La macchina del cinema


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Universale Laterza 907

Paolo Bertetto

La macchina del cinema

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2010 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel giugno 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9378-7

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Premessa

Di notte, d’improvviso, dopo aver fatto l’amore, le due protagoniste di Mulholland Drive escono di casa e vanno al Club Silencio, spinte da un misterioso desiderio. Entrano nella sala, si siedono nelle file centrali e assistono a uno spettacolo anomalo, in cui, come dice il mefistofelico presentatore, «tutto è un’illusione», «tutto è registrato» su un nastro. Tutto, insomma, è come al cinema. Nella sala immersa nella penombra le due donne sperimentano un’emozione particolare, che resta in parte oscura, ma è legata all’esperienza di spettatrici. Ma perché uno spettacolo che allude al cinema turba così profondamente le protagoniste? Non risponderemo subito a questa domanda. Lynch evita una spiegazione facile. Preferisce restare nel mistero. Ovviamente. Ma quello che è significativo è che lo spettacolo del Club Silencio non presenta nulla di quello che generalmente vediamo al cinema, ma mostra il suo dispositivo. Ci fa vedere che il cinema è una macchina. E insieme che è un’illusione. Spiegare che il cinema è macchina e illusione, ma anche tecnica e immaginario, è quanto si propone questo libro, che intende accompagnare il lettore in un’avvenV

tura all’interno del cinema, per capirne l’apparato e il funzionamento, le immagini e gli effetti che produce. Il cinema, infatti, non è una finestra sul mondo, non è un’arte realistica, ma una macchina complessa che produce immagini, senso, emozioni e rapporti. Il cinema è macchina, ma non nel senso tradizionale del meccanico che ha attraversato come tema l’arte del Novecento. La struttura della macchina cinema riflette l’idea di macchina che Gilles Deleuze e Félix Guattari sviluppano in L’Anti-Edipo (Deleuze, Guattari, 1975). Una macchina in cui ci sono determinazioni molteplici: la meccanica ma anche le relazioni, la tecnologia e insieme l’immaginario, l’industriale e il fantasmatico, la produzione ma anche il dispositivo di diffusione e percezione. E quindi, insieme, il meccanico, l’umano e il relazionale. Una macchina in cui non c’è la tradizionale opposizione interno/esterno o umano/meccanico, ma in cui si attivano meccanismi produttivi e interattivi elaborati e complessi, e in cui il rapporto soggetto-oggetto assume configurazioni originali, realizzando un’osmosi relazionale più che un’opposizione identitaria. Il cinema è questo meccanismo complesso di produttività e interazioni, di meccanico e di umano, di apparati, di produttori e di recettori. Non si possono concepire gli uni senza gli altri. Il cinema è produzione e fantasmi, tecnologie e stili, denaro e idee. Una macchina complessa. Una macchina che è al lavoro anche nella produzione specifica delle configurazioni visive e che grazie al suo apparato tecnologico consente la realizzazione di un nuovo visibile. Prendiamo la sequenza del tentato suicidio di Susan Alexander in Quarto potere di Welles. È un segmento che è stato tradizionalmente considerato come un esempio di realismo, come una registrazione diretta e non VI

manipolata della realtà, non rielaborata dal linguaggio cinematografico e mostrata così com’è. E invece l’immagine è stata prodotta attraverso un trucco del cinema, con una doppia ripresa successivamente sovraimpressa, come ha scritto il direttore della fotografia Gregg Toland in un testo sulla sua attività nel film (Toland, 1977). L’immagine non è una finestra sul mondo, ma il risultato artificiale del lavoro di messa in scena e delle potenzialità del cinema stesso. Ancora. Il cinema non è realtà, ma fantasma. Prendiamo, in La donna che visse due volte di Hitchcock, l’immagine di Judy trasformata in una sosia di Madeleine (che, com’è noto, nel film è lei stessa). Quasi alla fine del racconto, la nuova Judy/Madeleine appare a Scottie che vuol far rivivere la donna amata. La sua immagine è in sovraesposizione con i contorni e i colori meno definiti del resto dello spazio, come un fantasma che esce dagli inferi e riappare a Scottie per la sua illusione e il suo piacere. È il simulacro di qualcos’altro che può permettere al protagonista di superare i traumi e di sperimentare una nuova vita. È un fantasma. Proprio come le immagini filmiche, che esistono solo sullo schermo e sono destinate a sparire. E che, come fantasmi, parlano alla nostra psiche e si intrecciano con i nostri fantasmi. Per creare emozioni, illusioni e piacere. Fantasmi dell’illusione. Forme dell’irrealtà. Questo libro è soltanto un’introduzione al cinema. Ha molte parti che riflettono una necessità descrittiva. Ma, mi auguro, ha in sé l’idea di percorso, di processo che si tratta di attivare. Non è un quadro centripeto, che resta chiuso su di sé. È una forma centrifuga, che tende verso altro. Nelle intenzioni dell’autore è qualcosa che punta a estendersi, a scivolare, a spostarsi. Slittamenti VII

progressivi del piacere era il titolo di un film di RobbeGrillet. Slittamenti progressivi dell’interpretazione è un modo di riflettere e di scrivere, che, in questo caso, scivola per l’appunto dall’andare al cinema ai meccanismi psichici che si attivano, ai caratteri di quello che vediamo, ai modi di interpretazione delle immagini filmiche. Spostarsi dall’esperienza della visione ai problemi che solleva, avanzare ipotesi di comprensione che raccolgono idee, suggestioni, e producono a loro volta aperture e stimoli. Non si tratta di sistemare le cose, ma di aprire, cercando di inseguire quel piacere che sicuramente caratterizza l’esperienza del cinema, quelle variazioni del piacere che il cinema dà al suo spettatore e alla sua spettatrice. E ai suoi interpreti. Un ringraziamento particolare a Rossella Catanese, per la collaborazione che mi ha assicurato, in particolare per la bibliografia e il discorso sul digitale, ad Andrea Minuz che ha letto il testo e ha suggerito alcuni punti, e a Silvio Alovisio per la ricerca sull’immagine filmica, precedentemente elaborata insieme. Ringrazio anche Giorgio De Vincenti, Roberto Alonge, Antonio Costa, Mauro Di Donato, Mary Ann Doane, Jean-Louis Leutrat, Carolina Fernandez, per le ricerche in Spagna, e, inoltre, chi mi ha permesso di discutere in convegni e seminari alcuni problemi e alcuni segmenti diversi del testo: Guy Fihman, Claudine Eizykman, Jacques Aumont, Philippe Dubois, Jesús González Requena, Domènec Font, Giulia Carluccio, Federica Villa, Francesco Casetti, Leonardo Quaresima, Enrico Menduni, Vito Zagarrio, Giorgio Tinazzi. Un ringraziamento del tutto speciale a Veronica, per i numerosi suggerimenti, le idee e le indicazioni di testi e problematiche. E, naturalmente, per tutto il resto.

La macchina del cinema

Capitolo 1

Lo spettatore/la spettatrice

Vado al cinema1. Entro nel locale. Compro il biglietto e do il mio contributo all’industria cinematografica. Penetro nella sala buia. Trovo il mio posto: centrale, se possibile, e non troppo lontano dallo schermo. Voglio immergermi nelle immagini. Voglio divertirmi, emozionarmi, seguire un racconto, conoscere un mondo. Voglio guardare. Voglio capire. Mi siedo. Sono disposto ad abbandonarmi alle immagini e al suono. Aspetto solo di essere affascinato dalle ombre in movimento sullo schermo. Mi abbandono al tempo che scorre. Mi abbandono all’illusione del cinema. Entro in una situazione particolare. Divento uno spettatore cinematografico. O una spettatrice (per comodità useremo il termine al maschile: ma dobbiamo sempre considerare che le differenti identità sessuali producono processi psichici diversi, come vedremo alla fine del capitolo).

1 Com’è noto, oggi esistono molti modi differenti di ricezione delle immagini filmiche, studiati dalla sociologia della comunicazione. Qui abbiamo voluto analizzare la visione tradizionale del film.

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Lo spettatore è un voyeur Qual è la mia condizione di spettatore? Innanzitutto lo spettatore è un voyeur, cioè un uomo o una donna che quando va al cinema realizza con le immagini viste sullo schermo un rapporto simile a quello del voyeur. Posto in una condizione di sottomotricità e di sovrapercezione, seduto, immobile, inattivo, lo spettatore concentra tutta la sua attenzione sul vedere (Metz, 1980, p. 55). È soprattutto sguardo, uno sguardo che produce piacere. Il suo piacere è strettamente legato al vedere. Come il voyeur, lo spettatore non può toccare quello che vede, non può mescolarsi all’oggetto, né interagire con esso. Il piacere del voyeur implica l’assenza di contatto con quanto viene visto. Se si crea un contatto, il tipo di piacere cambia, e non è più legato a un rapporto di tipo voyeuristico. Lo spettatore cinematografico – il voyeur – guarda un insieme di oggetti in movimento e prova piacere. Non può toccare quello che vede, e anche se lo toccasse non troverebbe niente. Solo il tessuto dello schermo. La sua condizione è caratterizzata da una doppia assenza. Non implica soltanto l’assenza del contatto con l’oggetto della visione. Implica anche l’assenza dell’oggetto, che non è, magari, nascosto oltre la siepe, ma è veramente assente. Il cinema ha spesso giocato con questo tema mostrando nell’immagine sullo schermo la condizione di assenza dell’oggetto o addirittura la figurazione del voyeur in azione. In I carabinieri di Godard, il personaggio principale cerca vanamente dietro uno schermo elementare la donna nella vasca da bagno, che ha visto nell’immagine. La donna è assente, è un’ombra che non può essere raggiunta. Il personaggio/spettatore dovrà 4

accettare la logica di un piacere voyeuristico, o rinunciare al cinema. In altri film il voyeurismo è intenzionalmente mostrato come una determinazione che allude da un lato al cinema e dall’altro all’eros: in Ombre ammonitrici di Robison il marito guarda da dietro una porta a vetri con una tenda e crede di vedere le mani degli invitati che toccano il corpo della moglie. In Psyco Norman Bates/Anthony Perkins guarda da un buco nel muro Marion Crane/Janet Leigh, la donna che si spoglia in camera e si prepara per fare la doccia, e concepisce un desiderio che verrà colpito e punito dal soggetto distruttivo inscritto nella sua psiche schizoide. In Bella di giorno, la maîtresse della casa di appuntamenti invita la neofita Séverine/Catherine Deneuve a guardare ancora da un buco nel muro la seduta sadomasochistica di un attempato cliente con una dominatrice. In Kies´lowski, Decalogo n. 6 (e nel film Non desiderare la donna d’altri), lungamente il giovane protagonista guarda con un’ossessività particolare la vita e la sessualità di una donna e non è in grado di effettuare un cambiamento del rapporto, passando dalla fase voyeuristica all’incontro concreto tra le persone e i corpi. In Improvvisamente un uomo nella notte di Winner – liberamente tratto da Henry James – sono due bambini a guardare una scena perversa e a formarsi un immaginario erotico del tutto particolare. In questi ultimi film il voyeurismo è connesso esplicitamente all’osservazione dell’eros e sottolinea il proprio carattere di piacere perverso. Ma in La finestra sul cortile – film esemplare dedicato all’osservazione voyeuristica dei comportamenti dei vicini di casa da parte del protagonista Jeffries/James Stewart – il testo diventa apertamente oggettivazione della macchina cinema, nelle sue molteplici componenti, tecnico-linguistiche, enunciati5

ve e spettatoriali, e sottolinea la centralità strutturale del voyeurismo nell’esperienza dello spettatore. Abbiamo rilevato la presenza nel cinema di scene di voyeurismo legate esplicitamente all’eros: sono scene, dunque, in cui il fenomeno psichico appare nella sua forma più tradizionale. Tuttavia, quello che lo spettatore vede al cinema è prevalentemente una serie di scene in cui gli attori/personaggi sono impiegati in vari tipi di comportamento, in cui non necessariamente l’eros è dominante. Allora, perché lo spettatore prova egualmente piacere? Qual è la ragione del suo piacere? Una prima risposta, piuttosto ovvia, ha a che fare con le possibilità del cinema di mostrare altri paesi e altri mondi, di produrre visioni spettacolari nuove, nonché di creare situazioni sempre diverse rispondendo alla curiosità e agli interessi degli spettatori. Tuttavia queste considerazioni restano in superficie. Sono osservazioni che non spiegano in profondità l’affermazione del cinema, né il meccanismo che regola lo speciale rapporto con lo spettatore. Non sono semplicemente la visione di immagini non conosciute e neppure lo sviluppo di un’esperienza percettiva di tipo nuovo a spiegare la complessità della condizione dello spettatore e il piacere che egli prova di fronte allo schermo. La riflessione sui modi della percezione del film è stata affrontata dapprima – e come vedremo – da un’importante corrente di studi che si sviluppa soprattutto in Francia a partire dal secondo dopoguerra, la filmologia, e più tardi da altri studiosi che usano la psicoanalisi per interpretare l’attività psichica dello spettatore cinematografico. Il piacere dello spettatore è innanzitutto – lo abbiamo detto – un piacere voyeuristico, ma insieme è un 6

piacere legato a un doppio meccanismo: proiettivo e identificativo. Il meccanismo del vedere al cinema produce dunque allo stesso tempo l’identificazione e la proiezione. L’identificazione L’identificazione rafforza l’interesse e il piacere dello spettatore, lo radica nel mondo e nella storia narrata, è la chiave della sua partecipazione alle immagini che scorrono sullo schermo. Ma come si realizza l’identificazione e con chi o con che cosa? L’identificazione fonda la partecipazione emozionale dello spettatore, agendo in due direzioni: radica lo spettatore nell’immaginario filmico e il film nell’immaginario dello spettatore. L’identificazione più palese investe, naturalmente, i personaggi del film. Lo spettatore si proietta (si confronta, si confonde) nei protagonisti, vede se stesso duplicato in uno o più personaggi, partecipa alle loro vicissitudini, riconoscendo spesso in loro un’immagine di sé. Il meccanismo che si attiva è un processo doppio: innanzitutto lo spettatore si proietta sui personaggi che vede ed effettua un riconoscimento di se stesso nei personaggi stessi a partire dai modi specifici di organizzazione del narrato. Il meccanismo di identificazione si forma tuttavia anche in relazione alle caratteristiche particolari degli spettatori: genere, cultura, razza, preferenze personali, temperamento, tutto incide sulle modalità dell’identificazione. I prodotti dello spettacolo forense, gli spettacoli dei fratelli Lumière, le esibizioni delle tecniche di riproduzione dell’immagine, le lanterne magiche o i derivati dei 7

cabinets optiques e dei cabinets des merveilles non hanno avuto neanche lontanamente il successo e la diffusione sociale del cinema, proprio perché si trattava di manifestazioni che attivavano processi di fruizione legati solo alla curiosità e al divertimento, e non all’identificazione e all’autoriconoscimento. L’immagine sullo schermo invece si presenta come un’immagine allo specchio e rievoca l’esperienza di riconoscimento del sé e della costituzione del soggetto e dell’immaginario descritte e indagate dalla psicoanalisi, e in particolare da Jacques Lacan (Lacan, 1974). Secondo lo psicoanalista francese, il bambino comincia a costituire la propria soggettività riconoscendo allo specchio l’immagine di un altro (la madre, generalmente) accanto a quella che intuisce essere la propria. Questa esperienza è assolutamente rilevante nel processo di costituzione dell’io, e secondo un altro studioso francese (di cinema questa volta), Christian Metz, lo stesso meccanismo si ripropone nel cinema (Metz, 1980, p. 57). Sullo schermo, in altre parole, noi operiamo un riconoscimento di noi stessi attraverso l’immagine speculare di un altro. Naturalmente i meccanismi di riconoscimento del sé da parte dello spettatore si presentano in una forma diversa rispetto alla fase dello specchio. Il bambino allo specchio vede se stesso. Lo spettatore invece non si vede sullo schermo e quindi instaura una relazione non con la propria immagine, ma con le immagini di altri, con cui tende a identificarsi. L’immagine sullo schermo attiva e coinvolge quindi i fantasmi dello spettatore in un meccanismo di riproduzioni e di rifrazioni possibili, di duplicazioni e di sostituzioni, creando un orizzonte in cui l’io e l’altro attivano una partita senza fine. La straordinaria capacità di attrazione e di suggestione del cinema va quindi ricondotta in primo luogo 8

ai meccanismi infinitamente variati e riprodotti dell’identificazione e dell’autoriconoscimento del soggetto spettatore, ed è legata innanzitutto a due caratteri rilevanti dei film: l’articolarsi in scene strutturate in un percorso narrativo e l’avere al centro del racconto personaggi umani in cui è possibile immedesimarsi. L’intrecciarsi di proiezioni e opposizioni, l’emergere del carattere narcisistico e regressivo dell’identificazione permettono relazioni diverse con l’immaginario del film e varie modalità di autoriconoscimento. D’altronde l’economia del racconto propone spesso una tensione strutturale tra un soggetto desiderante e un oggetto del desiderio, variamente ricercato, raggiunto, perduto e ritrovato. La connessione radicale tra la configurazione delle dinamiche e delle frustrazioni del desiderio nel film e l’esperienza soggettiva dello spettatore è un passaggio fondamentale nel processo identificativo prodotto dalla narrazione filmica. La potenziale specularità delle avventure del desiderio o del conflitto tra desiderio e legge nella soggettività dello spettatore e nelle soggettività immaginarie del film spiega l’intensità emotiva del rapporto spettatore-cinema. Naturalmente lo spettatore può identificarsi attraverso meccanismi diversificati, ma schematizzando si può dire che la sua identificazione possibile riflette in genere uno dei due possibili movimenti. Da un lato può riconoscersi nel personaggio, cioè può ritrovare nel personaggio tratti che considera legati alla propria personalità. Dall’altro, e all’opposto, può individuare nel personaggio tratti che non riconosce in sé, ma che in ogni modo lo attraggono, gli sembrano significativi o addirittura gli paiono legati al suo ideale dell’io. L’immaginario del film infatti può attivare: 1) i modi dell’autoriconoscimento dello spettatore 9

come sé: lo spettatore si riconosce e si identifica con un personaggio; 2) i modi dell’autoriconoscimento del sé come altro: lo spettatore è portato a partecipare alle avventure e ai desideri del personaggio con cui da un lato tende a identificarsi, ma dall’altro si riconosce diverso; 3) i modi del riconoscimento di altri: lo spettatore può riconoscere nei personaggi altri che tuttavia considera legati a lui; questi altri possono essere o altre persone dell’orizzonte della vita, o altri fantasmi che assillano la sua mente e con cui tuttavia il soggetto non intende e non può identificarsi. Tra gli aspetti che descrivono l’esperienza dello spettatore, l’identificazione con i personaggi è dunque forse la componente che appare più evidente. Essa tuttavia si produce a partire da un altro meccanismo, un meccanismo per così dire di base. L’identificazione con i personaggi è infatti considerata come un’identificazione secondaria, laddove l’identificazione primaria è quella con l’immagine percepita e quindi con l’immagine proiettata. L’identificazione primaria si realizza quindi con l’obiettivo del proiettore che attiva l’occhio della macchina da presa, coordinato dal lavoro del montaggio. Lo spettatore è innanzitutto sguardo, soggetto percettivo che si identifica con lo sguardo della macchina da presa, con l’immagine proiettata e percepibile. Lo spettatore guarda e prova un piacere che è legato al guardare. La sua – per usare un concetto psicoanalitico – è una pulsione scopica, cioè un desiderio di guardare. Inoltre lo spettatore cinematografico attiva un meccanismo di formazione di un mondo immaginario sotto forma narrativa, che ripete la grande esperienza di formazione del mondo che caratterizza l’attività psichica del bambino. In fondo, al cinema, ogni volta si risperi10

menta il percorso mentale di costruzione del mondo. In questa prospettiva il cinema propone allo spettatore affetti vitali che riprendono in forme diverse ma non opposte gli affetti vitali che la psichiatria e la psicoanalisi considerano essenziali nella formazione del soggetto. E questi affetti sono emozioni vitali che non possono non accompagnare il processo di formazione del mondo nel bambino. È un altro percorso che sottolinea la straordinaria convergenza della percezione del cinema come mondo con la costruzione del mondo del soggetto in relazione a quanto viene percepito. Di fronte al mondo il bambino appare in fondo come uno spettatore. Ed è forse per questo che la percezione dello spettacolo filmico è capace di mettere in moto meccanismi così profondi e duraturi. Certo, lo spettatore vede e tra il suo sguardo e l’immagine proiettata si realizza un’unità, che tuttavia resta un’unità parziale, in quanto lo spettatore sa bene di non essere il motore della visione. Lo spettatore si identifica con la macchina della visione, ma non la guida, non la determina. Anzi, la subisce. Lo spettatore non controlla le immagini, ma, anzi, è condizionato da esse, quasi prodotto dalle immagini. Per questo, la condizione dello spettatore è passiva e può avere una componente masochistica, come hanno sottolineato alcune studiose della Feminist Film Theory, su cui torneremo in seguito. Prima dell’interpretazione psicanalitica, la filmologia Il ricorso alla psicoanalisi e ai suoi sviluppi ha dunque permesso di interpretare in profondità la macchina del cinema e il rapporto spettatoriale. Ma prima dell’applicazione della psicoanalisi al cinema, un’altra stagione si11

gnificativa aveva sviluppato una ricerca importante sulla percezione del film e sulla psicologia dello spettatore: la filmologia. Questa linea di ricerca ha studiato, dal secondo dopoguerra, la percezione del film, avvalendosi da un lato di strumenti delle scienze umane (la psicologia, la sociologia, l’antropologia ecc.) e dall’altro di esperimenti di laboratorio, effettuati con grande precisione. In realtà la filmologia ha finito per verificare sperimentalmente quello che il grande cinema americano classico aveva già scoperto e codificato con una messa in scena di grande forza compositiva. Queste ricerche hanno in ogni modo permesso di individuare alcuni importanti caratteri della percezione cinematografica. Innanzitutto la percezione cinematografica non è unicamente un fatto fisiologico, ma è qualcosa che investe il sistema nervoso centrale. La vecchia idea della percezione del movimento come conseguenza della cosiddetta persistenza retinica delle immagini è stata ampiamente superata dalle ricerche della psicologia della Gestalt e dall’individuazione del cosiddetto «effetto phi», che implica la presenza di una componente intellettiva nella percezione. Tutta l’attività percettiva, d’altronde, si sviluppa con alcuni caratteri prevalenti che è bene tenere presente. Lo sguardo investe in genere un’area di 210°; si indirizza prevalentemente sulla componente centrale dell’immagine e opera selezioni e modificazioni che privilegiano ora un aspetto ora un altro. La percezione visiva si indirizza innanzitutto al centro, per poi spostarsi su altri elementi nel quadro. Inoltre, lo sguardo privilegia le figure antropomorfiche e nella figura si fissa soprattutto sul volto dell’attore, che gioca un ruolo fondamentale nella riconoscibilità del visibile. Nel rapporto figura-sfondo poi l’attenzione si con12

centra su quanto è più vicino alla macchina da presa, e in ogni modo soprattutto sulla figura. La percezione privilegia inoltre le componenti dell’immagine in cui è possibile attivare elementi di identificazione e di partecipazione (ad esempio, il/la protagonista). La presenza di aspetti erotici nell’immagine attrae particolarmente lo spettatore, mentre all’opposto la presenza di aspetti negativi o spiacevoli sullo schermo tende ad allontanare l’attenzione. Nella percezione, l’azione prevale sull’inazione, il dinamismo sulla staticità. Lo spettatore è portato a seguire il movimento e a cogliere gli elementi di novità visiva. Una figura collocata frontalmente attrae lo sguardo più di una figura collocata di profilo o di tre quarti o addirittura di schiena. Questi aspetti caratterizzano dunque l’attività percettiva e danno conto di due caratteri fondamentali del cinema: 1) il cinema è prevalentemente antropomorfico; 2) nell’immagine il centro è l’elemento fondamentale sia dal punto di vista percettivo sia dal punto di vista estetico. Come hanno mostrato in particolare gli studi di psicologia della percezione di Rudolf Arnheim (Arnheim, 1962), le immagini artistiche confermano in genere il potere del centro. Emozione, doppia credenza, seduzione Le ricerche portate avanti dalla filmologia hanno offerto dunque contributi importanti. Tuttavia, hanno ipotizzato uno spettatore che opera nel regno della coscienza e privo di inconscio. È invece difficile negare che la per13

cezione dell’immagine filmica avvenga con una particolare tensione emozionale e con una forte attivazione dell’inconscio e dei suoi fantasmi. Nel rapporto tra il film e lo spettatore l’emozione gioca un ruolo assolutamente primario. Non a caso Ejzenštejn e Hitchcock, gli autori che hanno riflettuto di più sulla relazione film-spettatore, insistono sull’importanza non solo di produrre emozioni, ma anche di guidarle e di gestirle. Ed Ejzenštejn parla specificamente di pathos e di ek-stasis, cioè di un’uscita emozionale fuori di sé dello spettatore cinematografico (Ejzenštejn, 1981, pp. 185-190). Molti registi, a dire il vero, nelle loro dichiarazioni e interviste evocano spesso la parola emozione, anche se a volte in modo abbastanza generico. Le teorie del cinema hanno invece in molti casi trascurato questa componente: la semiologia in particolare l’ha completamente ignorata perché male rientrava nel suo freddo sistema scientistico. In ogni caso l’interpretazione dell’emozione del film implicherebbe una duplice articolazione: l’analisi dell’emozione dello spettatore e l’analisi dei modi di produzione dell’emozione da parte del film. I due aspetti sono ovviamente correlati in modo stretto, ma possono essere approfonditi separatamente. L’emozione è evidentemente qualcosa che riguarda lo spettatore e che viene provocata dal film. Ma che cos’è l’emozione dello spettatore? Tra gli autori che si sono soffermati su questi aspetti, Deleuze in particolare ha sottolineato l’importanza dell’affezione nell’immagine filmica, correlandola all’emozione: «una tendenza motrice su un nervo sensibile», «una serie di micromovimenti su una lastra nervosa immobilizzata» (Deleuze, 1984, p. 109). In un suo libro importante, Francis Bacon. Logica della sensazione, ha messo in relazione la figura con la sensazione, deli14

neando un percorso dell’estetica e della fruizione dell’arte imperniato sulle intensità delle sensazioni (Deleuze, 1995). In Che cos’è la filosofia?, poi, ha parlato dell’arte come «blocco di sensazioni […] composto di percetti e affetti» (Deleuze, Guattari, 2002, p. 181). L’emozione è dunque un’esperienza psichica di rilevante intensità, accompagnata da modificazioni fisiologiche e a volte espressive. È un’alterazione dello stato psichico dovuta all’emergere di qualcosa (persona, oggetto, immagine) che colpisce la psiche attivando il rapporto conscio-inconscio. È un movimento che fa muovere la psiche, per riprendere e rielaborare una frase di Foucault. O come dice Raymond Bellour, rielaborando Deleuze e Foucault, «l’emozione è questa piega che nell’entre-deux percettivo tra cosciente e incosciente fissa nell’anima l’impressione ricevuta dagli organi» (Bellour, 2006, p. 120). Si possono poi naturalmente distinguere emozioni piacevoli e spiacevoli, o emozioni primarie e composite. Tuttavia l’emozione ha una forza e un valore intrinseco a prescindere dalla fonte che la determina. L’emozione davanti a qualcosa d’inatteso nella vita è simile – forse non eguale, ma simile – all’emozione prodotta dalla sequenza di un film. La macrosequenza citata delle due protagoniste di Mulholland Drive al Club Silencio è a questo proposito esemplare (Bertetto, 2006, pp. 223-255). Nello spettacolo al Club non c’è orchestra, tutto è registrato su nastro, tutto è un’illusione. L’unica realtà sono le reazioni emotive delle protagoniste. Come al cinema. Nell’artificialità evidente dello spettacolo quello che è vero è la percezione e l’emozione dello spettatore. Ma come si produce l’emozione dello spettatore? L’emozione è sostenuta e resa possibile innanzitutto dal processo dell’identificazione e quindi dalla persuasione 15

dello spettatore che quanto vede sullo schermo in qualche misura lo riguarda. Lo spettatore si emoziona perché ha avviato qualche tipo di identificazione. L’emozione ha poi sempre un carattere intensivo. L’emozione è intensità. Ma l’emozione dello spettatore può essere prodotta sia dagli eventi e dalle relazioni che vede sullo schermo, sia da alcune procedure particolari della messa in scena. Il primo movimento è naturalmente più legato all’immaginario e alla soggettività. Il secondo è correlato alle scelte stilistiche operate per potenziare le emozioni. Il primo movimento è necessario perché il secondo abbia luogo, ma il secondo può rendere più forte un percorso emotivo. L’emozione dell’amore realizzato o all’opposto frustrato, o della mancanza dell’amato/a, l’emozione del dolore o della morte, della violenza e del patimento sono proposte sistematicamente dai film con una forza che l’immagine audiovisiva non può che rafforzare. Si potrebbe dire che questa emozione ha un carattere automatico ed è naturalmente prodotta dalle situazioni narrative che lo spettatore vede. Rimane aperto naturalmente il problema di come sia possibile il desiderio dello spettatore di vivere al cinema emozioni spiacevoli o negative come la paura, il dolore, la frustrazione. Eppure non solo il cinema della paura ha un grande e crescente successo, ma sviluppa evidentemente una relazione forte con le dinamiche e le esigenze della psiche. Perché? Il cinema della paura contribuisce forse a scaricare in maniera indolore la pulsione di morte all’interno della psiche? È una macchina per esorcizzare le negatività della psiche? Ad ogni modo, l’emozione che lo spettatore sperimenta è anche legata ai caratteri particolari del dispositivo cinematografico e ad alcuni suoi aspetti strutturali. 16

L’immagine sullo schermo, insieme somigliante e differente, insieme riconoscibile e fantasmatica, colloca lo spettatore in una condizione singolare, diversa da quella del fruitore del teatro o dello spettacolo popolare. Innanzitutto il cinema produce nello spettatore un meccanismo di doppia credenza (Metz, 1980). Mentre vediamo un film, noi al tempo stesso crediamo e non crediamo alla verità delle immagini e della storia che ci viene raccontata. Di fronte al susseguirsi di eventi che lo legano allo schermo, lo spettatore sa bene di trovarsi inserito in una finzione, in un processo fittizio, ma insieme non può non credere in quello che vede. La credenza nella finzione è la condizione per partecipare emotivamente alle storie raccontate. Ma lo spettatore sa anche di essere al cinema. Dunque lo spettatore cinematografico è doppio, è scisso. Sa di essere al cinema, ma finge di non saperlo. Sa di assistere a una messa in scena, a una finzione, ma la considera vera. Lo spettatore prodotto dal film è un soggetto doppio e scisso. E forse anche per questo è un individuo così disponibile alle emozioni che la storia raccontata sullo schermo può comunicargli. La duplice posizione dello spettatore gli consente un duplice meccanismo mentale. Da un lato egli accetta quello che vede sullo schermo non solo come qualcosa di vero, ma come qualcosa che lo concerne, lo riguarda. Dall’altro sa di essere al cinema e quindi sviluppa anche un’attitudine distanziante, mettendo in opera un atteggiamento intellettivo. Lo spettatore punta a capire il racconto, a cogliere il suo processo di significazione. È anche un percettore attivo, intelligente. Ma dall’altro lato lo spettatore è catturato dalle immagini, viene coinvolto in un meccanismo illusivo. Il doppio carattere dell’immagine somigliante e differente indebolisce le dife17

se dello spettatore, lo pone nelle condizioni di essere sedotto dal film. Il rapporto spettatoriale quindi è segnato dalla seduzione. Nel momento in cui lo spettatore accetta di credere alle immagini che vede proiettate sullo schermo entra nel gioco delle apparenze e diventa oggetto della seduzione del film. Non solo le immagini sono fatte per coinvolgere e sedurre lo spettatore, ma lo spettatore al cinema si pone nella condizione di essere sedotto. E come scrive Jean Baudrillard, sedurre è «morire come realtà e prodursi come gioco illusionistico» (Baudrillard, 1997, p. 61). L’esperienza della percezione del film implica dunque, lo ripetiamo, una duplice posizione dello spettatore: da un lato come elemento attivo e dall’altro come oggetto passivo. La comprensione del film e la consapevolezza di essere al cinema costituiscono il lato attivo. L’abbandonarsi alla seduzione dello schermo rappresenta il suo lato passivo. Entrambi sono importanti nell’esperienza del film. La seduzione gioca un ruolo più rilevante sul piano emozionale. Ma i due atteggiamenti non sono separati e opposti. L’intellezione coopera per rendere più efficace la seduzione e la seduzione ne garantisce la carica emotiva. La seduzione al cinema non sono soltanto gli sguardi diretti verso il pubblico di Rodolfo Valentino e di Marlene Dietrich che disgregano le difese e catturano la spettatrice e lo spettatore (Aquila nera, Il figlio dello sceicco, Marocco, Shanghai Express, Capriccio spagnolo). Sono anche il romance e la fantasia di un amore felice o di un amore contrastato o lontano. Sono anche l’abilità nell’azione degli eroi maschili, la lotta contro il male e la difesa dei cari, le avventure dell’eroe che cerca di liberare la principessa prigioniera del drago. O i tentati18

vi dei soggetti esistenziali problematici, maschili e femminili, di risolvere le proprie difficoltà di relazione. La seduzione è tutto quello che ci viene dallo schermo e che ci è proposto in una forma narrativa capace di consentire un’identificazione. La seduzione del film implica il piacere dello spettatore nell’essere sedotto e illuso. In questo senso all’interno del cinema si potrebbe rilevare anche l’attivazione di un altro processo psichico, che in fondo non è altro che una variante della seduzione. È l’esperienza della fascinazione. Prendiamo Il dottor Mabuse. Lo sguardo ipnotico di Mabuse che cerca di costringere il procuratore von Wenck ad agire secondo la sua volontà è isolato da Lang all’interno dello schermo nero, diventa uno sguardo perverso che cerca di catturare von Wenck e lo spettatore. È uno sguardo fascinativo. È lo sguardo fascinativo del cinema. La fascinazione implica una subordinazione inattiva dello spettatore, uno stato che l’affascinato subisce più che volere. Mentre nella seduzione l’individuo accetta di essere sedotto, nella fascinazione è coinvolto in un processo di «dominazione della coscienza da parte dell’oggetto» (Lefebvre, 1962, p. 23). Lo spettatore è affascinato. Per usare un titolo di Hitchcock, lo spettatore è spellbound, abbacinato. Ma la fascinazione è solo un’altra forma della seduzione. Cerchiamo di chiarire un altro punto, riprendendo la sequenza già evocata di La finestra sul cortile. Jeffries guarda l’aggressione a Lisa da parte dell’assassino Thorwald. Non può fare niente. Soffre, si angoscia. È in una condizione di passività. Proprio come lo spettatore. L’esercizio dello sguardo dello spettatore non ha affatto un carattere attivo come vorrebbero alcuni studiosi francesi sulla scia di Metz. Al contrario, è legato alla passività. Deve accettare tutto quello che vede sul19

lo schermo. Anche se non ne è contento. Anche se preferirebbe fare qualcosa perché le storie raccontate andassero diversamente. Accanto all’eventuale identificazione sadica dello sguardo c’è una strutturale condizione di passività, di fascinazione subita e vissuta che caratterizza lo spettatore. Il punto di vista della spettatrice e la Feminist Film Theory Fin qui abbiamo parlato dello spettatore in termini universali. Una seria interpretazione dello spettatore deve invece tenere conto delle specificità di genere (o di gender, come dicono gli studiosi anglosassoni), cioè del carattere sessuato e culturale dell’esperienza spettatoriale. Un uomo, una donna, un gay, una lesbica, un bianco, un nero, un asiatico, un africano vivono infatti esperienze di identificazione con i protagonisti dei film che hanno sì delle componenti comuni ma anche elementi differenziati. La Feminist Film Theory ha indagato con taglio spesso provocatorio le dinamiche psichiche attivate dal cinema e le strutture del rapporto spettatoriale assumendo il punto di vista della donna. Gli studi di Laura Mulvey, iniziati negli anni Settanta, costituiscono uno dei punti di partenza di questa linea di ricerca. La donna, in questa interpretazione, è prevalentemente icona, immagine, oggetto passivo dello sguardo maschile. La sua presenza sullo schermo è legata agli investimenti sessuali dell’uomo e generalmente non sviluppa un’autonomia di azione. Nel cinema classico – ma anche nel cinema moderno – di indubbia impronta patriarcale, il personaggio femminile appare come un soggetto che ha la forza della bellezza e della seduzione, ma non dell’azione. Il centro dell’azione e della visione 20

