuova cronica, cit., lib. IV, cap. 74, vol. I, pp. 580-582. 62 Guillelmi Duranti Rationale divinorum officiorum, cit., lib. V, cap. V, 16, vol. II, p. 98. Cfr. P. Browe, L’atteggiamento del corpo durante la messa, in «Ephemerides liturgicae», L, 1936, pp. 402-414. 63 Constitutiones IV concilii Lateranensis, in Conciliorum œcumenicorum decreta, a cura di G. Alberigo, P.-P. Ioannou, C. Leonardi, P. Prodi, Herder, Roma 1962, pp. 206-247, art. 17, p. 219. 64 Giordano da Pisa, Esempi, in Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, a cura di G. Varanini e G. Baldassarri, Salerno Editrice, Roma 1993, n° 250, vol. II, pp. 443-444. 65 Boccaccio, Corbaccio, cit., pp. 282-283. 66 A. Winston-Allen, Stories of the Rose: The Making of the Rosary in the Middle Ages, Pennsylvania University Press, University Park 1997. 67 Cfr., ad esempio, Filippo degli Agazzari, Assempri, in Racconti esemplari cit., assempro XXII, vol. III, pp. 354-356. 68 Pellegrini, Una città in chiesa cit., pp. 48-51. 69 Statuti della compagnia dei Disciplinati di Pomarance [1348], ed. a cura di P. Vigo, Statuto dei Disciplinati di Pomarance. Testo di lingua del sec. XIV, Commissione per i testi di lingua, Bologna 1889, p. 54. 70 D.S. Areford, The Passion Measured: A Late-Medieval Diagram of the Body of Christ, in The Broken Body. Passion Devotion in Late-Medieval Culture, Egbert Forsten, Groningen 1998, pp. 211-238. L’esercizio poteva essere svolto semplicemente con la recitazione di quindici paternostri e avemaria ogni giorno per un anno. 71 Sacchetti, Il Trecentonovelle, cit., novella CXIII, pp. 230-231. 72 Ivi, novella CXXXIV, pp. 268-270. 73 Sancti Bernardi Apologia, in S. Bernardi Opera, a cura di J. Leclerq e H.M. Rochais, Editiones Cistercienses, Romae 1963, vol. III, pp. 61-108, in part. 105. 74 Su tutto questo cfr. R. Kroos, Opfer, Spende und Geld im mittelalterlichen Gottesdienst, in «Frühmittelalterliche Studien», XIX, 1985, pp. 502519. 75 Per queste testimonianze cfr. Atti dei processi tenuti a Giaveno dall’inquisitore Alberto de Castellario [1335], in G.G. Merlo, Eretici e inquisitori nella società piemontese del Trecento, Claudiana, Torino 1977, p. 166, e Acta S. Officii Bononie cit., doc. 33 (1299 maggio 20), pp. 60-62; doc. 77 (1299 novembre 17), p. 111. 76 Acta S. Officii Bononie cit., doc. 570 (1299 giugno 10), pp. 315-318. 77 Eudes de Châteauroux, Sermones, editi in J.-B. Pitra, Analecta novissima spicilegii Solesmensis: altera continuatio, Typis Tusculanis, Parigi 1888, sermo LXXIV, vol. II, p. 270. 78 La citazione è tratta dal volgarizzamento della Vita ad opera di Tommaso Agni da Lentini, Leggenda di san Pietro Martire, edito in S. Orlandi, S. Pietro Martire da Verona. Leggenda di fra Tommaso Agni da Lentini nel vol-

Note

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gare trecentesco con lettera di fra Roderico de Atencia, Il Rosario, Firenze 1952, lib. XI, cap. 18, p. 45. 79 Sacchetti, Il Trecentonovelle, cit., novella LXXV, pp. 146-147. 80 Boccaccio, Decameron, cit., giornata VIII, novella 3, pp. 904-919, in part. 907. Per l’interpretazione, cfr. N.E. Land, Calandrino as a Viewer, in «Source», XXIII, 2004, 4, pp. 1-6.

Capitolo terzo Questa descrizione tripartita della chiesa, formulata da Ugo di San Vittore (Sermones centum, editi in J.-P. Migne, Patrologiae cursus completus. Series latina, apud autorem, Parisiis 1844-1891, vol. CLXXVII, col. 902), è ripresa anche da Guglielmo Durando (Rationale divinorum officiorum, a cura di A. Davril e T.M. Thibodeau, Brepols, Turnhout 1995-2000, lib. I, cap. I, 14, vol. I, p. 17). 2 L. Prosdocimi, Lo stato di vita laicale nel diritto canonico dei secoli XI e XII, in I laici nella «Societas christiana» dei secoli XI e XII, Atti della terza Settimana internazionale di studio (Mendola, 21-27 agosto 1965), a cura di G. Lazzati e C.D. Fonseca, Vita e pensiero, Milano 1968, pp. 56-77; E. Cattaneo, La partecipazione dei laici alla liturgia, ivi, pp. 396-423, a p. 402 per il riferimento ad Onorio di Autun (De offendiculo, XXXVIII). 3 Sul tema cfr., fra gli altri, E. Doberer, Der Lettner. Seine Bedeutung und Geschichte, in «Mitteilungen der Gesellschaft für vergleichende Kunstforschung in Wien», IX/2, 1956, pp. 117-122; M.B. Hall, The «Ponte» in Santa Maria Novella: The Problem of the Rood Screen in Italy, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», XXXVII, 1974, pp. 157-173; Eadem, The «Tramezzo» in Santa Croce, Florence, Reconstructed, in «Art Bulletin», LVI, 1974, pp. 325-341; K. Imesch Öhry, Die Kirchen der Franziskanerobservanten in der Lombardei, im Piemont und im Tessin und ihren «Lettnerwände». Architektur und Dekoration, Hermann Böhlaus, Essen 1991; P. Binski, The English Parish Church and Its Art in the Later Middle Ages: A Review of the Problem, in «Studies in Iconography», XX, 1999, pp. 1-25; K.D. Kalokyris, To egkársio leitourgikó diáfragma (Jubé, Lettner, Pulpitum) megálwn naån thv Dúsewv. H buzantinä epídrash sthn diamórfwsä tou, University Studio Press, Thessaloniki 1999; J.E. Jung, Beyond the Barrier: The Unifying Role of the Choir Screen in Gothic Churches, in «Art Bulletin», LXXXII, 2000, pp. 622-657; A. Nilsen, Focal Point of the Sacred Space: The Boundary between Chancel and Nave in Swedish Rural Churches, Uppsala Universitet, Uppsala 2003. 4 Gualvanei de la Flamma Chronicon maior Ordinis Praedicatorum, ed. a cura di G. Odetto, La Cronaca maggiore dell’Ordine domenicano di Galvano Fiamma. Frammenti editi, in «Archivum fratrum Praedicatorum», X, 1940, pp. 297-373, in part. 326. 5 I. Hueck, Der Lettner der Unterkirche von San Francesco in Assisi, in 1

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Note

«Mitteilungen des kunsthistorischen Institutes in Florenz», XXVIII, 1984, pp. 173-202. 6 Cfr., in proposito, quanto affermato in Ioannis Beleth Summa de ecclesiasticis officiis, a cura di H. Douteil, Brepols, Turnhout 1976, cap. LXXXV, pp. 154-155. 7 K. Imesch, The Altar of the Holy Cross and the Ideal of Adam’s Progeny: «ut paradysiace loca possideat regionis», in Death and Dying in the Middle Ages, a cura di E.E. DuBruck e B.I. Gusick, Peter Lang, New York 1999, pp. 73-89. 8 Motti e facezie del piovano Arlotto, a cura di G. Folena, Ricciardi, Milano-Napoli 1963, facezia XCIII, pp. 146-148. 9 Per le implicazioni della scena rimando al recente saggio di C. Frugoni, Sui vari significati del Natale di Greccio, nei testi e nelle immagini, in «Frate Francesco», LXX, 2004, pp. 35-147, in part. 92-103. 10 (Opicini de Canistris) Liber de laudibus civitatis Ticinensis, R. Maiocchi e F. Quintavalle, Lapi, Città di Castello 1903 (‘Rerum Italicarum Scriptores’, II ed., vol. XI, parte I), cap. XII, p. 20. 11 Acta capitulorum generalium ordinis Praedicatorum, a cura di B.M. Reichert, Typographia polyglotta S.C. de Propaganda Fide, Roma 1898, p. 47. 12 D. Cooper, Franciscan Choir Enclosures and the Function of Double-Sided Altarpieces in Pre-Tridentine Umbria, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», LXIV, 2001, pp. 1-54; cfr. anche A. Randolph, Regarding Women in Sacred Space, in Picturing Women in Renaissance and Baroque Italy, a cura di G.A. Johnson e S.F. Matthews Grieco, Cambridge University Press, Cambridge 1997, pp. 17-41, in part. 29-34, e C.G. Gilardi, «Ecclesia laicorum» e «ecclesia fratrum». Luoghi e oggetti per il culto e la predicazione secondo l’«ecclesiasticum officium» dei frati Predicatori, in Aux origines de la liturgie dominicaine. Le manuscrit Santa Sabina XIV L 1, a cura di L.E. Boyle e P.-M. Gy, École française de Rome/CNRS éditions, Paris 2004, pp. 379-443. 13 I. Müller, Frauen rechts, Männer links. Historische Platzverteilung in der Kirche, in «Schweizerisches Archiv für Volkskunde», LVII, 1961, pp. 6581. La regola era tutt’altro che univoca e, di fatto, la disposizione dei sessi poteva variare a seconda dell’orientamento dell’edificio e dell’osservanza o meno dell’antico principio della recitazione del Vangelo «verso settentrione»; cfr. anche S. De Blauuw, Cultus et decor. Liturgia e architettura nella Roma tardoantica e medievale, Biblioteca apostolica vaticana, Città del Vaticano 1994, pp. 82-84. 14 K. Wood-Legh, Perpetual Chantries in Britain, Cambridge University Press, Cambridge 1965; N. Orme, Church and Chapel in Medieval England, in «Transactions of the Royal Historical Society», ser. VI, VI, 1996, pp. 75102; M. Bacci, Investimenti per l’aldilà. Arte e raccomandazione dell’anima nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 134-138. 15 I. Hueck, Il cardinale Napoleone Orsini e la cappella di San Nicola nella Basilica francescana ad Assisi, in Roma anno 1300, Atti del convegno (Roma, 19-24 maggio 1980), a cura di A.M. Romanini, L’Erma di Bretschneider,

Note

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Roma 1983, pp. 187-198; J. Gardner, The Tomb and the Tiara, Oxford University Press, Oxford 1992, pp. 38-40 e passim; F. Ames-Lewis, Tuscan Marble Carving 1250-1350. Sculpture and Civic Pride, Ashgate, Aldershot 1997, pp. 187-188; J. Cannon, Popular Saints and Private Chantries. The Sienese Tomb-Altar of Margherita of Cortona and Questions of Liturgical Use, in Kunst und Liturgie im Mittelalter, Atti del convegno (Roma, 28-30 settembre 1997), a cura di N. Bock, S. De Blauuw, Ch.L. Frommel, H.L. Kessler, Hirmer, München 2000, pp. 149-162. 16 L. Fumi, Il duomo di Orvieto e i suoi restauri (1890), a cura di L. Riccetti, Deputazione di storia patria per l’Umbria, Orvieto-Perugia 1891, p. 764 e documenti a p. 775. 17 Per una descrizione dettagliata di questa vicenda cfr. M. Bacci, «Pro remedio animae». Immagini sacre e pratiche devozionali nell’Italia centrale (secoli XIII e XIV), Gisem-Ets, Pisa 2000, pp. 344-351. 18 R. Guerrieri, Storia civile ed ecclesiastica del Comune di Gualdo Tadino, Oderisi, Gubbio 1933, p. 381. La presenza di piscine d’altare sopra i due pulpiti testimonia della loro costruzione al livello superiore: cfr. Cooper, Franciscan Choir Enclosures cit., p. 49. 19 K. Christiansen, scheda 1c (A Miracle of the Sacrament), in Painting in Renaissance Siena 1420-1500, catalogo della mostra (New York, Metropolitan Museum of Art, 20 dicembre 1988-19 marzo 1989), a cura di K. Christiansen, L.B. Kanter, C.B. Strehlke, Metropolitan Museum of Art, New York 1988, pp. 72-74. 20 Sull’edificio e la sua decorazione cfr. in generale Il centro storico di Viterbo. Chiese, conventi, palazzi, musei e fontane, a cura di M.G. Gimma, Betagamma, Viterbo 2001, pp. 95-107. 21 A. Höger, Studien zur Entstehung der Familienkapellen und zu Familienkapellen und -altären des Trecento in Florentiner Kirchen, s. n., Bonn 1976; A. Grewolls, Die Kapellen der norddeutschen Kirchen im Mittelalter. Architektur und Funktion, Ludwig, Kiel 1999; Ch. Freigang, Chapelles latérales privées. Origines, fonctions, financements: le cas de Notre-Dame de Paris, in Art, cérémonial et liturgie au Moyen Âge, Atti del convegno (LosannaFriburgo, 24-25 marzo, 14-15 aprile, 12-13 maggio 2000), a cura di N. Bock, P. Kurmann, S. Romano, J.-M. Spieser, Viella, Roma 2002, pp. 525-544; J. Gardner, The Family Chapel: Artistic Patronage and Architectural Transformation in Italy circa 1275-1325, ivi, pp. 546-564. 22 Bacci, Investimenti per l’aldilà cit., pp. 142-143. 23 Matteo e Filippo Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, Guanda, Parma 1995, lib. III, capp. 5-6, vol. I, pp. 342-349. Per una buona introduzione a questi temi cfr. A. Legner, Reliquien in Kunst und Kult zwischen Antike und Aufklärung, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1995. 24 (Opicini de Canistris) Liber de laudibus civitatis Ticinensis, cit., cap. XIV, p. 33. 25 A. Vauchez, La sainteté en Occident au derniers siècles du Moyen Âge d’après les procès de canonization et les documents hagiographiques, École française de Rome, Roma 1988.