è in genere correlato alla presenza maschile, che opera attivamente e insieme guarda, mentre la donna è una figura tendenzialmente passiva, delineata per essere guardata. La donna è quindi correlata allo spettacolo e l’uomo alla narrazione e all’azione (Mulvey, 1978). La lettura della Mulvey procede oltre, suggerendo che nell’immaginario filmico l’inconscio maschile sfugge all’angoscia della castrazione attraverso le strade del voyeurismo-sadismo e della scopofilia feticistica. In che senso? Il voyeurismo-sadismo implica un rapporto di subordinazione della colpevole che ha come esito la punizione o il perdono. La scopofilia feticistica invece incentra la pulsione erotica sullo sguardo e implica un rapporto diretto tra lo spettatore e il personaggio femminile, senza la mediazione dello sguardo maschile. I film di Hitchcock e di von Sternberg costituiscono due straordinarie esemplificazioni della prospettiva voyeuristico-sadica e di quella scopofilico-feticistica. Il voyeurismo hitchcockiano è moltiplicato dalla soggettiva, da espliciti punti di vista del soggetto, da percorsi di identificazione che legano fortemente lo spettatore allo sguardo. Mentre la scomposizione del corpo della donna attuata da von Sternberg – soprattutto con Marlene Dietrich – esalta la pura bellezza come oggetto intensivo della scopofilia e dei meccanismi sostitutivi del feticismo. Queste dinamiche dell’immaginario costituiscono per Mulvey i modi di controllo dell’oggettivazione della figura femminile dentro l’universo maschile. In un altro saggio dedicato a un film come Duello al sole (Mulvey, 1990), Mulvey riflette sul piacere femminile al cinema e rileva che l’esperienza della spettatrice è segnata dalla regressione allo stadio pre-edipico, in cui secondo Freud la donna ha una sessualità attiva. Questo processo consente alla spettatrice di sviluppare 21

un’esperienza di identificazione con il personaggio attivo (che generalmente è maschile) e di provare quindi piacere nella visione. Altre studiose hanno ripreso questa problematica, domandandosi come sia possibile il piacere della donna nel vedere un film, quando la figura femminile sullo schermo è generalmente subalterna all’uomo. Mary Ann Doane sostiene che la spettatrice, per esorcizzare la presenza dominante del maschio sullo schermo, può attivare due posizioni diverse, basate entrambe sul mascheramento. Da un lato può attivare il proprio narcisismo, apprezzando l’immagine femminile come immagine del sé che lei stessa ama profondamente. Dall’altro può potenziare gli aspetti di bisessualità che, anche nella riflessione freudiana, sembrano caratterizzare più la donna che l’uomo, e oscillare di continuo da una posizione femminile a una maschile (Doane, 1995). Gaylyn Studlar invece interpreta il piacere cinematografico come un’esperienza legata al piacere pre-edipico del bambino con il seno materno ed è quindi qualcosa che va al di là della differenza sessuale, unificando il maschile e il femminile. Insieme Studlar sottolinea l’importanza dell’atteggiamento masochistico nello spettatore, in relazione agli effetti di sospensione, ripetizione, attesa e senso di impotenza che sperimenta al cinema. Sono percorsi che riprendono l’esperienza del bambino coinvolto nelle emozioni prodotte dalla presenza/assenza della madre (Studlar, 1988). Le ricerche della Feminist Film Theory sono interpretazioni di grande interesse che non contribuiscono soltanto al formarsi di un punto di vista femminile, ma costituiscono un arricchimento straordinario della riflessione sul cinema. 22

Capitolo 2

La tecnica e il linguaggio

Quali sono gli elementi più rilevanti del linguaggio filmico e come si coordinano nel film? Per tradizione l’inquadratura è considerata l’unità minima del film1. L’inquadratura è un segmento di pellicola girato in continuità e delimitato da due stacchi. L’inquadratura presenta una varietà di aspetti e una gamma particolare di varianti che riguardano la scala dei campi e dei pia1 È utile rammentare che il formato dell’immagine filmica è cambiato nel corso degli anni. Il formato standard dell’epoca del muto e degli anni del classico era 1:1,33, intendendo per 1 l’altezza. In seguito l’immagine ha cominciato ad allargarsi: prima 1:1,66, poi 1:1,85, sino ad arrivare al cinemascope, che richiede ovviamente in proiezione una lente speciale e che presenta un formato particolare, da 1:2,15 a 1:2,55. Naturalmente questi cambiamenti hanno conseguenze anche sulla configurazione dell’immagine. In cinemascope un primissimo piano non ha senso: attorno al volto ci sarebbe infatti un vasto spazio generalmente non a fuoco. Non a caso Lang, interprete di se stesso in Il disprezzo, dice di non amare il cinemascope, che va bene «per i funerali e per i serpenti» (naturalmente il film di Godard è in cinemascope: Godard non rinuncia a fare dell’autoironia). Ora il cinema tende a ritornare a formati meno larghi, compatibili con lo schermo televisivo, proprio mentre la televisione si allarga, proponendo non solo il vecchio formato 13:9, ma anche il 16:9 (in cui l’altezza corrisponde al 9).

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ni, l’angolazione e l’inclinazione della ripresa. I campi e i piani definiscono l’effetto di distanza dell’oggetto dalla macchina da presa che, va ricordato, è anche legato alla focale dell’obiettivo impiegato. I campi sono relativi allo spazio e all’ambiente; i piani alla figura umana. Ma procediamo con ordine e rammentiamo brevemente le denominazioni tecniche relative alla scala dei campi e dei piani (il lettore più avvertito ci perdonerà per queste definizioni un po’ scolastiche). Campo lunghissimo (CLL): inquadratura di un amplissimo spazio, in cui le figure umane (se ci sono) si perdono; Campo lungo (CL): inquadratura di uno spazio ampio in cui le figure umane sono appena riconoscibili; Campo medio (CM): inquadratura di uno spazio al cui centro sono i personaggi; Totale (Tot.): inquadratura generale di uno spazio interno. Spesso nel cinema classico è l’inquadratura che definisce lo spazio dell’azione. Gli americani lo chiamano establishing shot; Figura intera (FI): inquadratura di una figura umana dalla testa ai piedi; Piano americano (PA): inquadratura di una figura umana dalla testa alle ginocchia. Si diceva che fosse stata inventata dal cinema americano per permettere la visione delle pistole nelle fondine nel cinema western; Mezza figura (MF): inquadratura di una figura umana dalla testa alla vita; Piano ravvicinato (PR): inquadratura di una figura umana all’altezza del petto (è un’inquadratura intermedia tra la MF e il PP); Primo piano (PP): inquadratura della testa e delle spalle di una figura umana; Primissimo piano (PPP): inquadratura del volto; 24

Particolare (Part.): inquadratura di una parte del corpo; Dettaglio (Dett.): inquadratura di un oggetto o di parte di un oggetto. Un altro elemento importante nella definizione dell’inquadratura è costituito dall’angolazione e dall’inclinazione della ripresa. L’inquadratura più diffusa è un’inquadratura frontale, effettuata all’altezza della figura umana e collocando il soggetto ripreso al centro del piano. Generalmente la testa della figura è collocata ai tre/quarti d’altezza della pellicola, ma può essere anche più in alto. La collocazione standard del personaggio nell’inquadratura è una collocazione a T. Ma ci sono naturalmente anche altri tipi di angolazioni. Per schematizzare: da sinistra e da destra, dall’alto e dal basso, con tutte le diverse gradazioni. La diversa altezza della collocazione della macchina da presa produce immagini con effetti differenti. Ad esempio, l’inquadratura dall’alto suggerisce sempre un carattere di subordinazione dell’oggetto inquadrato: in La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, le immagini dal basso dei sacerdoti che accusano la protagonista e le immagini dall’alto della donna hanno sottolineato con grande maestria il rapporto rispettivamente di dominio e di sopraffazione e di subalternità e di sofferenza instaurato tra i giudici e l’imputata. In Quarto potere le inquadrature dall’alto della seconda moglie, Susan Alexander, nella stanza dopo il debutto artistico così come nel castello di Xanadu, sottolineano la sua subalternità al potere e al carattere di Kane. Più problematica è talvolta l’interpretazione di altre inquadrature anomale. Ancora in Quarto potere, molte inquadrature sono effettuate leggermente dal basso, con una macchina da presa inclinata che finisce per ri25

prendere anche i soffitti. Perché? Forse l’inquadratura dal basso esprime un punto di vista infernale, come diceva André Bazin, o forse il punto di vista della morte, che in fondo ispira e disegna tutto il film (Bazin, 2000). Singolarmente suggestiva è poi la tecnica di un grande maestro del cinema giapponese come Yasujiro Ozu, che al direttore della fotografia Atsuta chiedeva generalmente di collocare la macchina da presa in basso, all’altezza dei personaggi seduti (il cosiddetto tatami shot), assumendo un punto di vista sulle cose assolutamente particolare. Certo, era una collocazione che favoriva le riprese di personaggi seduti a terra, secondo le usanze tradizionali giapponesi, ma l’angolazione singolare del visibile prodotta dalla collocazione anomala finiva per diventare una figura di stile. Nel finale di Fino all’ultimo respiro Godard inserisce inquadrature dall’alto e dal basso che segnano da un lato la subalternità e la morte del protagonista, Michel Poiccard, e dall’altro il punto di vista della donna, Patricia Franchini (Franklin nella versione italiana), in una dialettica di soggettive dal basso e dall’alto assolutamente particolari. Le angolazioni estreme sono poi quelle effettuate da sotto le figure o dall’alto, a piombo sugli oggetti ripresi. Più raramente vediamo anche inquadrature oblique: ad esempio, in Notorious, la percezione in soggettiva del personaggio maschile da parte della protagonista Alicia, ubriaca, delinea l’immagine di un personaggio obliquo che finisce per diventare capovolto (inquadratura rovesciata). Non è solo un’inquadratura fortemente anomala. È anche il segno della difficoltà della donna a gestire autonomamente lo sguardo. Altri effetti di anomalia di inclinazione sono a volte legati a numeri di danza. Fred Astaire, ad esempio, danza sulla parete verticale di una stanza e poi sul soffitto, avvalendosi evidentemente di un truc26

co legato alla posizione (mascherata) della macchina da presa. Un secondo ordine di qualificazione dell’inquadratura è legato alla disposizione nel rettangolo dello schermo delle figure umane e dei volumi oggettuali. Come abbiamo ricordato nel capitolo precedente, la tradizione iconografica definita dalla pittura occidentale privilegia naturalmente le figure centrali e punta a collocare al centro dell’immagine gli elementi, generalmente antropomorfici, di maggiore rilevanza. Così il personaggio principale è abitualmente collocato al centro in posizione frontale, e quando deve dividere lo schermo con la protagonista femminile, i due personaggi sono dislocati ordinatamente l’uno accanto all’altro in una posizione tendenzialmente simmetrica. La costruzione dell’inquadratura risponde quindi in genere a criteri di ordine, di centralità e – non sempre – di simmetria. Un grande costruttore di immagini come Lang ha sempre puntato alla configurazione di immagini simmetriche, o almeno geometriche, come figura privilegiata della sua forma compositiva, della sua volontà di stile. La ricerca dell’ordine, dell’armonia e del bilanciamento dell’immagine ha caratterizzato certamente il cinema classico americano, cioè il cinema dei grandi studios dagli anni Venti agli anni Cinquanta – ma anche molto spesso le esperienze autoriali –, e resta in ogni modo un modello di riferimento sempre operante. Uno studioso come David Bordwell ha definito con grande precisione i caratteri del linguaggio (e quindi anche dell’inquadratura) del cinema classico, sottolineando invero come questi modelli continuino a essere tuttora ripresi, prevalentemente con varianti non radicali e non eversive (Bordwell, Thompson, Staiger, 1985). 27

Naturalmente questo modello è soggetto a possibili violazioni. Da un lato c’è l’approssimazione nella disposizione degli elementi nel quadro che caratterizza tanti registi mediocri (una certa trascuratezza del cinema italiano, in particolare, è forse frutto di un’eredità mal capita del neorealismo). È un livello di sub-articolazione dell’immagine che costituisce non un modello alternativo, ma il segno di un’insufficienza del lavoro della regia. Dall’altro lato ci sono invece gli interventi intenzionali di metteurs en scène che intendono violare le regole del cinema tradizionale e affermare una visione innovativa e più personale. Il cosiddetto cinema moderno di Godard e di Antonioni, ad esempio, introduce tutta una serie di violazioni a queste regole. In L’avventura, nella sequenza della ricerca a Lisca Bianca della donna scomparsa, Anna, i personaggi si rifugiano la sera in una casupola e le inquadrature non solo li collocano spesso in posizioni marginali, ma a volte riprendono la nuca dei personaggi, la testa e i capelli e non il volto. La scelta è evidentemente innovativa e mostra qualcosa che il visibile filmico tradizionale ha sempre trascurato. Si tratta di una configurazione anomala dell’immagine che la critica francese chiama décadrage. La fotografia e l’illuminazione Il lavoro della fotografia e quindi tutti gli aspetti legati all’illuminazione – aspetti spesso trascurati dalla critica – sono essenziali. È bene insistere, infatti, sul fatto che la configurazione della luce non è semplicemente un elemento rilevante nell’immagine filmica, ma è l’immagine filmica. Il cinema è luce. Non soltanto il significato di un medesimo evento ripreso in campo lungo o con un piano ravvicinato cambia, ma uno spazio ripreso con luce diffusa o im28

merso nell’oscurità tende a produrre effetti diversi, sia in termini di significato sia in termini di emozione. Nella storia del cinema ci sono diversi modelli di illuminazione, che sono legati a periodi, a scuole nazionali, a forme di messa in scena o a movimenti, a generi. Naturalmente una distinzione rigida in modelli è problematica, e tuttavia può essere utile tentare un’ipotesi di lavoro. In linea generale possiamo individuare i seguenti modelli: 1) la luce diffusa, propria del cinema d’azione, del western, della commedia, del musical, degli interni e degli esterni giorno; 2) la luce drammatica, propria del cinema d’autore, dei generi drammatici, dei segmenti ad alta intensità psicologica; 3) la luce contrastata o la prevalenza dell’oscurità, propria del cinema espressionista e di larga parte del muto tedesco, del noir, del thriller e dell’horror; 4) la luce neutra o opaca, propria del neorealismo e di molto cinema moderno; 5) la luce ibrida del cinema contemporaneo, della messa in scena dell’eccesso e della mescolanza di registri, propria del postclassico e del postmoderno. La configurazione della luce contribuisce dunque in modo rilevante alla creazione del mondo narrato. Un horror in piena luce perderebbe tutta la sua suggestione e una commedia sofisticata non potrebbe essere immersa nelle tenebre. Non a caso i film in bianco e nero colorati arbitrariamente per la televisione finiscono per distruggere il tessuto testuale e la sua forza di suggestione. Ricordo di aver visto alla tv Il mistero del falco di Houston tratto da un noir di Hammett con colori pastello, grigio, giallo e rosa: era diventato irriconoscibile! La forza del suo intreccio enigmatico, della sua mescolanza di eventi misteriosi e di minacce improvvise era anche nel29

l’oscurità prevalente delle immagini, della pericolosa San Francisco notturna, dei luoghi bui dominati dal senso del rischio, dalla paura delle aggressioni. Se quegli spazi diventano illuminati e per di più invasi da un cromatismo pallido e morbido, l’effetto tensione, mistero e paura è finito. La realizzazione di configurazioni luministiche diverse è naturalmente legata a varie componenti, come abbiamo già accennato. Tra queste le più importanti sono l’illuminazione del profilmico (ovvero di quanto è predisposto davanti alla macchina da presa), l’apertura dell’obiettivo e la sensibilità della pellicola. Lo spazio del profilmico in interni può essere variamente illuminato. La tecnica più diffusa punta alla produzione di una luce mista, realizzata con proiettori disposti davanti, di lato e dietro gli attori, per contemperare l’illuminazione. Le diverse fonti cooperano per ottenere una luce diffusa in cui i contrasti siano attenuati o eliminati. La key light è la luce più forte e generalmente è posta accanto alla macchina da presa. Un’altra luce (full light) ha una funzione di omogeneizzazione e serve a eliminare gli effetti troppo forti della luce principale. La luce collocata dietro gli attori (back light) serve a staccare i corpi e a evidenziare gli oggetti. Il progetto di realizzare effetti particolari implica naturalmente variazioni rispetto allo schema di base. Da un lato si possono attutire gli effetti della luce usando garze o tulle per filtrare la luce senza ostacolarla. Dall’altro si può orientare la luce su un settore particolare dello spazio, immergendo il resto nella penombra o nell’oscurità. Un capitolo a parte meriterebbe un discorso sull’ombra nel cinema. L’ombra è una componente essenziale del cinema, anche perché le immagini che vediamo pos30

sono anche essere considerate tracce di ombre cromatiche e dinamiche. Ma l’ombra spesso è anche un doppio del personaggio e a volte, esemplarmente nel muto tedesco, è diventata una forma visiva che ha sostituito il corpo dell’attore, presentandosi come una misteriosa presenza-assenza, una specie di automa che prende il posto dell’uomo. In Il gabinetto del dottor Caligari l’assassinio di Alan è visto attraverso l’ombra dell’omicida sul muro. In Nosferatu il vampiro, alla fine il vampiro sale le scale per raggiungere Hellen e appare solo come un’ombra misteriosa sulla parete. In Metropolis la falsa Maria sale una scala per aprire i serbatoi d’acqua e inondare la città: la sua immagine è solo un’ombra minacciosa sullo schermo. In Ombre ammonitrici, addirittura, nella seconda parte del film, grazie all’intervento di un ipnotizzatore, i personaggi sono trasformati in doppi che su uno schermo mostrano quello che sarebbe potuto capitare se la ragione non avesse prevalso. Le ombre sono diventate il sostituto pieno dei personaggi e delineano un possibile sbocco immaginario che è bene evitare. Ma anche in Notorious, quando Alicia si rende conto di essere lentamente avvelenata, Sebastian e la madre appaiono soltanto come ombre minacciose. In questi casi l’ombra sostituisce il corpo e il soggetto antropomorfico appare quasi ridotto nella sua integrità e trasformato in qualcosa d’altro. Non solo. Sottolineare le ombre dei personaggi, invece di eliminarle, può assumere un valore visivo e plastico particolare, in quanto disegna tracce di oscurità nell’immagine e crea effetti di chiaroscuro e di contrasto indubbiamente particolari. Inoltre la presenza dell’ombra sottolinea in genere la drammaticità di una situazione. La messa in relazione di un personaggio con l’oscurità tende sempre, anche al di là delle intenzioni esplicite del regista, a creare 31

un rapporto con le tenebre, il buio e la loro simbologia implicita. Questo meccanismo è palese nel cinema espressionista o influenzato dall’espressionismo, ma forse è presente anche in Hitchcock – se vogliamo credere alla lettura esoterica avanzata da un critico francese (Douchet, 1967). Certo, non si può dire che un grande cinema è un cinema dell’ombra. Registi di grande livello hanno sempre preferito lavorare con un altro tipo di illuminazione. Ma indubbiamente la valorizzazione dell’ombra costituisce una potenzialità espressiva del cinema di particolare forza e tende ad assumere un valore formale e una forza di suggestione assolutamente singolari. Un’ulteriore riflessione va poi condotta sulla questione del bianco e nero e del colore. Innanzitutto è bene precisare che – contrariamente a quanto si crede – il cinema colorato è esistito sin dall’inizio. Già nel 1896 si dipingevano a mano le pellicole e le tecniche dell’imbibizione (o tintura) e del viraggio erano ampiamente usate durante il cinema muto. Ma il bianco e nero è stato a lungo una combinazione cromatica di notevole rilevanza visiva e ha costituito un’immagine dall’indubbia forza estetica. Molte configurazioni si sono avvalse del bianco e nero per ottenere risultati di grande rigore formale e in un certo senso il bianco e nero si è rivelato particolarmente efficace nel delineare complesse forme visivo-dinamiche. Le strutture geometriche inventate da Lang hanno sicuramente ottenuto un rigore supplementare dall’efficace contrapposizione del nero e del bianco, realizzati sulla pellicola con un’intenzionalità compositiva rigorosa. Il bianco e nero infatti contiene in sé un principio di astrazione e di lontananza dal concreto dell’oggetto, che sembra favorire le composizioni più rigorose e geometriche, ma anche il gioco dell’ombra. E non bisogna dimenticare un altro aspetto 32

paradossale. I classici del realismo e del neorealismo sono film in bianco e nero, cioè film che presentano necessariamente un’alterazione del visibile e una stilizzazione cromatica. In fondo film a colori realistici di rilevanza particolare non ci sono (e Senso, che non è un grande film, è un melodramma storico, non certo un film del realismo, con buona pace della critica italiana del periodo). E questo è un ulteriore elemento che sottolinea la debolezza delle ideologie cinematografiche del realismo. I movimenti di macchina La centralità del movimento nel cinema è ampiamente riconosciuta e forse a volte troppo enfatizzata: è cinema infatti anche Empire di Warhol, otto ore di ripresa fissa dell’Empire State Building dal pomeriggio alla notte, in cui non c’è alcun movimento, ma solo un cambiamento della luce, che da diurna diventa notturna. Ma certo è innegabile che il movimento sia al centro dell’immagine filmica. A rigore si dovrebbe parlare di due movimenti diversi: movimento dell’oggetto ripreso e movimento della macchina da presa. I movimenti di macchina concernono evidentemente i modi della ripresa e implicano una dinamizzazione della camera e una modificazione, lenta, graduale o veloce dell’oggetto profilmico inquadrato. Il movimento può essere effettuato spostando la camera, ma anche mantenendola nella stessa posizione e facendola semplicemente ruotare. Qualche altra definizione: la panoramica è il movimento di più semplice esecuzione, in quanto non richiede una dislocazione della camera. Attraverso una rotazione più o meno ampia della macchina sul proprio 33

asse è possibile variare lo spazio ripreso e trasformare il campo visivo. La rotazione può essere orizzontale, verticale o obliqua (diagonale) e produce ovviamente tipi diversi di panoramiche. Forme particolari di panoramiche sono invece la panoramica a schiaffo, che unisce rapidamente due oggetti non vicini, ed è ad esempio usata efficacemente in Le petit soldat di Godard, o la panoramica a 360° o circolare che avvolge tutto uno spazio visivo attorno alla camera stessa. Si pensi alla visione in soggettiva della stanza che gira attorno al protagonista in L’ultimo uomo, che Murnau realizza con una grande capacità di sperimentazione tecnica, anche grazie all’aiuto di un direttore della fotografia di grande qualità come Karl Freund; o, ancora, alla panoramica circolare di Io la conoscevo bene di Pietrangeli in una seduta terapeutica: segno della diffusione di tecniche avanzate anche in film di progetto creativo più ridotto. Un secondo tipo di movimento di macchina è costituito dalla carrellata (o travelling) che implica la dislocazione della macchina da presa nello spazio, grazie a un supporto mobile e quindi il cambiamento del campo visivo in relazione a un’esplorazione dello spazio. Le carrellate vengono in genere effettuate su binari o con carrelli gommati e sono di vario tipo. Laterali, quando la macchina da presa segue lateralmente il personaggio che si muove. A precedere, quando arretra anticipando il movimento in avanti del personaggio. A seguire, quando invece segue il personaggio che si sposta. La famosa carrellata di Fino all’ultimo respiro sugli Champs-Élysées è un’abile successione di una carrellata in avanti, a seguire, e una indietro, a precedere Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg che passeggiano sulla grande avenue parigina. In questi casi il movimento di macchina è rettilineo. 34

Ma in altri casi, invece, la camera si muove liberamente nello spazio, modifica la direzione, cambia percorso, gira a destra o a sinistra. Sono movimenti di macchina che realizzano un’appropriazione particolare dello spazio, creano una visione e (per converso) uno spazio fluidi e dinamici di grande forza. Giustamente gli storici del cinema ricordano il carrello sinusoidale di Cabiria e lo citano come un esempio fondamentale di mobilità della macchina da presa nello spazio. Sono poi il cinema moderno francese e quello americano ad affermare le potenzialità del travelling libero nello spazio. Ancora una volta, Fino all’ultimo respiro presenta un lungo travelling complesso nello spazio, nella sequenza all’Agenzia interamericana, in cui la macchina da presa va prima a sinistra, poi si ferma, poi va in profondità verso l’interno del locale, in seguito ritorna indietro e finisce per accompagnare Poiccard verso la porta esterna. È un movimento complesso che Godard effettua senza stacchi in una lunga inquadratura, avvalendosi della straordinaria abilità del direttore della fotografia (e operatore) Raoul Coutard, che è spinto su una sedia a rotelle e tiene la macchina appoggiata alla spalla: un esempio di grandissima professionalità e di indubbia innovazione. Molto suggestivi sono anche i travelling dell’Anno scorso a Marienbad di Resnais, in cui la macchina da presa si muove liberamente nei grandi spazi del grand hotel di Marienbad: di particolare forza sono i travelling in avanti lungo un corridoio che poi voltano verso sinistra finendo nella camera della protagonista che apre le braccia come in volo. Sono movimenti che presumibilmente fanno parte di un orizzonte fantasmatico e che presentano quindi una logica testuale diversa. Inoltre sono effettuati con l’ausilio dei binari in quanto, a differenza di Godard, Resnais punta a un cinema rigorosamente programmato e realiz35

zato. Invero, la grande libertà dei movimenti di macchina di Godard ripete probabilmente l’estrema mobilità dei travelling del Kimono scarlatto di Fuller, che Godard aveva visto e apprezzato (non a caso farà un omaggio diretto a Fuller in Il bandito delle ore undici). Non tutti sanno invece che straordinari movimenti di macchina si trovano già nel cinema dei primi anni Trenta: ad esempio, i movimenti di macchina complessi e integrati di M, o il travelling molto lungo all’interno di un sontuoso appartamento, seguendo un’algida Jean Harlow, in La donna di platino di Capra. Naturalmente poi, negli ultimi decenni, il cinema americano di Kubrick e Altman, di Lynch e di Tarantino ha potenziato infinitamente il potere compositivo della macchina in movimento nello spazio, creando mondi fluidi, dinamici e intensivi di particolare suggestione. Il terzo tipo di movimento di macchina, tradizionalmente rammentato, è il dolly (detto anche gru), che denota una mobilità della macchina da presa sull’asse verticale ed è generalmente effettuato con l’ausilio di un braccio idraulico o di una gru o più raramente di un montacarichi o ascensore. Il movimento verticale, naturalmente, può articolarsi in vari modi e procedere sia diagonalmente, sia mescolandosi ad altri movimenti. Il braccio idraulico è a volte collocato su una piattaforma mobile e può quindi correlarsi ad altri spostamenti e ad altri movimenti. In Quarto potere Welles, con l’aiuto del direttore della fotografia Gregg Toland, ha effettuato dollies di grande efficacia, a cominciare dal complesso movimento di macchina in esterno che parte dal grande ritratto di Susan Alexander, supera una costruzione, attraversa la grande scritta al neon con il nome del night club, El Rancho, e scende sul lucernario inondato dall’acqua del temporale per penetrare all’interno e avanzare sino al 36

tavolino cui è seduta la seconda moglie di Kane, Susan. Un movimento di macchina di straordinaria forza, ripetuto due volte nel corso del film e che implica l’attivazione di due trucchi sofisticati per presentarsi come un’inquadratura unica. Un movimento di macchina non meno sofisticato, che implica anche il superamento di una finestra e il passaggio da una stanza all’altra, è presente pure in M, in cui Lang usa spesso riprese mobili dall’alto, singolari e di grande efficacia visiva. Tra i dollies che consentono il passaggio attraverso le inferriate di una finestra resta giustamente noto quello di Professione: reporter, inserito all’interno di un lungo piano sequenza dalla forte valenza simbolica. Un uso ripetuto e intensivo di dollies, impiegati per gestire molti piani, si trova nell’amplissimo episodio narrativo nel grande casino di I misteri di Shanghai, il cui movimento iniziale da un totale a un piano più ravvicinato sembra anticipare Notorious. Anche Hitchcock, infatti, ha usato i dollies in modo estremamente efficace, utilizzando attrezzature di supporto molto diverse. Uno dei movimenti più famosi, in Notorious, nella prima inquadratura della macrosequenza della festa, inizia con una ripresa dall’alto e un totale della sala con gli invitati, poi scende lentamente fino a terra e avanza con la macchina da presa sino alla mano della protagonista che stringe la chiave della cantina. È un esercizio di grande abilità professionale, realizzato grazie alla costruzione di una specie di ascensore nello spazio del set. Nella Finestra sul cortile Hitchcock, con il direttore della fotografia Robert Burks, effettua la maggior parte delle riprese dal punto di vista del protagonista Jeffries, dall’altezza della sua finestra, utilizzando un braccio idraulico per effettuare i movimenti di macchina necessari alle riprese variate, dall’alto, lateralmente e obliquamente, e mescolando spesso movimenti diversi. 37