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Note

Per una sintesi sul tema cfr. J. Garms, Gräber von Heiligen und Seligen, in Skulptur und Grabmal des Spätmittelalters in Rom und Italien, a cura di J. Garms e A.M. Romanini, Österreichische Akademie der Wissenschaften, Wien 1990, pp. 83-105; A.F. Moskowitz, Nicola Pisano’s Arca di San Domenico and Its Legacy, College Art Association by the Pennsylvania State University Press, University Park 1994; Eadem, Italian Gothic Sculpture c. 1250-c. 1400, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 303-305, e passim. Vedi anche S. Romano, The «Arca of St Dominic» at Bologna, in Memory & Oblivion. Proceedings of the XXIXth International Congress of the History of Art held in Amsterdam, 1-7 September 1996, a cura di W. Reinink e J. Stumpel, Kluwer, Dordrecht 1999, pp. 499-513, e M. Ferretti, scheda 59, in Duecento. Forme e colori del Medioevo a Bologna, catalogo della mostra (Bologna, 15 aprile-16 luglio 2000), a cura di M. Medica, Marsilio, Venezia 2000, pp. 217-225. 27 Testo edito in G. Zanella, Itinerari ereticali: patari e catari tra Rimini e Verona, Istituto storico per il Medio Evo, Roma 1986, p. 95. Sulla vicenda, cfr. ultimamente D. Solvi, Santi degli eretici e santi degli inquisitori intorno all’anno 1300, in Il pubblico dei santi. Forme e livelli di ricezione dei messaggi agiografici, a cura di P. Golinelli, Viella, Roma 2000, pp. 142-156, in part. 143-146. 28 Per un caso esemplare vedi J. Cannon-A. Vauchez, Margherita da Cortona e i Lorenzetti, Città Nuova, Roma 2000. 29 Franco Sacchetti, Il Trecentonovelle, a cura di A. Lanza, Sansoni, Firenze 1984, novella CLVII, pp. 338-341. 30 Zanella, Itinerari ereticali cit., p. 95. 31 Cfr. in merito B. Phalip, Art roman, culture et société en Auvergne. La sculpture à l’épreuve de la dévotion populaire et des interprétations savantes, Faculté des lettres et sciences humaines, Clermont-Ferrand 1997. 32 M. Bacci, La mannaia del «Volto Santo», in San Martino di Lucca. Gli arredi della cattedrale, Istituto storico lucchese, Lucca 1999, pp. 103-120. 33 H. Winter, Die katalanische Nao von 1450 nach dem Modell in Maritiem Museum Prins Hendrik in Rotterdam, R. Loef, Magdeburg 1956. 34 I più antichi ex voto in cera giunti sino ai nostri giorni, ritrovati in uno scavo nella cattedrale di Exeter, risalgono al sec. XV: vedi U. Radford, The Wax Images Found in Exeter Cathedral, in «The Antiquaries Journal», XLIX, 1949, pp. 164-168. 35 Bacci, «Pro remedio animae» cit., pp. 184-187. 36 Sul campionario e l’iconografia degli ex voto cfr. soprattutto P.A. Sigal, L’ex-voto au Moyen Age dans les regions du Nord-Ouest de la Méditerranée, in «Provence historique», XXXIII, 1983, pp. 13-31, e F. Bisogni, Ex voto e la scultura in cera nel tardo Medioevo, in «Iconographica», I, 2001, pp. 1-15. 37 Sacchetti, Il Trecentonovelle, cit., novella CIX, pp. 329-331. 38 G. Llompart, Aspectos folklóricos en la pintura gótica de Jaume Huguet y los Vergós, in «Revista de dialectología y tradiciones populares», XXIX, 1973, pp. 391-408, in part. 397-401. 26

Note

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Sigal, L’ex voto cit., p. 27; C. Frugoni, Storia di un giorno in una città medievale, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 111-114. 40 Cfr. ad esempio Processus canonizationis et legendae variae sancti Ludovici O.F.M., in Analecta Franciscana, Ex typographia Collegii S. Bonaventurae, Ad Claras Aquas 1885-, vol. VII, p. 299: «cum sua ymagine de cera». 41 Processus canonizationis Sancti Nicholai a Tolentino, ed. a cura di N. Occhioni, Il processo per la canonizzazione di S. Nicola da Tolentino, Padri Agostiniani di Tolentino/École française de Rome, Roma 1984, p. 153. 42 Sacchetti, Il Trecentonovelle, cit., novella CLXXXVI, pp. 621-625. 43 A mio parere va interpretata in questo senso la menzione di una «ymaginem seu figuram depictam tam magnam sicut ipse testis» in una delle testimonianze del Processus canonizationis Sancti Nicholai a Tolentino, cit., pp. 298-299. 44 J. Bracons i Clapés, «Operibus monumentorum que fieri facere ordinamus»: l’escultura al servei de Pere el Cerimoniós, in Pere el Cerimoniós i la seva època, CSIC, Barcelona 1989, pp. 209-243, in part. 210. 45 H. van der Velden, Medici Votive Images and the Scope and Limits of Likeness, in The Image of the Individual. Portraits in the Renaissance, a cura di N. Mann e L. Syson, British Museum Press, London 1998, pp. 126-127. 46 V. Oberhammer, Gotik in Tirol. Malerei und Plastik des Mittelalters, catalogo della mostra, Tyroliadruck, Innsbruck 1950, p. 36, n° 85. 47 Processus canonizationis et legendae variae sancti Ludovici O.F.M., cit., pp. 229 e 288. 48 Vita ac legenda beati Joachimi Senensis ordinis fratrum Servorum Sanctae Mariae Virginis auctore coevo, a cura di M. Soulier, in «Analecta Bollandiana», XIII, 1894, capp. 20 e 25, pp. 383-397, in part. 394 e 396-397. 49 Bartolomeo Albizi, Trattato dei miracoli del beato Gerardo, ed. a cura di F. Rotolo, Il trattato dei miracoli del b. Gerardo Cagnoli, O. Min. (12671342) di fra Bartolomeo Albizi, O. Min. († 1351), in «Miscellanea francescana», 66 (1966), lib. I, cap. 25, pp. 128-192, in part. 166. 50 Cfr., in generale, R. Suckale, Der mittelalterliche Kirchenbau im Gebrauch und als Ort der Bilder, in Goldgrund und Himmelslicht. Die Kunst des Mittelalters in Hamburg, catalogo della mostra (Amburgo, 19 novembre 1999-5 marzo 2000), a cura di U.M. Schneede, Dölling und Galitz, Hamburg 1999, pp. 15-25; Bildlichkeit und Bildorte von Liturgie. Schauplätze in Spätantike, Byzanz, und Mittelalter, a cura di R. Warland, Reichert, Wiesbaden 2002; H.L. Kessler, Seeing Medieval Art, Broadview Press, Peterborough (Ontario) 2004, pp. 107-129. 51 G. Rocchi, L’architettura della Basilica di San Francesco in Assisi, in La Basilica di San Francesco ad Assisi. Saggi, a cura di G. Bonsanti, Franco Cosimo Panini, Modena 2002, pp. 17-111, in part. 49-86. 52 Bacci, Investimenti per l’aldilà cit., pp. 146-147. Cfr. Motti e facezie del piovano Arlotto, cit., motto CXXVIII, pp. 185-186. 53 R. Gibbs, Tomaso da Modena. Painting in Emilia and the March of Treviso, 1340-80, Cambridge University Press, Cambridge 1989, pp. 267-268 e fig. 49. 39

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Note

Sugli affreschi di Asciano, ancora pressoché inediti, cfr. L. Baroni, Gli affreschi della chiesa di S. Lorenzo in Asciano, in «Rassegna d’arte senese», II, 1906, pp. 14-17. 55 S. Bongi, Ingiurie improperi contumelie ecc. Saggio di lingua parlata del Trecento cavato dai libri criminali di Lucca [1890], D. Marcheschi, Pacini Fazzi, Lucca 1983, n° 150, p. 48. 56 W. Prinz, I. Marzik, Die Storia oder die Kunst des Erzählens in der italienischen Malerei und Plastik des späten Mittelalters und der Frührenaissance, 1260-1460, Philipp von Zabern, Mainz 2000. Sui programmi delle vetrate vedi E. Castelnuovo, Vetrate medievali. Officine tecniche maestri, Einaudi, Torino 1994, pp. 115-142; M.H. Caviness, Stained Glass Windows in Gothic Chapels, and the Feasts of the Saints, in Kunst und Liturgie cit., pp. 135-148. 57 Per la tesi del ruolo propagandistico dei cicli decorativi francescani cfr. D. Blume, Wandmalerei als Ordenspropaganda. Bildprogramme im Chorbereich franziskanischer Konvente Italiens bis zur Mitte des 14. Jahrhunderts, Werner, Worms 1983; rispetto a questa vedi adesso le osservazioni critiche di L. Bourdua, The Franciscans and Art Patronage in Late Medieval Italy, Cambridge University Press, Cambridge 2004, passim. 58 Sull’interpretazione dell’affresco vedi ultimamente C. Frugoni, L’ombra della Porziuncola nella Basilica Superiore di Assisi, in «Mitteilungen des kunsthistorischen Institutes in Florenz», XLV, 2001, pp. 345-393; cfr. anche H. Belting, Bild und Kult. Eine Geschichte des Bildes vor dem Zeitalter der Kunst, Beck, München 1990, p. 450. 59 Come testimoniato da alcuni rood screens inglesi, a partire dal più antico, risalente agli inizi del sec. XIV: Ch. Tracy, An English Painted Screen at Kingston Lacy, in «Apollo», CXLVI, 1997, 425, pp. 20-28. 60 Su questi temi cfr. H. Hager, Die Anfänge des italienischen Altarbildes. Untersuchungen zur Entstehungsgeschichte des toskanischen Hochaltarretabels, V.A. Schroll, München 1962; H. van Os, Sienese Altarpieces 1215-1344. Form, content, function, Bouma’s Boekhuis, Groningen 1984; M. Boskovits, Appunti per una storia della tavola d’altare: le origini, in «Arte cristiana», LXXX, 1992, pp. 422-438; Italian Altarpieces, 1250-1550. Function and Design, a cura di E. Borsook e F. Superbi Gioffredi, Oxford 1994; V.M. Schmidt, Die Funktionen der Tafelbilder mit der thronenden Madonna in der Malerei des Duecento, in «Mededelingen van het Nederlands Instituut te Rome», LV, 1996, pp. 44-82; Italian Panel Painting of the Duecento and Trecento, a cura di V.M. Schmidt, Washington, D.C., 2002; V.M. Schmidt, Tipologie e funzioni della pittura senese su tavola, in Duccio. Siena fra tradizione bizantina e mondo gotico, a cura di A. Bagnoli, R. Bartalini, L. Bellosi, M. Laclotte, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2003, pp. 531-569; M. Bacci, L’effige sacra e il suo spettatore, in Arti e storia nel Medioevo. III. Del vedere: pubblici, forme e funzioni, a cura di E. Castelnuovo e G. Sergi, Einaudi, Torino 2003, pp. 199-252; G. Gentile, Sculture per l’immaginario religioso, ivi, pp. 253-270; B. Williamson, Altarpieces, Liturgy, and Devotion, in «Speculum», LXXIX, 2004, pp. 341-406; A. De Marchi, La tavola d’altare, in Sto54