Nel secondo omicidio di Psyco, nella casa misteriosa, dopo un’inquadratura verticale, a piombo, la macchina da presa dall’alto accompagna per le scale il rotolare del corpo del detective Arbogast, con un movimento anomalo, che sembra riflettere un punto di vista non umano. Ma anche in modo meno palese, ad esempio in occasione della prima apparizione di Madeleine in La donna che visse due volte, Hitchcock usa un dolly per seguire leggermente dall’alto lo spostamento della donna all’interno del ristorante. E nella prima inquadratura di Arancia meccanica un lungo dolly all’indietro, integrato a un carrello, rivela progressivamente i droogs e lo spazio del Korova Milk Bar, arredato con tavolini-sculture pop in stile Allen Jones. Accanto a questi movimenti di macchina, ce ne sono altri caratterizzati da particolarità tecniche o linguistiche e legati a specifici periodi della storia del cinema: dalla ripresa aerea alla camera car (una ripresa effettuata da un’auto). Ancora, la macchina a mano, affermatasi soprattutto con le Nouvelles Vagues degli anni Sessanta, è una ripresa effettuata dall’operatore reggendo la macchina da presa e muovendosi liberamente nello spazio. L’inquadratura prodotta è in genere irregolare, risente dei movimenti del corpo e dà il senso di una visione incerta effettuata nel vivo dell’azione. Spesso è una soggettiva, legata all’ottica di un personaggio e afferma un modo di vedere non oggettivo, distaccato, ma partecipe, coinvolto e magari anche confuso. È un’immagine che rifiuta la stilizzazione propria del cinema classico e introduce la presenza del soggetto e la visione legata al punto di vista. Usata soprattutto dal nuovo cinema degli anni Sessanta, da Godard e da Bertolucci, da Cassavetes e da Pasolini (che tuttavia fa un cinema ibrido), ma anche, 38

ad esempio, da Kubrick, ancora in Arancia meccanica, nella sequenza dell’irruzione nella casa dello scrittore e della violenza alla donna in cui il regista stesso effettua le riprese a mano, con punti di vista e movimenti particolari che aumentano la drammaticità dell’evento. L’uso della steadycam, invece, consente movimenti di macchina liberi nello spazio, effettuati grazie alla mobilità dell’operatore che regge e controlla la macchina da presa con un braccio idraulico estremamente sofisticato. Permette di realizzare movimenti di macchina fluidi nello spazio, unendo l’estrema mobilità e libertà del corpo umano agli effetti visivi propri della carrellata. Si pensi alle carrellate su terreni irregolari di Shining o ai movimenti innovativi, impensabili con le apparecchiature tradizionali, di Scorsese, dei Coen, di Spielberg, e soprattutto di Bigelow (Point Break – Punto di rottura, Strange Days e ora The Hurt Locker). La steadycam modifica il rapporto con lo spazio, costituisce il set come uno spazio fruibile in tutte le sue componenti, permette un’appropriazione del visibile estremamente fluida in cui tutto (o quasi) può essere ripreso. Un’altra attrezzatura sofisticata è costituita dalla louma, un braccio snodabile, lungo vari metri, su cui è collocata la cinepresa diretta da terra tramite comandi a distanza e che consente di effettuare riprese libere, che saltano ostacoli e assumono angolazioni particolari. È stata usata soprattutto dal cinema americano e in particolare nel cinema di science fiction. Questi differenti tipi di inquadrature mostrano apertamente il carattere tecnologico del cinema. Sono quindi immagini che mostrano la dimensione tecnologica e la esibiscono apertamente. Sono immagini tecnomorfiche, caratterizzate cioè da una componente di esibizione della tecnologia e della macchina del cinema, cioè del cinema come macchina. Non sono quindi trucchi senza 39

ragione, esibizioni gratuite dell’apparato tecnologico, ma immagini che rivelano il carattere di macchina del cinema e la sua potenza. Il montaggio Anche il montaggio è una delle componenti essenziali del cinema. Innanzitutto esso è la combinazione di elementi per comporre un insieme significante coerente. E quindi è un assemblaggio di inquadrature che produce una struttura segnata da un particolare coordinamento spazio-temporale del visibile. Tradizionalmente si attribuiscono al montaggio molteplici funzioni: in primo luogo la funzione significante o semantica; la funzione narrativa (che tuttavia, come è ovvio, è assente quasi del tutto nei film d’avanguardia); la funzione descrittiva. Nell’articolazione di queste tre funzioni il montaggio costituisce lo spazio e il tempo del film e produce quindi un effetto spaziale e un effetto temporale. Ci sono poi altre importanti funzioni svolte dal montaggio: esaminiamole con ordine. Funzione ritmica. Il montaggio definisce i tempi dell’inquadratura e i modi di congiunzione tra le inquadrature stesse. Realizza quindi la fluidità discontinua delle immagini che sviluppa un andamento visivo-dinamico particolare. Negli anni Venti si è parlato di «musica delle immagini», di ritmo puro del cinema che riprenderebbe nel tessuto visivo la struttura della musica. Invero il ritmo filmico non è assimilabile al ritmo musicale, anche se il parallelo resta suggestivo. Nella produzione del ritmo filmico, infatti, intervengono aspetti legati al tempo, ma anche importanti elementi legati alla configurazione visiva delle immagini, alla loro plasticità 40

e alla loro dinamizzazione. Contano quindi sia la velocità o la lentezza del movimento oggettivato nelle immagini, sia le dinamiche dei volumi, delle mobilità e delle differenti intensità luminose. Funzione intellettuale. Soprattutto Ejzenštejn ha insistito sulla possibilità del montaggio di produrre delle idee e ha teorizzato il montaggio intellettuale come «accumulazione di due figurabili» che producono qualcosa che non è figurabile, cioè un’idea (Ejzenštejn, 1986). Ejzenštejn insiste sul carattere produttivo del montaggio e sulle sue potenzialità espressive e comunicative, considerando il montaggio soprattutto in rapporto agli effetti che può determinare nello spettatore. Nell’ottica del regista sovietico il montaggio intellettuale è una pratica ideologica che può insegnare a pensare dialetticamente. Ma il montaggio intellettuale può diventare una procedura per inscrivere l’idea nel tessuto filmico. E forme di montaggio eidetico – che produce un’idea inscritta nelle immagini – sono presenti in Lang come in Welles, in Godard come in Lynch, ma non in tutti i film. Funzione formale. Il montaggio configura insiemi testuali segnati da una struttura compositiva interna particolarmente accurata e significativa. Ad esempio, in Quarto potere, nella famosa scena della locanda nelle montagne del Colorado in cui il piccolo Charles viene affidato al banchiere Thatcher, descritta da Bazin come esempio di profondità di campo e di piano sequenza, il segmento è costituito da sei inquadrature in una composizione simmetrica (Bazin, 2000). Due piani brevi all’inizio e alla fine e due piani lunghi nel centro, il primo (inq. 3) che inizia con un’immagine in esterno ripresa dall’interno e procede nella casa, continuando anche a mostrare l’esterno con il piccolo che gioca con la slitta nella neve, e il secondo, ripreso dall’esterno (inq. 4), che 41

inizia con un’immagine della madre all’interno e prosegue in esterno in mezzo alla neve. O, ad esempio, il montaggio intensivo della sequenza dell’assassinio sotto la doccia in Psyco, che secondo Hitchcock è costituito da sessanta piani in 50⬙ e assembla inquadrature molto brevi di parti del corpo della donna uccisa, di immagini in ombra dell’assassino e di altri dettagli significativi dello spazio del bagno, con riprese effettuate da più punti di vista, al fine di comporre un insieme visivo di grande forza traumatica. Ancora, in Una donna sposata di Godard, le prime immagini della prima sequenza, che mostrano i due amanti a letto, sono costituite da inquadrature che isolano una parte, un settore dei due corpi, fissandoli come entità separate e autonome. Nelle prime dodici inquadrature vediamo la mano di una donna (Charlotte), la mano di un uomo (Robert), il dorso nudo della donna, il suo volto di profilo, di fronte, la sua gamba, il suo ventre, la schiena dell’uomo, le gambe nude di Charlotte, il flash di un aereo in cielo, le gambe nude della donna e ancora il suo volto. Il montaggio di brevi inquadrature segmenta la scena, decostruisce l’azione e lo spazio, e realizza una metodica scomposizione degli elementi che si oppone nettamente ai modi tradizionali della narrazione e della messa in scena. È una composizione che acquista una rilevanza particolare sia sotto il profilo del modello di messa in scena elaborato, sia nel modo di presentare i personaggi: così frammentati, isolati, separati sembrano attestare una separazione dei soggetti, una solitudine esistenziale, una scomposizione dell’io che anche il resto del film illustra efficacemente. In queste sequenze la scelta di realizzare il segmento narrativo con un montaggio così particolare riflette un progetto compositivo che punta a valorizzare all’e42

stremo le potenzialità della macchina cinema ed elabora una configurazione formale assolutamente singolare. E bisogna sottolineare che le forme del testo, le figure linguistiche elaborate hanno un’assoluta rilevanza non solo sotto il profilo formale, ma anche nella costruzione del senso. È poi necessario rammentare come le figure di montaggio implichino sempre una funzione sintattica e si articolino spesso attraverso raccordi, che sono modi di collegamento tra le inquadrature, che garantiscono certi effetti e privilegiano la continuità e la coerenza del flusso visivo. I raccordi sono di vario tipo: – raccordo sull’asse; – raccordo di direzione; – raccordo di movimento; – raccordo sullo sguardo. È tuttavia necessario sottolineare come lungo il percorso della storia del cinema il montaggio abbia mutato non solo le sue forme ma anche le sue configurazioni. È quindi opportuno cercare di individuare i grandi modelli di montaggio che si sono storicamente affermati. Il periodo del muto è stato tradizionalmente considerato l’epoca del montaggio sovrano. Invero i modelli di montaggio elaborati dalle scuole del muto non sono affatto omogenei, ma presentano differenze significative. Il cinema sovietico ha teorizzato e praticato un’idea di cinema basata sul montaggio. Sia Ejzenštejn (Ejzenštejn, 1985; 1986) che Pudovkin (Pudovkin, 1974) e Vertov (Bertetto, 1975), seppure in modi diversi, hanno considerato il montaggio come la fase essenziale del lavoro compositivo, quella che costituisce il cinema come arte. Poi Ejzenštejn ha pensato il montaggio come una procedura produttiva di grande complessità e varietà, che poteva permettere sia la produzione di effetti visivo-dina43

mici e compositivi di grande forza sia, addirittura, la generazione di idee. Ejzenštejn parla di modelli diversi di montaggio: metrico, ritmico, tonale, intellettuale. Ma il centro della sua riflessione è la concezione del montaggio come conflitto, come contrasto, che assembla le inquadrature non per omogeneità, accumulazione, ma per opposizione, differenza. È un progetto di scrittura disomogenea, variata, fatta di diversità tra i piani, non di continuità. Ma, insieme, è un programma che si propone di far uscire dalle immagini qualcosa che nelle immagini non c’è, l’idea. In un’altra direzione Vertov pensa il montaggio come un modello compositivo che investe tutte le fasi del progetto del «cine-occhio», dalla concezione del film, alla programmazione del lavoro, al vero e proprio assemblaggio finale, pensato non solo in rapporto al discorso ideologico, ma anche in relazione al linguaggio musicale e alla teoria degli intervalli. Anche nella teoria e nella pratica del cinema muto francese degli anni Venti il montaggio è l’asse più rilevante. Gli esperimenti di montaggio ritmico-intensivo elaborati da Gance in un film peraltro obsoleto come La roue sono considerati come un’indicazione di prospettiva delle potenzialità del linguaggio cinematografico (invero Gance otterrà risultati di maggiore efficacia nella sequenza della battaglia con le palle di neve del Napoléon). Ma l’idea della ricerca di un ritmo dinamico o puro come essenza del cinema attraversa la riflessione e la pratica del muto francese e trova anche teorizzazioni più estreme nelle riflessioni di Germaine Dulac sul cinema puro, sulla cinegrafia integrale. Tuttavia il modello del cinema francese riflette la concezione di un cinema che racconta spesso storie melodrammatiche o larmoyantes e concentra l’impegno compositivo nel montaggio di immagini raffinate e dinamiche. 44

Diversa è la concezione del montaggio nel cinema tedesco, che è la prima industria cinematografica in Europa e produce un cinema di grandissimo interesse sotto ogni profilo. I film tedeschi hanno ancora oggi grandissima forza spettacolare e riflettono una concezione complessa del cinema come cultura, ricerca nell’immaginario, elaborazione di configurazioni rigorose dell’immagine e montaggio di grande forza, non subalterno alla messa in scena, ma neppure sopravvalutato e surdimensionato. E se Lang può inventare figure di montaggio ellittico e intellettuale in Metropolis, il suo resta un grandissimo cinema di messa in scena. Il montaggio del cinema muto americano, poi, presenta già – secondo uno studioso autorevole come Bordwell – i caratteri del grande cinema classico hollywoodiano sonoro. Se non si accetta neanche questa interpretazione, tuttavia, è indubbio che la scrittura del cinema muto americano sia funzionale alla narrazione e non costruisca il montaggio come asse centrale del cinema. Il cinema classico, americano in primo luogo, ma anche europeo, si afferma dal sonoro sino a tutti gli anni Cinquanta, ma costituisce il modello fondamentale di messa in scena ancora adesso parzialmente seguito. Prevede un montaggio analitico e invisibile. Analitico perché scompone la narrazione e lo spazio in varie inquadrature coordinate e omogenee; invisibile perché pur elaborando un tessuto visivo discontinuo cerca di dare l’impressione di continuità, nascondendo le cesure e ricorrendo spesso a raccordi. È un montaggio che segmenta l’azione e lo spazio guidando la percezione dello spettatore e favorendone l’identificazione. Bazin ha sottolineato i caratteri di questo montaggio: Nel 1936 si può immaginare il seguente tipo di découpage: 45

1) campo totale dell’attore e della tavola; 2) carrello avanti fino a primo piano del volto che esprime un misto di meraviglia e di desiderio; 3) serie di dettagli delle vivande; 4) ritorno al personaggio, inquadrato in figura intera, che avanza lentamente verso la mdp; 5) leggero carrello indietro sino a piano americano dell’attore che afferra un’ala di pollo (Bazin, 1973, p. 83).

Insieme è un montaggio che privilegia il dialogo e spesso ricorre alla semplificazione del campo e controcampo per presentare adeguatamente due personaggi che parlano. Il montaggio del cosiddetto cinema moderno, invece, tende a privilegiare inquadrature lunghe e piani sequenza e a mostrare il profilmico in segmenti ampi e non preselezionati, per consentire allo spettatore di vedere e interpretare egli stesso l’orizzonte visibile. Secondo le considerazioni di Bazin, la riduzione del montaggio implica l’uso produttivo della profondità di campo, cioè la possibilità di mostrare a fuoco e simultaneamente azioni che si svolgono più vicine o più lontane dalla macchina da presa. L’immagine di Quarto potere, in cui sullo sfondo oltre la finestra il bambino gioca nella neve con la slitta, mentre la madre è in primo piano e parla con il banchiere Thatcher e il padre è in una posizione intermedia, illustra molto bene questo effetto di profondità di campo. E i piani sequenza o le inquadrature lunghe hanno caratterizzato tanto cinema moderno da Godard a Jancsó ad Angelopoulos, per citare solo gli autori più impegnati nella scrittura della durata. In Scirocco d’inverno Jancsó costruisce il film in dodici piani sequenza. In La recita Angelopoulos arriva al punto di mescolare nella stessa inquadratura tempi diversi oggettivati attraverso effetti 46

di profondità di campo. E un cineasta sperimentale e anomalo come Warhol dal 1965 elabora film che sono costituiti in genere da un piano sequenza di 45⬘-50⬘ (la lunghezza di un caricatore), come Vinyl, o da una somma di lunghi piani sequenza, come The Chelsea Girls. Il cinema contemporaneo tende poi a elaborare figure e tecniche di montaggio molto eterogenee, che riprendono e spesso mescolano modelli estremamente differenziati, che vanno dal cinema muto al classico e anche alla libertà del moderno, più che ai suoi canoni. A proposito del cinema contemporaneo si è parlato non a caso di postmoderno, di ibridazione o di sviluppo del classico. Non è qui il luogo per discutere di siffatte prospettive interpretative. È opportuno segnalare soltanto come le interpretazioni delle forme linguistiche e delle figure di montaggio del cinema contemporaneo oscillino dall’ipotesi di Bordwell, che insiste sul rapporto evolutivo del cinema classico, alle ipotesi di coloro che parlano di cinema postmoderno non privilegiando il rapporto con il moderno, ma indicando in genere forme di sintesi tra modelli disomogenei. Così nel cinema contemporaneo, accanto a sequenze costruite con inquadrature lunghe e ritmi molto lenti, si possono trovare anche montaggi intensivi di particolare velocità, impiegati non in una sola sequenza ma in tutto il film. Come avviene in autori europei e americani tesi alla costruzione di tipi di cinema molto diversi (ai due estremi Kusturica, Gatto nero, gatto bianco e Greengrass, The Bourne Ultimatum, Green Zone). Così, nelle sue differenti forme storiche, il montaggio si afferma come un modo di composizione, una scrittura assolutamente particolare, che in fondo propone elementi di grande innovazione nella formazione del testo. Non a caso Jacques Derrida, filosofo e teorico del decostruzio47

nismo, può dichiarare: «Tra la scrittura decostruttiva e il cinema c’è un legame essenziale: tagliare, incollare, comporre, montare testi e citazioni» (Derrida, 2002). Ancora una volta il cinema si afferma all’avanguardia nei processi di trasformazione della comunicazione e della cultura. Trucchi ed effetti speciali Il cinema, ha scritto Jean Epstein, «è il soprannaturale per essenza» (Epstein, 2002). Non sorprende quindi che l’effetto speciale abbia svolto un ruolo essenziale nel cinema, nella sua vocazione al meraviglioso e all’esibizione dell’impossibile. Naturalmente il cinema ha conosciuto nella propria storia molteplici tipologie di effetti speciali legate sia a caratteri strutturali diversi sia a procedure tecniche differenziate. La prima distinzione che va operata separa i trucchi predisposti e utilizzati nel profilmico dai trucchi operati grazie a tecniche diverse e correlate in ogni modo con procedure ed effetti ottici. Tralasciamo i primi per riflettere invece sulle tecniche degli effetti speciali, che non sono affatto eccessi inutili, ma costituiscono una potenzialità linguistica del cinema che ne esalta sicuramente il carattere spettacolare. Gli effetti speciali in ogni modo attraversano tutta la storia del cinema, come una potenzialità narrativa e visiva intrinseca all’evento film e si articolano in procedure differenti, effettuate spesso mescolando tecniche diverse ed eterogenee. Tra gli effetti speciali veri e propri è possibile distinguere varie tipologie che riflettono tre grandi categorie tecniche: gli effetti speciali realizzati nel profilmico, gli effetti speciali realizzati integrando alterazioni del pro48

filmico con procedure ottiche e gli effetti speciali ottici e/o digitali. All’interno di queste categorie è possibile individuare tecniche differenti che hanno segnato la storia del cinema. La sovraimpressione (o doppia esposizione) permette di sovrapporre due o più immagini sulla stessa pellicola. È effettuata prevalentemente in postproduzione, anche se in origine veniva realizzata con più riprese sovrapposte. Immagini particolarmente significative sono ottenute non solo nell’ambito del cinema fantastico, ma soprattutto durante il periodo del cinema muto, con effetti ora irreali ora di indubbia suggestione formale. La retroproiezione (o trasparente) consente di realizzare un’immagine in cui gli attori che recitano in un teatro di posa appaiono su uno sfondo girato altrove, generalmente un movimento in esterni. Il trasparente punta quindi a creare l’illusione di una ripresa in esterni e magari in condizioni di particolare difficoltà. Naturalmente è richiesta l’omogeneità dell’illuminazione degli esterni e degli interni, e la disposizione della retroproiezione e della macchina da presa sul medesimo asse. Oggi viene prevalentemente usata la tecnica della proiezione frontale con apparecchiature ed effetti ottici più sofisticati. L’effetto Schufftan permette di visualizzare immagini che integrano riprese in scala normale con modellini trasformati visivamente in strutture di ampie dimensioni. È un procedimento che consente di inscrivere gli attori in scenografie enormi costruite su scala ridotta. L’effetto è ottenuto grazie a un vetro-specchio in parte trasparente e in parte argentato che consente l’integrazione ottica delle due scene. È stato inizialmente utilizzato con effetti di grande suggestione monumentale in Metropolis. 49

I modelli e le miniature sono elementi scenografici, oggetti e personaggi particolari che possono essere sostituiti da modellini su scala ridotta, miniaturizzando oggetti particolarmente ingombranti o costosi. Soprattutto in una fase della storia della tecnica del cinema, i modellini hanno consentito anche di dinamizzare grandi mostri come King Kong, gli animali preistorici, la Medusa, grazie a piccoli movimenti coordinati ripresi secondo la tecnica del passo uno (stop motion). Lo sviluppo della tecnologia ha poi consentito di realizzare modelli e creature meccaniche semoventi, che operano sul set con dinamismo del tutto verosimile. In E.T., l’extra-terrestre come nel remake di King Kong (1976), o in Ghostbusters – Acchiappafantasmi, le creature mostruose o aliene operano con estrema efficacia non solo grazie alla dinamizzazione meccanica dei corpi, ma anche con l’automazione dei volti, piegati a particolari finalità espressive. Effetti ottici. Lo sviluppo delle tecnologie per effetti speciali produce un insieme sempre più elaborato di procedimenti per la determinazione di effetti ottici particolarmente persuasivi, in cui microimmagini prodotte con tecniche diverse vengono integrate in una macroimmagine di particolare verosimiglianza e spettacolarità. Gli effetti ottici sono estremamente vari e implicano una sistematica integrazione degli elementi del set con procedure tecnologiche sofisticate, realizzate ora prima e durante le riprese, ora in postproduzione. Gli effetti ottici più diffusi sono: il mascherino dipinto, la proiezione frontale, il mascherino mobile e il blue screen. Il mascherino dipinto (o matte painting) è costituito da un dipinto estremamente preciso di uno spazio ampio o complesso (un paesaggio o un insieme architetto50

nico), integrato alla ripresa in studio degli attori; il matte painting disposto tra la macchina da presa e i personaggi in azione è ampiamente utilizzato nel Mago di Oz, in Guerre stellari, nei Predatori dell’arca perduta. La proiezione frontale (front projection) è un altro procedimento per realizzare l’integrazione di due immagini: la proiezione della scena-sfondo è riflessa mediante uno specchio da uno schermo, mentre la macchina da presa riprende gli attori davanti allo schermo e l’immagine proiettata. È una versione più avanzata del trasparente, usata in particolare in 2001: Odissea nello spazio e in 2002: la seconda Odissea. Il mascherino mobile (travelling matte) è un procedimento che consente di integrare le riprese di uno o più attori su sfondo blu a un’altra immagine registrata altrove; la tecnica permette un inserimento della maschera mobile in profondità nello spazio circostante (contromaschera). Il procedimento è usato in particolare nei film di fantascienza e di guerra (da Firefox al Ritorno dello Jedi). Vi è infine il blue screen (schermo blu), messo a punto da specialisti della Technicolor, che costituisce una versione più avanzata del medesimo procedimento e permette integrazioni perfette tra due riprese effettuate in luoghi diversi. Effetti ottici e digitali. La combinazione di immagini analogiche e di tecniche digitali di elaborazione dell’immagine consente la realizzazione di effetti di grande efficacia e di assoluta verosimiglianza. In particolare il motion control è un sistema che permette di realizzare effetti ottici programmando con un computer i movimenti della macchina in relazione a modelli, riproduzioni e disegni. Una forma più avanzata è costituita dall’elaborazione da parte del computer di un’immagine 51

digitale come continuazione di un’immagine video (analogic system). Effetti speciali digitali. Sono gli effetti speciali realizzati integralmente al computer, elaborando immagini di sintesi capaci di sostituirsi all’immagine referenziale, acquisendo la verosimiglianza e la profondità necessarie. Lo sviluppo tecnologico e il parallelo abbassamento dei costi determinano una capillare diffusione di effetti digitali. L’introduzione nel sistema delle immagini del digitale – informazione numerica binaria (da digit = cifra decimale) – consente operazioni sulle immagini con ampia flessibilità d’intervento. Le informazioni sono gestite dal dispositivo incaricato di trasformare le sequenze numeriche in unità visibili, chiamate pixel (contrazione dell’espressione picture element o picture cell: il dettaglio più piccolo rilevabile in una riproduzione d’immagine). I risultati più significativi sono ottenuti nella costruzione di sequenze straordinarie di effetti speciali totalmente realizzati al computer. Gli effetti digitali sono usati prevalentemente per realizzare immagini omogenee al visibile diffuso o per sviluppare effetti speciali in un mondo fantascientifico: particolarmente note sono le ricerche della Lucas Film soprattutto per il grande ciclo di Guerre stellari. Solo la video arte ha usato metodicamente il digitale per inventare un mondo assolutamente nuovo e differente dalle immagini diffuse. È naturale che il digitale costituisca una radicale possibilità di inventare l’assolutamente nuovo: su questa via le ricerche si sviluppano in modo significativo, ma ancora limitato. Altre tecniche sempre più sofisticate vanno nella direzione dell’inscrizione del digitale in un’immagine analogica o dell’integrazione della performance dell’attore in uno spazio digitalmente prodotto o verso l’elaborazione di immagini che realizzano una composizione di 52

più elementi, digitali e non. Sono immagini di sintesi che riflettono una pratica di compositing. Estremamente rilevanti sono poi le esperienze della Disney che realizza lungometraggi interamente costituiti da immagini tridimensionali elaborate dal computer e poi dalla Dreamworks di Spielberg, che ha ulteriormente sviluppato le potenzialità tecnologiche della computer animation (dapprima Toy Story e Toy Story 2, poi, tra gli altri, Shrek 2 e Shrek terzo e Madagascar e Madagascar 2). Si tratta di film di animazione in 3D che realizzano effetti di profondità nei disegni animati, realizzati tramite software di computer grafica capaci di creare immagini di sintesi, con metodologie a metà strada tra gli ambienti design e la motion capture (processo di acquisizione del movimento). Il 3D stereoscopico, invece, è un sistema che gioca sull’illusione ottica della profondità extra-schermica, assolutamente «a tutto tondo», sulla sinestesia di una percezione più coinvolgente, se non totalizzante, per lo spettatore; ha i suoi precedenti negli esperimenti del XIX secolo sull’anaglifo, in cui l’effetto di rilievo si basa su un filtro rosso/ciano. Un film come Avatar, poi, inventa tecniche sempre più elaborate mescolando immagini di sintesi con effetti 3D, già esplorati nel cinema d’animazione, in una prospettiva di grandi possibilità linguistiche e spettacolari. Gli effetti tridimensionali consentono una visione stereoscopica, presso le sale attrezzate con adeguati dispositivi a luce polarizzata o con occhiali a cristalli liquidi. Si tratta in ogni modo di un orizzonte in continua evoluzione che in queste pagine non è possibile delineare adeguatamente. Sono prospettive di ricerca che vanno considerate non solo sotto il profilo dell’importanza tecnologica, 53

ma anche sul piano della trasformazione del visibile e dell’allargamento dell’orizzonte dell’immaginario: una prospettiva che sottolinea il carattere di spettacolo del cinema e allontana l’immagine dalla pesantezza e dalla banalità del realismo. Il suono Con un indubbio errore di prospettiva, gli studiosi di settore hanno spesso sottovalutato la funzione del suono nel cinema, privilegiando invece il ruolo dell’immagine. Il suono, al contrario, è una componente fondamentale dell’immagine audiovisiva, anche se alcuni film sperimentali di indubbia importanza lo hanno eliminato totalmente (ad esempio, i film di Brakhage, i primi film di Warhol ecc.). D’altronde, anche il cinema muto si avvaleva di un accompagnamento musicale, eseguito in sala durante la proiezione. L’invenzione del sonoro effettuata tecnicamente negli anni Venti e concretata a partire dal Cantante di jazz (1927) garantisce in realtà non solo l’utilizzo di una colonna audio predeterminata, ma soprattutto il sonoro labiale sincrono, che è il vero aspetto innovativo dell’invenzione tecnologica. Nell’agosto del 1926 i fratelli Warner presentano al mondo Don Giovanni e Lucrezia Borgia: è il primo film sonorizzato della storia del cinema. A dire il vero, in Don Giovanni e Lucrezia Borgia non si parla ancora, ma gli spettatori possono ascoltare i rumori e le musiche registrati su disco con un complesso sistema di sincronizzazione. Un anno dopo la Warner produce Il cantante di jazz: nasce il film parlato e cantato, sia pure a intermittenza, perché sono ancora presenti le didascalie. «Aspettate ancora un momento, gente, non avete visto niente!», esclama dal film Al Jolson. L’impatto del suo54

no labiale sincrono sulle platee è davvero sconvolgente. Inizia la rivoluzione del sonoro, che nell’arco di pochi anni modificherà profondamente il linguaggio e il racconto cinematografici, oltre a determinare un riassetto globale delle strutture tecnologiche produttive e dello star system: alcune star saranno consacrate dal sonoro, come Greta Garbo, altre, come Norma Talmadge, il comico Buster Keaton o un regista come Erich von Stroheim, inizieranno il loro declino. Il cinema muto, in realtà, non era mai stato silenzioso. Le proiezioni erano sempre accompagnate da musiche eseguite in sala, dal pianista che strimpellava musiche di repertorio alla grande orchestra con partiture talvolta originali, a seconda delle sale e dell’impegno produttivo. I primi brevetti per le apparecchiature audiovisive, inoltre, risalivano al 1914, per non dire dei primitivi esperimenti di sincronizzazione, coincidenti con la nascita stessa del cinema, dal kinetofono di Edison al chronophone di Gaumont. Tuttavia la sincronizzazione del suono su disco, all’inizio, e poi soprattutto la registrazione ottica del suono su pellicola dischiudono al cinema possibilità inedite. In un primo momento, in verità, il neonato cinema sonoro impone una semplificazione della struttura compositiva del film, proprio quando il cinema muto aveva raggiunto eccezionali livelli di maturità espressiva. Le prime macchine da presa per il sonoro sono pesanti – e questo implica una minore scioltezza dei movimenti e del montaggio –, e i microfoni non possono essere spostati con disinvoltura. Il sonoro, inoltre, sembra sostenere la vocazione del cinema a una piatta riproduzione della realtà: di qui l’opposizione di grandi registi come Chaplin ed Ejzenštejn, Pudovkin e Alexandrov che propongono anche un manifesto dell’asincronismo. 55

La nascita del cinema come spettacolo realmente audiovisivo finisce per sollecitare la scoperta di nuove interazioni tra l’immagine e la polifonica dimensione del sonoro: nell’arco di pochi anni nasce una nuova estetica dell’audiovisione, che gioca sull’orchestrazione delle diverse componenti del sonoro (i rumori d’ambiente, i dialoghi, la voce off, la musica). Inoltre le possibilità di combinazione con le immagini in movimento aumentano sostituendo alla presa diretta del suono – che sarà prediletta dal cinema della Nouvelle Vague – la postsincronizzazione in studio, con la registrazione e il montaggio delle diverse piste sonore in sala di missaggio. Le ricerche più significative sulla dimensione sonora, da un lato, pensano alla musica come a un equivalente sonoro del visivo (Hitchcock, Fellini e il cinema di genere), dall’altro utilizzano la musica classica per accompagnare ed enfatizzare sequenze drammatiche (Buñuel, Ejzenštejn, Kubrick, Coppola). Ma le ricerche più sofisticate studiano il materiale sonoro non solo come elemento subordinato o assimilato all’immagine, ma come fattore espressivo autonomo: si sperimentano rapporti di non corrispondenza immagine/suono, e quindi di asincronia o contrappunto, oppure, ed è quasi un paradosso, si intensifica il ruolo del silenzio, come nel cinema di Bresson, o, ancora, si stratificano voci e rumori in architetture sonore sempre più complesse, come nell’ultimo Godard. Al montaggio orizzontale, tra le diverse inquadrature, si aggiunge così una sorta di «montaggio verticale» tra le diverse materie dell’espressione cinematografica (è il caso di Clair, di Lang e di Ejzenštejn negli anni Trenta, e più recentemente di Tati, di Syberberg e di Wenders, che dedica alla questione del sonoro il suo Lisbon Story). Sotto un certo profilo le architetture sonore possono essere più sofisticate di quel56

le visive, in quanto spesso realizzano composizioni complesse di materiali eterogenei e molteplici. Quello che caratterizza il suono è infatti la sua spazializzazione e la sua diffusione nell’orizzonte della sala. Mentre l’immagine è delimitata sullo schermo, il suono entra nello spazio dello spettatore e lo radica più attivamente all’interno dell’azione filmica, potenziando le forme di stimolazione della ricezione. La diffusione delle nuove tecnologie permette quindi il realizzarsi di un cinema per così dire «immersivo», in cui cioè lo spettatore è immerso nel mondo del film anche grazie ai nuovi sofisticati effetti sonori. Con le nuove tecnologie lo spettatore del film sonoro può abbandonarsi totalmente ai fantasmi audiovisivi, raggiungendo una partecipazione affettiva quasi ipnotica. I due sensi principali che governano la percezione della realtà sono mobilitati ed eccitati in modo complementare. Negli ultimi vent’anni il vero luogo di aggiornamento tecnologico del sonoro è stata proprio la sala cinematografica, lo spazio dello spettatore: il Dolby Stereo (con la riduzione dei rumori di fondo, l’isolamento dei suoni e la loro accurata distribuzione su diverse piste e amplificatori), il THX di George Lucas (con la dislocazione nella platea di oltre trenta altoparlanti), le recenti conquiste del suono digitale. Il Digital Theater System (DTS) è un sistema di sincronizzazione audio multicanale, introdotto col film Jurassic Park, che si basa su una traccia posta tra la colonna normale e il fotogramma che sincronizza e uniforma un ingresso audio esterno (lettore di cd speciali) con l’immagine proiettata; a differenza delle colonne sonore non è soggetto all’usura della pellicola, quindi è il sistema più stabile e coerente per evitare in sala bruschi passaggi da audio digitale ad analogico. Sono tecnologie che non puntano 57

solo a perfezionare il suono, ma vogliono portare lo spettatore al centro dell’azione, immergendolo in un universo sonoro sempre più avvolgente. Il film è dunque il prodotto del coordinamento di tutti questi elementi tecnici. Ma nel film queste determinazioni confluiscono intrecciandosi con logiche e istanze ulteriori. Un film non è mai soltanto la sintesi di una serie di componenti tecniche in vista di una narrazione. Giustamente uno studioso americano (Gunning, 1990) sottolinea che il film è il risultato di una convergenza di più opzioni e di più esigenze, spesso in contrasto: accanto alla funzione e al progetto del regista ci sono quelli del produttore, dello sceneggiatore e degli altri tecnici che lavorano al film, come anche la pressione delle (presunte) aspettative del pubblico. E la rilevanza e l’articolazione di queste funzioni e di queste istanze cambiano storicamente. Il cinema è un linguaggio? Un’ultima questione di carattere teorico. L’insieme delle tecniche del cinema – che qui abbiamo rapidamente evocato – forma un linguaggio? La questione è controversa. Metz dice che nel momento in cui si passa da un elemento a una concatenazione di elementi si entra nel linguaggio. Un linguaggio e non una lingua, perché il cinema non ha vocabolario. Questa posizione è stata generalmente accettata dagli studiosi e dalla cultura diffusa. Ma la prospettiva di considerare il cinema come un linguaggio e l’immagine filmica come un enunciato verbale ha sollevato anche delle critiche. In particolare, Deleuze, nel secondo capitolo di L’immagine-tempo, ha sostenuto che il cinema non è un linguaggio e che la pretesa dei semiologi di considerare il cinema come un linguaggio ha creato gravi incomprensioni. L’errore della semiologia, secondo 58

Deleuze, è nel concepire l’immagine filmica come un enunciato, attribuendole quindi «una falsa apparenza» e sottraendole «il suo carattere più autentico, il movimento». L’immagine filmica è invece una «materia non linguisticamente formata, benché non sia amorfa, ma semioticamente, esteticamente, pragmaticamente formata» (Deleuze, 1989, p. 41). Il cinema è d’altronde considerato da Deleuze come «una materia segnaletica che comporta tratti di modulazione di ogni tipo, sensoriali (visivi e sonori), cinestesici, intensivi, affettivi, ritmici, tonali, e anche verbali (orali e scritti)» (ivi, p. 42). Quindi, secondo il filosofo francese, si tratta di pensare alla materia del film come a «un enunciabile» che viene attivato in un «sistema delle immagini e dei segni, indipendentemente dal linguaggio» (ivi, p. 43). È indubbiamente un orizzonte di riflessione complesso che qui non abbiamo la possibilità di approfondire. Ma è bene sapere che il carattere di linguaggio del cinema non è una nozione accettata, ma al contrario è di nuovo oggetto della discussione interpretativa.

Capitolo 3

I modelli di messa in scena e il lavoro del set

Modelli di messa in scena: cinema classico, moderno, contemporaneo Nella storia del cinema – dal muto al classico, dal moderno al contemporaneo – si sono affermate diverse tipologie di messa in scena. Si tratta di modelli di cinema elaborati dalla tradizione analitico-interpretativa e poi da quella storiografica che – per quanto schematizzati – sono utili per poter inscrivere le specificità dei singoli film in una forma complessiva, rendendo possibile una storia delle forme filmiche all’interno di un quadro cronologico generale. I due grandi modelli di riferimento sono quelli del cinema classico e del cinema moderno, che è utile qui richiamare in estrema sintesi in pochi tratti distintivi. Cinema classico: 1) assoluta prevalenza del racconto, che è il punto di riferimento principale della messa in scena; 2) carattere causale e correlato della configurazione degli eventi e meccanismo a domino; 3) carattere finalistico del comportamento dell’eroe che punta a un telos assolutamente definito; 60

4) costruzione di uno spazio omogeneo, coerente, ampiamente visibile, in funzione antropomorfica; 5) collocazione del personaggio generalmente al centro dello spazio e delle inquadrature, secondo un modello di disposizione a T; 6) organizzazione delle sequenze secondo uno schema variabile ma con alcune costanti: si prevede inizialmente un establishing shot, cioè un totale, e in seguito inquadrature più ravvicinate che ruotano attorno al personaggio principale; 7) montaggio analitico e trasparente, che punta a ottenere un effetto di continuità privilegiando i raccordi (di posizione, di movimento, di sguardo, di direzione); 8) predisposizione di scene e personaggi per favorire l’identificazione dello spettatore. Cinema moderno: 1) racconto libero e aperto, che disgrega le regole della narrazione tradizionale; 2) rifiuto della rigidità causale, scarsa concatenazione tra gli eventi narrati, importanza accordata ai tempi morti, ai non eventi, finali indefiniti; 3) carattere problematico e non finalistico del comportamento dell’eroe, che si interroga sui suoi obiettivi oltre che sull’identità; 4) costruzione di spazi non ordinati e non omogenei, a volte solo parzialmente visibili, e libera collocazione, spesso anomala, del personaggio nello spazio; 5) superamento della sintassi tradizionale e valorizzazione delle marche personali di regia: il piano sequenza e l’inquadratura lunga, i piani anomali, l’assenza di raccordi; 6) consapevolezza metalinguistica dell’autore e presenza di elementi metalinguistici nel testo; 61

7) uso di una luce neutra, opaca, che non si piega alla logica della drammatizzazione; 8) produzione di una banda sonora svincolata dal sincronismo tradizionale e impegnata a realizzare nuovi missaggi anomali delle varie componenti. Questa semplice articolazione dei modelli di messa in scena costituisce evidentemente uno schema di riferimento didattico, utile nell’esercizio analitico come quadro di riferimento generale. Ovviamente l’analisi delle componenti formali va messa in relazione all’analisi dell’immaginario e delle configurazioni narrative degli eventi, perché il film è appunto il prodotto di una sintesi tra le procedure di messa in scena e le configurazioni immaginarie delineate. Non solo. Come è stato affermato da alcuni studi (Doane, 1987; Klinger, 1994; Naremore, 1998; Pravadelli, 2007), la storia del cinema classico è ricca di cambiamenti e di trasformazioni tali per cui la considerazione rigida di un unico modello risulta insufficiente. E, d’altra parte, anche le prospettive del moderno sono a volte mescolate e ibride. Il riferimento ai modelli è dunque utile, ma deve essere verificato in relazione alla varietà dei film. Va rammentato inoltre che le prime teorizzazioni del cinema moderno avanzate da Bazin insistevano soprattutto su due aspetti della messa in scena: il piano sequenza (che per Bazin in modo un po’ impreciso era di fatto un equivalente del long take, inquadratura lunga) e la profondità di campo (cioè la pratica di riprendere nella stessa inquadratura e a fuoco più azioni su piani spaziali diversi) (Bazin, 1973 e 2000; si veda anche De Vincenti, 1993). È difficile individuare caratteri così netti e omogenei anche nel cinema muto, perché nell’orizzonte del muto 62

da un lato si è realizzato un significativo processo di evoluzione che va dal cinema primitivo al grande cinema dei secondi anni Venti, dall’altro, nel cinema degli anni Venti, si sono sviluppate forme e tecniche differenti, legate alle diverse scuole europee e al modello americano. Non possiamo qui analizzare i modi del cinema primitivo e le trasformazioni del muto, in cui peraltro il cinema italiano gioca un ruolo rilevante (si pensi al successo mondiale di un film come Cabiria di Pastrone del 1914, primo grande kolossal che trasforma gli oggetti, la merce in spettacolo). Negli anni Venti, invece, la scuola tedesca, quella francese e quella sovietica elaborano modelli di messa in scena estremamente rilevanti e indubbiamente diversi, di cui si possono sottolineare alcuni aspetti specifici. L’epoca del muto è stata un po’ semplicisticamente considerata da Metz come il periodo del montaggio sovrano. Invero questa opzione è accettabile per il cinema sovietico e per il cinema francese, ma non per il cinema tedesco e il cinema americano, che sono anche le esperienze produttive più importanti sul piano quantitativo e anche, a mio avviso, sul piano qualitativo. I grandi film tedeschi, soprattutto, e quelli americani degli anni Venti hanno tuttora una forza visiva e immaginaria viva e attuale, a differenza del cinema sovietico e francese. In ogni modo il cinema francese muto, nelle sue esperienze più rilevanti, presenta generalmente un ricorso a racconti legati alla letteratura popolare, melodrammatica e al feuilleton, usati anche per cercare un pubblico più ampio, mentre l’impegno artistico è canalizzato nell’elaborazione di una scrittura cinematografica estremamente fluida e dinamica che valorizza soprattutto il montaggio e la sovrimpressione e punta a 63

creare un ritmo visivo simile al ritmo musicale e di particolare intensità. Il cinema sovietico è invece segnato dal ricorso a racconti ideologicamente e politicamente orientati e dall’uso di un montaggio dinamico di particolare forza: il montaggio come conflitto, contrasto e produzione di idee di Ejzenštejn, il montaggio descrittivo e analogico di Pudovkin, il montaggio come insieme delle operazioni di progetto, di ripresa e di edizione del «cine-occhio» non narrativo di Vertov, per citare solo i più rilevanti. Il cinema tedesco, poi, di cui l’espressionismo è solo una componente, propone spesso un immaginario segnato dalla crisi del soggetto, dall’emergenza di tensioni esistenziali fortissime, dalla disgregazione dell’universo classico e dall’irruzione dei doppi minacciosi dell’umano: tutte componenti che lo rendono quanto mai attuale. E insieme è caratterizzato da una ricerca filmica di grandissima forza in cui non solo il cinema è affermato come configurazione visivo-dinamica di particolare intensità, composizione dell’immagine che disegna forme visive di grande suggestione, dalle deformazioni espressioniste di Wiene alle strutture geometriche di Lang alle forme pittoriche di Murnau. È un cinema che attribuisce una rilevanza particolare all’immagine, ma insieme usa un montaggio di grande efficacia, che può anche delineare modi sperimentali, come avviene ad esempio in Metropolis. Il muto americano, infine, secondo le interpretazioni di Bordwell (Bordwell, Thompson, Staiger, 1985), contribuisce già a definire i caratteri del cinema classico e della messa in scena analitico-trasparente, anche se poi – soprattutto con i grandi comici (da Sennett a Chaplin, da Keaton a Langdon) – elabora un’intensificazione della velocità, del dinamismo e del montaggio che costituisce una linea di indubbia forza inventiva. 64

Una pluralità di caratteri e di elementi, spesso eterogenei, segna anche il cinema contemporaneo, che è stato interpretato ora nella prospettiva dello sviluppo del classico ora in quella del postmoderno. D’altronde la definizione dei caratteri del cinema classico e del cinema moderno registra una lunga riflessione critica che si è sviluppata negli anni. Il discorso sul cinema contemporaneo è invece in una fase di elaborazione e di approfondimento. Sarà più opportuno allora sottolinearne alcuni aspetti da ripensare, invece di individuare alcuni punti fermi. Nei loro importanti studi sul cinema classico americano e ora sul cinema contemporaneo, Bordwell e Kristin Thompson hanno elaborato significativi modelli di messa in scena. Nel più recente volume sul cinema hollywoodiano contemporaneo (The Way Hollywood Tells It) Bordwell ha individuato alcuni caratteri della produzione contemporanea (Bordwell, 2006). Egli non ritiene che sia in atto una trasformazione radicale del modo di fare cinema, ma al contrario una variante al modello classico caratterizzata da alcune innovazioni particolari. Secondo Bordwell, infatti, la messa in scena del cinema contemporaneo americano è segnata dai seguenti aspetti fondamentali: 1) montaggio rapido; 2) uso estremo delle lenti, passaggio frequente dal grandangolo al teleobiettivo; 3) inquadrature molto ravvicinate, con forte presenza di primissimi piani (PPP); 4) movimenti di macchina particolarmente ampi e a volte molto difficili e singolari. Il montaggio rapido implica una proliferazione delle inquadrature, che una volta erano di una durata più lunga (8⬙-12⬙ ai tempi del classico) e poi a Hollywood 65

gradualmente si sono accorciate sino a diventare negli anni Novanta e nel Duemila di 3⬙-5⬙ in media, con film formati da 1.500-2.000 piani, ma, a volte, anche di più: si vedano, ad esempio, film come Braveheart – Cuore impavido o The Bourne Supremacy. Questa accelerazione del montaggio non implica secondo Bordwell una modificazione radicale dei modi del cinema classico, ma una loro trasformazione progressiva. Il cinema contemporaneo hollywoodiano è ancora basato sulla continuità narrativa, ma questa continuità è intensificata (intensified continuity). Un’altra linea di interpretazione, invece, insiste sui caratteri postmoderni del cinema contemporaneo. Sulla scia delle indicazioni di uno studioso francese, Laurent Jullier (Jullier, 2002), si possono sottolineare i seguenti aspetti: 1) racconto apparentemente forte, segnato tuttavia da digressioni o da casualità particolari; 2) introduzione di elementi metanarrativi, che rinviano al cinema o alle strutture del racconto. 3) inserimento di situazioni, di coincidenze, di concatenamenti o di soluzioni che sottolineano il carattere citazionistico e intertestuale del racconto; 4) doppio codice. Il film postmoderno tende a proporre un doppio codice comunicativo: da un lato un’esperienza di piacere primario, immediato; dall’altro una percezione consapevole, che assume con facilità gli aspetti metafilmici e metalinguistici. Regia/messa in scena Abbiamo parlato di differenti modelli di messa in scena. Ma che cos’è la messa in scena? La messa in scena (o la regia: consideriamo i due ter66

mini equivalenti1) è il coordinamento di tutte le componenti tecnico-linguistiche per realizzare il film, è «sceltacoordinazione-organizzazione significante-composizione ‘poetica’ di tutti gli elementi presenti nella proiezione della pellicola: anche di quelli esplicitamente assenti o nascosti» (per usare la definizione descrittiva e chiara di uno studioso italiano di semiotica, Gianfranco Bettetini [1975, p. 137], lontano dai percorsi che qui cerchiamo di sviluppare). La regia è l’atto compositivo che concretizza tutti gli elementi preparatori e li trasforma in un insieme di immagini audiovisive. È un coordinamento di componenti diverse, eterogenee in vista della produzione di un’omogeneità audiovisiva. Tuttavia nel lavoro di regia Ejzenštejn ha voluto distinguere tra la messa in scena e la messa in quadro (Ejzenštejn, 1964, 1989). La prima parte riguarda la predisposizione degli elementi del profilmico, cioè la preparazione, la messa in scena di ciò che deve essere ripreso. La seconda parte è dedicata alla definizione dell’inquadratura e dei codici che la riguardano (dalla scala dei piani all’angolazione, dall’illuminazione agli eventuali movimenti di macchina e alla durata). Invero, se dal punto di vista pratico questa distinzione ha una sua validità, in quanto riflette due sottoprocessi pragmatici, dal punto di vista teorico è assolutamente discutibile. La regia è insieme l’operazione di predisposizione del profilmico e l’operazione di definizione dell’inquadratura: i due momenti non si possono 1 Sarebbe interessante analizzare le diverse denominazioni delle stesse funzioni nelle differenti lingue del cinema. Regista, metteur en scène, director, Direktor, Regisseur, ad esempio, riflettono ciascuna un’accentuazione di alcuni elementi rispetto ad altri. Il termine «montaggio», poi, è tradotto in modi diversi che rispecchiano anche una differente concezione del montaggio stesso, diviso tra la combinazione e il taglio: montage, cut, Schnitt, montaž.

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distinguere sotto il profilo concettuale e formativo. Il profilmico predisposto esiste solo nell’inquadratura e per l’inquadratura. E del profilmico conta solo quello che entra nell’inquadratura. Tutto il resto per il cinema non esiste. Ma la regia (o messa in scena) può essere avvicinata all’attività di composizione o all’attività di scrittura? O a nessuna delle due? Nell’affermare la creatività del metteur en scène, che dovrebbe poter inventare con la libertà di uno scrittore, il regista e teorico francese Astruc ha parlato di caméra-stylo, sostenendo che la macchina da presa deve essere considerata come la penna di uno scrittore e ha quindi implicitamente prospettato l’equivalenza tra la creazione filmica e la scrittura letteraria. «Il cinema si svincolerà a poco a poco dalla tirannia del visivo, dall’immagine per l’immagine, dall’aneddoto bruto, dal concreto, per diventare un mezzo di scrittura flessibile, sottile al pari del linguaggio scritto» (Astruc, 1948). La regia è quindi una scrittura? E se sì, in che senso? La ripresa negli studi di cinema del concetto di scrittura avviene in relazione alla riflessione di Derrida in Della grammatologia (Derrida, 1969). In questa prospettiva la scrittura è un atto che realizza un processo di produzione di senso, che supera le univocità presunte del significato. È una traccia che non rinvia alla realtà ma ad altre tracce, senza implicare un’origine. Il termine composizione, invece, rimanda soprattutto alla musica. Il parallelo tra il cinema e la musica è stato più volte avanzato negli anni Venti. Il cinema «è musica per immagini», sosteneva Gance, è ritmo visivo, sinfonia visiva, e quindi la regia è un’operazione di composizione simile alla composizione musicale. L’avvicinamento del cinema alla musica evidenzia l’aspetto formale del cinema, il suo carattere di fluidità nel tempo, ma ri68

duce invece la considerazione degli aspetti drammaturgici della regia e delle componenti narrative del testo. Più persuasivo appare forse allora il termine di «configurazione», che è insieme coordinamento e figurazione, composizione per la visione, ed è allo stesso tempo efficace per analizzare il testo filmico che in genere non è rappresentazione – cioè riproduzione – ma appunto configurazione, cioè messa in forma di figure. La regia e il testo filmico sono configurazioni. La prima è configurazione come atto dinamico, il secondo come struttura visiva e narrativa. Messa in scena d’autore? Abitualmente la critica dà per scontato che nel lavoro di regia ci siano differenze tra l’espressività dell’autore e la realizzazione di film di genere. Ma fino a che punto è legittima questa distinzione? L’autorialità non è forse il prodotto di un’ideologia (nel senso di falsa coscienza) datata e legata alla (francese) «politica degli autori»? E l’opposizione tra film d’autore e film di genere non è sistematicamente smentita dalla storia del cinema? Va detto subito che una contrapposizione autore/ genere, che attribuisca l’artistico al primo e il commerciale al secondo orizzonte, è un atteggiamento idealistico che deve essere superato. Il cinema d’autore non è il valore artistico così come il cinema di genere non è l’industria. E l’idea di una superiorità del cinema d’autore sul cinema di genere è davvero obsoleta. Certo nella storia della critica la politique des auteurs ha avuto una grande importanza. Innanzitutto ha affermato la rilevanza del cinema americano e ha consacrato come grandi registi Hitchcock e Hawks, Ford e Wy69

ler, Ray e Minnelli. Ma insieme la politica degli autori ha concentrato l’attenzione sulla dicotomia autore/non autore, invece di interpretare i film e studiarne le dinamiche del senso. E oggi, di fronte alla ricchezza dei testi filmici e alla complessità del loro circuito nell’immaginario diffuso, richiudersi sulla problematica autore/non autore è davvero una scelta povera e miope. D’altronde non bisogna dimenticare che, in fondo, anche il cinema d’autore è un genere, e non sempre uno dei generi più interessanti. Quanti film d’autore presentano caratteri convergenti? Un protagonista in crisi esistenziale e con qualche forma di disagio. Una donna sfuggente e un amore non pienamente realizzato. Un rapporto difficile con il contesto, il lavoro, gli amici. Un elemento improvviso che rende drammatica la crisi. Un protagonista solitario che si guarda allo specchio. Un ombelico esibito come se fosse unico. Una messa in scena che introduce qualche (presunto) vezzo personale. Déjà vu, clichés, situazioni standardizzate non meno di quelle della commedia sofisticata o del noir. E allora perché considerare i film d’autore una categoria superiore, quando applicano spesso clichés diffusi e sono anche più noiosi? D’altronde i grandi film della storia del cinema sono film di genere o intrecci tra generi diversi: Quarto potere (genere biografico, biopic); Il gabinetto del dottor Caligari (thriller); Nosferatu il vampiro (horror); La regola del gioco (comédie de moeurs); Il dottor Mabuse (gangster film o noir); M (thriller psicologico); Sentieri selvaggi (western); Notorious, La finestra sul cortile, La donna che visse due volte (thriller); I figli della violenza (film di denuncia sociale), Viridiana (romanzo di formazione) (e cito due film di Buñuel ipervalutati dalla critica, ma che personalmente non considero i più im70

portanti); Fino all’ultimo respiro (noir proposto come B movie, cioè come film di genere di piccola produzione); La corazzata Potëmkin (film storico); L’uomo con la macchina da presa (documentario sul cinema); Barry Lyndon (film storico); 2001: Odissea nello spazio (fantascienza); Viale del tramonto e Mulholland Drive (noir su Hollywood). E si potrebbe continuare quasi all’infinito. Quindi l’opposizione autore/genere è improponibile, mentre ovviamente è estremamente rilevante la distinzione sui livelli di qualità e di complessità dei film. Lang è uno dei massimi registi della storia del cinema. Ma non tutti i film di Lang sono segnati dalla presunta genialità autoriale. E Cantando sotto la pioggia di Donen e Kelly, realizzato da due presunti non autori, è un musical ed è un grande film che evoca un passaggio fondamentale della storia del cinema. D’altronde l’opposizione tra una messa in scena espressiva legata all’autorialità e una puramente narrativa di mera regia è metodicamente smentita da un’analisi attenta dei film. Naturalmente, è vero che molti registi elaborano intenzionalmente una configurazione formale o uno stile di regia e quindi sottopongono il lavoro del set a un disegno compositivo preciso. Ma questo non passa attraverso l’opposizione autore/genere, bensì riflette modi diversi di concepire la messa in scena. Un film come Stranger than Paradise di Jarmusch, concepito come una serie di piani sequenza divisi da un nero, riflette un diverso progetto di regia rispetto a La donna che visse due volte. Ma sono due programmi, due idee di messa in scena diversi. È vero che a volte prevale un’esplicita costruzione del lavoro del set in funzione del montaggio (o del non montaggio) e quindi una particolare elaborazione della configurazione della regia. Ma questa opzione non è necessariamente una garanzia di qualità. Sciroc71

co d’inverno di Jancsó è il risultato di una messa in scena singolare, costituita da macropiani sequenza, non diversamente da Nodo alla gola di Hitchcock: ma sono film che restano meno interessanti di altri dei medesimi registi, come L’armata a cavallo o Notorious, forse meno programmati, ma in cui l’immaginario e le opzioni formali si fondono più profondamente. Quindi il lavoro di composizione o di configurazione proprio della regia può articolarsi in prospettive e direzioni diverse e raggiungere la propria qualità nella fusione di molteplici elementi e non nell’affermazione di un astratto principio di stile. L’opposizione che Roland Barthes un tempo aveva fatto nella letteratura tra écrivain (scrittore) ed écrivant (scrivente, cioè narratore senza qualità) va radicalmente superata (Barthes, 1966). Il cinema dimostra che un film di genere può essere un grande film e un film con i caratteri dell’espressione personale può essere una delusione clamorosa. La lista sarebbe davvero lunghissima e impietosa: la evito per non cedere al gusto sadico dell’irrisione. Spesso i film più personali sono i meno riusciti. La messa in scena si misura quindi con i codici linguistici, i modi comunicativi e le aspettative del pubblico, elaborando di volta in volta sintesi nuove, insieme aperte al rischio e segnate dalla ricerca di una forma coerente. Ma le forme sono il risultato di una scommessa difficile in cui la ricerca dell’autorialità può spesso diventare un boomerang. Questo non vuol dire naturalmente che sul set Lang e Bresson lavorino nello stesso modo. Bresson disincarna il visibile, piegando il lavoro del set a una radicale stilizzazione fondata sull’irregolare e l’anomalo. È una sua scelta forte, che reinventa il cinema fuori dagli schemi. Al contrario, Lang costruisce le immagini con configurazioni geometriche e spesso 72

simmetriche, e considera plausibile un movimento di macchina solo se è correlato alle esigenze narrative e alle dinamiche del punto di vista. In entrambi i casi c’è un’opzione di regia forte. Ma in un caso si va nella prospettiva dell’originalità, nell’altro in quella del rigore compatibile. E ciascuno costruisce il proprio progetto di messa in scena attraverso la complessità dell’immaginario e della macchina cinema, al di là della dicotomia idealistica tra personale e standardizzato, tra espressività e norma. Nei film più riusciti, insomma, la scrittura e la narrazione non si danno in opposizione, ma sono fuse in un unico processo configurativo che la messa in scena e il lavoro del set si impegnano a realizzare2. Il lavoro del set Se la nozione di messa in scena mantiene aspetti di problematicità è anche perché la figura del regista e il lavoro della regia si sono variamente modificati. E naturalmente si sono anche modificati i modi di lavorare, l’organizzazione della ripresa e le competenze del regista stesso. Le trasformazioni del modo di lavorare sul set variano non solo nei diversi periodi storici, ma anche 2 Invero, sotto il profilo teorico, va detto che l’attenzione della critica più avanzata è sempre più rivolta al testo, alla sua forma e al suo funzionamento piuttosto che all’autore. E insieme che l’attività interpretativa si concentra sempre meno sull’intentio auctoris (l’intenzione dell’autore) e sempre più sull’intentio operis e sull’intentio lectoris, come notava Umberto Eco già nei Limiti dell’interpretazione (Eco, 1992). Vediamo dunque i film con tutta la ricchezza dei sensi che sanno comunicare. Guardiamoli come la produzione dell’immaginario per eccellenza del mondo contemporaneo e insieme come una configurazione di concetti radicati nelle scene e nelle forme dei film. Come macchine che producono fantasmi, idee ed emozioni. Al di là dell’insipida questione dell’autore.

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nelle cinematografie e in relazione ai registi. Gli autori riconosciuti godono evidentemente di una situazione privilegiata di controllo del tournage e del montaggio, mentre molti altri registi non hanno il controllo del montaggio finale. Tant’è vero che a volte si parla di director’s cut, proprio per distinguerlo dal montaggio degli studios, cioè del produttore. È significativa una battuta di Ford durante il tournage di un film ambientato in Irlanda. A un collaboratore che gli suggeriva di girare un primo piano di un personaggio addolorato, Ford risponde: «No, altrimenti lo usano», sottolineando evidentemente il mancato controllo del montaggio. I registi europei riconosciuti come autori hanno invece, in genere, un controllo totale della messa in scena, o cercano in ogni modo di averlo. In America l’intervento della produzione è più forte, ma non va considerato necessariamente come una prassi negativa. Il livello della produzione americana riflette un equilibrio straordinario all’interno della macchina produttiva, che rende giustamente la nozione di autore meno rilevante. Il Ludwig ridotto dal produttore si è rivelato meno indigesto della versione viscontiana recuperata. Allo stesso modo la versione di Nuovo cinema paradiso che ha avuto successo non è la prima versione di Tornatore, ma una più breve influenzata dal produttore. In altri casi lo scontro con il produttore è stato invece deleterio. Si pensi ai contrasti frequenti di von Stroheim con i produttori, che hanno portato alla distruzione di molti dei suoi film. Il restauro di Rapacità con le fotografie di set permette oggi di immaginare un affresco più ampio e complesso della versione estremamente ridotta predisposta dal produttore, dopo un lungo braccio di ferro con il regista. Tuttavia, al di là delle questioni relative alla figura, 74

alla funzione e al potere del regista, è necessario tenere presente che ci sono anche modi diversi di lavorare sul set da parte degli autori della storia del cinema. Una contrapposizione di fondo può essere delineata tra i registi che vogliono dirigere e controllare assolutamente tutto sul set e i registi che improvvisano e sono aperti ai contributi dei collaboratori e degli attori. Da un lato c’è la linea Lang-Hitchcock, per citare due grandi maestri. Tutto è assolutamente definito e programmato prima dell’inizio delle riprese e il tournage deve soltanto concretizzare quello che è stato precedentemente stabilito. I tecnici e gli attori sono impegnati a realizzare esattamente quanto immaginato dall’autore. Devono cercare di dare corpo all’immagine virtuale delineata nella mente del regista. Nulla di meno, ma anche nulla di più. Hitchcock dice che sul set realizza esattamente quello che ha programmato usando prevalentemente degli story-boards per costruire più adeguatamente le inquadrature (Truffaut, 1978). Anche se ha una nuova idea, preferisce non seguirla perché non ha il tempo di riflettere e di verificarne la validità. Lang, soprattutto nel periodo tedesco, ma spesso anche a Hollywood, lavora con disegni preparatori accurati, che costituiscono una programmazione precisa dell’immagine e delineano in modo rigoroso la composizione visiva, quel modello di figurazione geometrica che nel cinema di Lang gioca una funzione estetica essenziale (Bertetto, Eisenschitz, 1993). L’uso di sceneggiature molto dettagliate e di story-boards implica l’elaborazione di découpages, cioè di segmentazioni tecniche prima della ripresa, e spesso tende a spostare la progettazione del montaggio nella fase di preparazione del tournage. Già prima di girare Hitchcock e Lang sanno che tipo di montaggio effettueranno e quindi di qua75

li materiali visivi (inquadrature) hanno bisogno. E nel dialogo con Godard nel film per la tv Le dynosaure et le bébé, Lang sottolinea l’importanza della programmazione dei tipi di inquadratura anche nella gestione dello spazio e nell’organizzazione dei modi e dei tempi della ripresa. Dall’altro lato c’è la linea dei registi che amano improvvisare sul set, Renoir, Rossellini, Godard. Autori che lavorano con sceneggiature limitate o aperte, pronti a modificare la messa in scena in relazione agli spazi, ai comportamenti e alle idee degli attori, e alle intuizioni del momento. Registi che prediligono riprese lunghe in cui la gestualità e la recitazione degli attori hanno modo di mostrarsi in continuità. Renoir cambiava le battute con gli attori, cercava di costruire il personaggio in rapporto alla sensibilità degli interpreti. Di Rossellini si dice che ignorasse la sceneggiatura iniziale e lavorasse sulla base di pochi appunti scarabocchiati su un foglietto (ma di Rossellini si dice anche che fosse sempre al telefono a cercare i soldi per proseguire il tournage. Non si capisce allora come potesse concretarsi la sua creatività. Le leggende vanno verificate). Godard diceva di avere scritto i dialoghi del suo primo film il giorno prima, quelli del secondo film la notte prima e quelli del terzo film direttamente sul set, sottolineando quindi il carattere di improvvisazione e di immediatezza del suo modo di lavorare. Tra il modello della programmazione assoluta e il modello dell’improvvisazione sul set ci sono poi infinite varianti intermedie. E se nel cinema americano degli studios il tournage segue in genere con attenzione la sceneggiatura, anche per evitare modifiche che implicherebbero ritardi e costi, il cinema d’autore europeo è più legato alla possibilità di cambiare molte cose durante le 76

riprese. D’altronde, alle sceneggiature molto precise con cui lavoravano Lang e Hitchcock sia in Germania e in Inghilterra che in America, si oppongono le sceneggiature narrative più generiche del cinema italiano – prive in genere di notazioni tecniche – o quelle essenziali della Nouvelle Vague o, ancora, le sceneggiature del cinema espressionista o del Kammerspiel (ad esempio di Carl Mayer), che spesso sono un testo letterario molto sintetico che punta a evocare gli eventi, a prefigurare un’emozione, più che a descrivere le azioni da mettere in scena. Nel cinema americano contemporaneo di media e grande produzione naturalmente si afferma sempre più un modello operativo segnato dalla totale programmazione del tournage, caratterizzata anche dall’uso di storyboards che delineano con precisione la scenografia e l’azione dei personaggi con una vera e propria prefigurazione dell’immagine. La ripresa diventa quindi il punto conclusivo di un lavoro che non è semplicemente di preparazione ma è di progettazione operativa, perché garantisce la realizzabilità dell’immagine e del film. D’altronde, lavorare con story-boards dettagliati significa non solo prefigurare l’inquadratura, ma anche il montaggio, e quindi implica una ripresa della tecnica del découpage, molto importante nel cinema classico e che invece nel cinema moderno è stato trascurato o respinto. Un’altra questione riguarda la ripresa vera e propria. Alcuni registi puntano a girare dopo avere effettuato molte prove, altri preferiscono l’immediatezza del primo ciak. Chaplin, Kubrick, e in Italia Pontecorvo, girano un numero elevato di ciak alla ricerca continua della perfezione. Altri registi invece preferiscono la prima inquadratura: Ford e Godard, in due contesti produttivi diversi, optano entrambi per la prima o la seconda in77

quadratura, che ai loro occhi possiede evidentemente un’autenticità maggiore. Non sono questioni secondarie. Sono opzioni che riflettono differenti concezioni del cinema. Girare una sequenza Pensate ora al lavoro del set. Sul modello degli Exercices de style di Queneau, immaginatevi l’organizzazione e la ripresa di un episodio narrativo (naturalmente banale): ad esempio, l’incontro di un gruppo di giovani nei corridoi di un’università o di un liceo, in cui un ragazzo ha un debole per una ragazza. Pensate a una regia ispirata ai modelli del cinema classico. Un’ampia inquadratura all’inizio, poi un piano più ravvicinato con, al centro, il protagonista, poi un altro piano per privilegiare la ragazza desiderata, ancora una serie di piani ora con due-tre personaggi ora semplicemente con il personaggio che sta parlando, qualche piano in campo e controcampo per seguire un dialogo, qualche movimento di macchina per seguire eventuali spostamenti, qualche raccordo sull’asse o sullo sguardo per garantire la continuità. Nell’economia della configurazione narrativa il protagonista maschile e la protagonista femminile dovranno avere naturalmente un numero adeguato di piani e non potrà mancare un raccordo di sguardo tra il ragazzo e la ragazza. Le inquadrature saranno di media durata (10⬙-12⬙) e con un’illuminazione costante a luce diffusa e omogenea. Pensate poi a una regia ispirata ai modi del cinema moderno. Le inquadrature sono più lunghe, a volte molto lunghe, l’establishing shot iniziale non è previsto, il personaggio che parla non deve essere necessariamente inquadrato, i movimenti di macchina possono 78

creare percorsi particolari e anomali, il montaggio può spezzare i raccordi, può ricorrere ai jump cuts. La luce può essere neutra, a volte opaca, meno precisa nel delineare i profili, più «autentica». O, naturalmente, la regia può realizzare un piano sequenza, girando tutta la scena in continuità e magari sfruttando anche effetti di profondità di campo, come avrebbe voluto Bazin. Pensiamo infine a una regia influenzata dal cinema americano contemporaneo. Le inquadrature saranno più brevi e più numerose. I punti di vista della macchina da presa saranno molteplici e con tutte le angolazioni desiderate. Anche i modi del montaggio saranno liberamente inventati. I piani ravvicinati, i primi piani e i dettagli potranno avere una nuova rilevanza. E si potranno anche usare obiettivi diversi, passando da focali corte a focali lunghe per rendere la visione più singolare. Sono tre modi diversi di concepire una messa in scena. Tre modi che ci aiutano a capire il lavoro di regia e le forme linguistiche del cinema. La direzione d’attore e i modelli di recitazione La direzione e il lavoro degli attori nel cinema è un aspetto sicuramente importante della messa in scena, che purtroppo è stato poco studiato. È bene precisare subito che nel cinema gli stili attoriali si definiscono attraverso la sintesi e l’interazione di più livelli: in relazione alla tradizione recitativa dello spettacolo, in rapporto al linguaggio filmico, alle tecniche di produzione del film e alle opzioni di regia, e infine nel quadro dei meccanismi di attesa del pubblico. Welles diceva che ci sono due linee di direzione d’attore: «Sapete, ci sono due grandi scuole per ammaestrare i leoni, quella francese e quella tedesca. In una, quel79

la francese, gli animali sono rigidamente tenuti in posti precisi. Nell’altra, quella tedesca, gli animali hanno sempre l’aria di lottare con il domatore. Così ci sono due grandi scuole di registi: quella in cui il regista domina l’attore e l’atterrisce per farne una cosa sua, e l’altra, alla quale appartengo: non cerco di dominare, tutti i miei attori ve lo diranno» (cit. in Bertetto, 2007b, p. 307). Né Lang né Hitchcock vogliono attori sopra le righe, che allargano il loro spazio e la loro creatività. Gli attori devono eseguire quello che chiede loro il regista. E diverse foto di set ci presentano Lang che, accanto alla macchina da presa, mostra all’attore quello che deve fare, dirigendo esplicitamente la sua recitazione. Ci sono immagini del set molto belle di Lang che guida Brigitte Helm in Metropolis o mentre interpreta lui stesso la parte di Rudolf Klein-Rogge in L’inafferrabile. Lang indica la recitazione che desidera prima del tournage e poi durante la ripresa guida ancora la recitazione con la sua gestualità di accompagnamento. E anche nell’ultimo film, Il diabolico dottor Mabuse, si sdraia a terra per mostrare esattamente la posizione e i movimenti all’attore: segno di una volontà di direzione dell’attore e di configurazione dell’inquadratura che resta vitale per tutta la sua carriera cinematografica (Bertetto, Eisenschitz, 1993). L’attore diventa allora una maschera totalmente spossessata di ogni possibile soggettività e ridelineata all’interno del lavoro del set. La maschera dell’attore è una forma disegnata dal metteur en scène, è qualcosa che si realizza attraverso una rottura radicale con le esperienze precedenti di recitazione e con le soggettività particolari. Lang vuole costruire personaggi che non dialogano con altri personaggi e altri stili di regia, ma che oggettivano la sua immagine mentale, la prefi80