Note

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ria delle arti in Toscana. Il Trecento, a cura di M. Seidel, Edifir, Firenze 2004, pp. 15-44. 61 V.M. Schmidt, The Lunette-Shaped Panel and Some Characteristics of Panel Painting, in Italian Panel Painting cit., pp. 395-425. 62 M. Sensi, Il perdono di Assisi, Porziuncola, Assisi 2002, pp. 99-119. 63 Gualvanei de la Flamma Chronicon maior Ordinis Praedicatorum, cit., pp. 323-324 (per Milano); per la reliquia bolognese, vedi S. Giorgi, scheda 30, in Duecento cit., pp. 145-149. 64 Guillelmi Duranti Rationale divinorum officiorum, A. Davril e T.M. Thibodeau, Brepols, Turnhout 1995, lib. I, cap. III, 43, vol. I, p. 49. 65 P. Moretti, Per una storia delle istituzioni parrocchiali nel basso Medioevo: la propositura di S. Maria e S. Michele di Cigoli e la pieve di S. Giovanni di Fabbrica, in «Bollettino storico pisano», LI, 1982, pp. 33-65; Bacci, «Pro remedio animae» cit., pp. 38-42. 66 F. Luisi, L’espressione musicale della devozione popolare, in Enciclopedia della musica. Volume IV. Storia della musica europea, a cura di J.-J. Nattiez, Einaudi, Torino 2004, pp. 152-176. Sul rapporto tra la recitazione delle laudi e il culto delle immagini cfr. B. Cassidy, Orcagna’s Tabernacle in Florence: Design and Function, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», LV, 1992, pp. 180-211. 67 F. Grimaldi, La chiesa di Santa Maria di Loreto nei documenti dei secoli XII-XV, Archivio di Stato di Ancona, Ancona 1984, p. 19 e nota 7. 68 Filippo degli Agazzari, Assempri, in Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, a cura di G. Varanini e G. Baldassarri, Salerno Editrice, Roma 1993, assempro XXVIII, vol. III, pp. 376-378. 69 Lettera a Iacopo di Conte da Perugia, in I sermoni evangelici, le lettere ed altri scritti di Franco Sacchetti, a cura di O. Gigli, Le Monnier, Firenze 1857, pp. 218-219. 70 Bacci, «Pro remedio animae» cit., pp. 293-295. 71 A. Reinle, Die Ausstattung deutscher Kirchen im Mittelalter. Eine Einführung, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1988, pp. 114115. 72 Ivi, pp. 61-67. Cfr. anche Ch. Tracy, Stalli del coro, in Enciclopedia dell’arte medievale, a cura di A.M. Romanini, Istituto della enciclopedia italiana, Roma 1991-2001, vol. X, pp. 819-823. 73 Cfr. Frugoni, Sui vari significati cit., pp. 112-114. 74 Ludolph von Südheim, De itinere Terrae Sanctae, ed. a cura di F. Deycks, Ludolphi, rectoris ecclesiae parochialis in Suchem, de itinere Terrae Sanctae liber. Nach alten Handschriften berichtigt herausgegeben, Litterarischer Verein, Stuttgart 1851, pp. 19-20. 75 Cooper, Franciscan Choir Enclosures cit., 27-39. 76 La datazione della chiesa e del primitivo coro-tramezzo è variamente collocata tra i secc. XIII e XV: cfr. M. Salvatori, Le prime sedi francescane, in Lo spazio dell’umiltà, atti del convegno (Fara Sabina, 3-6 novembre 1982), Centro francescano Santa Maria in Castello, Fara Sabina 1982, pp. 77-106, in part. 102-105; G. Leche, La Conca Reatina. I primitivi insediamenti fran-

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Note

cescani, Porziuncola, Assisi 2004, pp. 50-51; M. De Angelis, Analisi storicoarchitettonica dell’eremo di Greccio, in «Frate Francesco», n.s., LXX, 2004, pp. 149-188, in part. 159-163. 77 D. Gillerman, The clôture of the Cathedral of Notre-Dame: Problems of Reconstruction, in «Gesta», XIV, 1975, pp. 41-61. 78 De beata Gerardesca pisana camaldulensi tertiaria, edito in Acta sanctorum Maii. Tomus VII, apud Michaelem Cnobarum, Antwerp 1688, die XXIX, cap. III, 32, p. 171. 79 Federico Visconti, Sermones, ed. a cura di N. Bériou, Les sermons et la visite pastorale de Federico Visconti, archevêque de Pise (1253-1277), École française de Rome, Rome 2001, capp. 12-14, vol. I, pp. 334-335. Sugli abiti dei canonici e delle comunità religiose regolari cfr. La sostanza dell’effimero. Gli abiti degli Ordini religiosi in Occidente, catalogo della mostra (Roma, 18 gennaio-31 marzo 2000), a cura di G. Rocca, Ed. Paoline, Roma 2000. 80 Guillelmi Duranti Rationale divinorum officiorum, cit., lib. II, cap. II, 4, vol. I, p. 147. 81 M. Lütolf, Die mehrstimmigen Ordinarium-Missae-Sätze vom ausgehenden 11. bis zur Wende des 13. und 14. Jahrhunderts, P. Haupt, Bern 1970. Cfr., in generale, C. Gallico, Polifonia e contrappunto, in Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, a cura di A. Basso, Utet, Torino 1984, vol. III, pp. 662-679; A. Planchart, Organum, in Enciclopedia della musica cit., pp. 177-200, e M.J. Bloxam, La messa polifonica da Machaut a Palestrina, ivi, pp. 225-241.

Capitolo quarto 1 Guillelmi Duranti Rationale divinorum officiorum, A. Davril e T.M. Thibodeau, Brepols, Turnhout 1995, lib. II, cap. II, 1, vol. I, p. 146. 2 S. De Blauuw, Architecture and Liturgy in Late Antiquity and the Middle Ages. Traditions and Trends in Modern Scholarship, in «Archiv für Liturgiewissenschaft», XXXIII, 1991, pp. 1-34. 3 Guillelmi Duranti Rationale divinorum officiorum, cit., lib. IV, cap. XLII, 32, vol. I, p. 480. Sulla storia dell’altare e dei suoi ornamenti cfr. J. Braun, Der christliche Altar in seiner geschichtlichen Entwicklung, G. Koch, München 1924. 4 E. Coturri, Chiese e clero della Valdinievole da una visita pastorale del 1354, in Id., Pistoia, Lucca e la Valdinievole nel Medioevo. Raccolta di saggi, a cura di G. Francesconi e F. Iacomelli, Società pistoiese di storia patria, Pistoia 1998, pp. 239-270, in part. 262. 5 Guillelmi Duranti Rationale divinorum officiorum, cit., lib. IV, cap. XLII, 15-16, vol. I, p. 471. 6 Ivi, lib. I, cap. III, 23, vol. I, p. 42. 7 J. Gardner, Some Franciscan Altars of the Thirteenth and Fourteenth Centuries, in The Vanishing Past. Studies of Medieval Art, Liturgy and Me-

Note

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trology Presented to Christopher Hohler, a cura di A. Borg e A. Martindale, B.A.R., Oxford 1981, pp. 29-38. 8 Per una sintesi della discussione critica sulla Maestà cfr. G. Ragionieri, Duccio di Buoninsegna. Maestà, in Duccio. Siena fra tradizione bizantina e mondo gotico, a cura di A. Bagnoli, R. Bartalini, L. Bellosi, M. Laclotte, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2003, pp. 212-222, e V.M. Schmidt, Tipologie e funzioni della pittura senese su tavola, ivi, pp. 557-560. 9 Un buon esempio di integrazione artistica è l’arredo della cappella maggiore di Santa Croce a Firenze, per cui cfr. ultimamente N.M. Thompson, The Franciscans and the True Cross: The Decoration of the Cappella Maggiore of Santa Croce in Florence, in «Gesta», XLIII, 2004, pp. 61-79. Cfr. anche A.R. Calderoni Masetti, Concerto d’arti, in Storia delle arti in Toscana. Il Trecento, a cura di M. Seidel, Edifir, Firenze 2004, pp. 117-146. 10 Il tema può anche essere interpretato come San Massimino che impartisce la comunione alla Maddalena: E. Neri Lusanna, La pittura in San Francesco dalle origini al Quattrocento, in San Francesco. La chiesa e il convento in Pistoia, a cura di L. Gai, Pacini, Ospedaletto 1993, pp. 81-170, in part. 93. 11 Guillelmi Duranti Rationale divinorum officiorum, cit., lib. II, cap. I, 32, vol. I, p. 134. 12 Ivi, lib. III, cap. XVIII, vol. II, pp. 224-229. In generale sulla storia delle vesti liturgiche cfr. J. Braun, Die liturgische Gewandung im Occident und Orient nach Ursprung und Entwicklung, Verwendung und Symbolik, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1964. 13 Ivi, lib. I, cap. III, 17, vol. I, p. 40; sul significato dei colori cfr. M. Pastoureau, Une histoire symbolique du Moyen Âge occidental, Seuil, Paris 2004, pp. 135-171. 14 W.R. Larson, Narrative Threads: The Pienza Cope’s Embroidered «Vitae» and Their Ritual Setting, in «Studies in Iconography», XXIV, 2003, pp. 139-163. 15 E. Dumoutet, Le désir de voir l’hostie et les origines de la dévotion au saint-sacrement, Beauchesne, Paris 1926; P. Browe, Die Verehrung der Eucharistie im Mittelalter, Herder, Roma 19672; M. Rubin, Corpus Christi. The Eucharist in Late Medieval Culture, Cambridge University Press, Cambridge 1991; M. Pellegrini, Una città in chiesa. Laici e prassi liturgica a Siena nel primo Duecento, in «Quaderni di storia religiosa», VI, 1999, pp. 23-84, in part. 34-40 e passim. Sulla distribuzione del pane benedetto cfr. J.A. Jungmann, Missarum sollemnia. Origini, liturgia, storia e teologia della messa romana, Marietti, Torino 1954, vol. II, pp. 339-340. 16 (Opicini de Canistris) Liber de laudibus civitatis Ticinensis, R. Maiocchi e F. Quintavalle, Lapi, Città di Castello 1903 (‘Rerum Italicarum Scriptores’, II ed., vol. XI, parte I), cap. XIV, pp. 32-34. 17 Legenda del beato Francesco [c. 1330-1335], in Fonti storico-spirituali dei Servi di Santa Maria. I. Dal 1245 al 1348, Servitium editrice, Sotto il Monte 1998, pp. 336-372, in part. 342. 18 M. Degli Innocenti, Testi italiani delle origini sulla devozione alla messa, in Medioevo e latinità. In memoria di Ezio Franceschini, a cura di A. Am-

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Note

brosioni, M. Ferrari, C. Leonardi, G. Picasso, M. Regoliosi, P. Zerbi, Vita e pensiero, Milano 1993, pp. 163-186, in part. 182-183. 19 E.G. Atchley-F. Cuthbert, A History of the Use of Incense in Divine Worship, Longmans, London-New York 1909. 20 Degli Innocenti, Testi italiani cit., p. 183. 21 De beata Gerardesca pisana camaldulensi tertiaria, edito in Acta sanctorum Maii. Tomus VII, apud Michaelem Cnobarum, Antwerp 1688, die XXIX, cap. VII, 64, p. 178. 22 B.R. Tammen, Musik und Bild im Chorraum mittelalterlichen Kirchen 1100-1500, Reimer, Berlin 2000. 23 Degli Innocenti, Testi italiani cit., p. 183. 24 Sicardi episcopi Cremonensis Mitrale, edito in PL 213, col. 124; Guillelmi Duranti Rationale divinorum officiorum, cit., lib. IV, cap. XXXV, 1011, vol. I, pp. 416-417. 25 Degli Innocenti, Testi italiani cit., p. 183. 26 Vedi, ad esempio, lo Statuto dei Disciplinati di Borgo Porta Nova di Vicenza [1263], in G.G. Meersseman, Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, Herder, Roma 1977, p. 480. 27 Jungmann, Missarum sollemnia cit., vol. II, pp. 31-32. 28 Sugli effetti «audiovisivi» nell’elevazione dell’ostia cfr. ivi, pp. 161162; Rubin, Corpus Christi cit., pp. 58-59. 29 Guillelmi Duranti Rationale divinorum officiorum, cit., lib. IV, cap. XLI, 52, vol. I, p. 462; cfr. Rubin, Corpus Christi cit., pp. 55-56. 30 Degli Innocenti, Testi italiani cit., p. 185. 31 Bonvicini de Ripa Vita scholastica, ed. a cura di A. VidmanováSchmidtová, Quinque claves sapientiae, Teubner, Leipzig 1969, vv. 411-414, p. 67. 32 D.R. Dendy, The Use of Light in Christian Worship, S.P.C.K., London 1959. 33 Promemoria delle feste ad uso dei camerlenghi della compagnia pisana dei Laudesi [1312], in Meersseman, Ordo fraternitatis cit., pp. 1054-1056. L’uso delle luci artificiali come strumenti per enfatizzare la dignità cultuale di luoghi e immagini sacre è stato recentemente indagato, relativamente a un periodo un po’ più tardo, da P. Davies, The Lighting of Pilgrimage Shrines in Renaissance Italy, in The Miraculous Image in the Late Middle Ages and Renaissance, a cura di E. Thunø e G. Wolf, L’Erma di Bretschneider, Roma 2004, pp. 57-80. 34 E. Cattaneo, La partecipazione dei laici alla liturgia, in I laici nella «Societas christiana» dei secoli XI e XII, Atti della terza Settimana internazionale di studio (Mendola, 21-27 agosto 1965), a cura di G. Lazzati e C.D. Fonseca, Vita e pensiero, Milano 1968, pp. 396-423, in part. 401. 35 Guillelmi Duranti Rationale divinorum officiorum, cit., lib. I, cap. III, 36, vol. I, p. 46. Cfr. Pellegrini, Una città in chiesa cit., p. 35. 36 De beata Gerardesca pisana camaldulensi tertiaria, cit., lib. VI, cap. 61, pp. 177-178. 37 R. Kroos, Grabbräuche – Grabbilder, in Memoria. Der geschichtliche

Note

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Zeugniswert des liturgischen Gedenkens im Mittelalter, a cura di K. Schmid e J. Wollasch, W. Fink, München 1984, pp. 285-353, in part. 314-320. Cfr., più in generale, P. Binski, Medieval Death: Ritual and Representation, British Museum Publications, London 1996. 38 Braun, Der christliche Altar cit., vol. II, pp. 148-154. 39 R. Barsotti, Gli antichi inventari della cattedrale di Pisa, Istituto di storia dell’arte, Pisa 1959, p. 61. 40 J.H. Emminghaus, Fastentuch, in Reallexikon zur deutschen Kunstgeschichte, vol. VII, J.B. Metzler, Stuttgart 1981, pp. 830-832; R. Recht, L’art des cathédrales, XIIe-XVe siècle, Gallimard, Paris 1999, pp. 323-324; L. Weigert, «Velum Templi»: Painted Cloths of the Passion and the Making of Lenten Ritual in Reims, in «Studies in Iconography», XXIV, 2003, pp. 199-229. 41 M. Bacci, Tra Pisa e Cipro: la committenza artistica di Giovanni Conti († 1332), in «Annali della scuola normale superiore di Pisa», ser. IV, V, 2000, pp. 343-386. 42 Barsotti, Gli antichi inventari cit., p. 27 (inventario del 1296). 43 K. Krüger, Der frühe Bildkult des Franziskus in Italien. Gestalt- und Funktionswandel des Tafelbildes im 13. und 14. Jahrhundert, Gebr. Mann, Berlin 1992; Schmidt, Tipologie e funzioni cit., pp. 541-542. 44 M. Bacci, L’effige sacra e il suo spettatore, in Arti e storia nel Medioevo. III. Del vedere: pubblici, forme e funzioni, a cura di E. Castelnuovo e G. Sergi, Einaudi, Torino 2003, pp. 199-252, in part. 220-224. 45 R.C. Trexler, Habiller et déshabiller les images: esquisse d’une analyse, in L’image et la production du sacré, Atti del convegno (Strasburgo, 20-21 gennaio 1988), a cura di F. Dunand, J.-M. Spieser e J. Wirth, Méridiens Klincksieck, Paris 1991, pp. 195-231. 46 M. Seidel, Il pulpito come palcoscenico. Sulla funzione dei pulpiti di Nicola e Giovanni Pisano, in Id., Arte italiana del Medioevo e del Rinascimento. Volume 2: Architettura e scultura, Marsilio, Venezia 2003, pp. 127-132. 47 M. Bacci, «Pro remedio animae». Immagini sacre e pratiche devozionali nell’Italia centrale (secoli XIII e XIV), Gisem-Ets, Pisa 2000, pp. 324-328. 48 Barsotti, Gli antichi inventari cit., p. 68. 49 Bacci, «Pro remedio animae» cit., pp. 307-308; M. Brunori e B. Niccoli, «Ad vestiendum imaginem». I costumi degli attori: le vesti scolpite e le stoffe dipinte delle statue, in Sacre passioni. Scultura lignea a Pisa dal XII al XV secolo, catalogo della mostra (Pisa, 8 novembre 2000-8 aprile 2001), a cura di M. Burresi, Motta, Milano 2000, pp. 245-256. 50 S. Nannipieri, La festa del Volto Santo: le disposizioni di Governo, in Il Volto Santo: storia e culto, catalogo della mostra (21 ottobre-21 dicembre 1982), a cura di C. Baracchini e M.T. Filieri, Pacini Fazzi, Lucca 1982, pp. 103-113, in part. 103 e nota 4. 51 A. Chiappelli, Storia e costumanze delle antiche feste patronali di S. Iacopo in Pistoia, Alberto Pacinotti & C., Pistoia 1920; S. Ferrali, L’apostolo s. Jacopo il Maggiore e il suo culto a Pistoia, Opera dei santi Giovanni e Zeno, Pistoia 1979. 52 Per Gubbio, vedi M. Belardi, I ceri di Gubbio: storia millenaria ed evo-

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luzione moderna della festa, Quattroemme, Perugia 2003; per Pavia, cfr. (Opicini de Canistris) Liber de laudibus civitatis Ticinensis, cit., cap. XVI, p. 39. 53 (Opicini de Canistris) Liber de laudibus civitatis Ticinensis, cit., cap. XIV, p. 32. 54 In nome del pane. Forme, tecniche, occasioni della panificazione tradizionale in Sardegna, a cura di P. Piquereddu, Carlo Delfino Editore, Nuoro 1991. 55 (Opicini de Canistris) Liber de laudibus civitatis Ticinensis, cit., cap. XVI, p. 40. 56 A. Chiappelli, Pistoia, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1923, p. 210. 57 Luca Dominici, Cronaca della venuta dei Bianchi e della morìa 13991400, in Cronache di ser Luca Dominici, a cura di G.C. Gigliotti, A. Pacinotti, Pistoia 1933, cap. XXI, pp. 228-232. 58 Lettera a Iacopo di Conte da Perugia, in I sermoni evangelici, le lettere ed altri scritti di Franco Sacchetti, a cura di O. Gigli, Le Monnier, Firenze 1857, pp. 218-219. Cfr. in generale sugli aspetti «drammatici» e figurativi della predicazione i saggi raccolti in Dal pulpito alla navata. La predicazione medievale nella sua recezione da parte degli ascoltatori (secoli XIII-XV), a cura di G. Garfagnini, Firenze 1989, nonché L.-J. Bataillon, Les images dans les sermons du XIIIe siècle, in «Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie», XXXVII, 1990, pp. 327-395; R. Rusconi, La predicazione: parole in chiesa, parole in piazza, in Lo spazio letterario del Medioevo I. Il Medioevo latino. Tomo II. La circolazione del testo, Salerno Editrice, Roma 1994, pp. 571-603; Id., «Trasse la storia per farne la tavola»: immagini di predicatori degli ordini mendicanti nei secoli XIII e XIV, in La predicazione dei frati dalla metà del ’200 alla fine del ’300, Atti del XXII Convegno internazionale (Assisi, 13-15. X. 1994), CISAM, Spoleto 1995, pp. 405-450; L. Bolzoni, La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Einaudi, Torino 2002. 59 Su queste pratiche cfr. adesso J. Tripps, Das handelnde Bildwerk in der Gotik, Gebrüder Mann, Berlin 1998, 2000. 60 Chiappelli, Pistoia, cit., pp. 203-205. Sulle rappresentazioni teatrali dell’Inferno cfr. A. Cornagliotti, I diavoli nel teatro italiano dalle origini al XVI secolo, in Diavoli e mostri in scena dal Medioevo al Rinascimento, a cura di M. Chiabo e F. Doglio, Centro studi sul teatro medioevale e rinascimentale, Roma 1989, pp. 97-168. Più in generale sugli allestimenti scenografici all’interno delle chiese cfr. E. Konigson, Lo spazio del teatro nel Medioevo, La Casa Usher, Firenze 1990; A. Surgers, Scenografie del teatro occidentale, Bulzoni, Roma 2002, pp. 55-85. 61 Sull’Officium sepulchri e le più antiche forme di rappresentazione sacra cfr. soprattutto A. D’Ancona, Sacre rappresentazioni dei secoli XIV, XV e XVI, Le Monnier, Firenze 1872; V. de Bartholomaeis, Le origini della poesia drammatica italiana, Zanichelli, Bologna 1924, 1952; K. Young, The Drama of the Medieval Church, Clarendon Press, Oxford 1933; P. Toschi, Le origini del tea-

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tro italiano, Boringhieri, Torino 1976; O.B. Hardison, Christian Rite and Christian Drama in the Middle Ages: Essays in the Origins and History of Early Drama, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 1965; F.P. Pickering, Literatur und darstellende Kunst im Mittelalter, Schmidt, Berlin 1966; P. Sheingorn, The Easter Sepulchre in England, Medieval Institute Publications, Kalamazoo 1987; L. Jacobus, «Flete mecum»: The Representation of the Lamentation in Italian Romanesque Art and Drama, in «Word & Image», XII, 1996, pp. 110-126; E.E. DuBruck, The Death of Christ on the Late-Medieval Stage: A Theater of Salvation, in Death and Dying in the Middle Ages, a cura di E.E. DuBruck e B.I. Gusick, Peter Lang, New York 1999, pp. 355-375; S. Rankin, Liturgia drammatica e dramma liturgico, in Enciclopedia della musica. Volume IV. Storia della musica europea, a cura di J.-J. Nattiez, Einaudi, Torino 2004, pp. 94-117. 62 Gualvanei de la Flamma Opusculum de rebus gestis ab Azone, Luchino et Johanne vicecomitibus ab anno MCCCXXVIII usque ad annum MCCCXLII, C. Castiglioni, Bologna 1938 (‘Rerum Italicarum Scriptores’, II ed., 12/2), p. 22. 63 J. Tripps, Der Kirchenraum als Handlungsort für Bildwerke, in Kunst und Liturgie im Mittelalter, Atti del convegno (Roma, 28-30 settembre 1997), a cura di N. Bock, S. De Blauuw, Ch.L. Frommel, H.L. Kessler, Hirmer, München 2000, pp. 235-247. 64 Su questi usi cfr., ad esempio, gli Statuti sinodali pisani, emessi da Federico Visconti nel 1258 (testo in Les sermons et la visite pastorale de Federico Visconti, archevêque de Pise (1253-1277), a cura di N. Bériou, École française de Rome, Rome 2001, art. 24, p. 1081), o le Constitutiones che il legato apostolico a Cipro Pietro di Rodez emanò nel 1313: C. Schabel, The Synodicum Nicosiense and Other Documents of the Latin Church of Cyprus, 1196-1373, Cyprus Research Centre, Nicosia 2001, art. 36, p. 222. 65 M. Budde, Altare Portatile. Kompendium der Tragaltäre des Mittelalters 600-1600, apud autorem, Münster 1998. 66 Di questa chiesa, così come dell’altra abbazia fondata da Carlo d’Angiò, quella di Realvalle presso Scafati, rimangono oggi solo pochi ruderi: cfr. C. Bruzelius, Ad modum Franciae. Charles of Anjou and Gothic Architecture in the Kingdom of Sicily, in «Journal of the Society of Architectural Historians», L, 1991, pp. 402-420. 67 Felix Fabri, Evagatorium in Terrae Sanctae, Arabiae et Egypti peregrinationem, K.D. Hassler, Litterarischer Verein, Stuttgart 1843-1849, vol. I, p. 128.

Capitolo quinto Giovanni de’ Marignolli, Cronica Boemorum, in Fontes rerum Bohemicarum, a cura di J. Emler, Praga 1882, vol. III, col. 512a. 1

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Note

Cfr. le osservazioni in merito di M. Bartlová, in Svaty´ Vojtech. Tisíc let svatovojteΔské tradice v Cechách, Narodní Galerie v Praze, Praha 1997, 27-31. 3 Simeone di Tessalonica, Dialogo contro le eresie, in PG CLV, cap. XXIII, col. 112. Per una discussione più dettagliata delle fonti greche sull’arredo delle chiese latine cfr. M. Bacci, Le rôle des images dans les polémiques religieuses entre l’Église grecque et l’Église latine (XIe-XIIIe siècles), in «Revue belge de philologie et d’histoire», LXXXI, 2003, 4, pp. 95-121. 4 Silvestro Syropoulos, Memorie, ed. a cura di V. Laurent, Les «Mémoires» du Grand Ecclésiarque de l’Église de Constantinople Sylvestre Syropoulos sur le concile de Florence (1438-1439), Pontificium Institutum Orientalium Studiorum, Paris 1971, lib. IV, 46, p. 250. 5 La traduzione del testo, come già ricordato, si trova in A. Giambelluca Kossova, Da Mosca a Firenze nel Quattrocento, Sellerio, Palermo 1996. 6 Sul pellegrinaggio nel Levante nei secc. XIV e XV cfr. J. Guérin Dalle Mese, Égypte, la mémoire et le rêve. Itinéraires d’un voyage, 1320-1601, Olschki, Firenze 1991; N. Chareyron, Les pèlerins de Jérusalem au Moyen Âge, Imago, Paris 2000; F. Cardini, In Terrasanta. Pellegrini italiani tra Medioevo e prima età moderna, Il Mulino, Bologna 2002. Una bibliografia completa dei viaggiatori europei è disponibile in Europäische Reiseberichte des späten Mittelalters. Eine analytische Bibliographie, a cura di W. Paravicini e Ch. Halm, P. Lang, Frankfurt 1995-. 7 Niccolò da Poggibonsi, Libro d’Oltramare, a cura di A. Lanza, in Pellegrini scrittori. Viaggiatori toscani del Trecento in Terrasanta, a cura di A. Lanza e M. Troncarelli, Ponte alle Grazie, Firenze 1990, cap. CLXXIV, p. 115. 8 Giorgio Gucci, Viaggio ai Luoghi santi, a cura di M. Troncarelli, in Pellegrini scrittori cit., cap. IX, p. 270. 9 Sulla moschea vedi, in generale, D. Kuban, Muslim Religious Architecture: The Mosque and Its Early Development, Brill, Leiden 1974; O. Grabar, Arte islamica. La formazione di una civiltà, Electa, Milano 1989, pp. 119-166; J. Dickie (Yaqub Zaki), Allah and Eternity: Mosques, Madrasas and Tombs, in Architecture of the Islamic World. Its History and Social Meaning, Thames and Hudson, London 19912, pp. 15-47; The Mosque. History, Architectural Development, and Regional Diversity, a cura di M. Frishman e H.-U. Khan, Thames and Hudson, New York-London 1994, 2002. 10 Guillelmi Duranti Rationale divinorum officiorum, A. Davril e T.M. Thibodeau, Brepols, Turnhout 1995, lib. I, cap. III, 32, vol. I, p. 42; cfr. P.R. Gamzarova, Vostocˇnij kover v sozdanii sakral’nyh prostranstv, in Ierotopija. Issledovanije sakral’nyh prostranstv. Materialy me◊dunarodnovo sympoziuma, a cura di A.M. Lidov, Radunitsa, Moskva 2004, pp. 177-181. 11 Ogier VIII d’Anglure, Le saint voyage de Jherusalem (1395), a cura di F. Bonnardot e A. Longnon, Société des anciens textes français, Paris 1878, cap. 234, pp. 59-60. 12 Giordano da Pisa, Esempi, in Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, a cura di G. Varanini e G. Baldassarri, Salerno Editrice, Roma 1993, n° 259, vol. II, pp. 452-454. 2