gurazione fantasmatica dell’immagine filmica che ha intellettualmente elaborato. Hitchcock era meno dinamico sul set, ma altrettanto precisa era la sua esigenza di comando e di controllo. D’altronde di Hitchcock si diceva che avesse affermato in un’intervista: «gli attori sono bestiame». Hitchcock ha in seguito negato la frase, ma questo non ha impedito a Carol Lombard, che era sua amica, di portare sul set nel primo giorno di tournage una mucca con un cartello appeso al collo: «Actor». E Dick Powell racconta questa scena: «‘Passa attraverso quella porta – mi diceva – fai quattro passi nella stanza. Fermati. Conta fino a tre. Poi guarda alla tua destra’. ‘Perché?’, chiedevo. ‘Perché te lo dico io’, era la risposta» (cit. da Aumont in Bertetto, 2007b, p. 105). D’altronde Hitchcock dichiara a volte la sua insofferenza verso gli attori che partecipano a un film con idee personali. Ad esempio, critica Kim Novak che in La donna che visse due volte voleva imporre alcune sue idee di trucco e di vestiario. Tutte cose che doveva decidere Hitchcock (Truffaut, 1978). E a maggior ragione per un film così complesso, dedicato a una doppia manipolazione dei due personaggi interpretati dall’attrice, un film sulla messa in scena e i simulacri. Ma la direzione d’attore è un fatto problematico. Un episodio raccontato da Walsh nella sua autobiografia sottolinea l’importanza sul set della funzione del comando. Il regista gira un piano con Bogart. È soddisfatto del risultato. Dice: «Buona la prima». Bogart dice che non è contento. Vuole fare una seconda ripresa. Walsh dice di no. Bogart insiste: «Fallo per me». Alla fine Walsh accetta. Gira la seconda ripresa, poi va alla macchina, strappa il pezzo di pellicola corrispondente e la dà a Bogart: «Eccola per te» (Walsh, 1974). La direzio81

ne del film (e dell’attore) compete al regista. Anche se l’attore è un divo. Ma, invero, ci sono anche altre prospettive. I grandi divi e le grandi dive spesso svolgevano una funzione attiva anche nelle scelte di tournage e avevano spesso dei registi e dei direttori della fotografia di fiducia, che imponevano nei loro film (ad esempio, Greta Garbo e Clarence Brown). Un regista americano di medio livello, ma dotato di humour, Vincent Sherman, aveva appena girato un film con due star esigenti come Bette Davis e Miriam Hopkins. Alla domanda di Edward Dmytryk se gli fosse piaciuto dirigere le due attrici, risponde: «Non le ho dirette. Ho ubbidito» (Dmytryk, 1984, p. 31). Sui metodi di lavoro, poi, di indubbio interesse è quello che dice Renoir nel film di Gisèle Braunberger, La direction d’acteur par Jean Renoir. Il regista parla del suo modo di direzione degli attori, che definisce «metodo all’italiana». «Consiste nel leggere il testo esattamente come se si leggesse l’elenco telefonico. Ci si vieta assolutamente qualsiasi espressione. Si legge, si legge, si legge. Le parole, le parole. E poi allora tutto questo penetra, penetra dolcemente, lo spirito si apre, il cuore si apre, i sensi si aprono, e a un certo momento, se l’attore, o l’attrice, ha delle qualità, si ha una piccola scintilla, pam, parte, parte, e si ha il personaggio» (cit. da De Vincenti, in Bertetto, 2007b, p. 122). È un racconto che sottolinea la rilevanza dell’attore nel fare emergere il personaggio, al di là dell’impostazione o dell’imposizione del regista. Dopo La dolce vita e 8½, Fellini crea gradualmente un nuovo modello d’attore, meno legato alla narrazione e segnato dall’apertura all’anomalo, al grottesco, al visionario. Questa opzione implica una riduzione della funzione attoriale, che è tendenzialmente negata nelle sue capacità sceniche di costruzione di un personaggio, 82

e insieme un’affermazione della forza del tipaz eisensteiniano, della potenza visiva di un volto deformato, di una faccia truccata, di un corpo segnato da una distorsione. L’attore diventa una maschera e la maschera viene inscritta in una successione di immagini che è una catena di maschere, una galleria di possibilità ai limiti dell’umano. Al fondo dei percorsi narrativi e dei soggetti, Fellini vede sempre emergere la forma allucinata, illusiva e ghignante della maschera. Così Fellini trasforma l’essere al mondo dei personaggi e degli attori in un essere per la scena, e fa del mondo visibile come una galleria di maschere grottesche. Il mondo va al di là del reale e del naturale, il realismo è negato radicalmente: esiste solo il teatro impazzito eppure perfettamente progettato delle maschere, che si mescolano in una gamma infinita. Gli esempi, in ogni modo, potrebbero essere molteplici e certamente suggestivi. In questa sede, tuttavia, è meglio delineare brevemente un percorso storico. Il cinema infatti conosce l’affermarsi di stili di recitazione in parte mutuati dal teatro e riadattati al cinema, in parte inventati soprattutto per il set cinematografico. Con il sonoro si afferma un canone performativo segnato da un modello di gestualità preciso e da una codificazione del rapporto gesto-emozione, comportamento-significazione. È un’operazione che si realizza attraverso una duplice affermazione di modelli, l’uno legato alla tecnica della recitazione e l’altro alla teoria del linguaggio filmico. Il primo – come ha mostrato James Naremore nel suo fondamentale libro, Acting in the Cinema (Naremore, 1988) – è l’affermarsi, soprattutto in America, del metodo Delsarte, ripreso dal teatro e dalla manualistica teatrale e diffuso poi in America dapprima grazie alla didattica dell’American Academy of Dramatic Arts, 83

e poi perfezionato in seguito alla pubblicazione a New York, nel 1927, di The Art of Pantomime di Charles Aubert. Il metodo Delsarte prospetta la «funzione semiotica» della gestualità attoriale, costruendo il gesto come oggettivazione controllata e programmata di un sentimento o di un’emozione. L’attore fa ricorso a modi di recitazione chiari e definiti che assicurano una comunicazione comprensibile dello stato psichico del personaggio. Il secondo aspetto importante è costituito dall’assunzione del cosiddetto «effetto Kulešov», come modello fondato non solo sul montaggio, ma sulla persuasione che la produzione di senso sia realizzata attraverso l’accostamento di immagini diverse e che l’espressività di un volto sia garantita dal contesto visivo in cui è inserita. E come il volto di un grande attore come Ivan Mozzuchin, negli esperimenti di Kulešov, poteva esprimere emozioni opposte combinato a una tavola imbandita o a una bara, così la costruzione dell’espressività dell’attore nel cinema classico era il risultato di una codificazione controllata della gestualità e dell’inscrizione in un contesto visivo-dinamico attraverso il montaggio analitico e trasparente. Queste due opzioni implicano una riduzione dell’intensità espressiva e gestuale della performance attoriale e una semplificazione programmata dell’interpretazione. L’attore segue canoni definiti di oggettivazione delle emozioni e sa che il senso dell’evento narrato è garantito dal coordinamento delle inquadrature, cioè dal montaggio. Così il suo lavoro mantiene un’apparente semplicità e naturalezza, fondate su tecniche precise ma non invadenti, invece di costruire una recitazione forte o pesante. Come dice Lang, riferendosi alle varianti del modello classico, l’attore americano, più che recitare, interpreta un ruolo. 84

L’affermarsi di altri modelli d’attore – dall’attore preso dalla strada del neorealismo all’attore centrato sull’identificazione e sulla partecipazione emozionale dell’Actors’ Studio – riflette forme di recitazione diverse, finalizzate alla ricerca della presunta autenticità dell’esperienza in luogo dell’impiego di stili consolidati di espressività. Certo la direzione del neorealismo è antitetica a quella dell’Actors’ Studio. L’autenticità del neorealismo è l’essere nella vita che sostituisce il recitare. L’autenticità dell’Actors’ Studio è ritrovare nella propria soggettività le radici della creazione di un personaggio. Il neorealismo tende ad azzerare le tecniche, l’Actors’ Studio a perfezionarle e a intensificarne la carica psichica. Ma in entrambi c’è l’idea di superare il grande canone dell’interpretazione classica. Nella scuola di Lee Strasberg, l’attore è formato per sperimentare in prima persona la vita immaginaria del personaggio e tende quindi a intensificare la gestualità e l’espressività, creando performance più forti, ma a volte anche più pesanti. La direzione d’attore di un regista Actors’ Studio come Kazan diventa quindi insieme un lavoro di indicazione di prospettiva e, al tempo stesso, una sorta di esercizio maieutico che punta a far emergere dalla soggettività di un attore i sentimenti e il fondo di esperienza necessari nella prestazione recitativa. La direzione d’attore. Questioni teoriche Nel lavoro sul set e nella direzione d’attore ci sono due componenti assolutamente opposte che è bene cominciare a evocare: da un lato la concretezza del lavoro pratico, dall’altro la fantasmaticità, la dimensione immaginaria. Prendiamo ancora due esempi, legati a registi che abbiamo già incontrato, Walsh e Lang. 85

Innanzitutto il lavoro sul set è qualcosa di concreto, magari di difficile, che investe insieme le prestazioni degli attori e l’impegno del regista. C’è ancora un racconto di Walsh che è significativo. Il regista sta girando un film. Un attore deve saltare da un muro. Il muro è alto. L’attore si rifiuta. Walsh insiste. L’attore dice: «Fallo tu!». Walsh sale sul muro e salta. Cade a terra. Si rialza e si appoggia al muro. L’attore oramai è costretto anche lui a saltare. Lo fa. Salta e urla dal dolore. Si è rotto una gamba. Un uomo sul set chiama una barella, e Walsh interviene: «Due». Anche lui si era rotto una gamba (Walsh, 1974). Ma la messa in scena produce immaginario. KleinRogge – interprete tra l’altro del Dottor Mabuse – commenta il lavoro di Lang, affermando che «il regista crede al potere di ciò che non è reale, di ciò che non è mai esistito e che perciò suona sempre come nuovo» (Metropolis, 1927). Con Lang l’attore sa di dover figurare fantasmi, di doversi addentrare nell’irreale per dar vita a nuove forme visive, a nuove configurazioni dell’immaginario. Sa di essere guidato nell’orizzonte delle ombre e dell’impalpabile per far vivere un mondo interiore. Lavora per creare un mondo che non è reale ed è destinato ad allargare infinitamente l’orizzonte del possibile. Costruisce azioni, gesti, espressioni per diventare un fantasma, per creare altri fantasmi che vivranno sullo schermo e nella psiche degli spettatori. Dunque, i fantasmi da un lato, ma dall’altro l’alea, il rischio del lavoro sul set. Creare fantasmi e superare difficoltà e ostacoli concreti. Non c’è l’uno senza l’altro. Non ci sono le ombre immaginarie senza la prassi concreta per produrle. Il cinema è un immaginario. Ma è un immaginario che bisogna produrre e delineare sul set. Il concreto dei fantasmi. La dimensione immaginaria delle cose 86

e dei corpi. La creazione di simulacri in un’immagine simulacro. Nel lavoro dell’attore il rapporto concreto-fantasma si presenta anche come alternativa: la recitazione è un comportamento o una performance, è più vicina all’evento o alla scena? Nel cinema narrativo la performance dell’attore costruisce il visibile filmico, è la traccia gestuale che la luce inscrive sulla pellicola e nell’immagine. Il suo dinamismo disegna percorsi gestuali destinati a diventare credibili nel patto con lo spettatore. Nella fotografia, come scrive Barthes, c’è qualcuno che è stato lì, il riconoscimento di un essere stato in un luogo (Barthes, 1980). Nel cinema non c’è un comportamento legato alla vita e al mondo. La performance non è un mero comportamento esistenziale trasferito sul set. È la costruzione di un’azione riflessa, funzionale allo sviluppo di una narrazione per immagini, capace di essere configurata sullo schermo e disegnata secondo le esigenze visivo-dinamiche definite dal progetto di messa in scena e dunque dal regista stesso. È un atto, forte, ma non autonomo, carico di energia, ma non spontaneo, finalizzato e non naturale. È una mediazione, realizzata consapevolmente e delineata secondo un incrocio di interazioni: con la tradizione recitativa, con il gusto del pubblico, con le tecniche acquisite dall’attore, con il progetto di messa in scena del regista. La performance può oggettivare l’interiorità identificata dell’attore o i modelli tecnico-gestuali definiti dalle scuole di recitazione: ma sempre costruisce il proprio percorso attraverso codici che la indirizzano e indicazioni che la guidano. È l’inscrizione nell’apparente spontaneità dell’agire, di uno spessore mediato e mediale, di una griglia di opzioni e di codici comunicativi che trasformano la prestazione in un vettore significante, la 87

fanno diventare produzione di senso e produzione di emozione. L’attore simula i gesti e i comportamenti della vita in modo da essere visto come un performer che insieme nasconde ed esibisce la propria performance. Nel cinema l’attore è un soggetto che davanti alla macchina da presa effettua gesti, movimenti, parla, sapendo di compiere una prestazione destinata a un pubblico. Il fatto di non recitare davanti agli spettatori, ma davanti a un’équipe tecnica e all’occhio immutabile della macchina da presa non è un elemento secondario. L’attore è insieme più libero, ma anche inscritto in un meccanismo più astratto, non sente il pubblico, ma può essere più apertamente guidato dal regista. Lavora per qualcosa che non deve guardare, ma che gli sta davanti e attorno con tutto il peso dell’apparato. Tutto quello che nel set cinematografico è attorno all’attore sottolinea il carattere di simulazione implicito nella performance: la performance non è solo azione, ma è anche coscienza della performance e delle sue finalità. Anche nell’identificazione attoriale non può non esserci una coscienza della performance, una consapevolezza della prestazione che si tratta di compiere. Come dimostra apertamente, in King Kong, la sequenza sulla nave in cui il regista chiede alla giovane attrice (Faye Wray) di simulare lo stupore e la paura, l’attore cerca di oggettivare l’immagine virtuale che gli è chiesta (Bertetto, 2007a). La ripetizione di un modello virtuale elaborato simbolicamente dal regista è un esercizio di simulazione effettuato dall’attore. La recitazione è (anche) simulazione. È la simulazione che caratterizza il cinema. Non bisogna, infine, dimenticare che nel cinema il lavoro con l’attore è costituito in relazione al linguaggio 88

filmico e alle forme differenti della messa in scena. Nel cinema classico e postclassico la recitazione in brevi inquadrature della durata di 10⬙-15⬙, o in brevissimi piani di 3⬙-5⬙, implica una gestualità particolare e quindi una formazione tecnica specifica e, insieme, una particolare capacità di gestione dei comportamenti e delle emozioni. Nelle inquadrature lunghe, invece, l’attore è apparentemente più libero di oggettivare in continuità la propria volontà espressiva, ma, al tempo stesso, deve inscrivere la maggiore libertà apparente dentro il progetto di ripresa del regista, assecondando magari movimenti di macchina elaborati, dislocazioni particolari nello spazio, variazioni della scala dei piani. L’attore recita per l’inquadratura, funzionalizza la sua gestualità e la sua espressività all’inquadratura. La sua tecnica è reinventata in funzione del linguaggio cinematografico. Il suo corpo e il suo volto diventano un segno del film.

Capitolo 4

L’immagine filmica

Che cosa vedo al cinema, sullo schermo? Un’immagine proiettata, generalmente in movimento. Prendiamo un’immagine della Monument Valley, con la sua distesa di sabbia e di arbusti, le montagne squadrate di arenaria e le rocce rosse, che sembrano intrise di sangue, le Three Sisters, i West Mitten e la Sentinel Mesa (Fort Apache, I cavalieri del Nord-Ovest, Sentieri selvaggi). O un’immagine della costa a nord di San Francisco con il mare blu, le rocce, la linea frastagliata della terra e Madeleine/Kim Novak con il suo cappotto bianco e Scottie/James Stewart che si abbracciano romanticamente (La donna che visse due volte). O l’immagine di Claudia/Monica Vitti e di Sandro/Gabriele Ferzetti che nel paesaggio aspro e desolato dell’isola di Lisca Bianca cercano vanamente Anna che è misteriosamente scomparsa (L’avventura). O quella di Sylvia/Anita Ekberg con un abito da sera scollato che entra nella Fontana di Trevi e cammina, invasa da una sensazione particolare (La dolce vita). O, ancora, l’immagine non in movimento del segmento più elevato dell’Empire State Building nel pomeriggio 90

di un giorno e poi nella notte a New York (Empire di Warhol). Che cosa sono queste immagini, segnate da una forza visiva ed emozionale così grande, che lo spettatore vede con un piacere e una partecipazione particolari? Sono una finestra aperta sul mondo o una forma prodotta artificialmente, uno specchio che riflette il visibile o un simulacro che ci illude, ma ci invita a pensare? Sono una rappresentazione che riprende l’oggetto o il risultato di un lavoro di simulazione e di configurazione di un nuovo visibile? Insomma, che cos’è l’immagine filmica? Al di là delle diverse interpretazioni emerse nella teoria del cinema, l’immagine filmica presenta alcuni caratteri di base che ne definiscono la struttura. Essa ha innanzitutto una doppia valenza, da un lato in quanto registrata e impressa sulla pellicola, dall’altro in quanto proiettata e destinata ad apparire su uno schermo. Anzi, la sua oggettivazione effettiva è ottenuta soltanto nella proiezione sullo schermo. L’immagine filmica deve quindi essere attivata grazie al meccanismo di proiezione e presenta caratteri di impalpabilità, di assenza dei contenuti visibili e di virtualità. È quindi segnata dalla presenza di una configurazione visiva e dall’assenza degli oggetti e delle persone visualizzate. Anche se l’immagine proiettata è un’immagine-movimento nel tempo, di fatto il movimento percepito dallo spettatore è il risultato di un processo percettivo effettuato mescolando funzioni fisiologiche e intellettuali, in quanto la pellicola è costituita da una serie di immagini statiche, registrate fotogramma per fotogramma. Ogni insieme impresso sulla pellicola è sempre immobile, eppure il cinema presenta un’immagine in movimento perenne. L’immagine filmica è il risultato di 91

una proiezione che prevede nel cinema sonoro uno scorrimento a 24 fotogrammi al secondo (da 12 a 20 durante il muto) alternati a 24 istanti di nero. Esce quindi dal nero, è quasi incorporata al nero, anche se appare allo spettatore da esso totalmente svincolata nella sua apparente continuità mobile. Le teorie dell’immagine filmica Le teorie del cinema hanno riflettuto molto sull’immagine filmica, elaborando posizioni diverse che riflettono sostanzialmente due modelli di concezione dell’immagine: da un lato l’immagine come imitazione, riproduzione del mondo, dall’altro l’immagine come produzione, come configurazione realizzata, come artificio. L’immagine quindi si declina sull’asse rappresentazione/composizione, cosa/forma, mimesis/poiesis. L’immagine è un imitare o un fare? È una riproduzione o una produzione? È una finestra, uno specchio o un quadro? Nella storia delle teorie del cinema, le due linee si sviluppano e si contrappongono continuamente, anche se è vero che c’è un periodo in cui prevale la linea della forma visiva e un periodo in cui prevale l’opzione realistica. Se Arnheim e Ejzenštejn negli anni Venti e Trenta sostengono una teoria della forma visiva, al contrario i secondi anni Quaranta, e poi gli anni Cinquanta vedono un’affermazione delle teorie del realismo, mentre dopo gli anni Sessanta componenti legate al realismo e componenti legate alla forma visiva si intrecciano e a volte si mescolano variamente. La linea del realismo. Secondo Bazin tra l’oggetto e l’immagine (fotografica e per estensione cinematografica) c’è un legame sostanziale, o meglio ancora ontologico. 92

L’immagine infatti «beneficia di un transfert di realtà dalla cosa alla sua riproduzione» (Bazin, 1973, p. 8). La cosa è quindi nell’immagine e il cinema aggiunge all’immagine fotografica due ulteriori determinazioni: il movimento e la durata, cioè il tempo. E l’essenza del cinema diventa per Bazin catturare l’immediatezza del mondo, riprodurre gli eventi con la massima aderenza. Non a caso per il critico francese l’ideale è l’immaginefatto del neorealismo. Nei suoi excursus sulla storia del cinema, Bazin distingue un po’ forzatamente tra due tipologie di registi, quelli che credono nella realtà e quelli che credono nell’immagine e tende a privilegiare le procedure di restituzione cinematografica dell’ambiguità del reale, ad esempio il piano sequenza e la profondità di campo, contro la tradizione del montaggio analitico e quella del montaggio produttivo. A parere di chi scrive, il contributo teorico di Bazin, piuttosto confuso, è stato a lungo sopravvalutato, mentre resta fondamentale la sua capacità di analizzare i modelli di messa in scena e lo spostamento dell’attenzione critica sulla scrittura filmica. Sulla linea del realismo va anche il contributo di Siegfried Kracauer, importante saggista tedesco, autore, negli anni dell’esilio in America, di due significativi libri sul cinema, tra cui Theory of Film, orridamente tradotto in italiano Film. Ritorno alla realtà fisica, che sottolinea la capacità di attestazione del mondo dei fenomeni, di documentazione assolutamente nuova e particolare del visibile (Kracauer, 1962). Pasolini poi identifica immediatamente l’immagine filmica con la realtà. Il cinema è la lingua scritta della realtà, registra il linguaggio dell’essere. Le immagini filmiche – definite im-segni, in omaggio alla moda semiologica – sono un’unità espressiva che esce dal magma 93

delle cose e viene percepita non grazie alla riconoscibilità di vari codici linguistici, ma per una condivisione generalizzata dell’esperienza dello sguardo. L’immagine è la cosa che si manifesta anche dentro il cinema, come uno dei modi di autorappresentazione e di oggettivazione del mondo. L’immagine è quindi il mondo, ed è al tempo stesso un linguaggio della realtà, in cui è possibile individuare una vera e propria «grammatica della cinelingua» (Pasolini, 1972). Sono posizioni spesso generiche e semplificative, che tuttavia vanno ricordate anche per il ruolo svolto da Bazin come maestro dei giovani critici destinati a diventare i registi della Nouvelle Vague, da Godard, a Truffaut, da Chabrol a Rohmer. L’immagine come forma visiva. In un’ottica molto diversa e con una consapevolezza teorica indubbiamente più forte, si sviluppa la ricerca sull’immagine filmica come configurazione formale. I primi grandi teorici del cinema sono influenzati insieme dalla complessità del linguaggio del muto e dagli studi dei formalisti russi (Viktor B. Šklovskij, Jurij N. Tynjanov, Osip M. Brik) e della Gestaltpsychologie (la psicologia della forma, di Wolfgang Köhler, Kurt Koffka, Max Wertheimer), e affrontano quindi la questione della teoria del cinema con un apparato teorico più ricco e articolato. Arnheim considera l’immagine come una struttura complessa che ha il carattere di configurazione e che è organizzata dal regista e percepita dallo spettatore come forma (Arnheim, 1960). Per Arnheim l’immagine non riproduce, ma è il risultato di una composizione che si misura con i caratteri particolari del medium. Proprio all’opposto del realismo ingenuo, Arnheim sottolinea l’assoluta centralità della costituzione di struttu94

re artificiali e situa nella differenza dell’immagine filmica dal mondo insieme la sua qualità specifica e la sua possibilità di essere arte. La dimensione estetica del cinema e il suo potenziale artistico sono connessi alla specificità del mezzo e alla sua produttività differenziante. Arnheim sottolinea gli aspetti di differenza dell’immagine filmica rispetto al mondo esterno: 1) proiezione di solidi su una superficie piana; 2) riduzione della profondità; 3) illuminazione particolare e assenza del colore (quest’ultimo aspetto smentito ovviamente dal cinema posteriore); 4) limiti dell’immagine e distanza dall’oggetto; 5) assenza di continuità di spazio e di tempo; 6) assenza del mondo non visivo dei sensi (ovviamente smentita in parte dall’avvento del sonoro). Questi aspetti costituiscono l’immagine filmica in quanto tale e ne definiscono alcuni caratteri strutturali. L’immagine filmica, infatti, è resa possibile da un dispositivo complesso e da un insieme di elementi che ne costituiscono le condizioni di oggettivazione. Lo statuto «differenziale» dell’immagine filmica costituisce la garanzia dell’autonomia del cinema. Le acquisizioni di Arnheim relative alla forma dell’immagine sono difficilmente contestabili e dovrebbero non essere dimenticate anche da chi non condivide l’insieme delle impostazioni dello studioso. Ejzenštejn e la produttività dell’immagine. Sviluppate in relazione alla sua attività di regista, ma anche al di là della prassi, le riflessioni di Ejzenštejn accolgono una molteplicità di modelli culturali, dal formalismo russo all’avanguardia, da Vsevolod Meyerhold al costruttivismo, e li rielaborano in una prospettiva di indubbia forza (Ej95

zenštejn, 1964; 1986; 1981). Ejzenštejn rifiuta di pensare l’immagine come la mera registrazione del dato visibile, ma la considera come un processo di ricombinazione visiva, che permette la generazione/produzione del senso. Egli distingue tra la rappresentazione e l’immagine (obraž): la rappresentazione attiene all’oggetto, alla figurazione dei suoi tratti denotanti, mentre l’immagine mobilita il senso dell’oggetto, ne coglie la struttura generale. La dimensione rappresentativa dell’immagine è oggetto di un lavoro compositivo, di un’aggregazione associativa, funzionale alla produzione del senso. La concatenazione dei frammenti attraverso il montaggio non è riproduttiva, ma produttiva. La costruzione dell’immagine riflette una logica del conflitto che si articola a più livelli: dapprima all’interno dell’inquadratura (conflitto spaziale, grafico, di volumi ecc.), poi nella combinazione delle inquadrature, cioè nel montaggio, che determina una produzione dinamica, funzionale al senso. Ejzenštejn insiste sulle potenzialità del montaggio, che attraverso la somma di due figurabili può produrre qualcosa che non è presente nelle due inquadrature, cioè un non-figurabile, un’idea. La novità della concezione eisensteiniana dell’immagine è molteplice. Da un lato l’immagine è una complessità formale, realizzata attraverso una composizione intenzionale di elementi; dall’altro l’immagine concatenata è una forza che produce significati, cioè si rivela come un meccanismo di generazione di senso. Infine, l’immagine e il suo senso sono pensati in relazione allo spettatore, sono considerati meccanismi di intervento sullo spettatore, capaci di agire insieme a livello emozionale e intellettuale. Ejzenštejn riflette sul cinema considerandolo non come una struttura in sé, ma come un vettore per produrre effetti sullo spettatore. Considera il 96

montaggio delle attrazioni, ad esempio, come uno strumento per rendere la ricezione dello spettatore dinamica e ideologicamente orientata. E non si propone tanto di comunicare l’ideologia comunista, ma di insegnare allo spettatore a pensare dialetticamente. Questa inscrizione nella teoria dello spettatore – come abbiamo già accennato – è una novità di grande rilievo e sottolinea ulteriormente l’intelligenza della riflessione del registateorico, che non merita l’oblio degli ultimi anni. L’immagine-segno. Negli anni Sessanta la ricerca teorica sul cinema ha avuto un rilancio, legato da un lato alla riflessione di Jean Mitry, dall’altro a quella della semiologia (Mitry, 1963-65). Mitry individua nell’immagine la materia d’espressione propria del linguaggio cinematografico, e ne riconosce definitivamente la struttura segnica. Ogni immagine filmica, afferma, è un segno a due gradi: da un lato, l’immagine è il segno di ciò che riproduce; dall’altro lato, organizzata in serie, l’immagine diventa segno una seconda volta, all’interno di una continuità discorsiva che implica l’esistenza di un linguaggio. La riflessione della semiologia, sviluppata soprattutto da Metz, ha avuto invece il merito di considerare il film come un testo significante costituito da un insieme di segni coerenti e di studiare i modi di organizzazione dei segni e le strutture del testo avvalendosi degli strumenti della linguistica. Proprio questa opzione ha consentito da un lato di capire aspetti importanti del cinema come linguaggio, ma ha al tempo stesso ricondotto l’immagine filmica al modello dell’enunciato verbale, sottraendole quindi proprio il suo carattere iconico. La semiologia ha puntato alla delineazione di regole, di modi di organizzazione, alla definizione di codici, considerati al 97

di là dell’opposizione specifico/non specifico e ha considerato nel segno un rapporto significante-significato tendenzialmente univoco e rigido (Metz, 1977). Una fase successiva della riflessione semiotica ha invece aperto il discorso a saperi e istanze molteplici considerando innanzitutto il segno in relazione a una pluralità di significazioni possibili. E il più importante teorico della semiologia del cinema, Metz, ha finito per superare il concetto di segno a favore del concetto di significante, considerando l’unità minima del cinema un significante immaginario, che solo con l’ausilio della semiotica e soprattutto della psicoanalisi lacaniana è possibile conoscere (Metz, 1980). Di indubbio interesse è poi l’applicazione al cinema della sistematica riflessione sul segno sviluppata nei suoi scritti da Charles Sanders Peirce, che un’importante linea all’interno della semiotica (Eco, tra gli altri) ha recuperato e rivalutato (Peirce, 1984). Peirce propone una distinzione tra tre tipi di segno – l’icona, l’indice, il simbolo – che può fornire suggerimenti proficui anche nell’interpretazione delle immagini cinematografiche: l’icona rappresenta l’oggetto per via di similitudine o analogia, l’indice implica un legame causale tra segno e referente, il simbolo si basa su una relazione interamente convenzionale tra il segno e l’oggetto di referenza. Nelle immagini cinematografiche si possono trovare valenze di tutti e tre i tipi: iconiche (statuto analogico), indexicali (statuto ontologico) e simboliche (statuto culturale). L’immagine e gli strati di significazione Considerazioni di grande interesse sull’immagine filmica vengono poi da uno studioso che solo occasional98

mente si è occupato di cinema come Roland Barthes. Barthes ha sottolineato come l’immagine filmica produca strati diversi di senso: un primo livello descrittivo e informativo, legato alla comunicazione, un secondo livello simbolico, che è poi quello della significazione, e un terzo livello più complesso, legato alla significanza e insieme alla materialità (immateriale) dell’i, e alle sue suggestioni possibili, un senso «evidente, erratico, ostinato», «fuori misura», «eccessivo, eccedente» (Barthes, 1997, pp. 116-117). Secondo Barthes questo terzo senso si esprime, ad esempio, in alcuni aspetti visivi particolari di La congiura dei boiardi di Ejzenštejn: «la compattezza del belletto dei cortigiani, spesso, calcato, oppure liscio, distinto; il naso stupido di uno, il disegno fine dei sopraccigli di un altro, il suo biondo slavato, la sua carnagione bianca e vizza, la piattezza curata della sua acconciatura, che tradisce il posticcio» (ivi, p. 116). Sono componenti che soltanto l’evidenza particolare e specifica, la dimensione materica dell’immagine possono produrre e che in fondo non possono trovare un equivalente verbale. Per Barthes «il filmico è nel film ciò che non può essere descritto, è la rappresentazione che non può venir rappresentata» (ivi, p. 131): un’irriducibilità al verbale che vive dentro l’immagine, trascende i contenuti espliciti e si radica nella materia, nella fisiologia delle persone, qualcosa che le parole inseguono e cercano di spiegare, ma che resta radicata nella configurazione specifica stessa dell’immagine, e si rivela sostanzialmente intraducibile. Questa dimensione ulteriore rilevata da Barthes sottolinea in fondo l’alterità dell’immagine, filmica rispetto ai testi verbali e suggerisce una considerazione del cinema nella sua particolare configurazione visiva, contro le operazioni di riconduzione del cinema stesso ad altri orizzonti di pertinenza (la narratologia, ad 99

esempio, il linguaggio, i modi dell’enunciazione, secondo le varie ondate delle mode critiche affermate). L’immagine-movimento e l’immagine-tempo. L’interrogazione sulle strutture dell’immagine è approfondita nei primi anni Ottanta dal filosofo Gilles Deleuze. Deleuze definisce l’immagine a partire dalla sua condizione di virtualità. L’immagine coincide con il movimento, è immagine-movimento: «è l’oggetto, è la cosa stessa colta nel movimento come funzione continua» (Deleuze, 1989, p. 41). Tra le immagini del cinema e quelle del mondo vi è un’identità legata proprio alla compresenza del movimento. Tuttavia l’immagine filmica non è né rappresentazione della realtà, né copia con qualcosa di meno. È qualcosa di distinto dal mondo, che ha una sua autonomia e una sua forza in sé. È una ripetizione affermativa o differente: in cui l’accento va posto sul differente. L’immagine nella sua pura virtualità non è un linguaggio, ma un «enunciabile», che la messa in scena elabora per produrre enunciati. Deleuze propone una prima grande tripartizione dell’immagine-movimento: quando l’immagine-movimento è rapportata a un centro di indeterminazione, cioè una soggettività, diventa immagine-percezione; poi la forma dell’azione genera l’immagine-azione, legata a una configurazione organica del rapporto uomo-mondo, e oggettivata esemplarmente nel cinema classico; tra percezione e azione può esserci un’emergenza emozionale, uno stato di alterazione, ed è in questo stato intermedio che si determina l’immagine-affezione, espressione della qualità del Possibile (il primo piano di un volto in Griffith, gli spazi frammentati di Bresson ecc.). L’allentamento dei legami tra percezione e azione, avviato dal cinema moderno, segna l’emergere di im100

magini ottico-sonore pure. L’integrazione organica uomo-mondo del cinema classico è messa in crisi: le situazioni sono sempre meno definite, lo sguardo non genera più l’azione, ma si sviluppa in pura visione delle cose, le azioni diventano fluttuanti, prevale la ballade, l’erranza, l’irrilevanza, il caso. La costruzione di immagini otticosonore pure, non derivate, svincolate da ogni legame senso-motorio con il corpo, private di un rapporto di causalità, consente al cinema di accedere a dimensioni direttamente temporali e mentali, a una vera e propria immagine-tempo. Se nell’immagine-movimento l’immagine stessa e il movimento erano inseparabili ma distinguibili, nell’immagine-tempo diventano indiscernibili: dalla configurazione narrativa indiretta del tempo si passa alla sua «visione» diretta. La percezione si dilata sino ai circuiti dell’immagine virtuale. Da questo movimento di ritorno nella virtualità, nell’immagine come «enunciabile», emergono le immagini-ricordo, le immagini-sogno, le immagini-cristallo (immagini dirette del tempo, in cui il presente che passa e il passato che permane coesistono nella stessa immagine). L’immagine, l’illusione, il simulacro Dopo questo quadro dedicato alla storia delle teorie dell’immagine filmica, è utile sviluppare alcune riflessioni ulteriori. Innanzitutto già nell’etimo latino si profilano le ambiguità semantiche che hanno caratterizzato il dibattito sullo statuto delle immagini. L’etimo è il latino imago, -inis: da un lato «imitazione», dall’altro «forma visibile». Le oscillazioni del significato sono complementari. L’immagine è stata infatti concepita sia come una riproduzione della realtà che si offre alla vista (l’èikon dei 101

greci), sia come il risultato di una formalizzazione: non semplicemente riproduzione del sensibile, quindi, ma prodotto, costruzione formale. In queste ultime accezioni si rafforza la distinzione (o addirittura l’opposizione) tra immagine e res: qui l’immagine si riconosce come apparenza (il simulacrum latino, l’eidolon greco), o addirittura fantasma (dal greco phantasma, cioè «sogno», «visione»), prodotto dell’immaginazione. L’immagine, dunque, da un lato imita la cosa; dall’altro segnala la distanza dall’oggetto che produce nel visibile. Rappresentazione/costruzione, res/forma, sensibile/immaginazione, assenza/presenza: da queste tensioni si articola quella complessa polarità tra imitazione ed espressione che informa il dibattito filosofico sull’immagine. Se tuttavia riflettiamo ancora, non possiamo non rilevare che l’immagine filmica è una vana immagine, è l’immagine di qualcosa che è stato creato artificialmente dalla messa in scena. L’immagine filmica è un’immagine simulacro. Cerchiamo di capire. Proprio all’opposto di quanto dicono le ideologie realistiche, l’immagine filmica è costituita sull’illusione, sull’inganno. Essa è apparenza, perché appare, è legata all’apparire e allo scomparire, non è un oggetto del mondo esterno, ma un’immagine che emerge e si dissolve. L’immagine filmica produce un insieme di effetti di falso e l’impressione di realtà è invero un’illusione di realtà. La presenza illusiva del mondo è effettuata in una condizione di assenza e di negazione del mondo stesso. L’immagine filmica quindi non solo inganna lo spettatore, ma crea una serie di illusioni strutturali: a) è un’immagine virtuale che svanisce con l’interruzione delle proiezioni; b) è un’immagine che produce un effetto di presenza in assenza delle persone e delle cose; 102

c) è un’immagine impalpabile, ma estremamente ricca di determinazioni; d) è un’immagine che produce un effetto di movimento pur essendo costituita di fotogrammi fissi; e) è un’immagine bidimensionale che produce un effetto tridimensionale. Abbiamo già visto come un classico della teoria del cinema come Arnheim abbia considerato gli aspetti di differenziazione dell’immagine filmica rispetto al mondo come condizione delle possibilità artistiche del cinema. Ma vediamo più attentamente quali sono le relazioni tra le componenti che contribuiscono alla produzione dell’immagine filmica. Il profilmico, cioè quanto viene posto davanti alla macchina da presa, mostra prevalentemente un carattere antropomorfico ed è spesso caratterizzato dalla verosimiglianza. Ma, a un’osservazione più attenta, il profilmico e l’immagine filmica presentano rispettivamente differenze molto significative e assolutamente strutturali rispetto al mondo dei fenomeni visibili. L’immagine e il profilmico sono quindi segnati insieme dalla somiglianza più o meno forte e dalla differenza: l’immagine filmica è somigliante, ma non vera, è una copia differenziale, poiché non è uguale al presunto modello fenomenico, né al profilmico, ma non è neppure del tutto diversa. È una ripetizione di quanto è messo in scena con alcuni aggiustamenti, alcune modificazioni differenzianti, più o meno profonde e significative. Questo carattere di somiglianza con alcune differenze, proprio dell’immagine filmica rispetto al profilmico, introduce una prima qualificazione anomala della messa in scena cinematografica. Nella tradizione del cinema realista (da Paisà a Ladri di biciclette) la somiglianza dell’immagine al profilmico è più forte. Nel cinema visionario e artificiale, invece (dal mondo fantastico di Il ma103

go di Oz alla ricostruzione della vita metropolitana fatta di citazioni pop e optical propria di Arancia meccanica), la composizione dell’inquadratura mostra subito il carattere fittizio e costruito dell’immagine. Questi caratteri particolari del profilmico, delineato in rapporto di somiglianza con i fenomeni, da un lato, o fortemente artificiale e palesemente diverso dal visibile mondano, dall’altro, sono poi ulteriormente potenziati e semioticamente trasformati dal lavoro di messa in scena e quindi, soprattutto, ma non solo, dalla ripresa, dall’illuminazione e dal montaggio. L’intervento dei codici della messa in scena infatti garantisce l’affermazione di una radicale trasformazione intersemiotica dell’oggetto ripreso e realizza dunque un’immagine filmica che, anche se registra il profilmico, ne è indubbiamente diversa. Com’è noto le scale dei piani, l’angolazione delle riprese, l’illuminazione, l’uso degli obiettivi, i movimenti di macchina sono tutte componenti essenziali della ripresa, che determinano una trasformazione del profilmico in un’immagine filmica differente. Naturalmente c’è una radicale differenza tra la ripresa di un totale o di una figura intera a macchina fissa con un’illuminazione omogenea e quella di uno spazio scarsamente illuminato che l’uso di un obiettivo particolare e del diaframma rende ulteriormente buio, riducendo il visibile a una piccola luminescenza immersa nell’oscurità. La prima immagine ha un rapporto di aderenza al profilmico, mentre la seconda rielabora ovviamente il visibile in funzione dell’espressività e della dialettica visibile/invisibile, negando riconoscibilità allo spazio ripreso e affermando al contrario l’autonomia dell’immagine filmica stessa. Il rapporto tra profilmico e immagine filmica, dunque, è sempre un rapporto di duplicazione e di modificazione, di replica e di differenza. 104

L’immagine filmica è insieme una copia differenziale, è una differenza relativamente somigliante del profilmico, mentre il profilmico non è un originale, sia perché esso stesso rinvia ad altro, sia perché l’immagine lo modifica sensibilmente. Questo meccanismo complesso fa dell’immagine filmica una copia differenziale senza originale, o più esattamente una copia differenziale di una copia differenziale senza originale: in altri termini è una differenza, relativamente somigliante, al quadrato. Ma una copia di una copia senza originale è un simulacro (Bertetto, 2007a). Anche per questo l’immagine filmica si rivela come irreale, cioè come qualcosa che è irrealtà, perché a rigore non è un vero oggetto, ma una virtualità e non esiste – già Jean-Paul Sartre, d’altronde, aveva analizzato ampiamente il carattere di irrealizzazione dell’immagine (senza peraltro parlare del cinema) (Sartre, 1948). All’opposto di tutte le ideologie del realismo cinematografico, al fondo l’immagine filmica vive della propria irrealtà e dell’irrealtà fa un vettore di forza. L’immagine filmica è in ogni modo – e ne abbiamo parlato ampiamente – una configurazione della luce. Non è un duplicato della realtà, ma una figurazione cromatica e dinamica. La luce è insieme l’oggetto e la materia costituente l’immagine filmica. È l’immagine. Peirce vede la luce come l’oggetto della fotografia (Proni, 1990). L’oggetto della fotografia è la luce non una persona o una cosa o uno spazio qualsiasi, che poi naturalmente grazie alla luce possono essere visti e fotografati o filmati. Lo spostamento dell’oggetto dell’immagine cine-foto-grafica dalle cose alle dinamiche della luce costituisce evidentemente un passaggio fondamentale per ripensare tutto il discorso sull’immagine. Non è l’oggetto concreto, 105

l’oggettualità profilmica a caratterizzare l’immagine filmica. È la luce. Qualsiasi orizzonte visibile cambia la sua configurazione a seconda della luce. È la luce che trasforma gli oggetti del profilmico e costituisce l’immagine filmica stessa. La luce inerisce insieme al profilmico e all’obiettivo cine-foto-grafico, è il prodotto dell’illuminazione e della sensibilità della pellicola, dell’incontro di luce artificiale e di luce naturale, dell’apertura e della regolazione del diaframma, è la sostanza impalpabile di cui sono fatti gli oggetti quando sono ripresi e le immagini. La configurazione della luce, in ogni modo, non è solo un aspetto che riguarda l’estetica del film e quindi il giudizio critico, ma è un vettore rilevante nella costituzione del mondo immaginario del film e quindi nella stessa produzione del senso. È evidente che i registri di interrelazione tra i personaggi e le atmosfere del noir e dell’horror, da un lato, e della commedia o del musical, dall’altro, sono correlati anche ai caratteri dell’immagine e dunque ai modi dell’illuminazione. A differenza di un’immagine stampata o dipinta, quella filmica è costituita dal dinamismo della luce, sorta di materia mobile che delinea la composizione e disegna la forma cangiante e molteplice del visibile. Il cinema scrive con la luce, scrive sulla luce, costituisce un’avventura particolare nell’universo della luce, che è dinamica, in continua variazione, e ha una mobilità aggiuntiva. L’immagine filmica è una configurazione di luce, ed è quindi una mobilità in continua trasformazione. Gli oggetti, le persone impresse sulla pellicola sono ricreati e trasformati in permanenza dalla luce, si sviluppano e si modificano grazie ai flussi continui e variabili della luminosità. La loro struttura dà insieme l’idea di fluidità delle ombre e di configurazione visuale. 106

L’immagine filmica incorpora quindi la figurazione di uomini e donne, correlata all’azione dei soggetti viventi e la integra con un lavoro di visualizzazione che costituisce un elemento qualificante particolare del cinema. Come orizzonte di intreccio di figurazione e di visualizzazione non ha un prevalente carattere di rispecchiamento o di rappresentazione del mondo, ma al contrario si estende nell’orizzonte che lega il visivo alla sua rielaborazione formale e mentale e quindi all’immaginario. Il cinema ha prodotto nella sua storia non solo tecniche di montaggio o strutture narrative diverse, ma anche e soprattutto differenti tipologie dell’immagine, modelli diversi di configurazione filmica del visibile. E questi modelli hanno costituito in un certo senso il primo livello di oggettivazione e di significazione del testo fìlmico. L’avventura del cinema è anche la storia di macroforme visive diverse, che quindi attestano come la storia del cinema sia anche un sistema di differenze formali. Come configurazione visiva, tra i modelli fondamentali di immagine elaborati nella storia del cinema vale la pena rammentare almeno i seguenti: 1) L’immagine iperformalizzata sviluppata, in particolare, ma non solo, nel periodo muto da grandi autori come Lang, Ejzenštejn, Pabst, Wiene, L’Herbier e Gance. In questo orizzonte è possibile individuare ulteriori articolazioni: l’immagine intensivo-deformata di Wiene e dell’espressionismo, l’immagine plastico-geometrica di Lang, l’immagine dialettico-conflittuale di Ejzenštejn, l’immagine organico-pittorica di Murnau. 2) L’immagine verosimile e fortemente codificata del cinema hollywoodiano, esattamente programmata e realizzata secondo standard visivi estremamente eleva107

ti, che definiscono anche il visibile e il non visibile (Hawks, Ford, Capra, Wyler, Wilder ecc.). 3) L’immagine-fatto del cosiddetto cinema della realtà propria del realismo francese, del neorealismo (Renoir, Carné, Rossellini, De Sica). 4) L’immagine-colore, che delinea il visibile attraverso le dinamiche delle intensità cromatico-espressive (l’immagine cromatico-espressiva di Ejzenštejn [La congiura dei boiardi], di Minnelli, di Antonioni, di Bertolucci, di Kubrick, di Lynch ecc.). 5) L’immagine sperimentale e non referenziale, che attesta la ricchezza e la varietà della ricerca dell’avanguardia, dal cinema astratto al surrealismo, dal dada fino alle esperienze estreme dell’Underground americano e all’orizzonte delle metafore della visione (da Eggeling a Léger, da Man Ray ad Anger, da Brakhage a Warhol). All’interno di queste macrocategorie è possibile individuare ulteriori modelli visivi. La forte stilizzazione del sincretismo geometrico di Lang è profondamente diversa dalla stilizzazione distorsiva del caligarismo di Wiene, la ricreazione pop-simulativa del Godard dei secondi anni Sessanta è differente dal citazionismo pittorico di natura storicistica di Pasolini. Tutte queste opzioni di messa in scena, naturalmente, sono essenziali non solo rispetto alla configurazione specifica delle immagini, ma nell’oggettivazione delle poetiche e delle idee di cinema dei diversi registi. La rappresentazione del mondo non è quindi un carattere strutturale dell’immagine filmica, ma è il risultato di una scelta di regia. Il cinema narrativo, d’altronde, non è l’unico esistente: l’avanguardia e l’Underground hanno creato un altro tipo di immagine, caratterizzata da un’inventività del tutto particolare e da una forte com108

ponente autoriflessiva. L’immagine filmica è quindi composizione visivo-dinamica, configurazione definita dal lavoro di messa in scena, che a volte si avvale delle strutture visive dei fenomeni e altre volte ricrea e allarga infinitamente l’orizzonte del visibile. Il cinema è nello stesso tempo l’immagine-forma di Lang e l’immagine-fatto di De Sica, l’immagine-inconscio di Buñuel e la metafora dell’immagine di Brakhage. È in quello che si vede e in quello che non si vede: nell’immagine, e al di là di essa. Inoltre, dal punto di vista delle potenzialità significanti, l’immagine filmica è uno straordinario strumento per far vivere nel visibile l’orizzonte della psiche e dell’inconscio e la dimensione delle idee. Il cinema costruisce la più grande macchina di oggettivazione delle figure dell’inconscio, del preconscio e del fantasma e un modo particolarmente efficace per mostrare le avventure e la contraddittorietà della vita interiore. L’immagine che oggettiva l’inconscio è – per usare una definizione efficace di un filosofo come Jean-François Lyotard (Lyotard, 1989) – un’immagine figurale, cioè un’immagine che propone le figure e le scene dell’inconscio nella loro forza e immediatezza, senza rigide mediazioni discorsive. Soprattutto l’avanguardia surrealista ha lavorato in modo intensivo sulle immagini dell’inconscio, da Man Ray a Buñuel, ma anche altri autori e movimenti, come l’Underground americano, hanno cercato di far irrompere l’inconscio, l’onirico, il delirio sullo schermo. All’opposto il cinema possiede anche la capacità di inscrivere direttamente il pensiero nell’immagine, di elaborare un’immagine-idea, cioè un’immagine che sia fusa con un’idea. Ejzenštejn ha ampiamente teorizzato la possibilità per il cinema di produrre idee, cioè di suscitare idee nella mente dello spettatore, sottolineando 109

l’importanza del montaggio in questo processo. Più recentemente, Deleuze ha sottolineato la possibilità del cinema di essere una macchina che produce idee e che spinge la mente a pensare. Sono prospettive che collegano l’immagine filmica al funzionamento del meccanismo della mente e del pensiero. Come fusione di immagine e di idea, l’immagine eidetica costituisce una possibilità estremamente rilevante della scrittura filmica che ha assunto nel tempo configurazioni differenziate di indubbia produttività concettuale (Bertetto, 2007a). Così nella sua ricchezza e varietà di aspetti l’immagine filmica si rivela come un orizzonte assolutamente nuovo del visibile, che, nonostante il suo carattere di somiglianza, è una forma dell’irrealtà.

Capitolo 5

I fantasmi, l’immaginario, il racconto

I fantasmi e l’immaginario Immaginario, fantasmi. Sono la dimensione del cinema. Un grande filosofo come Derrida ha detto in un’intervista che il cinema è «l’arte di evocare fantasmi, l’arte di lasciar tornare i fantasmi» (Si vedano il film Ghost Dance di Mc Mullen, 1983 e Derrida, 2002). È una frase molto suggestiva che evoca un’altra frase che era molto piaciuta ai surrealisti: «Passato il ponte i fantasmi gli vennero incontro», diceva una didascalia della versione francese di Nosferatu il vampiro. I fantasmi sono certo, innanzitutto, le ombre prive di consistenza che popolano lo schermo, le immagini antropomorfiche che ci illudono della presenza e sono invece misteriosamente assenti dallo schermo, a differenza degli attori di teatro. Fantasmi sono i personaggi che popolano il mondo del cinema, che hanno la forza di costruire percorsi narrativi e di assediare la mente dello spettatore, e insieme sono tracce visive destinate a sparire con l’immagine dello schermo. Le immagini dei film sono innanzitutto immagini fantasmatiche che non hanno consistenza e presenza concreta. Immagini di assenti e tuttavia forti, immagini 111

illusorie e che possono trascinare le nostre emozioni. Fantasmi, ombre. Queste parole dall’indubbia carica di suggestione sono state usate a volte per indicare le immagini del cinema. Non a caso alcuni film hanno evocato nel titolo questa dimensione. Il cinema tedesco degli anni Venti, che è stato una delle più grandi stagioni della storia del cinema, ha ripetutamente proposto le ombre e i fantasmi, a cominciare da due film estremamente significativi, del 1922 e del 1923, che si intitolano appunto Das Phantom (Murnau) e Schatten (Robison): Il fantasma e «Ombre» (che nel moralistico titolo italiano è diventato Ombre ammonitrici). Le immagini dello schermo non solo sono in sé fantasmi e ombre: sono anche configurazioni visive e dinamiche dei nostri stessi fantasmi, sono oggettivazioni della nostra psiche. La nostra passione per il cinema è sicuramente legata al fatto che sullo schermo troviamo proiezioni del nostro mondo interiore, della coscienza, dell’inconscio e del preconscio, cioè dei nostri fantasmi. Il nostro universo psichico si rispecchia nel cinema. Potremmo dire che il rapporto tra il cinema e i nostri fantasmi è multiplo. Innanzitutto noi troviamo nel cinema configurazioni sceniche e narrative dei nostri fantasmi. Sono naturalmente configurazioni un po’ differenti dalle nostre ossessioni. Spesso sono calate in situazioni diverse, sono incarnate in persone diverse da quelle che popolano la nostra mente. Ma sono pur sempre fantasmi che creano un meccanismo di partecipazione e di emozione forte. Dall’altro il cinema crea fantasmi nella nostra mente, perché contribuisce esso stesso allo sviluppo dei nostri fantasmi. Un personaggio, una situazione di rapporti intersoggettivi possono diventare una presenza immaginaria importante nella nostra mente, possono diventare per noi un modello esistenziale. Quindi, non so112

lo noi troviamo nel cinema dei fantasmi che abbiamo già, ma spesso il cinema ci crea nuovi fantasmi, arricchendo il nostro mondo. Molto spesso poi tra i fantasmi del cinema e i fantasmi dello spettatore si crea un dialogo proficuo, tanto che il cinema modifica in parte la nostra fantasia, trasformandone le figure e le componenti, contribuendo a cambiare o a ridefinire le nostre opzioni. Naturalmente, i fantasmi che il cinema intercetta o produce non sono solo fantasmi individuali, spesso sono fantasmi collettivi, figure diffuse nell’immaginario di un’epoca. I fantasmi hanno spesso questa duplice natura, personale e sovrapersonale. Ma il funzionamento profondo ed effettivo del fantasma resta in ogni modo legato alla soggettività, mantiene un livello ultimo di determinatezza e di forza che è legato all’individuo-spettatore, alla sua storia e alla sua psiche. Tuttavia questa evocazione del fantasma va precisata. Che cos’è infatti un fantasma? Certo, possiamo considerare fantasma semplicemente le figure e le scene del nostro immaginario. E questa ipotesi ha una sua legittimità, ma nella teoria psicoanalitica – che certo ci aiuta grandemente nello studio della psiche dello spettatore, come nell’analisi dei film stessi – il fantasma è una scena psichica legata al desiderio del soggetto, come spiegano bene Jean Laplanche e Jean-Baptiste Pontalis (Laplanche, Pontalis, 1985). Derrida, nell’intervista in Ghost Dance, dice anche che c’è «uno scambio tra l’arte del cinema e la psicoanalisi». E aggiunge: «Cinema più psicoanalisi, uguale scienza dei fantasmi». Nella sua affermazione Derrida non fa soltanto riferimento ai nostri fantasmi psichici, ma pensa anche agli spettri, allo spettro di Freud, di Marx, di Kafka, e insiste sull’importanza dei fantasmi nella psicoanalisi, intesa come terapia per interiorizzare 113

la morte attraverso i fantasmi e renderla accettabile. E in questo caso di spettri si parla, non di fantasmi psichici. «I fantasmi – dice Derrida – ci assediano. Lunga vita ai fantasmi!». I fantasmi che vivono nei film sono quindi un enorme patrimonio di racconti, di scene, di figure, di desideri, di personaggi che dal cinema passano nell’immaginario collettivo e nella psiche individuale, con tutto il loro carico affettivo, per ritornare al cinema e riattraversare gli immaginari soggettivi. Il cinema – lo abbiamo visto – è legato all’immaginario. Non solo produce e diffonde immaginario, ma è nutrito e ispirato dagli immaginari diffusi. È insomma inserito in un circuito che ruota attorno all’immaginario. La rilevanza dell’immaginario nei soggetti sociali e nel cinema è sottolineata in un libro sul cinema di grande importanza scritto dal sociologo e filosofo Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario. Morin utilizza concetti dell’antropologia nell’analisi dell’esperienza del film e insiste sulla rilevanza dell’immagine, considerata non solo «l’elemento intermedio tra reale e immaginario», ma anche come «l’atto costitutivo radicale e simultaneo del reale e dell’immaginario». L’immaginario è dunque formato da immagini, separato dal reale, ma a esso correlato e complementare. Il cinema d’altronde è uno spettacolo immaginario, che implica una percezione effettuata in una condizione psichica duplice: l’illusione di realtà e inseparabile dalla coscienza che si tratta effettivamente di un’illusione. L’immaginario è «un oggetto in immagine», distinto dall’oggetto reale. Al cinema non abbiamo un rapporto con la (presunta) realtà, ma con l’immaginario. Tutto il saggio di Morin insiste sulla rilevanza delle intensità affettive ed emozionali nel cinema, legate alla circolazione dell’immaginario. 114

La diffusione planetaria del cinema cambia quindi la condizione storica dell’intersoggettività e dell’immaginario e modifica il rapporto tra l’immaginario e il reale. Il cinema disloca dentro l’orizzonte sociale la rilevanza dell’immaginario, palesa con la sua forza l’esistenza di mondi fittizi, costituiti da immagini prodotte/riprodotte, potenzia un processo storico di modificazione delle strutture e del funzionamento sociale dell’immaginario. Il cinema non si somma soltanto all’immaginario esistente, ma lo trasforma profondamente. Con il cinema l’immaginario diventa più visibile e materiale, diffuso e ingombrante, quasi tangibile. Il Novecento ha infatti conosciuto un allargamento e un arricchimento dell’immaginario in relazione alla moltiplicazione delle forme di produzione sociale e mediatica di immagini e di finzioni. Non solo gli oggetti diffusi nel tessuto urbano e nella società formata hanno una duplice valenza, di oggetti d’uso e di oggetti immaginari, ma anche la produzione e la diffusione incessante di immagini, di racconti, di rappresentazioni sostitutive investono il soggetto sociale, garantendo una proliferazione dell’immaginario. La moltiplicazione della produzione d’immaginario risponde intenzionalmente non tanto alla volontà di rappresentare e di raccontare dei soggetti, quanto alla presenza di un forte bisogno di intrattenimento e di finzione dei gruppi sociali. E mentre da un lato gli oggetti si caricano di rilevanza immaginaria, dall’altro l’invenzione delle finzioni, delle rappresentazioni, delle duplicazioni del visibile moltiplica la presenza quantitativa dell’immaginario nell’orizzonte sociale, e invade, alterandola, la stessa economia psichica dei soggetti. Il rapporto percezione/immaginazione e configurazioni fenomeniche/configurazioni immaginarie tende a spostarsi a favore del secondo polo dinamico, e la stes115

sa relazione reale/immaginario diventa più complessa: non solo il reale è presente nell’immaginario, ma l’immaginario si espande nel reale, non si limita a duplicarlo ma lo invade e lo trasforma. Le immagini, le finzioni, le rappresentazioni occupano il nostro immaginario non meno del mondo dei fenomeni, sino a diventare mondo oggettivo, dislocandosi nel tessuto intersoggettivo e ribaltandosi sugli eventi e sugli oggetti sociali. E gli stessi oggetti finiscono per perdere la loro naturalità e diventano oggetti-segni, carichi di codici e di significazioni sovrapposte. L’immaginario cinematografico (ma anche audiovisivo e digitale) e dunque «mediatico sta per divenire non soltanto la realtà della coscienza, ma la Sola Realtà Oggettiva», come afferma Julia Kristeva (Kristeva, 1997, p. 262). In questi processi storici e sociali il ruolo del cinema è sicuramente rilevante. Il cinema è una macchina che interpreta l’immaginario, lo produce/riproduce in forme molteplici e ne amplifica la diffusione e la penetrazione sociale, è un grande produttore/riproduttore di finzioni e di figure, di scene e di stereotipi. Il cinema, dunque, sviluppa innanzitutto nelle proprie forme specifiche gli immaginari esistenti, prodotti dalla letteratura e dal teatro, dagli spettacoli popolari e dagli altri media, e/o radicati nella stessa storia dell’umanità. Ma l’intrinseca capacità fabulatoria e configurativa, sommata alla forza dell’immagine e alle potenzialità emozionali dello spettacolo, fa dell’immaginario prodotto dal cinema una delle macroforme di maggiore rilievo. L’immaginario cinematografico ha infatti non solo una straordinaria capacità di diffusione capillare in tutto l’orizzonte planetario, ma una forza di penetrazione e una potenza fascinativa del tutto particolari. Le sue forme 116

insieme uniscono e condizionano le comunità sociali, i loro comportamenti, i loro valori, le loro mitologie. Il meccanismo cinematografico di produzione dell’immaginario si articola in maniera complessa e si fonda nello stesso tempo sui processi di elaborazione di figure e di fantasmi e su un insieme di elementi intesi a determinare la partecipazione affettiva dello spettatore. L’affettività è la condizione stessa di comunicazione e di sviluppo dell’immaginario ed è legata a un insieme di componenti tecniche, strutturali del cinema e ai meccanismi di percezione del film. Patrimonio di immagini, di racconti, di figure prodotte dalla percezione dell’esistente, dai fantasmi psichici e dalle immagini prodotte nell’intersoggettività e nei media, l’immaginario non è solo qualificato dall’immagine schermica, ma anche dal suo carattere di scena. E la scena ha una configurazione doppia: è scena e percorso narrativo, evento, situazione psichica e sviluppo di interrelazioni tra soggetti antropomorfici. Un mondo immaginario che ha la forma di un racconto Abbiamo già sottolineato nel primo capitolo alcuni aspetti dell’immaginario in rapporto all’identificazione dello spettatore. Cercheremo qui di analizzare un altro aspetto della grande problematica dell’immaginario: la relazione dell’immaginario con il racconto e i suoi modelli di organizzazione. La natura narrativa dell’immaginario cinematografico rafforza senza dubbio il riconoscimento. Non solo i rapporti intersoggettivi nel mondo si presentano come scene antropomorfiche, situazioni interpersonali, percorsi di interrelazioni tra persone, ma soprattutto i fan117

tasmi psichici si configurano come scene dislocate tra conscio, preconscio e inconscio e fissate nella psiche come percorso di sviluppo più o meno coerente, ma certo non esente da aspetti narrativi. Non a caso Freud definiva l’inconscio anche come l’altra scena. Le scene antropomorfiche e le interrelazioni narrative sono radicate nel mondo e nella psiche e diventano nel cinema doppiamente e automaticamente riconoscibili, garantendo l’autoriconoscimento da parte dello spettatore. Configurare le immagini cinematografiche come immagini antropomorfiche e le scene come scene antropomorfiche e narrative non è stato uno sbocco automatico del cinema, ma l’affermarsi e il consolidarsi di una scelta intenzionale, condizionata dal pubblico e quindi dall’industria, che ha di fatto reso marginale tutta una serie di altre opzioni del cinema. Le ricerche del cinema documentario, scientifico o, per un altro verso, del cinema astratto sperimentale, sono diventate secondarie perché non potevano assicurare un immaginario capace di coinvolgere lo spettatore in profondità. Il rapporto spettatoriale, cioè la dimensione psichica del cinema, gioca quindi un ruolo determinante non solo nel decretare l’affermazione o l’insuccesso di modelli diversi del cinema, ma anche nel definire i modi del costituirsi dell’istituzione cinematografica. Dunque, sono al cinema. Vedo delle immagini in movimento che generalmente si configurano in un racconto. Un racconto per immagini. Intendiamoci. La struttura del racconto non è una necessità nel cinema, ma è la forma che si è storicamente e industrialmente affermata. È importante sottolineare che il film può essere una forma non narrativa, strutturata su principi formali e visivo-dinamici rigorosi. Alcune teorie dell’avanguardia e 118

del cinema puro insistono sulla specificità del cinema come forma visivo-dinamica pura, come ritmo, riflessione sulla visione, e considerano l’orizzonte narrativo come una negazione della peculiarità del cinema. Il cinema documentario, poi, è costruito con una logica che considera secondaria o inutile la narrazione. Sono opzioni di cinema non narrativo che si contrappongono apertamente al cinema narrativo. Tuttavia, se guardiamo più attentamente, ci rendiamo conto che componenti narrative sono spesso presenti nel cinema documentario come nel cinema d’avanguardia. Da un lato perché la dimensione del narrare è un orizzonte rilevante della costruzione del film. Dall’altro perché l’abitudine a leggere, ad ascoltare e a vedere racconti tende ad assumere un carattere antropologico o, se si preferisce, a delineare una struttura psichica che ci porta a considerare sotto la dimensione del racconto i testi che fruiamo o percepiamo. Quello che in ogni modo va sottolineato con chiarezza è che quando siamo nella sala e comincia il film, noi entriamo in un mondo immaginario che ci avvolge con la sua forza visiva e con i suoi meccanismi narrativi, ci immerge in un orizzonte assolutamente nuovo, in cui lo spettatore è assorbito e che produce effetti vari di identificazione. Lo spettatore entra nel mondo fittizio del cinema che un’istanza invisibile gli sta mostrando e raccontando. Come in Metropolis, in cui la trasformazione del disegno iniziale della città nei cilindri levigati, negli stantuffi e nelle bielle ci fa entrare nell’universo meccanico della città industriale del futuro. Come nella Finestra sul cortile, quando all’inizio del film vengono sollevate le veneziane alla finestra e noi vediamo l’insieme delle finestre che danno sul cortile. Come in Sentieri selvaggi, 119

in cui l’apertura della porta della casa ci fa entrare nel mondo selvaggio della Monument Valley e del West. Come nel Fascino discreto della borghesia, in cui l’iniziale viaggio notturno in auto ci immerge in un orizzonte di ripetizioni e di sorprese in cui il mondo, il sogno (e il sogno nel sogno) si intrecciano in modo quasi inestricabile. Lo spettatore entra nel mondo del racconto. Il racconto è l’orizzonte di quanto è narrato. Questa entrata nel mondo fittizio e funzionale è un evento fondamentale. In questo processo lo spettatore si trasforma e accetta di partecipare a una finzione profonda, che lo attrarrà, gli farà provare delle emozioni e potrà anche influenzare il suo modo di immaginare o di pensare. L’entrata nel racconto per immagini è un evento radicale, che, a mio avviso, modifica il soggetto, cioè l’individuo. L’entrata nel racconto è in ogni modo un evento che caratterizza la vita contemporanea. Viviamo in un mondo intessuto di racconti, dominato da racconti di tutti i tipi, in una proliferazione del raccontare che investe ogni passaggio della nostra esistenza. Nessun secolo ha conosciuto una diffusione così capillare del raccontare e un’immersione così profonda degli individui nell’universo del narrato. Siamo segnati dal racconto, avvolti nei racconti, guidati e abitati dai racconti. E il racconto per immagini e soprattutto il racconto cinematografico, e ormai anche quello dei serial televisivi, costituiscono uno degli universi fondamentali di riferimento nella società formata tardo-moderna – che meriterebbe di essere analizzato più a fondo dal pensiero (come peraltro ha fatto Paul Ricoeur, senza affrontare tuttavia un discorso sul cinema) (Ricoeur, 1986-88).