Note

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Lionardo Frescobaldi, Viaggio in Terrasanta, in Pellegrini scrittori cit., p. 185. Sull’interpretazione degli usi religiosi musulmani da parte di questi viaggiatori cfr. anche Cardini, In Terrasanta cit., pp. 429-439. 14 Franco Sacchetti, Il libro delle Rime, a cura di F. Brambilla Ageno, Olschki/University of W. Australia Press, Firenze-Melbourne 1990, rima CCCIX, vv. 25-31, p. 504. 15 Cfr. Es XXVI, vv. 31-37; I Re V-VIII. 16 Guillelmi Duranti Rationale divinorum officiorum, cit., lib. I, cap. I, 5, vol. I, p. 14. 17 Es XXV-XXX. 18 C.H. Krinsky, Representations of the Temple of Jerusalem Before 1500, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», XXXIII, 1970, pp. 119, in part. 11. 19 Vedi in generale C. Enlart, Gothic Art and the Renaissance in Cyprus, Trigraph, London 1987, pp. 235-238. 20 R. Wischnitzer, Mutual Influence Between Eastern and Western Europe in Synagogue Architecture from the 12th to the 18th Century, in The Synagogue: Studies in Origins, Archaeology and Architecture, a cura di H.M. Orlinsky, Ktav Publishing House, New York 1975, pp. 265-308, in part. 272275. Cfr., più in generale, Eadem, The Architecture of the European Synagogue, Jewish Publication Society of America, Philadelphia 1984, e C.H. Krinsky, Synagogues of Europe. Architecture, History, Meaning, MIT Press, Cambridge, Mass., 1986. 21 Niccolò da Poggibonsi, Libro d’Oltramare, in Pellegrini scrittori cit., cap. CCLI, p. 147. 22 Su questo aspetto cfr. M. Bacci, Cult-Images and Religious Ethnology in Medieval Asia: The European Exploration of Medieval Asia and the Discovery of New Iconic Religions, in «Viator», XXXVI, 2005, di prossima pubblicazione. 23 Cfr. in particolare U. Knefelkamp, Die Suche nach dem Reich des Priesterkönigs Johannes. Dargestellt anhand von Reiseberichten und anderen ethnographischen Quellen des 12. bis 17. Jahrhunderts, A. Kemp, Gelsenkirchen 1986, e W. Baum, Die Verwandlungen des Mythos vom Reich des Priesterkönigs Johannes. Rom, Byzanz und die Christen des Ostens im Mittelalter, Verlag Kitab, Klagenfurt 1999. 24 La migliore introduzione alla storia di queste comunità è contenuta nell’opera di I. Gillman e H.-J. Klimkeit, Christians in Asia Before 1500, University of Michigan Press, Ann Arbor 1999. 25 Guillelmi de Rubruquis Itinerarium, in Sinica Franciscana, I: Itinera et relationes fratrum minorum saeculi XIII et XIV, a cura di P. van den Wyngaert, apud Collegium S. Bonaventurae, Quaracchi 1929, capp. XXIVXXV, pp. 227-232. Il testo è anche disponibile nella traduzione italiana a cura di A. t’Serstevens, I precursori di Marco Polo, Garzanti, Milano 19822, pp. 268-272. 26 Interessanti osservazioni su questo punto sono fornite da M. Camille, 13

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Note

The Gothic Idol. Ideology and Image-Making in Medieval Art, Cambridge University Press, Cambridge, Mass., 1989. 27 Giovanni Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, Guanda, Parma 1990-1991, lib. II, cap. 5, vol. I, pp. 67-68. 28 L. Gatti, Il mito di Marte a Firenze e la «pietra scema». Memorie, riti e ascendenze, in «Rinascimento», ser. III, XXXV, 1995, pp. 201-230. 29 Giordano da Pisa, Esempi, in Racconti esemplari cit., n° 77, vol. II, p. 203. 30 Giovanni Boccaccio, Filocolo, in Giovanni Boccaccio. Opere minori in volgare, a cura di M. Marti, Rizzoli, Milano 1969, vol. I, lib. II, cap. 75, pp. 279-281. 31 Ivi, lib. IV, cap. I, vol. I, pp. 429-432. 32 If, canto XXVIII, vv. 22-63. Sul tema è ancor oggi pienamente valido il suggestivo saggio di A. D’Ancona, La leggenda di Maometto in Occidente [1889], a cura di A. Borruso, Salerno Editrice, Roma 1994. 33 L’espressione è di un autore della prima metà del Duecento, Alberico delle Tre Fontane (Chronicon, ed. MGH Scriptores, XXIII, pp. 935-936). 34 Cfr. le osservazioni di B. Hamilton, Our Lady of Saidnaiya: An Orthodox Shrine Revered by Muslims and Knights Templar at the Time of the Crusades, in The Holy Land, Holy Lands, and Christian History. Papers Read at the 1998 Summer Meeting and the 1999 Winter Meeting of the Ecclesiastical History Society, a cura di R.N. Swanson, Ecclesiastical History Society, Woodbridge 2000, pp. 207-215. 35 Giacomo da Verona, Liber peregrinationis [1335], ed. a cura di U. Monneret de Villard, Liber Peregrinationis di Jacopo da Verona, Libreria dello Stato, Roma 1950 (ried. in anastatica con un’introduzione di V. Castagna, Accademia di agricoltura, scienze e lettere, Verona 1990), pp. 77-73. 36 Le uova di struzzo sono ricordate nella cappella dedicata alla Vergine sul lato occidentale da Rudolph von Frameynsperg, Itinerarium in Palaestinam (1346), in H. Canisius e J. Basnage, Thesaurus monumentorum ecclesiasticorum et historicorum, sive Henrici Canisii Lectiones antiquae, ad saeculorum ordinem digestae variisque opusculis auctae, apud R. & G. Wetstenios, Amstelaedami 1725, vol. IV, pp. 358-359. 37 Wilhelm von Boldensele, Hodœporicon ad Terram Sanctam [1336], in Canisius-Basnage, Thesaurus monumentorum cit., vol. IV, pp. 335-357, in part. 344. 38 Ludolph von Südheim, De itinere Terrae Sanctae, ed. a cura di F. Deycks, Ludolphi, rectoris ecclesiae parochialis in Suchem, de itinere Terrae Sanctae liber. Nach alten Handschriften berichtigt herausgegeben, Litterarischer Verein, Stuttgart 1851, p. 61. 39 Cfr. il resoconto del viaggio in Egitto compiuto nel 1395 da tre pellegrini di Metz, pubblicato in francese moderno da M. de Huart, Relation d’un voyage de Metz à Jérusalem entrepris en 1395 par quatre chevaliers messins, in «L’Austrasie», III, luglio 1838, pp. 149-168 e 221-236. 40 Niccolò da Poggibonsi, Libro d’Oltramare, in Pellegrini scrittori cit., cap. CCLVI, p. 149.

Note

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Così è probabile che vada interpretata la testimonianza contenuta nel Reisebuch di Hans Tucher, in Egitto nel 1479, per cui cfr. l’edizione anastatica a cura di H. Pascher, Das Reisebuch des Hans Tucher, apud autorem, Klagenfurt 1978, pp. 86-87. 42 Niccolò da Poggibonsi, Libro d’Oltramare, in Pellegrini scrittori cit., cap. CCLVII, p. 150. 43 Ricoldo da Montecroce, Itinerario, in Itinera Hierosolymitana Crucesignatorum, a cura di S. De Sandoli, Studium Biblicum Franciscanum, Gerusalemme 1979-1984, vol. IV, p. 296. 44 Ivi, pp. 304-306. 45 Guillelmi de Rubruquis Itinerarium, in Sinica Franciscana cit., cap. XXX, 19, pp. 258-259. 46 Hans Schildtberger, Reisebuch, ed. a cura di V. Langmantel, Hans Schildtbergers Reisebuch nach der nürnberger Handschrift herausgegeben, Litterarischer Verein, Tübingen 1885, cap. 65, pp. 107-108. 47 Ho leggermente modificato la traduzione del passo del Povest’ vremennyh let del monaco Nestor’ del monastero delle Grotte di Kiev (sec. XII), curata da I.P. Sbriziolo, Racconto dei tempi passati. Cronaca russa del secolo XII, Einaudi, Torino 1971, p. 63. 48 Il testo è pubblicato da J. Darrouzès, La mémoire de Constantin Stilbès contre les Latins, in «Revue des études byzantins», XXI, 1963, pp. 50-100, in part. 81-83. 49 Robert de Clari, La conquête de Constantinople, in Historiens et croniqueurs du Moyen Âge, a cura di A. Pauphilet-E. Pognon, Gallimard, Paris 1952, cap. LXXV, pp. 74-75. 50 Wilhelm von Boldensele, Hodœporicon ad Terram Sanctam [1336], in Canisius-Basnage, Thesaurus monumentorum cit., p. 335. 51 Per una recente illustrazione dell’edificio cfr. C. Mango, A. Ertug ˘, Hagia Sophia. A Vision of Empires, Ertug˘ & Kocabiyyk, Istanbul 1997; sulle reliquie, cfr. G. Majeska, St. Sophia in the Fourteenth and Fifteenth Centuries: The Russian Travelers on the Relics, in «Dumbarton Oaks Papers», XXVII, 1973, pp. 69-87. 52 Ampia documentazione nel catalogo della mostra Le trésor de la Sainte Chapelle (Parigi, Louvre, 31 maggio-27 agosto 2001), a cura di J. Durand e M.-P. Laffitte con la collaborazione di D. Giovannoni, Réunion des Musées nationaux, Paris 2001. 53 La citazione è tratta da una descrizione anonima di Costantinopoli che è contenuta in un manoscritto latino di fine sec. XII o inizi sec. XIII conservato a Tarragona (Spagna); cfr. K.N. Ciggaar, Une description de Constantinople dans le «Tarragonensis 55», in «Revue des études byzantines», LIII, 1995, pp. 117-140, in part. 121. 54 Ivi, pp. 121-122. 55 Sul tema cfr. V. Grumel, Le «miracle habituel» de Notre-Dame de Blachernes, in «Échos d’Orient», XXX, 1931, pp. 129-140; vedi anche B.V. Pentcheva, Rhetorical Images of the Virgin: The Icon of the «Usual Miracle» at Blachernai, in «Res», XXXVIII, 2000, pp. 34-56. 41