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Modelli di racconto I percorsi narrativi diffusi nel cinema riflettono forme articolate e ripetute, che alcuni sceneggiatori, teorici e studiosi considerano come un percorso costruito attorno a un modello originario molto forte, una sorta di itinerario archetipico, che passa dalla mitologia alla narrativa popolare contemporanea. Il famoso studio di Vladimir Propp, Morfologia della fiaba (Propp, 1966), ha delineato con rigore la struttura del racconto di fiabe in Russia, analizzandone le articolazioni e la ripetibilità delle funzioni. Gli elementi morfologici definiscono una struttura narrativa stabile che si dà ovviamente anche come asse di configurazione dell’immaginario, cioè come modo di strutturazione delle figure e dei fantasmi nell’immaginario prodotto. La connessione tra immaginario e narrazione è indubbiamente essenziale nel cinema che si è storicamente affermato e l’itinerario profondo del racconto di fiabe presenta evidenti analogie, ma naturalmente non rigide omologie con le strutture narrative dei film. Propp individua trentuno funzioni di sviluppo del racconto di fiabe dalla situazione iniziale alla conclusione utopica, delineando un modello astratto-concreto che definisce insieme la morfologia del racconto di fiabe e alcuni elementi strutturali del configurarsi dell’immaginario narrativo. Questa articolazione morfologica del racconto si struttura in ogni modo sotto un’altra ottica, come il viaggio dell’eroe, che costituisce indubbiamente una figura forte dell’immaginario. Non a caso oggi, negli Stati Uniti, l’elaborazione delle strutture narrative per il cinema è sempre più attenta non solo ai modelli classici del racconto, ma soprattutto alle strutture del mito e al121

l’ipotetica configurazione degli archetipi della narrazione. In questa prospettiva, riferimento essenziale sono gli studi di Joseph Campbell sull’eroe, il suo percorso e i suoi volti, che non solo collegano i modi della narrazione occidentale e contemporanea alle presunte origini mitiche, ma delineano una sorta di Ur-modello immaginario del racconto presente già nelle mitologie antiche. In queste ricerche Campbell riprende in maniera diretta o indiretta un’ampia tradizione psicologica, filosofica o psico-sociologica che va da Jung a Bachelard a Durand e che sostiene in modi diversi la presenza nella psiche di modelli archetipici legati alla filogenesi dell’umanità e la rilevanza assoluta del ruolo dell’immaginario nei processi psichici e nei comportamenti socio-esistenziali. A questa tradizione fanno riferimento spesso i curatori, soprattutto americani, di manuali di sceneggiatura che insegnano modelli e strutture narrative legati alle configurazioni mitiche originarie. Particolarmente significativo è in questa direzione il lavoro di Christopher Vogler, che nel Viaggio dell’eroe delinea un percorso fondamentale nel racconto, legato alla storia della cultura e della mitologia occidentale. Il modello di Vogler riflette quindi insieme una lettura dell’immaginario occidentale e diventa una proposta per l’elaborazione di nuove forme di immaginario, capaci di riflettere le strutture e le attese psichiche dello spettatore. Vale la pena di citarne lo schema (Vogler, 1992): Mondo ordinario Richiamo dell’avventura Rifiuto del richiamo Incontro con il Mentore Varco della prima soglia Prove, nemici, alleati 122

Avvicinamento alla caverna più recondita Prova centrale Ricompensa (conquista della spada) La via del ritorno Resurrezione Ritorno con l’elisir. Questo modello ricorda la struttura della fiaba analizzata da Propp e costituisce una configurazione produttiva per i film d’azione e d’avventura. Ma esistono evidentemente nel cinema come nel romanzo altri modelli narrativi, meno legati alla tradizione mitologica occidentale, ma capaci di operare in percorsi meno attivi e più problematici. Pensiamo a cos’è il modello narrativo dei romanzi di Samuel Beckett: una riduzione a zero dell’azione, una registrazione dell’inessenzialità e dell’assenza di senso della vita contemporanea. E i romanzi costruiti attorno a un eroe (o a un’eroina) problematico/a, che si interroga sulla crisi dei valori e dei modelli esistenziali in un mondo che ha perso il rapporto con il sacro, è evidentemente un altro macromodello narrativo che caratterizza il romanzo moderno (l’ha delineato il Lukács premarxista di Teoria del romanzo [Lukács, 1972]) e che dal romanzo si è esteso al cinema. Sono modelli narrativi non teleologici, non orientati verso un fine esplicito ed evidente, che seguono piuttosto una linea non orizzontale di sviluppo e ritornano su nodi psichici oggettivati come percorsi narrativi. I caratteri essenziali sono: 1) racconto libero e aperto che disgrega le regole della narrazione tradizionale; 2) rifiuto della rigidità causale, scarsa concatenazione tra gli eventi narrati, importanza accordata ai tempi morti, ai non eventi; 3) carattere problematico dell’eroe che spesso si in123

terroga sulla propria identità, sui propri obiettivi e sulle proprie ragioni; 4) carattere non finalizzato del comportamento del protagonista, che compie spesso azioni contraddittorie e incerte; 5) finali aperti e indefiniti, in cui prevalentemente non si risolvono i problemi e non si raggiungono gli obiettivi. I film che costituiscono la stagione del cosiddetto cinema moderno attestano in modo quanto mai significativo questi caratteri. Il procedere per digressioni e assorbimenti di situazioni, di eventi marginali del Bandito delle ore undici di Godard, l’interrogazione costante sull’identità del soggetto che segna i protagonisti di 8½ (Fellini) e Le petit soldat (Godard), di Fuoco fatuo (Malle) e Nel corso del tempo (Wenders), così come i personaggi, soprattutto femminili, di Antonioni (La notte, L’eclisse), il finale aperto di L’avventura, che non dà una soluzione al giallo della scomparsa della deuteragonista Anna, sono tutte componenti rilevanti di percorsi che negano la teleologia, la finalizzazione della narrazione e l’idea di eroe totalmente risolto nell’azione. Sono due modelli differenti che è bene conoscere per poterne apprezzare poi tutte le varianti intermedie. Particolarmente significativo in questa prospettiva è l’orizzonte del film noir e poi del neo-noir, in cui si mescolano istanze disomogenee: da un lato la concatenazione rigorosa ed efficace degli eventi e dell’investigazione, dall’altro l’emergenza di un eroe complesso, che si misura con la problematicità e magari l’inconscio dei personaggi, in una sintesi di grande efficacia. D’altronde la detective story, il racconto poliziesco presentano una struttura di particolare ricchezza che in fondo costituisce una variante fortemente autonoma ri124

spetto ai due modelli evocati. La detective story, infatti, opera attraverso congetture e ipotesi interpretative ed è impegnata a trovare un’interpretazione persuasiva (una verità?) in un mondo ambiguo e oscuro (si vedano in proposito le osservazioni intelligenti di Eco nella Postilla a «Il nome della rosa» [Eco, 1983]). Ha quindi una struttura bivalente, in quanto da un lato implica la scoperta di qualcosa di nascosto e dall’altro procede in un mondo opaco in cui gli stessi valori di riferimento sono problematizzati, o in crisi. Proprio per la sua capacità di unire narrazione rigorosa e ambiguità e oscurità del mondo, è una struttura che ha conosciuto negli ultimi anni un rilancio estremamente significativo. Ma è possibile trovare una radice comune nella narratività cinematografica (o nel racconto tout court), una forma che caratterizza sia il modello narrativo del cinema d’azione sia quello del cinema problematico e moderno? Vari studiosi (tra cui Barthes, brevemente, e Bellour più ampiamente) hanno sottolineato come il racconto sia articolato sulla relazione/conflitto tra il desiderio e la legge e come siano presenti quindi forti analogie con la struttura edipica (Bellour, 2005). Il percorso narrativo sviluppa il conflitto tra desiderio e legge che è la struttura dell’Edipo e articola in ruoli diversi i modi di identificazione complessi e contraddittori che l’Edipo implica. E secondo Bellour il cinema, soprattutto classico, si costruisce su un blocco simbolico ben strutturato che ruota attorno alle varianti molteplici dell’Edipo e contribuisce a moltiplicarle. È un’ipotesi interpretativa interessante, che tuttavia confligge con le rilevanti riflessioni di filosofi e psicoanalisti che parlano della fine dell’Edipo nella cultura contemporanea.

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Le nozioni della narratologia Gli studi sul racconto nel cinema, che riprendono gli studi di narratologia sviluppati innanzitutto nell’ambito della letteratura, hanno distinto componenti diverse. Ora hanno contrapposto storia e discorso, ora hanno individuato all’interno di un testo il racconto, la narrazione, la storia e l’intreccio (o l’intrigo). In relazione alle strutture del racconto, i formalisti russi hanno individuato funzioni diverse e concatenate, mentre la nuova narratologia ha concentrato la propria attenzione su nuovi concetti, dal punto di vista al sapere narrativo. E un filosofo come Ricoeur ha sottolineato la rilevanza del modello del racconto per l’interpretazione della nostra stessa vita. Vediamo di considerare in modo analitico, ma anche rapido, questi nodi. Innanzitutto la distinzione tra storia e discorso è un primo elemento utile. La storia è cosa viene narrato, il discorso è come viene narrato. L’una è il concatenarsi degli eventi e delle azioni. L’altro è il modo e i mezzi di comunicazione del contenuto. La storia può presentare differenti intensità drammatiche e implica la costituzione di un mondo immaginario. La storia e il suo pseudo-mondo sono spesso designati con il termine di diegesi, che riprende un concetto di Platone e di Aristotele, relativo al modo (narrativo) di organizzare la finzione. In Platone la diegesis è più rilevante della mimesis, mentre Aristotele insiste sull’importanza di quest’ultima nozione. Tuttavia, se vogliamo essere più precisi, possiamo distinguere altri nodi concettuali. Il racconto è l’enunciato che veicola una storia da raccontare. Nel cinema è formato da un insieme di componenti eterogenee, dall’immagine alle parole, ai rumori, alla musica, alle tracce grafiche, che cooperano tutte al narrare. È vero che 126

l’immagine svolge abitualmente una funzione prioritaria, ma a volte anche i rumori possono giocare un ruolo rilevante. Come avviene, ad esempio, in M di Lang, in cui è un mendicante cieco a individuare l’assassino, ascoltando un’aria di Grieg fischiettata dal serial killer in occasione dell’ultimo omicidio e ora ripetuta per le strade della città (che non è la Düsseldorf del titolo italiano: quando M uscì in Italia si era da poco concluso il processo a un terribile serial killer di Düsseldorf, tale Kurten. Di qui il titolo italiano). La narrazione è l’atto narrativo, ma poi per estensione anche l’insieme della situazione prodotta. I modi della narrazione sono evidentemente fondamentali e variano molto nei testi, nei periodi storici e negli autori. La prima considerazione utile è il superamento dell’identificazione dell’autore come narratore e il ricorso a un’altra nozione, quella di istanza narrante o narrativa, come il luogo di definizione e di conduzione del raccontare. In questo modo si sottolinea la funzione e il meccanismo del narrare, che è un aspetto fondamentale, invece delle persone e degli individui, in un’ottica che certo è stata influenzata dalle ricerche del formalismo e dello strutturalismo. L’istanza narrativa resta naturalmente esterna al visibile, non entra nelle immagini. Il racconto filmico appare quindi come l’oggettivazione di un vettore, di una fonte che non è identificabile con un personaggio. Tuttavia nei grandi modelli narrativi elaborati dal cinema è possibile distinguere tra percorsi in cui l’istanza narrativa segue prioritariamente il protagonista e modelli in cui invece la narrazione investe e segue ambienti e personaggi molteplici con un andamento più corale. L’istanza narrativa resta in entrambi i modelli estranea ai personaggi, ma nel primo caso costruisce una narrazione fortemente correlata a un per127

sonaggio e ai suoi comportamenti, mentre nel secondo caso offre un orizzonte più ampio e differenziato. Quando invece l’istanza narrativa è giocata da un personaggio all’interno del film – come, ad esempio, in Il gabinetto del dottor Caligari, in Viale del tramonto o in La fiamma del peccato e in parte in La donna del ritratto e in Quell’oscuro oggetto del desiderio –, si parla di istanza narrativa fittizia o interna al racconto. Naturalmente i modi di inserimento dell’istanza narrativa all’interno del racconto sono molteplici ed è bene cominciare a individuare alcuni modi differenti. In alcuni film, l’istanza narrativa fittizia o interna è legata a una voce narrante che emerge subito all’inizio del film e che racconta un insieme di eventi legati alla sua esperienza presunta: ad esempio, in Viale del tramonto o in Le petit soldat il film si apre con una voce over che inizia a raccontare una storia centrata sul personaggio narrante e che le immagini si incaricano di oggettivare visivamente. In altri casi il segmento narrato da un personaggio non copre tutto il film ma solo una parte: ad esempio, in Il gabinetto del dottor Caligari o in Quell’oscuro oggetto del desiderio. In altre occasioni il narratore interno racconta un segmento più limitato, ad esempio un ricordo o un sogno. E può farlo in modi diversi: con un’esplicita enunciazione del fatto che un personaggio racconta o, più spesso, con l’assunzione del punto di vista soggettivo di un personaggio, senza precisare l’operazione in atto come avviene generalmente nel cinema di Buñuel e di Resnais, ma a volte anche di Hitchcock, di Fellini e di molti altri autori. Pensiamo in particolare a film come Hiroshima mon amour, La guerra è finita, Providence, Bella di giorno, Il fascino discreto della borghesia, ma anche Io ti salverò, Marnie, La donna del ritratto e 8½. 128

Un’osservazione a parte si può fare a proposito dei falsi. Raramente, ma in alcune circostanze molto significative, i film hanno proposto immagini false, cioè l’oggettivazione visiva di una narrazione che altera l’effettivo svolgersi di un evento. È, ad esempio, il caso dei racconti di due personaggi in Odio implacabile di Dmytryk e in Paura in palcoscenico di Hitchcock. Ma poi due film come Rashomon di Kurosawa e La commare secca di Bertolucci fanno raccontare a personaggi diversi versioni diverse di un medesimo evento, con un’enigmatica pluralizzazione del punto di vista. Una nozione importante è poi quella di intreccio o di intrigo che il filosofo Ricoeur, in un suo fondamentale studio in tre volumi (Ricoeur, 1986-88) dedicato al racconto e alla sua dimensione temporale, considera come il modo di organizzazione di un discorso narrativo coerente attraverso la selezione e la strutturazione temporale degli eventi narrati. Per Ricoeur l’intrigo è quello che trasforma una serie irrelata di accadimenti in una struttura coordinata dotata di senso. «La costruzione dell’intrigo è l’operazione che da una semplice successione ricava una configurazione». L’interpretazione del film deve quindi avere la consapevolezza delle funzioni dell’intrigo e del tempo nell’orizzonte del racconto, studiando anche le modalità diverse dell’«arrangiamento configurante» attraverso cui «si trasforma la successione degli eventi in una totalità significante» (ivi, t. I, p. 69). Il racconto e la configurazione temporale degli eventi Nella sua ampia riflessione Ricoeur introduce, tra l’altro, due nozioni rilevanti: da un lato quella di configurazione degli eventi e del tempo, dall’altro quella della 129

centralità del modello del racconto nelle pratiche di figurazione del tempo e di comprensione dell’esperienza vissuta. Sono nozioni che non hanno solo un’importanza ermeneutica generale, ma possono risultare di indubbio rilievo nel lavoro di interpretazione del film: l’affermazione generalizzata del film come testo narrativo può essere considerata in relazione alla teoria di Ricoeur sulla centralità del racconto e della rifigurazione del tempo nell’interpretazione dell’esistenza. Ricoeur afferma che tra l’attività di raccontare una storia e il carattere temporale dell’esperienza umana c’è una correlazione strutturale. Il tempo diventa umano assumendo una forma narrativa e per converso la narratività propria del racconto assume la sua piena significazione quando diviene un’articolazione dell’esperienza temporale. Il carattere di racconto del testo assume quindi nell’ermeneutica di Ricoeur un ruolo essenziale, in quanto non appare tanto come una tecnica, ma come un modo di attivazione nel testo del processo di rifigurazione del tempo che dà senso all’esperienza vissuta. Questa centralità del racconto nella comprensione della nostra stessa esistenza spiega forse il successo planetario del cinema. Perché attraverso il racconto e attraverso il racconto cinematografico – che è stato a lungo il più diffuso – gli individui imparano a riordinare narrativamente la propria vita e ad attribuirle un senso. Come sullo schermo lo spettatore vede la sua immagine attraverso l’immagine dell’altro e ripete un processo fondamentale della costituzione della sua soggettività (secondo lo schema elaborato da Lacan e ripreso da Metz), così mediante il racconto filmico lo spettatore impara a ridefinire e a comprendere l’esistenza e il suo tempo. Le teorie di Lacan e di Ricoeur sembrano spiegare le ragioni della forza e della diffusione del cinema. 130

Questa rilevanza forte del racconto nel testo (filmico) e del tempo nel racconto implica quindi l’assunzione delle strutture temporali del racconto come territorio significativo del lavoro di interpretazione. I film, anche quelli più approssimativi e abborracciati, sono sempre un modo di dare continuità – più o meno ordinata – e senso a un insieme apparentemente caotico di elementi. La costruzione dell’intreccio ha tre funzioni essenziali: sistema, temporalizza e dà senso ai materiali impiegati. La riconfigurazione narrativa innanzitutto garantisce una consequenzialità tra gli elementi impiegati e tende a delineare in maniera più o meno evidente un rapporto di causalità: post hoc, ergo propter hoc. Insieme offre una correlazione tra gli elementi: se vari elementi sono presentati insieme vuol dire che sono coordinati in un disegno unitario. Anche nel racconto più corale e diversificato, la correlazione è sempre un principio compositivo e il risultato ultimo del narrare. La pluralità delle procedure tecnico-linguistiche del Godard di Una donna sposata o di Il bandito delle ore undici, ad esempio, è ricondotta a una superiore coesione formale grazie alla funzione riconfigurante della narrazione. L’eterogeneità dei mondi prodotti nei film dell’ultimo Buñuel, la presenza dell’orizzonte dell’immaginario, del sogno, del preconscio e dell’inconscio, variamente sovrapposti e integrati, sono ricondotti alla coerenza e al senso dal lavoro riconfigurante di una narrazione assolutamente anomala. Anche in film come Il fascino discreto della borghesia – in cui il rituale del pranzo costituisce l’oggetto di esperienze oniriche di vario tipo – o Il fantasma della libertà – in cui gli eventi si susseguono attraverso il legame di un personaggio che cambia di episodio in episodio –, la riconfigurazione narra131

tiva dei materiali onirici, immaginari e dei fantasmi del desiderio non solo attribuisce senso agli eventi, ma garantisce un surplus di ambiguità e di significatività. Riconoscere alla narrazione una funzione riconfigurante così forte non è qualcosa di automatico. In genere si preferisce attribuire ad altre funzioni e, ad esempio, all’istanza autoriale il ruolo di ricomporre elementi eterogenei. Ma il lavoro di formalizzazione coerente che presiede all’elaborazione di un testo narrativo complesso non potrebbe realizzarsi senza la funzione di riordino, di traino e di concatenamento strutturale che ha la narrazione. È perché esiste la solidità di base della narrazione che si possono realizzare le ricerche e le sperimentazioni più avanzate nel tessuto formale: la riconfigurazione narrativa riconduce tutti gli elementi eterogenei a un senso (una molteplicità di sensi) coerente. Le variabilità stilistiche e figurative, gli attraversamenti spregiudicati di eterogeneità di Metropolis o di Napoléon, di Arancia meccanica o di 2001: Odissea nello spazio trovano un senso e una logica grazie al riordino configurante della narrazione. Contrariamente a quanto ha sempre pensato la critica formalistica – cui io stesso ho lungamente aderito –, la capacità riconfigurante del racconto garantisce il senso e la coerenza della ricerca formale e stilistica. Perché il narrare garantisce una forza in più, una determinazione di fondo essenziale al funzionamento e alla fruizione di un testo. Senza la forza ordinante e coinvolgente di un intrigo narrativo, anche le immagini più ricche e variate perderebbero il loro potere di significazione e di seduzione. Pensiamo alla complessità estremamente interessante dei film di Lynch. In Strade perdute, in Mulholland Drive, in Inland Empire, Lynch può anche disarticolare la logica tradizionale della narrazio132

ne ma non rinuncia alla forza e al fascino del racconto. L’emergere di fantasmi e di allucinazioni, di sogni e di ricordi che sviano e rendono difficile la comprensione dello spettatore trova il proprio senso nella configurazione narrativa generale dei film. È proprio il confronto con la logica del racconto e le sue leggi che accresce la ricchezza dei significati possibili. Inserire il fantasma psichico dentro una configurazione narrativa vuol dire creare nuove costellazioni di elementi, produrre contrasti tra materiali diversi, e per questa via aprire a nuovi percorsi del senso. Non è un caso che anche i film d’avanguardia più considerati e apprezzati dal pubblico siano film in cui è possibile trovare una micronarrazione infinitamente anomala e tuttavia operante: Un chien andalou, L’âge d’or, Meshes of the Afternoon, Dog Star Man (o nella versione più ampia The Art of Vision), Inauguration of the Pleasure Dome, Scorpio Rising, The Chelsea Girls, Vinyl (in cui la narrazione è anche palese). Il fatto è che la presenza nel testo filmico di una configurazione narrativa evidente o sotterranea ben si accorda con la pratica mentale del soggetto esistenziale di riconfigurare i frammenti temporali della propria vita secondo la logica narrativa. C’è tuttavia un film doppio in cui tutte le problematiche della narrazione trovano un’oggettivazione di straordinaria chiarezza. Come in Il giardino dei sentieri che si biforcano Borges rifletteva sulla struttura del racconto letterario, così in Smoking/No Smoking Resnais analizza i possibili percorsi narrativi e ne prospetta insieme la struttura, le logiche di sviluppo e i modi di produzione del senso, attestando come il racconto sia un prodotto assolutamente immaginario. Sceneggiati da Bacri e Jaoui, a partire da un complesso testo teatrale di Alan Ayckbourn (Intimate Ex133

changes), Smoking/No Smoking sono due film complementari che mostrano apertamente i meccanismi del racconto. Come in una scacchiera, una mossa produce una dinamica di mosse e contromosse del tutto particolari. Ma se al contrario si fa una mossa differente, i concatenamenti sono del tutto diversi. Così nel racconto ogni scelta (biforcazione) implica uno sviluppo narrativo differente, e se la scelta viene modificata gli eventi si svilupperanno in un modo diverso. Il fatto è che in un racconto «tutti i percorsi sono possibili» e, attraverso la narrazione, la costruzione del senso si apre a vertigini impensate.

Capitolo 6

Il punto di vista e le forme dello sguardo

Il punto di vista La narratologia ha studiato il problema del punto di vista nel racconto e nel romanzo, considerandolo come un asse fondamentale nella delineazione e nella comunicazione del sapere (Genette, 1976 e Vanoye, 1989). Da che centro di osservazione e di conoscenza è organizzata una narrazione? A partire dal sapere di chi il lettore apprende quello che è narrato? La questione della diffusione del sapere di un testo narrativo è legata quindi alla questione del punto di vista, che presenta al suo interno più aspetti. Il punto di vista è innanzitutto, letteralmente, il luogo da cui si realizza una percezione. È quindi connesso al vedere e riflette un’attività percettiva. Ma punto di vista implica anche l’acquisizione e l’oggettivazione di un sapere, cioè di una conoscenza relativa al mondo narrato. Insieme il punto di vista può anche riflettere un interesse, una convinzione, un assunto ideologico. Lo sviluppo di un racconto letterario implica l’assunzione di un punto di vista, cioè di un’ottica, di una logica di gestione del sapere narrativo. Alcuni studiosi hanno usato il termine «focalizzazio135

ne», che implica la scelta di un’ottica e di una presentazione del narrato da un punto di osservazione. La storia del romanzo moderno, dal Settecento al Novecento, ha elaborato modi di focalizzazione diversi, che vale la pena evocare. Innanzitutto il racconto può essere effettuato dal punto di vista di un narratore onnisciente, che sa tutto, conosce tutto e distribuisce il sapere in relazione al suo disegno compositivo. È la posizione del narratore tradizionale, sette-ottocentesco, che può raccontare le azioni dei personaggi, gli eventi storici, ma anche scendere ad analizzare la psicologia dei personaggi e magari anche i loro pensieri, come facevano Stendhal e Flaubert o Dostoevskij e Turgenev. In secondo luogo, il racconto può essere effettuato dal punto di vista del protagonista stesso. Allora il lettore saprà quello che vede e sa il protagonista e non avrà accesso a nessuna informazione se non attraverso la mediazione del protagonista stesso. È un’ottica più limitata, che riduce il sapere del lettore e rafforza l’identificazione. Tutti i romanzi raccontati alla prima persona singolare, da un io, esprimono bene quest’ottica di visione, di sapere e di credenza particolari. Un terzo modello è poi costituito dall’assunzione di un punto di vista esterno ai personaggi, prevalentemente percettivo e descrittivo, che racconta le azioni, i comportamenti senza penetrare all’interno e spiegarne le logiche o i pensieri. È il romanzo behaviorista, comportamentista, che rileva i fenomeni e gli eventi senza proporre né un sapere interno ai personaggi, né un sapere onnisciente. I racconti del primo tipo sono non focalizzati, quelli del secondo tipo sono a focalizzazione interna, quelli del terzo tipo sono a focalizzazione esterna. I racconti a focalizzazione interna poi possono presentare forme diverse. Se l’ottica è solo di un personaggio la focalizzazione è fis136

sa (da Proust allo Straniero e alla Caduta di Camus), se è di più personaggi è variabile (Mentre morivo di Faulkner, che racconta la morte di un personaggio attraverso i punti di vista di più personaggi), se è di più personaggi che raccontano lo stesso evento è multipla. La questione del sapere narrativo acquista poi un’ulteriore grande rilevanza nel romanzo giallo o noir o thriller che dir si voglia, che ha conosciuto una grande affermazione negli anni più recenti. In un giallo, com’è noto, il percorso narrativo implica un omicidio e un enigma che il detective deve risolvere nonché una soluzione finale che spiega quanto è avvenuto, sciogliendo anche le complessità accumulate nella narrazione. Questo vuol dire che lo scrittore deve distribuire le informazioni in modo da permettere al lettore di seguire le indagini, ma insieme di non scoprire immediatamente l’assassino, onde evitare una perdita di interesse. Le dinamiche del sapere e del punto di vista assumono nel giallo una rilevanza assolutamente particolare, che spesso si realizza attraverso l’assunzione del punto di vista del detective, ma che a volte implica anche altri punti di vista. Oggi, ad esempio, comincia a essere diffusa anche un’altra gestione del sapere e del punto di vista, che a volte propone anche l’ottica dell’assassino e a volte presenta un sapere superiore a quello del detective. Sono modi di narrazione più complicati, che forse risentono anche dell’influenza del cinema e di un grande narratore di thriller come Hitchcock che ha sempre optato non sulla sorpresa, sul whodunnit, cioè sul chi è l’assassino, ma sulla suspense, sull’angoscia di fronte a una minaccia. Questo modello di analisi proposto dalla narratologia non può essere applicato al cinema in modo meccanico. Infatti la nozione di focalizzazione implica due aspetti: che cosa sa un personaggio e che cosa vede. 137

Mentre nella letteratura le due prospettive tendono a coincidere, nel cinema le cose sono apparentemente più semplici, ma invero più complesse. Il fatto è che in un film il sapere di un personaggio non coincide necessariamente con quello che vede. Innanzitutto il sapere di un personaggio è spesso non facilmente definibile. Inoltre la stessa questione del vedere in un film è generalmente variabile e richiede molti distinguo. Alcuni studiosi hanno sostenuto che il film narrativo è generalmente a focalizzazione zero o esterna, ma la situazione effettiva è invero più complicata. Intanto la presenza nel film di soggettive introduce talvolta un punto di vista interno. Inoltre la presenza nei film di varie riprese effettuate, come si suol dire, dalla spalla di un personaggio, implica altre questioni interpretative. Ma, soprattutto, la dinamica del sapere e la dinamica del vedere nel cinema devono essere interpretate diversamente. Innanzitutto il sapere è prodotto da una varietà di punti di vista. In secondo luogo il punto di vista del personaggio è spesso diverso da quello della macchina da presa. Infine, il sapere e il vedere del personaggio vanno distinti anche sotto il profilo teorico. Un altro studioso ha proposto di distinguere nel cinema la focalizzazione, cioè il punto di vista che concerne il sapere, dalla ocularizzazione (Jost, 1989), cioè il punto di vista da cui vediamo. Il fatto è che in un film noi ci troviamo di fronte a una varietà di punti di visione e quindi a una molteplicità di fulcri di percezione del mondo messo in scena, cioè del profilmico, e diventa quindi necessario operare tutta una serie di specificazioni. Prendiamo alcuni film in cui la questione del punto di vista è più forte. Innanzitutto in Quarto potere, dopo un prologo, il numero di una news (un cinegiornale) e una sequenza, viene avviata l’indagine di un giornali138

sta, poco caratterizzato come personaggio, sulla vita di Charles Forster Kane, il magnate dell’editoria appena morto. Il giornalista raccoglie una serie di racconti-testimonianze, che ricostruiscono episodi della vita di Kane. Questi racconti sono effettuati ovviamente, di volta in volta, dal punto di vista di alcuni specifici personaggi, oggettivandone la memoria, il sapere e l’opinione specifica su Kane stesso. Ma l’oggettivazione del loro racconto non è fatta dal punto di vista visivo del personaggio stesso, cioè non si identifica con la visione concreta del personaggio, ma usa una molteplicità di punti di vista, che fra l’altro implicano anche la presenza tra le cose e le persone visibili del personaggio che racconta. Sono situazioni in cui quindi la separazione e la differenza tra il punto di vista come sapere e il punto di vista come visione sono assolutamente evidenti. D’altronde questo tipo di procedura di messa in scena caratterizza sempre (o quasi sempre) i modi di oggettivazione della memoria o del racconto del passato o della fantasticheria o del sogno nel cinema. Nel Gabinetto del dottor Caligari, dopo il prologo, lo spettatore vede le immagini che illustrano il racconto di Francis e il suo punto di vista assolutamente particolare. Ma le immagini oggettivano la presenza di Francis e non si identificano quasi mai (con pochissime eccezioni) con la sua ottica percettiva. E la stessa cosa avviene, ad esempio, con i numerosissimi sogni che caratterizzano i film narrativi di Buñuel, dai Figli della violenza al Fascino discreto della borghesia, dall’Angelo sterminatore a Bella di giorno. Il personaggio che ricorda, immagina o sogna è sempre presente nelle immagini fantasmatiche, che non si identificano quasi mai con la sua ottica percettiva. Naturalmente lo stesso discorso si può fare sulla maggior parte dei film narrativi che generalmente non propongono il 139

punto di vista rigido di un personaggio, ma articolano la narrazione attraverso un punto di vista che non si può ricondurre a nessun personaggio. Ma la dinamica del sapere e del vedere riflette in ogni modo percorsi differenziati. D’altronde si tratta anche di tenere presente un altro aspetto fondamentale. Un film è costituito da una serie di sequenze. Le sequenze sono generalmente formate da un insieme di inquadrature che riflettono punti di visione differenti. Una sequenza tipica di un film classico (ma non solo) si apre con quello che gli americani chiamano un establishing shot, che generalmente corrisponde a un totale o a un campo lungo, e poi si articola in inquadrature più ravvicinate in cui spesso sono attivati uno o più punti di vista dei personaggi. Ad esempio, in un dialogo in campo e controcampo spesso (non sempre) abbiamo soggettive del personaggio che ascolta, e spesso abbiamo raccordi di sguardo che assumono in soggettiva l’ottica di un personaggio guardante. Il passaggio da un punto di vista all’altro è insomma una costante della messa in scena cinematografica anche nelle sue espressioni più diffuse. Il testo filmico dunque è caratterizzato da una pluralità di punti di vista ottici e quindi da una differenziazione strutturale tra il punto di vista come sapere e il punto di vista come vedere. Le forme dello sguardo Il punto di vista quindi si articola in una serie di immagini molto diverse. Queste immagini sono il risultato di riprese, cioè di ocularizzazioni o, se si vuole, di sguardi diversi, che è possibile articolare in molteplici modelli tipologici. L’immagine schermica infatti è sempre il ri140

sultato dell’esercizio di uno sguardo, ne è la sua oggettivazione. Abbiamo già visto, nel primo capitolo, come lo sguardo dello spettatore si identifichi con lo sguardo della macchina da presa attraverso la mediazione del proiettore e dell’immagine schermica. Una dinamica, anzi varie dinamiche di sguardi, è quello che si realizza al cinema. Una molteplicità di sguardi si intersecano, si intrecciano tra la sala e lo schermo, tra la macchina da presa e il profilmico, tra i personaggi sul set o nel film montato. Questa molteplicità di sguardi costituisce una delle ricchezze e delle varietà del cinema. Innanzitutto non si può dimenticare che l’attività della macchina da presa si esercita come sguardo. È uno sguardo tecnico, evidentemente impersonale, che tuttavia può mescolarsi agli sguardi dei personaggi e talvolta identificarsi con essi. La percezione dello spettatore in fondo sembra presupporre uno sguardo legato a un autore. Ma il suo è un difetto antropocentrico. Lo sguardo del cinema è generalmente caratterizzato dall’impersonalità e uno studioso francese ha parlato per il cinema di enunciazione impersonale (Metz, 1995). I modi dello sguardo filmico sono certamente complessi e investono sia la funzione e la posizione della macchina da presa, sia le relazioni visive tra i personaggi, sia, ancora, la relazione tra lo sguardo dei personaggi e la macchina da presa. Il primo aspetto che va rilevato è il carattere visivo del cinema, che implica dunque l’esercizio di uno sguardo. È superficiale assimilare il cinema alla letteratura e il cosiddetto racconto per immagini al racconto letterario. Al cinema, in fondo, più che un racconto per immagini si ha una catena di immagini che costruiscono un racconto. Sono le immagini che producono il racconto, non il racconto che si avvale di immagini, 141

anche se nel procedimento compositivo la stesura della sceneggiatura viene prima. Riconoscere la centralità del visivo e dello sguardo vuol dire avere la consapevolezza che nel cinema tutto avviene attraverso lo sguardo. Il visivo e lo sguardo implicato producono senso, creano idee e insieme costruiscono forme. Ma lo sguardo nel film, prima di configurarsi in modo diverso, è qualcosa che insieme si mostra, è in atto, e si nasconde, finge di non essere attivo. Il carattere impersonale dello sguardo cinematografico implica appunto la sua disumanizzazione o de-soggettivazione. Quindi il cinema è uno sguardo che tende a nascondersi, se non proprio a negarsi, è uno sguardo che vive occultandosi, ma tuttavia produce il visibile. Sono le forme dello sguardo che guidano la nostra percezione, sono le sue configurazioni che producono la configurazione visiva che noi vediamo. Vari specialisti hanno tentato una classificazione degli sguardi del cinema, indicando una tipologia delle immagini filmiche in rapporto al punto di vista, alla narrazione e ai personaggi (Branigan, 1984; Casetti, 1986; Aumont, 1987). Tra le forme di sguardo possiamo innanzitutto distinguere le seguenti prime articolazioni: l’oggettiva, l’oggettiva irreale, l’interpellazione, la soggettiva. L’oggettiva costituisce senz’altro la forma di sguardo più diffusa. Propone un settore di spazio preciso, di diversa ampiezza e configurazione, e svolge allo stesso tempo una funzione narrativa e una descrittiva. È uno sguardo che punta insieme allo sviluppo della narrazione, alla registrazione degli eventi, all’esibizione o alla descrizione dello spazio in cui si svolgono le azioni. È uno sguardo che può articolarsi su un’ampia scala di piani, ma, contrariamente a quanto è stato detto, non può riguardare anche i piani più ravvicinati, che sem142

brano investiti da un’altra logica e da un’altra qualità. Insieme è uno sguardo che tende a privilegiare modalità consolidate di ripresa e quindi si presenta per lo più con angolazioni regolari, ma non solo frontali, o con angolazioni parzialmente oblique e con una collocazione della macchina da presa ad altezza d’uomo, con il fine di mostrare efficacemente il campo del visibile. L’oggettiva irreale, al contrario, seleziona un settore del profilmico in modo anomalo, con un’angolazione di ripresa irregolare. È uno sguardo che evidenzia la scelta di composizione dell’autore e quindi marca la sua presenza formativa e insieme offre una visione singolare dello spazio raffigurato. Un’inquadratura dall’alto, o a piombo, o da un’angolazione assolutamente particolare, o uno sguardo che registra un movimento di macchina singolare, di difficile esecuzione, manifestano un’ottica anomala particolare che possiamo definire irreale. Ma non bisogna dimenticare che questo tipo di immagine ha spesso anche una particolare valenza metacinematografica ed esibisce apertamente la macchina cinema e la sua tecnologia. Varie inquadrature di Metropolis, Napoléon, La finestra sul cortile, così come di 2001: Odissea nello spazio, Blade Runner e Avatar, sono segnate da un’esibizione della tecnologia del cinema e delle sue straordinarie possibilità. Per questo potrebbero forse essere indicate come immagini tecnomorfiche, o oggettive tecnomorfiche, che palesano la natura tecnologica del cinema. All’interno delle oggettive irreali, dunque, è bene distinguere una configurazione specifica che si manifesta attraverso l’esibizione della tecnologia ottica: un’oggettiva tecnomorfica. Un altro tipo di sguardo è invece segnato da una rottura del principio di separazione radicale tra schermo e spettatore che caratterizza lo statuto del cinema. Sono 143