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Note

I passi rilevanti sono pubblicati e commentati da S. Cirac, Tres monasterios de Constantinopla visitados por Españoles en el año 1403, in «Revue des études byzantines», XIX, 1961, pp. 358-381; del testo è adesso disponibile anche una traduzione italiana a cura di P. Boccardi Storoni, Ruy González de Clavijo. Viaggio a Samarcanda 1403-1406, Viella, Roma 1999. 57 Sull’iconostasi cfr. soprattutto i saggi raccolti in Ikonostas. Proisho◊denije – razvitije – simvolika, a cura di A.M. Lidov, Progress-Traditsija, Moskva 2000. 58 Sulla decorazione degli edifici sacri bizantini cfr. O. Demus, Byzantine Mosaic Decoration. Aspects of Monumental Art in Byzantium, Trubner & Co., London 1947; H. Belting, Bild und Kult. Eine Geschichte des Bildes vor dem Zeitalter der Kunst, Beck, München 1990, pp. 253-291; E. Maguire, The Cycle of Images in the Church, in Heaven on Earth. Art and the Church in Byzantium, a cura di L. Safran, Pennsylvania University Press, University Park 2000, pp. 121-151; N. Giolés, O buzantinóv troúllov kai to eikonografikó tou prógramma (mésa 6ou ai.-1204), Kardamitsa, Athina 1990; A.G. Mantas, To eikonografikó prógramma tou ieroú bämatov twn mesobuzantinån naån thv Elládov (843-1204), Ethniko ke Kapodistriako Panepistimio, Athina 2001. 59 Cfr. Innocenzo III, Regestorum libri IX, 243, edito in PL, CCXV, col. 1078; sull’attitudine dei soldati normanni cfr. la testimonianza del vescovo Eustazio di Tessalonica, testo edito a cura di S. Kyriakides, La espugnazione di Tessalonica, Istituto siciliano di studi bizantini e neoellenici, Palermo 1961, pp. 108-109, 114. 60 Cfr. M. Bacci, La Vergine Oikokyra, Signora del Grande Palazzo. Lettura di un passo di Leone Tusco sulle cattive usanze dei Greci, in «Annali della scuola normale superiore di Pisa», ser. IV, III, 1998, pp. 261-279. 61 Niccolò da Poggibonsi, Libro d’Oltramare, in Pellegrini scrittori cit., cap. CCLII, pp. 147-148. 62 Oddone di Deuil, De Ludovici VII Francorum regis cognomento Iunioris profectione in Orientem, in PL CLXXXV, cap. IV, col. 1223. 63 G. Cracco, Religione, chiesa, pietà, in Storia di Vicenza, Neri Pozza, Vicenza 1988, vol. II, pp. 359-425, in part. 396 e 406. 64 Sulle cerimonie dei catari cfr. La cena segreta. Trattati e rituali catari, a cura di F. Zambon, Adelphi, Milano 1997. 65 J. Duvernoy, Le Catharisme. I: La religion des cathares, Privat, Toulouse 1989, pp. 229-231. Testimonianza di Luca di Tuy (c. 1230). 66 Per la testimonianza sui Bogomili (per l’esattezza sui Fundagiagiti, un gruppo eretico diffuso in Asia Minore), cfr. Eutimio della Peribleptos, Contra Phundagiagitas, a cura di G. Ficker, Die Phundagiagiten. Ein Beitrag zur Ketzergeschichte des byzantinischen Mittelalters, J.A. Barth, Leipzig 1908, lib. II, 5-9, pp. 28-30. Per i valdesi cfr. M. Benedetti, «Qualche poco di farina papale»: i Valdesi in chiesa, in «Quaderni di storia religiosa», V, 1999, pp. 117-153, in part. 124-125. 67 Per una sintesi su questo problema cfr. C. Rudolph, La resistenza al56

Note

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l’arte nell’Occidente, in Arti e storia nel Medioevo. III. Del vedere: pubblici, forme e funzioni, Einaudi, Torino 2004, pp. 49-84. 68 Innocentii III Regesta, lib. VI, instr. CXLI, in PL CCXV, coll. 153-155. In generale sulla Chiesa bosniaca cfr. S. D◊aja, Die «bosnische Kirche» und das Islamisierungsproblem Bosniens und Herzegowina in den Forschungen nach dem zweiten Weltkrieg, R. Trofenik, München 1978, e J.V.A. Fine, The Bosnian Church: A New Interpretation. A Study of the Bosnian Church and Its Place in State and Society from the Thirteenth to the Fifteenth Centuries, East European Quarterly, Boulder-New York 1975. 69 Domenico Cavalca, Pungilingua, in Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, a cura di G. Varanini e G. Baldassarri, Salerno Editrice, Roma 1993, excerptum n° LIII, vol. III, pp. 134-139. 70 Cfr. Mariano d’Alatri, Gli idolatri recanatesi secondo un rotolo vaticano del 1320, in «Collectanea franciscana», XXXIII, 1963, pp. 82-105; ried. in Id., Eretici e inquisitori in Italia. Studi e documenti, Istituto storico dei Cappuccini, Roma 1987, II, pp. 9-40 (per il testo vedi pp. 14-15, nota 30). 71 Ibidem, p. 16 e nota 35.

Epilogo 1 Guillelmi de Rubruquis Itinerarium, in Sinica Franciscana, I: Itinera et relationes fratrum minorum saeculi XIII et XIV, a cura di P. van den Wyngaert, apud Collegium S. Bonaventurae, cap. XV, pp. 202-203. 2 Ivi, cap. XXVIII, pp. 245-246. 3 Il passo rilevante di Guglielmo da Rubruk sulla cerimonia è in Sinica Franciscana, cit., cap. XL, pp. 281-282; per Giovanni da Montecorvino cfr. ivi, p. 352. Sull’attività di Guillaume Boucher durante la permanenza in Mongolia di fra’ Guglielmo cfr. L. Olschki, Guillaume Boucher. A French Artist at the Court of the Khans, Greenwood Press, New York 19692, pp. 3744. Su Olon Süme, cfr. N. Egami, Olon-Sume et la découverte de l’église catholique romaine de Jean de Montecorvino, in «Journal asiatique», 240, 1952, pp. 155-167.

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REFERENZE ICONOGRAFICHE

Figure Con la gentile collaborazione dell’Eremo di Greccio: 15. Roma, Istituto per l’Africa e l’Oriente. Foto Eugenio Ghersi: 18. Documentazione redazionale: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 16, 17, 19, 20.

Tavole Parigi, Bibliothèque Nationale de France: 1 Firenze, Archivio Scala: 3, 12, 13, 20. Utrecht, Museum Catharijneconvent: 4. Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten: 5. Durham, The Bowes Museum: 8. Los Angeles, © The J. Paul Getty Museum: 14. Parigi, Musée du Louvre: 15. Pienza, Fabbriceria della Chiesa Cattedrale: 18. Acquistato con il sostegno del Governo di Victoria, 1976. Melbourne, Australia, National Gallery of Victoria: 22. Documentazione redazionale: 2, 6, 7, 9, 10, 11, 16, 17, 19, 21, 23, 24.

INDICI

INDICE DEI NOMI Adriano, imperatore, 12. Agata, santa, 42, 129. Agostino, santo, 17, 95, 127. Aioletto di Cruciano, cittadino recanatese, 193-194. Alberico delle Tre Fontane, 230. Alberigo, G., 214. Alessandro I, papa, 59. Alighieri, Dante, 141, 176. Ambrosioni, A., 213, 223-224. Ames-Lewis, F., 217. Angenendt, A., 213. Ansano, santo, 139. Areford, D.S., 214. Arlotto, 41, 59-60, 108. Arrigo VII, imperatore, 64. Artusi, L., 209. Atchley, E.G., 224. Bacci, Michele, 210, 216-221, 225, 228-229, 232. Bagnoli, A., 211, 220, 223. Baldassarri, G., 207, 210-211, 213214, 221, 228, 233. Baracchini, C., 225. Barasch, M., 213. Barbatre, Pierre, 55, 212. Bargellini, P., 208. Baroni, L., 220. Barsotti, R., 225. Bartalini, R., 220, 223. Bartlová, M., 228. Bartolo di Ventura, 90. Bartolomeo, santo, 167. Bartolomeo da Cremona, 200.

Bartolomeo degli Albizi, 28, 219. Bartolomeo di Breganze, vescovo di Vicenza, 189. Basnage, J., 230-231. Basso, A., 222. Bataillon, L.-J., 226. Baum, W., 229. Belardi, M., 225. Beleth, Giovanni, 50, 184, 211, 216. Bellosi, L., 220, 223. Belting, H., 220, 232. Benedetti, M., 232. Benvenuti Papi, A., 208. Bériou, N., 222, 227. Bernardo di Chiaravalle, santo, 13, 19, 74, 214. Berns, J.J., 212. Bertrandon de la Broquière, viaggiatore fiammingo, 179. Bertuccio di Gualterotto da Recanati, 194. Bertuccio di Smiduccio, 194. Bezaleel, 164. Biagio, santo, 139. Bindo, preposto di Cigoli, 29. Binski, P., 215, 225. Bisogni, F., 218. Bloxam, M.J., 222. Blume, D., 220. Boccaccio, Giovanni, XIV, XVI, 38, 50, 63, 66, 76, 78, 174, 206, 210211, 214, 230. Boccardi Storoni, P., 232. Bock, N., 217, 227. Bœspflug, F., 212.

272 Boldensele, Wilhelm von, 182, 230231. Bolzoni, L., 226. Bonaini, F., 209. Bondi Bolbi, Zaccaria del fu Zanni, 75. Bongi, S., 220. Bonnardot, F., 228. Bonsanti, G., 219. Bonvesin de la Riva, 134, 213, 224. Borg, A., 223. Borruso, A., 230. Borsook, E., 208, 220. Boskovits, M., 208, 220. Boucher, Guillaume, orafo parigino, 200, 203, 233. Bourdua, L., 211, 220. Boyle, L.E., 216. Bracons i Clapés, J., 219. Brambilla Ageno, F., 212, 229. Branca, V., 210. Branca de’ Branci, 101. Braun, J., 222-223, 225. Brenk, B., 206. Brereton, J.P., 206. Browe, P., 214, 223. Brufani, S., 209. Bruno, pittore fiorentino, 78, 211. Brunori, M., 225. Bruzelius, C., 227. Budde, M., 227. Buddha, 168. Buffalmacco, Buonamico, pittore, 78, 211. Burresi, M., 225. Caby, C., 207. Calandrino, pittore fiorentino, 77, 211. Calderoni Masetti, A.R., 223. Calvaresi, C., 208. Camille, M., 229. Cangrande I della Scala, 52, 211. Canisius, H., 230-231. Cannon, J., 208, 217-218.

Indice dei nomi

Cardini, F., 228-229. Carlo d’Angiò, 152, 227. Carozzi, C., 207. Cassidy, B., 221. Castagna, V., 230. Castelnuovo, E., 205-207, 220, 225. Caterina d’Alessandria, santa, 128. Cattaneo, E., 215, 224. Cavalca, Domenico, 48, 193, 211, 233. Caviness, M.H., 220. Cesario di Heisterbach, 59. Chareyron, N., 228. Chiabo, M., 226. Chiappelli, A., 225-226. Christe, Y., 211. Christiansen, K., 217. Ciggaar, K.N., 231. Cimarra, L., 213. Cirac, S., 232. Clemente, P., 211. Coiac, prete nestoriano, 200-201. Concioni, G., 211-212. Condello, E., 213. Conti, Giovanni, arcivescovo di Nicosia, 138. Cooper, D., 216-217, 221. Cornagliotti, A., 226. Corradino di Svevia, 152. Costantino Stilbìs, 157, 182, 213. Coturri, E., 222. Cracco, G., 232. Cristoforo, santo, 55, 168. Cuthbert, F., 224. D’Ancona, A., 226, 230. Darrouzès, J., 213, 231. David, profeta, 166. Davies, P., 224. Davril, A., 207, 212, 215, 221-222, 228. De Angelis, M., 222. de Bartholomaeis, V., 226. De Blauuw, S., 210-211, 216-217, 222, 227.

Indice dei nomi

de Huart, M., 230. De Luca, G., 210. De Marchi, A., 220. De Sandoli, S., 231. Degli Innocenti, M., 213, 223-224. Delacroix-Besnier, C., 208. Demus, O., 232. Dendy, D.R., 224. Deycks, F., 221, 230. Dickie, J. (Yaqub Zaki), 228. Dionigi, santo, 188. Doberer, E., 215. Doglio, F., 226. Domenico, santo, 45, 82, 94, 112. Dominici, Luca, 212, 226. Donato, M.M., 211. Douteil, H., 216. DuBruck, E.E., 216, 227. Duccio di Boninsegna, pittore, 124, 149. Dumoutet, E., 223. Dunand, F., 225. Durand, J., 231. Durando, Guglielmo, XVI, 7, 15, 58, 61, 65, 113, 119, 121, 123, 127, 134, 136, 164, 207, 212-215, 221224, 228-229. Duvernoy, J., 232. Dzˇaja, S., 233. Egami, N., 233. Eleonora di Sicilia, regina d’Aragona, 105. Eliade, Mircea, 206. Emminghaus, J.H., 225. Enlart, C., 229. Erode, 148. Ertug˘, A., 231. Eudes de Châteauroux, 214. Eustazio di Tessalonica, 232. Eutimio della Peribleptos, 232. Eva, 58. Exner, M., 212. Fabri, Felix, 153, 227. Fardo, cittadino viterbese, 53.

273 Ferrali, S., 225. Ferrari, M., 213, 224. Ferrari, M.C., 207. Ferretti, M., 218. Fiamma, Galvano, 148, 211, 213, 215, 221, 227. Ficker, G., 232. Filieri, M.T., 225. Filippo degli Agazzari, 38, 115, 210-211, 213-214, 221. Filippuccio di Rinaldo, detto Papeola, cittadino recanatese, 193194. Fine, J.V.A., 233. Folena, G., 211, 216. Fonseca, C.D., 215, 224. Foraboschi, Pietro, cittadino fiorentino, 105. Frameynsperg, Rudolph von, 230. Francesco di Assisi, santo, 22, 25, 27, 52, 84, 92, 107, 130, 138, 148, 209. Francesconi, G., 222. Franz, A., 213. Freigang, Ch., 217. Frescobaldi, Lionardo, 162, 229. Frishman, M., 228. Frommel, Ch.L., 217, 227. Frugoni, C., 216, 219-221. Fumi, L., 217. Gabriele, arcangelo, 23. Gagliardi, I., 209. Gai, L., 223. Gallico, C., 222. Gamzarova, P.R., 228. Gandolfo, F., 206. Gardner, J., 217, 222. Garfagnini, G., 226. Garms, J., 218. Gatti, L., 230. Gengis Khan, 167, 199-203. Gentile, G., 220. Geraldo di Frachet, 6, 207. Gerardo da Valenza, beato, 28, 107.

274 Gesù Cristo, 5, 7, 10, 20, 22-26, 33, 36, 39, 46, 51, 53, 56, 58, 65, 68, 70-71, 75, 84, 91, 110-111, 114115, 121, 123, 127, 129-130, 132134, 136, 141, 146, 150, 157, 164, 169, 175, 183, 185-186, 190, 201, 203. Gherardesca da Pisa, beata, XVI, 9, 31-34, 118, 131, 136, 149, 173. Giacobbe, 4. Giacomo (Iacopo), apostolo, 141142. Giacomo da Verona, 177, 230. Giambelluca Kossova, A., 208, 212, 228. Giani, E., 209. Gianni, A., 209. Gibbs, R., 219. Gigli, O., 209, 221, 226. Gigliotti, G.C., 212, 226. Gilardi, C.G., 216. Gillerman, D., 222. Gillman, I., 229. Gimma, M.G., 212, 217. Gioacchino da Siena, beato, 106. Giolés, N., 232. Giordano da Pisa, 11-12, 66, 161, 207, 214, 228, 230. Giorgi, S., 221. Giorgio, santo, 112. Giotto di Bondone, pittore, 50, 7677, 108. Giovanni Battista, santo, 185, 202. Giovanni da Montecorvino, missionario francescano, 203, 233. Giovanni di Arras, 101. Giovanni di Balduccio, 95. Giovanni di Francesco, 89. Giovanni Evangelista, santo, 10, 3233, 141. Giovannoni, D., 231. Girolamo da Siena, 30, 34, 65, 210. Giustiniano, imperatore, 12, 181. Goffredo di Buglione, 24. Golinelli, P., 218.

Indice dei nomi

González de Clavijo, Ruy, 184-185. Grabar, O., 228. Gregori, M., 208. Gregorio I Magno, papa e santo, 193. Gregorio Melisseno, 157. Grewolls, A., 217. Grimaldi, F., 221. Grumel, V., 231. Gucci, Giorgio, 159-160, 162, 228. Guérin Dalle Mese, J., 228. Guerrieri, R., 217. Guglielmo da Rubruk, 168-171, 180, 199-203, 229, 231, 233. Guinigi, Francesco del fu Lazzaro, cittadino lucchese, 88. Gundafaro, re indiano, 8. Gusick, B.I., 216, 227. Gy, P.-M., 216. Hager, H., 220. Hall, M.B., 215. Halm, Ch., 228. Hamilton, B., 230. Hardison, O.B., 227. Herklotz, I., 212. Höger, A., 217. Hueck, I., 215-216. Iacobuccio di Finaguerra, 89. Iacomelli, F., 222. Ilario da Viterbo, 112. Imesch, K., 216. Imesch Öhry, K., 215. Innocenzo III (Lotario dei conti di Segni), papa, 61, 186, 213, 233. Ioannou, P.-P., 214. Isidoro, metropolita di Mosca, 20, 55, 158. Jacobus, L., 227. Jacopo della Quercia, scultore, 149. Johnson, G.A., 216. Jung, J.E., 215. Jungmann, J.A., 223-224.

Indice dei nomi

Kalokyris, K.D., 215. Kanter, L.B., 217. Kaplan, M., 206. Kessler, H.L., 217, 219, 227. Khan, H.-U., 228. Klimkeit, H.-J., 229. Knefelkamp, U., 229. Konigson, E., 226. Körner, H., 212. Krinsky, C.H., 229. Kroos, R., 214, 224. Krüger, J., 208, 225. Kuban, D., 228. Kühnel, B., 207. Kurmann, P., 217. Kyriakides, S., 232. Laclotte, M., 220, 223. Laffitte, M.-P., 231. Land, N.E., 215. Langmantel, V., 231. Lanza, A., 208-210, 218, 228. Larson, W.R., 223. Lazzati, G., 215, 224. Leche, G., 221. Leclerq, J., 214. Leclerq-Marx, J., 211. Legner, A., 217. Leonardi, C., 213-214, 224. Leoncini, A., 208. Leone Tosco, traduttore pisano, 186. Leonhardt, conte di Gorizia, 106. Lera, G., 211. Liberio, papa, 5. Lidov, Alexei M., XI, 206, 228, 232. Lino, papa e santo, 58. Lippo Vanni, pittore, 149. Llompart, G., 218. Longnon, A., 228. Lorenzetti, Ambrogio, 164, 174. Lorenzetti, Pietro, 18. Lorenzo, santo, 52, 183. Lorenzo il Magnifico, 106. Lossky, N., 212.

275 Luca, santo, 137, 183. Luca di Tuy, 232. Ludovico da Tolosa, santo, 106. Luigi IX, re di Francia, santo, 190, 201. Luigi VII, re di Francia, 188. Luisi, F., 221. Lusignano, dinastia, 165. Lütolf, M., 222. Maguire, E., 232. Maiocchi, R., 210, 216, 223. Maitani, Lorenzo, 50. Majeska, G., 231. Mango, C., 231. Manja¯ k al-Yusu¯ fı¯, 160. Mann, N., 219. Mantas, A.G., 232. Maometto, 176. Margherita, santa, 128. Maria Maddalena, santa, 24, 33, 36. Maria Vergine, 5-6, 10, 28-30, 3233, 48, 51-54, 56, 58-59, 73, 99, 104, 111, 114-115, 128, 137-138, 140-141, 146, 148, 176, 184-186, 194-195, 202-203. Mariano d’Alatri, 233. Marignolli, Giovanni de’, arcivescovo di Praga, 156, 227. Marti, M., 206, 210, 230. Martindale, A., 223. Martini, Simone, pittore, 108, 133. Martino di Tours, santo, 15, 133, 141. Marzik, I., 220. Maso del Saggio, 78. Matthews Grieco, S.F., 216. Medica, M., 218. Meersseman, G.G., 212, 224. Menestò, E., 209. Merlo, G.G., 214. Miano, C., 212. Michele Arcangelo, santo, 44, 111, 139, 168. Miglio, L., 213.

276 Migne, J.-P., 213, 215. Monneret de Villard, U., 230. Moraldi, L., 207. Morelli, P., 210. Moretti, I., 208. Moretti, P., 221. Morris, C., 209. Mosè, 4-5, 130, 164-166. Moskowitz, A.F., 218. Müller, I., 216. Muzzarelli, M.G., 210. Nannipieri, S., 225. Nattiez, J.-J., 221, 227. Neri Lusanna, E., 223. Nestor’, monaco, 231. Niccoli, B., 225. Niccolò da Poggibonsi, 159, 165, 178, 187-188, 228, 232. Niccolò di Sicilia, 146. Nicola da Tolentino, santo, 100, 104, 139. Nicola Pisano, 95, 139. Nilsen, A., 215. Oberhammer, V., 219. Occhioni, N., 219. Oddone di Deuil, 232. Odetto, G., 211, 215. Offner, R., 208. Ogier VIII d’Anglure, 161, 228. Olschki, L., 233. Onorio di Autun, 215. Ooliab, 164. Opicino de Canistris, 39, 49, 84, 93, 129, 144, 210-211, 216-217, 223, 226. Orcagna, Andrea di Cione detto, 37. Orioli, R., 210. Orlandi, Deodato, pittore lucchese, 27. Orlandi, S., 214. Orlinsky, H.M., 229. Orme, N., 216.

Indice dei nomi

Osheim, D., 212. Otto, Rudolf, 206. Paolini, L., 210. Paolo, santo, 7, 25. Paolo da Certaldo, 210. Paolo di Lazzarino, pittore, 88. Paravicini, W., 228. Pascher, H., 231. Passavanti, Iacopo, 213. Pastoureau, M., 223. Pauphilet, A., 231. Pazzi, Pazzino de’, 24. Pellegrini, M., 212, 214, 223. Pentcheva, B.V., 231. Petruccio, 73. Pettinati, Niccolò di Nicolao, cittadino lucchese, 88. Phalip, B., 218. Picasso, G., 213, 224. Piccini, G., 212. Pickering, F.P., 227. Pieri, Ughetto del fu Donato, cittadino lucchese, 57. Piero d’Angelo, scultore, 149. Pietro, mercante napoletano, 179. Pietro da Marano, detto il Nan, 52. Pietro degli Strozzi, 45. Pietro di Rodez, 227. Pietro IV il Cerimonioso, re d’Aragona, 105. Pietro Lombardo, teologo, 200. Pietro Martire, santo, 25-26, 40, 95. Pinzuti, N., 212. Piquereddu, P., 226. Pitra, J.-B., 214. Planchart, A., 222. Pognon, E., 231. Porta, G., 209, 211, 217, 230. Pozzessere, P., 208. Prache, Anne, VIII, 205. Prepositino da Parigi, teologo, 136. Pressouyre, L., 207. Prete Gianni, 167. Prinz, W., 220.

Indice dei nomi

Prodi, P., 214. Prosdocimi, L., 215. Puccio di Rinieri, terziario francescano, 36. Pungilupo, Armanno, 95-97. Quintavalle, A.C., 207. Quintavalle, F., 210, 216, 223. Quirino, R., 208. Radford, U., 218. Ragionieri, G., 223. Randolph, A., 216. Rankin, S., 226. Reboldi, Antonio de’, 23, 209. Recht, R., 225. Regoliosi, M., 213, 224. Reichert, B.M., 216. Reinink, W., 218. Reinle, A., 221. Reparata, santa, 93. Riccetti, L., 217. Ricevuto, 74. Ricoldo da Montecroce, frate domenicano, 179-180, 231. Rigaux, D., 212. Robert de Clari, 182, 231. Rocca, G., 222. Rocchi, G., 219. Rochais, H.M., 214. Röhricht, R., 209. Romanini, A.M., 206, 216, 218, 221. Romano, S., 217-218. Rotolo, F., 219. Rubin, M., 223-224. Rudolph, C., 232. Rusconi, R., 226. Sacchetti, Franco, 22, 28, 41, 46, 57-58, 72-73, 76-77, 97, 104-105, 116, 163, 208, 210-212, 214-215, 218-219, 229. Safran, L., 206, 232. Saladino, 159. Salomone, 5, 11-12, 164, 181.

277 Salvatori, M., 221. Santucci, F., 210. Sartakh, bisnipote di Gengis Khan, 200-201. Sartori, Lando di Arrigo, cittadino lucchese, 139. Sassetta, Stefano di Giovanni di Consolo detto, pittore, 90, 118. Saxer, V., 207. Sbriziolo, I.P., 231. Schenkluhn, W., 207. Schildtberger, Hans, 231. Schmid, K., 225. Schmidt, V.M., 220-221, 223. Schmitt, J.-C., 211, 213. Schneede, U.M., 219. Schneider, H., 213. Scudieri, M., 208. Sebastiano, santo, 144. Seidel, M., 212, 221, 223, 225. Sensi, Mario, 208-210, 221. Sergi, G., 206-207, 220, 225. Sheingorn, P., 227. Sigal, P.A., 218-219. Signorini, M., 213. Silvestro I, papa e santo, 75, 172. Silvestro Syropoulos, 228. Simeone di Tessalonica, 157, 228. Simone di Finaguerra, 89-90. Siro, santo, 143. Smet, J., 212. Solvi, D., 218. Soulier, M., 219. Spedanerio di Matteo, 194. Spieser, J.-M., 217, 225. Strehlke, C.B., 217. Stumpel, J., 218. Suckale, R., 219. Südheim, Ludolph von, 221, 230. Superbi Gioffredi, F., 208, 220. Supino, P., 213. Surgers, A., 226. Swanson, A., 209. Swanson, R.N., 230. Syson, L., 219.

278 t’Serstevens, A., 229. Tammen, B.R., 224. Tedeschi, C., 213. Thibodeau, T.M., 207, 212, 215, 221-222, 228. Thompson, N.M., 223. Thuno¯, E., 224. Tigler, G., 212. Tomaso da Modena, 108. Tommaso, santo, 8, 167. Tommaso Agni da Lentini, 214. Toschi, P., 226. Tosti, M., 208. Tracy, Ch., 220-221. Trexler, R.C., 213, 225. Tripps, J., 226-227. Troncarelli, M., 209, 228. Tucher, Hans, 231. Tucoo-Chala, P., 212. Turner, H.W., 206, 208. Ugo di San Vittore, 215. Untermann, M., 207. Urbano V (Guillaume de Grimoard), papa e beato, 116. Valentini, A., 209. Valenzano, G., 207. van den Wyngaert, P., 229, 233. van der Velden, H., 219. van Os, H., 220. Vanni «Tutie» Tuzzi, 21. Vanni Fucci, 141.

Indice dei nomi

Varanini, G., 207, 210-211, 213214, 221, 228, 233. Vauchez, A., 206, 208, 217-218. Vidmanová-Schmidtová, A., 213214, 224. Vigo, P., 214. Villani, Filippo, 211, 214, 217. Villani, Giovanni, 172, 209, 230. Villani, Matteo, 211, 214, 217. Visconti, Federico, arcivescovo di Pisa, 119, 222, 227. Vituccio di Torello, cittadino lucchese, 29. Vladimiro, re russo, 181. Warland, R., 219. Weigert, L., 225. Williamson, B., 220. Winston-Allen, A., 214. Winter, H., 218. Wirth, J., 225. Wischnitzer, R., 229. Wolf, G., 206, 224. Wollasch, J., 225. Wollesen, J.T., 209. Wood-Legh, K., 216. Young, K., 226. Zambon, F., 232. Zanella, G., 218. Zekiyan, B.L., 208. Zerbi, P., 213, 224. Zita, santa, 139.

INDICE DEI LUOGHI Acri, 176. Alessandria d’Egitto, 159, 178. Alpi, 50. Aquileia, 147. Arezzo: – chiesa di San Domenico, 89. Arno, 27, 32, 172. Asciano, 220; – chiesa di San Francesco, 109. Asia Minore, 232. Assisi, 30, 110, 122; – basilica inferiore di San Francesco, 25, 92, 108, 133; – basilica superiore di San Francesco, 25, 84, 107, 111, 117; – chiesa della Porziuncola, 75, 111112; – oratorio della Madonna dell’Olivo, 30. Asti, 143. Atri: – cattedrale, 50. Baghdad, 140, 180. Betania, 22. Bet-El, 4, 6. Betlemme, 22, 148. Bisanzio, 192. Bolino Polje, 192. Bologna, 16, 36, 74-75, 124; – arca di san Domenico, 25; – chiesa dei Domenicani, 75; – chiesa dei frati Minori, 75; – chiesa dei Predicatori, 95;

– chiesa di Santa Maria della Mascarella, 112; – chiesa di Santo Stefano, 23. Borgo Sansepolcro, 23. Bosnia, 192. Castel Sant’Elia: – basilica, 61. Castiglione, 115. Catalogna: – romitorio di San Simón de Mataró, 102. Cigoli, 29; – chiesa di San Michele Arcangelo, 113. Cilicia, 20, 180. Cipro, 103, 138, 165, 227. Conques: – cattedrale di Sainte-Foy, 101. Costantinopoli, 74, 138, 158, 179, 182-184, 186, 188, 192, 231; – chiesa dei Santi Apostoli, 183; – chiesa della Vergine delle Blacherne, 183; – chiesa di Santa Sofia, XII, 12, 138, 181-183; – monastero del Pantokrator, 184185; – Palazzo imperiale delle Blacherne, 183. Cremona, 23. Crimea, 168, 200. Dalmazia, 199. Damasco, 176. Durham, 90.

280 Egitto, 160, 177, 230; – cenobio di San Paolo di Tebe, 177; – cenobio di Sant’Antonio del Deserto, 177. Etna, 117. Exeter: – cattedrale, 218. Famagosta: – chiesa di San Giorgio dei Greci, 165. Ferrara, 97, 157-158; – cattedrale, 95, 97. Fiesole, 172. Firenze, 18, 21, 46, 76-77, 83, 89, 93, 105, 146, 157-158, 172-173; – chiesa della Santissima Annunziata dei Servi, 59, 77, 105; – chiesa di San Gallo, 76-77; – chiesa di San Giovanni (Battistero), 78, 172; – chiesa di San Marco, 77; – chiesa di Santa Croce, 159, 223; – chiesa di Santa Maria Novella, 44, 54, 76, 81, 159; – convento del Carmine, 54; – Galleria degli Uffizi, 164, 174; – Lungarno, 160; – Mercato Vecchio, 21; – Orsanmichele, 104; – ponte Rubaconte, poi «alle Grazie», 18; – Ponte Vecchio, 172; – quartiere San Lorenzo, 77; – Spedale di Santa Maria Nuova, 20. Francia, 12, 15, 66, 81, 120, 137, 188, 200. Genova, 159. Genzano di Roma, 142. Germania, 81, 158. Gerusalemme, 8-11, 22-24, 148149, 176, 183; – Arca Santa, 5;

Indice dei luoghi

– Calvario, 22, 24; – chiesa di San Pietro in Gallicantu, 24; – chiesa di Santa Maria Maddalena, 24; – colonna della Flagellazione, 24, 183; – pozzo della Samaritana, 183; – Santo Sepolcro, XII, 22-24, 175, 179; – Tempio, 5, 11-12, 164, 174. Grado: – altare di san Clemente, 27; – basilica di San Piero, 26, 209. Greccio, 118. Grecia, IX. Gualdo Tadino: – chiesa di San Francesco, 89. Guamo: – monastero, 57. Gubbio, 101, 143, 225. Il Cairo, 159, 161, 167. Île-de-France, 200. India, 167, 175. Inghilterra, 12, 81, 120, 128. Innsbruck: – Ferdinandeum, 106. Iraq, 167, 175, 179. Israele, 4, 130. Italia, 20, 26, 28, 42, 81, 143, 146, 158, 162, 174, 189. Kajlak, 168. Karakorum, 168, 202. Kazakistan, 167-168. Kiev: – monastero delle Grotte, 231. La Mecca, 161. Liguria, 30. Linguadoca, 190. Lisbona, 6. Lituania, 199.

281

Indice dei luoghi

Livorno: – santuario della Madonna di Montenero, 27. Lombardia, 189. Loreto: – chiesa della Vergine, 114. Lubecca, 55. Lucca, 29, 101, 140, 146; – cattedrale di San Martino, 50, 53, 101; – chiesa dei Santi Simone e Giuda, 88; – chiesa di San Francesco, 54; – chiesa di San Frediano, 139; – chiesa di San Michele in Foro, 44; – Porta San Gervasio, 29. Luz, 4. Macerata, 114. Maiorca, 28. Marche, 28. Massa Marittima, 48, 106. Mende, XVI. Messina, 117. Metz, 230. Milano, 59, 130-131, 148; – arca di san Pietro Martire, 25; – chiesa di San Lorenzo, 148; – chiesa di Sant’Eustorgio, 40, 63, 82, 95, 112, 148; – contrada di San Lorenzo, 148; – Porta Romana, 148. Mongolia, 167, 180, 200, 203, 233. Montagnola senese, 17. Monte della Verna, 27; – santuario, 22. Monte Gargano: – santuario di San Michele Arcangelo, 27. Monte Golgotha, 22. Monte Pennino: – grotta di San Michele, 27. Monte Sinai, 164, 166, 177; – monastero di Santa Caterina, 176-177.

Monte Tabor, 138. Monteluco in Valnerina, 17. Montespecchio, 18. Montughi, 46. Mosca, XI, 158. Mossul: – monastero di Mar Mattai, 179. Murlo, 18. Nazareth, 22, 114. Nepi, 61. Nicosia, 138. Norcia, 21. Olon Süme, 203, 233. Orkhon, 199. Orvieto, 87; – duomo, 50, 108. Padova: – Cappella dell’Arena, 50. Palermo, 28. Palestina, 4, 22, 24, 175. Paphos, 165. Parigi, 16; – Louvre, 118; – Notre-Dame, 118; – Sainte Chapelle, 183. Pavia, 39, 49, 84, 93, 129, 143, 226; – chiesa di San Giovanni in Borgo, 39; – chiesa di San Michele Maggiore, 39, 49; – chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro, 39, 95; – chiesa di San Pietro in Vinculis, 144. Pechino, 204. Pera, 179. Perugia: – chiesa di San Matteo degli Armeni, 20; – chiesa di Sant’Agapito, 73. Piemonte, 81, 191. Pienza: – Museo Diocesano, 128.

282 Pietralunga, 101. Pisa, 18, 56, 107, 119, 124, 135, 140; – chiesa di San Francesco, 28; – chiesa di San Giovanni al Gatano, 32; – chiesa di Santa Caterina, 56, 135; – Chinzica, chiesa di San Martino, 32; – duomo, 137-138; – monastero di San Savino, 9, 119, 136; – oratorio del Santissimo Salvatore, 56; – piazza dei Cavalieri, 32; – Ponte Vecchio, 32-33; – Porta a Mare, 32; – via Fiorentina, 9. – (dintorni), chiesa di San Iacopo del Poggio, 26; Pistoia, 141, 147; – chiesa di San Francesco, 126, 142; – duomo, 144, 151; – San Pier Maggiore, 145; – Sant’Iacopo, 143. Polonia, 199. Praga, 156, 165; – sepolcro di sant’Adalberto, 156. Prussia, 199. Ramallah, 4. Recanati, 193; – cappella di Santa Lucia, 194. Roma, 25, 30, 41, 107, 122, 125, 138, 158, 172, 192; – basilica di San Pietro, XII; – basilica di Santa Maria Maggiore, 5; – Esquilino, colle, 5; – Pantheon, 172. Rotterdam: – Maritiem Museum Prins Hendrik, 102. Russia, 185. Saidnaya, 176.

Indice dei luoghi

San Cresci a Macioli, 41. San Miniato al Tedesco, 29, 72. Santa Maria in Vescovio, 50. Santiago di Compostela, 25-26. Sardegna, 144. Scafati: – abbazia di Realvalle, 227. Siena, 40, 143; – chiesa di San Vincenzo, 47; – duomo, 40, 44, 74, 124, 139. Sinkiang-Uighur, 167. Spagna, 231. Spoleto: – via Antonio Fratti, 21. Susa, 55. Tagikistan, 167. Tagliacozzo: – chiesa di Santa Maria della Vittoria, 152. Tarragona, 231. Tartu¯s (Tortosa): – basilica della Santa Vergine, 176. Terrasanta, 22-24, 163. Tessalonica, 186. Tolentino: – chiesa di San Nicola, 25. Torcello: – chiesa di Santa Maria Assunta, 50. Toscana, 27, 76, 160. Tours: – cattedrale, 15. Treviso: – chiesa di San Nicolò, 108. Turchia, 20. Tuscania: – chiesa di Santa Maria Maggiore, 50. Tuscia laziale, 61. Umbria, 27. Ungheria, 199-200. Uzbekistan, 167.

Indice dei luoghi

Valdarno 113. Val di Pesa, 115. Valldosera: – monastero di Sant Martí, 105. Val Pusteria, 106. Valtiberina, 23. Vecchiano: – chiesa di Santa Maria di Castello, 26. Venezia, 159; – basilica di San Marco, 158.

283 Verona, 52; – chiesa di Santa Maria Antica, 52. Vezzolano: – abbazia, 81. Vicenza, 189; – chiesa di San Lorenzo, 52. Viterbo: – cappella di Santa Maria della Salute, 53; – chiesa di Santa Maria Nuova, 90. Volga, 181, 199.

INDICE DEL VOLUME Premessa I. Lo spazio e l’esperienza del sacro

VII

3

La porta del cielo, p. 3 - A spasso per la Gerusalemme celeste, p. 7 - Spazi e sensazioni del sacro, p. 11 - Le case di Dio, p. 15 - Santi luoghi, p. 22 - Luoghi devoti, p. 25 - Incontri ravvicinati con i personaggi sacri, p. 30

II. Dalla casa alla chiesa

35

Fuori dall’uscio di casa, p. 35 - Storie di campanili e di campane, p. 39 - Fuori dalla chiesa, p. 45 - La fronte della chiesa, p. 49 - Oltre la soglia dello spazio sacro, p. 56 - Gesti e prostrazioni, p. 60 - I frequentatori delle chiese: le donne, p. 65 - I penitenti in chiesa, p. 67 - Peccatori ed elemosine, p. 71 - Eretici, scettici, liberi pensatori, curiosi e professionisti, p. 74

III. Le parti della chiesa

79

Il corpo della chiesa, p. 79 - La chiesa dei vivi e dei morti, p. 85 Le tombe dei santi, p. 92 - Omaggi per i santi, p. 98 - «Imagines de cera», p. 102 - La chiesa come luogo delle immagini, p. 107 Lo spazio dei chierici, p. 116

IV. L’uso della chiesa

121

Il Santo dei Santi, p. 121 - L’impatto visivo (ed emotivo) della liturgia, p. 128 - La chiesa si muta d’abito, p. 134 - Cerimonie speciali, feste e spettacoli, p. 140 - La chiesa come palcoscenico, p. 145 - La chiesa fuori dalla chiesa, p. 149

V. Le chiese degli altri Il modello spaziale latino e il giudizio degli altri, p. 155 - Davanti alla moschea, p. 159 - La sinagoga, p. 163 - Il tempio buddhi-

155

286

Indice del volume

sta, p. 166 - Il tempio pagano, p. 171 - I cristiani d’Oriente, p. 175 - Le chiese dei greci, p. 181 - Le chiese del diavolo, p. 189 - Bilancio finale, p. 195

Epilogo Improvvisatori di spazi sacri: storia di due Guglielmi alla corte del Gran Khan

199

Note

205

Bibliografia

235

Referenze iconografiche

267

Indice dei nomi

271

Indice dei luoghi

279

Smile Life

When life gives you a hundred reasons to cry, show life that you have a thousand reasons to smile

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