immagini che mostrano uno sguardo rivolto verso lo spettatore e implicano l’attivazione di un rapporto di allusione o di comunicazione diretta ed esplicita tra un personaggio sullo schermo e lo spettatore. Questa immagine, che è stata definita interpellazione, implica per l’appunto un’interpellazione dello spettatore, che viene chiamato a capire o a partecipare a una dinamica particolare dell’azione scenica. L’interpellazione è più diffusa in certi generi (ad esempio, il musical) o nel cinema antirealistico e d’autore della modernità (in Godard o in Quarto potere), mentre è assolutamente assente nel cinema tradizionale e nella stessa maggioranza dei film d’autore. È naturalmente necessario distinguere tra due tipi di sguardo in macchina. Lo sguardo dell’interpellazione implica l’apertura di una relazione diretta con lo spettatore ed è uno sguardo in macchina a tutti gli effetti, mentre lo sguardo verso la macchina, che spesso è attivato in campi e controcampi o per potenziare la capacità seduttiva di un personaggio, non implica l’interpellazione dello spettatore, ma è suggerito da esigenze narrative e riflette semmai, in alcuni casi particolari, una volontà di seduzione o di fascinazione e di cattura psichica dello spettatore. Lang usa questo sguardo fascinante verso la macchina in molti dei suoi film muti con risultati di grande efficacia: dallo sguardo di Mabuse in Il dottor Mabuse a quello di Krimilde in I Nibelunghi e di Maria in Metropolis, lo sguardo verso lo spettatore è insieme una forma di fascinazione dello spettatore e un’intensificazione della forza dell’immagine filmica. E sguardi seduttivi di incomparabile forza e bellezza indirizzati verso la macchina da presa e verso lo spettatore caratterizzano poi la recitazione di Rodolfo Valentino o di Marlene Dietrich, che usano lo sguardo verso la mac144

china come lo strumento per eccellenza della seduzione della spettatrice e dello spettatore. La soggettiva è poi uno sguardo che coincide con quanto vede un personaggio e ne riflette quindi pienamente il punto di vista oculare. È un’immagine in cui il punto di vista narrativo e quello ottico coincidono e realizzano insieme una focalizzazione e un’ocularizzazione interna. La ripresa della soggettiva a volte non presenta anomalie percettive, ma altre volte sottolinea la singolarità e magari l’alterazione del soggetto percettivo. In Notorious, all’inizio del film, le soggettive della protagonista Alicia (Elena nella versione italiana, chissà perché) sono tutte alterate dagli effetti dell’alcol e Devlin è osservato ora obliquo ora a testa in giù. La soggettiva è una procedura che tende a sottolineare l’importanza del personaggio guardante nell’economia narrativa del film e insieme punta a stimolare l’identificazione dello spettatore con il protagonista (o i protagonisti) del film. Non a caso Hitchcock la usa in modo sistematico, a differenza di altri registi hollywoodiani (come Hawks e Ford), e Lynch la riprende con un’intensità ancora più forte. Alcune soggettive implicano invero una falsificazione del mero dato visibile. A parte le inquadrature che sembrano soggettive e invece alla fine inglobano lo stesso protagonista, e si attestano quindi come false soggettive (ad esempio, l’ampia inquadratura dal cavalcavia in Cronaca di un amore, che pare una soggettiva del protagonista e invece alla fine inquadra anche Massimo Girotti), sono significative, ancora in Notorious, due inquadrature in soggettiva di Alicia che implicano un movimento di macchina in avanti anche se il personaggio resta fermo (ad esempio, nella sequenza a tavola, quando guarda una bottiglia di vino che aveva suscitato la preoccupazione di un commensale, o nella sequenza in 145

camera, quando Alicia individua la chiave proibita della cantina misteriosa): in entrambi i casi il movimento di macchina che va a isolare un particolare è in fondo una soggettiva mentale che sottolinea l’intensificazione psichica dello sguardo della protagonista. Un discorso diverso dovrebbe essere fatto per il primo piano. Generalmente il primo piano può riflettere uno sguardo soggettivo, ad esempio nella percezione di un altro personaggio, magari effettuato in un campo e controcampo, o uno sguardo oggettivo: non c’è nessuno che guarda da vicino, se non l’istanza autoriale che ha attivato il primo piano in questione. Tuttavia il primo piano riflette sempre uno sguardo anomalo. Perché il primo piano è un’immagine che si carica di una doppia intensità: innanzitutto un’intensità emozionale, che la visione del volto di una persona nelle grandi dimensioni dello schermo produce sempre. L’intensità emozionale può essere legata allo sviluppo della narrazione, alla tensione e alla drammaticità delle relazioni intersoggettive raccontate, alla bellezza e all’espressività del volto. Ma sempre, nello sguardo che isola un primo piano, c’è una forza supplementare del veduto che si carica di un’emozionalità ulteriore. Non a caso Deleuze ha parlato di immagine affezione per il primo piano. Perché la forza e l’intensità del volto in primo piano implicano una dinamica di affettività. Non si può guardare senza una partecipazione emozionale l’immagine in primo piano di Marlene Dietrich o di Rodolfo Valentino, come l’immagine di un volto colpito dal dolore o dalla morte. Ma, in fondo, anche le immagini meno forti del primo piano sono attraversate da una tensione interna che la trasformazione del volto in immagine schermica gigante implica. La riscoperta del visibile è, per uno dei primi teorici del cinema, Béla Balázs, uno degli aspetti 146

essenziali del cinema (Balázs, 2008). E il visibile è fra l’altro il volto dell’uomo e della donna in tutta la sua potenzialità comunicativa ed espressiva: in tutta la sua valenza emozionale e affettiva. Ci sono tuttavia altri tipi di immagine che implicano sguardi caratterizzati da una diversa logica o da un diverso meccanismo. Sono innanzitutto gli sguardi fantasmatici, che oggettivano produzioni della psiche: più esattamente, le immagini memoriali, oniriche, fantasmatiche in senso proprio, e allucinatorie. Sono immagini che nell’economia del testo riflettono una logica e una funzione differenti dalle soggettive e dalle oggettive e che quindi bisogna anche ricondurre alla dimensione particolare nello statuto del testo. Certo, all’interno di immagini oniriche o memoriali possiamo poi trovare sguardi oggettivi, soggettivi ecc., ma questi sguardi si configureranno in ogni modo in una maniera particolare perché saranno inscritti nell’orizzonte psichico di un personaggio che sogna, ricorda, racconta, fantastica. E questo carattere specifico delle immagini psichiche tenderà anche a influenzare le strutture dello sguardo, o indirizzandolo in una maniera particolare o provocando una deformazione del visibile o in ogni modo investendo il visibile di alcune singolarità inattese. Le immagini fantasmatiche dei film vanno poi distinte: non si può confondere un’immagine onirica con una memoriale, anche se non sempre la distinzione è facile. I film di Buñuel, di Resnais, di Robbe-Grillet e più recentemente di Lynch lavorano ad esempio con grande abilità su questa dimensione complessa del vedere e riarticolano in forme infinitamente variate le potenzialità ottiche degli sguardi del cinema. In molti studi ho cercato di analizzare e interpretare le dinamiche dei fantasmi all’interno dei film, nella persuasione che l’impegno di inter147

pretare gli enigmi delle immagini fosse un passaggio rilevante nei percorsi di interpretazione dei film. C’è infine un altro tipo di immagine che in fondo impone una forma di sguardo ancora differente. Molte inquadrature appaiono dominate dall’ombra, dal buio, dall’oscurità. Sono immagini in cui il visibile è limitato, se non azzerato, e che quindi costituiscono un’anomalia forte nell’economia del vedere, anche perché si collocano sul margine dell’invisibile. L’immagine oscura o dominata dall’oscurità è qualcosa di radicalmente diverso da un’immagine a luce diffusa. Sotto un certo profilo c’è una differenza maggiore tra le immagini oscure e le immagini a illuminazione diffusa che tra due immagini dello stesso profilmico l’una illuminata e l’altra oscura. Naturalmente poi tra le immagini oscure c’è tutta una serie di gradazioni di intensità, ma è indubbio che l’immagine in cui l’oscurità sia prevalente riflette uno sguardo diverso da quelli precedentemente descritti. L’immagine oscura può essere un’oggettiva irreale o una soggettiva: ma la sua caratteristica fondamentale è di riflettere uno sguardo particolare che è in fondo uno sguardo formalizzante, uno sguardo che modifica la percezione normale per sostituirle un’altra logica e un altro trattamento del materiale visivo. Le immagini di tenebre del cinema muto tedesco e del cinema horror o noir sono il prodotto di sguardi deformanti, dalla forte carica formale, che disarticolano i profili delle cose e le trasformano in un buio terrificante, in un incubo infinito. Sono immagini prodotte da un altro sguardo, in cui l’intento compositivo, funzionale al raggiungimento di un effetto di terrore o di enigma, è assolutamente dominante. E sono immagini che spesso si caricano anche di una valenza simbolica ulteriore e sottolineano la presenza del male e del negativo. 148

L’immagine dell’occhio e il metacinema Questa centralità dello sguardo nel film è stata a volte oggettivata, nella storia del cinema, in immagini particolari volte a sottolineare la rilevanza del vedere. La rilevanza assoluta dell’occhio è stata dimenticata da molti discorsi sul cinema, ma invero era già stata sottolineata con estrema chiarezza nel cinema muto, sia alle origini del cinema sia soprattutto nell’ambito dell’avanguardia e del grande cinema degli anni Venti. L’esibizione dell’occhio nelle immagini sullo schermo è infatti un preciso elemento metacinematografico, che fa riferimento cioè al cinema stesso e al suo statuto (macchina). L’immagine dell’occhio allargata attraverso una lente in Grandma’s Reading Glass di George A. Smith è una prima configurazione simbolica che attesta il carattere centrale dell’occhio nel cinema. Ma poi, negli anni Venti, in un momento di affermazione e di forte autocoscienza del cinema, l’esibizione dell’occhio assume il carattere di un’esplicitazione simbolica sulla natura visiva della nuova arte. In Il dottor Mabuse, come abbiamo già detto, Lang esibisce la funzione fascinante dell’immagine schermica: ma isolando gli occhi di Mabuse sullo schermo nero sottolinea il fatto che il cinema è un fatto visivo, che si fonda sulla capacità dell’occhio di percepire e dell’occhio meccanico di registrare il visibile. La centralità dell’occhio è ripetutamente segnalata dall’avanguardia. Non solo Vertov intitola Kinoglaz (Cineocchio) il primo lungometraggio e definisce «cineocchio» il proprio cinema e «kinoki» i membri del suo gruppo di lavoro, ma mostra l’immagine dell’occhio nel suo cinema e fa dell’occhio anche la figura essenziale proposta nel manifesto del «cine-occhio». Anche Cavalcanti, all’inizio di Rien que les heures, mostra prima 149

un occhio e poi una molteplicità di occhi per sottolineare anche il carattere di sguardo molteplice portato sulla vita quotidiana che caratterizza il film. Sempre nel 1927 l’immagine dell’occhio moltiplicato sullo schermo appare in un altro film d’avanguardia, Filmstudie di Richter, in cui un insieme di occhi di vetro è variamente e ripetutamente disposto sullo schermo. Ma ancora più forte è l’immagine dell’occhio e degli occhi moltiplicati sullo schermo in un film di grande impegno produttivo come Metropolis. L’immagine sottolinea l’atteggiamento voyeuristico dei milionari che assistono alla danza erotica della falsa Maria, ma evoca evidentemente anche il carattere voyeuristico della visione dello spettacolo e quindi del cinema stesso. E in un film tra dada e surrealismo come Emak-Bakia di Man Ray, sull’immagine della macchina da presa e sull’obiettivo è inscritto in sovrimpressione un occhio in un’esplicita analogia visiva tra l’occhio della macchina da presa e l’occhio umano. E naturalmente l’esibizione dell’occhio come configurazione metacinematografica per eccellenza trova poi la sua forma più radicale nell’occhio tagliato dal rasoio in Un chien andalou di Buñuel (e Dalí). È un taglio che indica una radicale trasformazione del vedere, esercitata al tempo stesso sulla visione della macchina da presa e su quella dello spettatore, un taglio che apre a un’altra percezione indirizzata all’inconscio, al delirio e alla profondità della psiche – e che Dalí riproporrà nel 1945 in una forma diversa nell’invenzione e nei disegni preparatori per il sogno di Io ti salverò di Hitchcock.

Capitolo 7

Movimento, tempo, divenire

Il movimento Il movimento è uno dei caratteri essenziali del cinema. Il cinema nasce proprio con le tecnologie che permettono la produzione del movimento nell’immagine (si pensi al prassinoscopio, allo zoetropio, al teatro ottico, e a tutti quegli strumenti che si proponevano di dinamizzare l’immagine). Non a caso gli studiosi di precinema, nel ricostruire la genesi del cinema, danno più importanza alla ricerca sul movimento che all’invenzione della fotografia. E la parola stessa, «cinematografo», sottolinea insieme i caratteri di scrittura e di dinamismo, di velocità. Come la radice greca di fotografia evoca la luce, così la radice di cinematografo evoca il movimento (e la scrittura). E l’importante riflessione teorica dei tempi del muto insiste sulla centralità del dinamismo nell’immagine filmica e considera esperienze di grande cinema, di cinema colto nei suoi elementi essenziali, il dinamismo degli oggetti e le intensificazioni del movimento che si possono ottenere attraverso il montaggio. Le immagini montate in grande accelerazione delle ruote del treno in La roue di Gance vengono giusta151

mente considerate come un’espressione del cinema in quanto tale, perché mostrano il movimento intensificato e costruiscono un ritmo visivo accelerato e nuovo. Il ritmo è d’altronde l’altra parola chiave delle teorie degli anni Venti. Le immagini filmiche devono produrre un ritmo visivo, devono combinare in forme nuove il movimento e il tempo, il movimento nel tempo. Il cinema è musica per immagini e il ritmo è la sua dimensione privilegiata. I teorici degli anni Venti, e in particolare una teorica della cinematografia integrale come Germaine Dulac, hanno sostenuto la possibilità del cinema di realizzare un ritmo visivo puro, privo di contenuti narrativi e segnato solo dal fluire delle immagini: un’ipotesi radicale che ha suggestionato alcune esperienze creative soprattutto nel campo di brevi film sperimentali che si proponevano come vere e proprie sinfonie visive (Thèmes et variations, Arabesques e Disque 927 di Dulac, Cinq minutes de cinéma pur di Chomette, In der Nacht e Melodie der Welt di Ruttmann, e persino Romance sentimentale di Ejzenštejn e Alexandrov). È possibile tuttavia un ritmo puro? Uno studioso come Mitry sostiene che non esiste al cinema un ritmo puro, perché il ritmo è sempre la combinazione e la fusione di due componenti: i ritmi temporali e i ritmi plastici, legati gli uni alla fluidità dinamica delle immagini (e anche dell’audio) e gli altri alle configurazioni delle immagini e alle variazioni di intensità luministiche (Mitry, 1963-65). Il discorso sulla centralità del movimento è stato ripreso più recentemente da Deleuze nel primo dei suoi due volumi dedicati al cinema, L’immagine-movimento. Deleuze, pur non affrontando i problemi fisiologici e intellettivi della percezione, afferma il carattere strutturalmente nuovo dell’immagine filmica, che implica una riorganizzazione della percezione del mondo. L’immagine 152

filmica è direttamente immagine-movimento. Il movimento non è aggiunto in un secondo tempo ma è connaturato all’immagine. «Il cinema non ci dà un’immagine cui si aggiungerebbe il movimento, ci dà immediatamente un’immagine-movimento» (Deleuze, 1984, p. 15)1. Deleuze riprende la riflessione di Henri Bergson sul movimento, sul tempo e sulla durata, riarticolandola in relazione al cinema e supera subito la posizione tradizionale, che considerava il movimento come somma di sezioni immobili e tempo astratto, per un’idea bergsoniana legata al movimento reale e alla durata concreta (Bergson, 1938). Immagine=Movimento. Deleuze rileva poi la compresenza all’interno dell’immagine-movimento di tre determinazioni diverse: innanzitutto la realtà del movimento rinvia alla durata concreta; in secondo luogo il cinema mette il movimento in relazione a istanti qualsiasi; infine il movimento è traslazione di oggetti nello spazio ed è anche trasformazione dell’insieme. Insieme il movimento non opera semplicemente una traslazione di oggetti nello spazio, ma produce anche «un cambiamento qualitativo in un tutto» (Deleuze, 1984, p. 20). E il cinema, nella sua articolazione di immagini immobili, immagini mobili e immagini del tutto (inquadrature, piani, montaggio), è modificazione dello spazio e oggettivazione del tempo. Scrive ancora Deleuze: «Chiamiamo immagine l’insieme di ciò che appare [...]. È proprio l’identità dell’immagine e del movimento che ci fa concludere immediatamente nell’identità dell’immagine-movimento e della materia [...]. 1 Un teorico francese come Guy Fihman ha definito questo processo di oggettivazione di un’immagine-movimento attraverso la concatenazione di un insieme di immagini statiche come la realizzazione dei principi del pensiero di Zenone. Secondo Fihman (1979, p. 181) il cinema data da quando Zenone ha elaborato la sua filosofia.

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L’immagine-movimento e la materia-flusso sono rigorosamente la stessa cosa» (ivi, pp. 76-77). Quindi, il movimento è segno del divenire, registrazione del divenire infinito delle cose del mondo. Detto altrimenti, non si può pensare il movimento se non nel tempo. Cerchiamo quindi di studiare la relazione movimento-tempo-divenire in un film di indubbia ricchezza, che sembra oggettivare con grande forza i caratteri dell’immagine filmica in rapporto al visibile e alla sua configurazione. Prendiamo una breve microsequenza quanto mai significativa di un film di Murnau, Tartüff, e iniziamo un’analisi del testo, sottolineando come l’analisi del film sia il passaggio più produttivo per la comprensione in profondità del cinema e costituisca quindi lo sbocco naturale del percorso introduttivo che qui abbiamo cercato di elaborare. L’interpretazione del breve segmento di un film ci consentirà di riflettere su alcuni aspetti rilevanti dello statuto del cinema, in una prospettiva di ermeneutica allargata del film: cioè di un’interpretazione che dal film si allarghi alla comprensione del cinema e dei suoi concetti. «Tartüff» e l’immagine divenire 1) PR Elmire è sola nella propria stanza, di sera. Pensa. Poi si sfila la collana con un pendaglio e apre il portaritratti. 2) Dett. Il portaritratti aperto mostra la figura dipinta di Orgon inquadrata in una cornice barocca. 3) PP Elmire con il portaritratti in mano. 4) Dett. L’immagine di Orgon nel ritratto è bagnata da una goccia di pianto. La lacrima altera i contorni del volto di Orgon. 5) PP Elmire bacia il ritratto di Orgon. 154

6) PR (leggermente dall’alto) Elmire piange stringendo al cuore il portaritratti. Elmire è nella sua stanza, di sera. Inquadrata in piano ravvicinato, la donna estrae dalla propria scollatura un pendaglio, lo apre e osserva con emozione il ritratto di Orgon. Due dettagli in soggettiva del pendaglio con l’immagine dell’innamorato sono inseriti nella successione delle inquadrature di Elmire. Sono immagini nell’immagine che a un tempo introducono un elemento ulteriore e delineano un gioco di visione di nuova complessità. Le due inquadrature dedicate al ritratto di Orgon appaiono invero costruite diversamente, con un insieme differenziato di elementi. La prima inquadratura infatti mostra: a) l’immagine di Orgon come in primo piano nel portaritratti; b) la cornice barocca del portaritratti medesimo; c) lo sfondo in alto con l’oscurità che avvolge il portaritratti. La seconda inquadratura sostituisce invece lo sfondo nero con la mano della donna che regge l’oggetto osservato. È una variante che sottolinea la presenza e la partecipazione psicologica della donna, ma è insieme anche un elemento visivo che sostituisce il nero con il grigio chiaro della carne della mano, sottolineando ulteriormente il carattere eterogeneo degli elementi visivi. Nella seconda inquadratura il ritratto di Orgon è improvvisamente alterato da una lacrima che cade sull’immagine e ne confonde i tratti. È un’inquadratura di grande intensità in cui il gioco della visione e le dinamiche della figurazione cinematografica sembrano rivelarsi in un meccanismo di significazione stratificato e molteplice. Si tratta di una lacrima della donna che cade sul ritratto, una goccia di pianto che viola l’equilibrio visivo 155

e determina una modificazione, una rottura a tre livelli: 1) l’orizzonte del visibile; 2) la sua mobilità; 3) l’altro, il fuori campo. Il ritratto appare infatti improvvisamente alterato: la goccia ne modifica alcuni contorni rendendoli meno nitidi e più confusi. Lo spettatore deduce che si tratta di una goccia di pianto e ricontestualizza sotto il profilo psicologico l’immagine. Ma l’introduzione nel campo del visibile della goccia di pianto provoca di fatto tre mutazioni. Innanzitutto è l’irruzione dell’altro, di qualcosa che era escluso dal campo visivo, ma viene a giocarvi un ruolo essenziale: è il fuori campo che irrompe in campo e lo altera. È inoltre la contestualizzazione dell’immagine e la rivelazione della sua componente relazionale, del suo essere «entre», «tra». Qui non c’è nessuna riproduzione mimetica di oggetti, solo la configurazione di una rifrazione visiva, di una micromobilità dell’immagine. Insieme è l’introduzione di un’alterazione del visibile, prodotta da un agente inatteso. L’oggetto percepito viene modificato dalla presenza di una goccia d’acqua che distorce i contorni e li rende incerti. L’immagine appare come sottoposta a un intervento che deforma il visibile, fa perdere la nitidezza dei profili e rende incerta la percezione. È l’irruzione di un altro che rende diversa, se non altra, l’immagine degli oggetti. È la visualizzazione di un elemento che altera la configurazione complessiva e cambia la percezione. Questa irruzione è un prodotto della messa in scena, che supera la mera riproduzione dell’oggetto e ne trasforma l’aspetto, modificando l’immagine. È una procedura che sembra defigurare il visibile per rifigurarlo in una maniera differente. Ma questo percorso, a ben vedere, va oltre la figurazione/defigurazione dell’immagine. È qualcosa che non 156

implica la rappresentazione imitativa, né la figurazione, pur avvalendosi anche di alcune componenti di quelle procedure. È un’immagine che solo il lavoro sul visivo può permettere e che è il risultato di una visualizzazione anomala e particolare, una delle forme più significative e più avanzate che il cinema può realizzare, una visualizzazione eido-generativa: cioè una visualizzazione che oltrepassa l’oggetto, lo trasforma grazie alle capacità ottico-dinamiche del cinema e lo fa diventare qualcos’altro, in questo caso un’immagine-tensione, un’immagine/forma/idea, un eidos. In terzo luogo, la lacrima che cade sul ritratto e poi scivola giù introduce anche un’ulteriore variabile estremamente significativa: trasforma un’immagine statica in un’immagine segnata dalla mobilità. In realtà, non si tratta di una vera e propria introduzione del movimento, perché nessun oggetto è mosso nel campo visivo, ma dell’inscrizione della mobilità, del (micro)dinamismo, nell’immagine statica. La goccia scivola sul ritratto, sul vetro che lo racchiude. È solo un riflesso, una macchia, una microrifrazione, ma è in grado di mutare i lineamenti, di sdoppiarli, di sottoporli a una variazione di luminosità. Senza muovere alcun oggetto introduce la trasformazione, il mutamento, la cangianza. Mostra la mobilità intrinseca alle cose, senza muovere alcuna cosa. Ma questa mobilità sottolinea come il movimento del cinema sia mobilità, trasformabilità degli oggetti, non necessariamente dislocazione nello spazio: una mobilità che rifigura il visibile, un microdinamismo che ridisegna i profili, una visualizzazione che porta in sé la mutazione. In questa oggettivazione di un micromovimento attivato nell’inquadratura, invero, la mobilità propria del cinema è rivelata insieme (a) come possibilità di variazione visiva e luministico-figurativa, (b) co157

me capacità dell’immagine di produrre significazione nel contesto del montaggio, e (c) come oggettivazione della temporalità del cinema. La mobilità della lacrima, infatti, è qualcosa di meno e qualcosa di più del movimento di un oggetto. È una mobilità dell’essere, più che di un oggetto, è una mobilità del tempo e nel tempo. È una mobilità dell’essere nel tempo, è una particolare mobilità dell’essere che lo costituisce come divenire. Quello che si vede attraverso una minima variazione visiva è una rivelazione del divenire, anzi una visualizzazione del divenire. E la visualizzazione del divenire mostra di essere quello che è il cinema: un oltrepassamento della rappresentazione visivo-dinamica nella configurazione della mobilità. La visualizzazione del divenire è uno dei modi più rilevanti del cinema e implica insieme il movimento e il tempo. Il cinema è divenire, perché è movimento nel tempo. Questo processo, mentre rivela una microtrasformazione, sottolinea come i micromovimenti nell’immagine filmica siano anche ampliamenti, ingigantimenti di una micromobilità costitutiva che nella minima variabilità visiva fonda il cambiamento proprio del cinema. Quello che cambia sul ritratto di Orgon è una rifrazione, è una vibrazione luministica, il deformarsi di un profilo: tracce visive, mutamenti che rivelano il carattere luministico e di visualizzazione dell’immagine filmica. La complessità del tutto singolare della sequenza di Murnau attesta in ogni modo alcuni caratteri imprescindibili dell’immagine-movimento. In particolare, il carattere fondamentale di configurazione visiva del fotogramma e le modalità di determinazione della mobilità del visibile sottolineano uno degli aspetti fondamentali del cinema, il suo essere visualizzazione, che insieme si avvale e oltrepassa i modi della figurazione. 158

Il tempo e il divenire L’immagine filmica è dunque un’immagine mobile che mostra i flussi delle cose e degli essenti nello spazio e nel tempo, prodotti dalla messa in scena2. È innanzitutto un’oggettivazione visiva di flussi acentrati, di molteplicità disomogenee, un insieme mobile di molteplicità che si trasformano di continuo. Ma se guardiamo più attentamente nell’immagine mobile, vediamo al lavoro due meccanismi. Innanzitutto la registrazione dei flussi delle cose rileva un insieme di mobilità eterogenee che si modificano e talora si mescolano, ora con una logica di interconnessione ora secondo una sostanziale autonomia. Le traslazioni degli oggetti possono interagire tra loro, ma possono anche procedere per linee parallele. Le molteplicità in trasformazione sono sempre rilevanti, ma i loro modi si differenziano variamente. E alla fine, più dei mutamenti specifici e particolari, conta la mobilità continua in sé, conta la trasformabilità dell’essente. Nel cinema, più della qualità dell’essente, più della sua materialità disomogenea, conta il suo apparire come un processo, un cambiamento continuo: il suo configurarsi non come essere, ma come divenire. In ogni modo, nella registrazione dei flussi di molteplicità c’è un altro elemento essenziale: l’immagine mobile mostra anche e in maniera palese il carattere di temporalità delle persone e delle cose. Tutto il visibile ap2 È necessario precisare subito che il tempo del film è in ogni modo un tempo doppio, da un lato il tempo della narrazione e dall’altro il tempo della fruizione. Lo spettatore esperisce una narrazione audiovisiva in un tempo definito, specifico, ma la catena delle immagini proiettate può prospettargli una diversa temporalità legata a un’articolazione narrativa particolare di un insieme di azioni mostrate sullo schermo.

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pare in un’articolazione temporale e le cose sono distribuite nella temporalità del flusso. L’immagine mobile, quindi, articola con estrema chiarezza la fluidità processuale e la traslazione spaziale delle cose e poi il carattere temporale del flusso, il suo essere chronos. L’immagine mobile attesta il configurarsi infinito del mondo, la sua modificabilità incessante. Oggettiva il divenire, anzi è essa stessa il divenire. Come dinamica di transizione da A a B, da evento a evento, il divenire riflette una trasformabilità infinita della materia-flusso, un insieme di passaggi di indeterminazione in indeterminazione. Quello che caratterizza il divenire è proprio il passare costante delle cose dal niente all’essere al niente, in una variazione continua che ha la forma del dinamismo e implica insieme all’apparire la sparizione. Non a caso un filosofo come Emanuele Severino, difensore dell’essere che è e del ritorno a Parmenide, ha individuato nel concetto di divenire e dunque del passare delle cose dal niente all’essere al niente, la radice stessa del nichilismo occidentale (Severino, 1982). Deleuze, sull’onda di Bergson, insiste di più sulla fluidità dei processi di cambiamento e sulla materia come continuità del flusso, dando meno rilevanza alla dinamica essere/non essere. Nell’ottica di Bergson e Deleuze i flussi di trasformazione degli insiemi sembrano garantire una continuità sostanziale al mondo, che appare quindi come una processualità in atto più che come un passaggio traumatico delle cose dall’essere al niente e viceversa. Questa complessità della materia-flusso-immagine è in un certo senso non solo registrata, ma ripresa e potenziata nell’immagine filmica, che sembra rendere ancora più visibili i caratteri della materia-flusso e il suo configurarsi come divenire. Questo effetto si realizza perché l’immagine filmica modifica la materia-flusso, la 160

differenzia e la trasforma secondo le sue regole particolari in qualcosa di differente e di somigliante. Il cinema quindi non si limita a registrare il visibile, ma lo sistema, lo seleziona e lo riordina secondo i propri meccanismi semiosici, cioè tecnico-linguistici. Il suo movimento è due volte duplice. Innanzitutto la macchina cinema si articola su una duplice prospettiva: da un lato registra la varietà delle traslazioni nello spazio e dei mutamenti nella continuità del loro svolgersi; dall’altro costruisce la temporalità degli eventi nella discontinuità, operando prelievi di visibile dinamico e organizzandoli in successione differenziata e con una logica diversa. Poi, su un secondo piano di duplicità, il cinema da un lato registra le molteplicità mobili nella loro varietà autonoma, e dall’altro cerca di ricondurle a una logica particolare, a un ordine. Quello che caratterizza strutturalmente il divenire nel cinema – ma vorrei dire non solo nel cinema – è il suo essere sintesi costante di flussi relativi alla dislocazione delle cose nello spazio e di flussi concernenti l’immersione del visibile nel tempo. Nel divenire l’inscindibilità di mobilità nello spazio e di temporalità è fondamentale. La separabilità e la riconoscibilità dello spazio e del tempo sono impossibili nell’orizzonte del divenire. La mobilità spaziale implica la temporalità, perché il movimento è sempre movimento nel tempo, ha in sé il tempo, cioè una successione di istanti qualsiasi in continuità. Il cinema conferma questa struttura e la rende in qualche misura più evidente. Perché nel registrare i flussi delle cose il cinema coglie la temporalità del visibile, ma nel distribuire gli elementi nell’orizzonte dell’immagine filmica attraverso il montaggio, il cinema realizza un’ulteriore messa in temporalità delle cose oggettivate nell’immagine e produce quindi un’ulteriore 161

complessità che è insieme complessità del tempo e della trasformabilità dello spazio. Il divenire puro e il piano sequenza Nel film le due procedure implicano un’oggettivazione di forme diverse di divenire, colto ora nella sua immediatezza, ora nella sua complessità strutturale. La registrazione del divenire puro innanzitutto è legata alla ripresa in continuità e alla capacità del cinema di mostrarci il tempo dell’azione come successione indivisibile di istanti. Il piano sequenza e l’inquadratura della durata del caricatore sono in questa prospettiva le forme prioritarie di oggettivazione del divenire, in quanto garantiscono una temporalità filmica che corrisponde alla temporalità del mondo. Il piano sequenza dà la continuità dell’azione, cioè propone l’insieme visibile in cambiamento come un corpus unico che ha in sé il proprio tempo e lo oggettiva palesemente nell’immagine schermica. I piani sequenza di Welles, di Hitchcock, di Antonioni, di Godard, di Rohmer, di Jancsó, di Angelopoulos, di Jarmusch, di Sokurov offrono una continuità autosufficiente dell’immagine, che non solo risolve un episodio narrativo, ma mostra il tempo nel suo concatenarsi puro. Un film tuttavia appare quasi sempre come il risultato di una combinazione di segmenti di divenire puro. Certo, film rigorosi come Scirocco d’inverno di Jancsó, costituito solo da piani sequenza estremamente mobili, o Stranger than Paradise di Jarmusch, formato da piani sequenza separati da un nero e da un titolo, o il più recente Nove vite da donna di García, strutturato in nove episodi di vita di donne in nove piani sequenza, costituiscono forme radicali che presentano unicamente segmenti di divenire puro. Ma il lavoro di assemblaggio delle sequen162

ze mostra poi la strutturazione di un tempo complessivo ulteriore, diverso dal divenire puro. Un film come Nodo alla gola di Hitchcock rappresenta poi una scommessa in un certo senso ancora più radicale. Il film, girato nel 1948, è costituito da nove inquadrature di nove minuti (cioè della durata di un macrocaricatore) che registrano un’azione in apparente continuità che si svolge nell’appartamento di due giovani assassini. La regia cerca di nascondere i passaggi da un piano all’altro, effettuando generalmente gli stacchi su una superficie opaca o scura, capace quindi di occultare il taglio del piano stesso. Il film propone quindi una continuità temporale effettiva, anche se le procedure di messa in scena puntano a produrre fittiziamente, cioè a simulare, l’illusione di continuità. La macchina filmica simula la continuità temporale, ma insieme la mostra: perché gli eventi che noi vediamo hanno effettivamente la durata di un’azione narrata specifica e le giunzioni necessarie non eliminano nessun momento, non presentano nessuna ellissi degli eventi e garantiscono anzi la continuità. Il tempo dell’azione recitata e il tempo funzionale si sovrappongono esattamente e coincidono. L’assoluta singolarità del film di Hitchcock sotto il profilo temporale è proprio garantita dal fatto che non solo il film è costituito da nove piani sequenza, ma, ancora di più, dalla perfetta corrispondenza tra il tempo dell’azione filmica e il tempo dell’evento narrato. Anche in altri casi il cinema ha naturalmente cercato di dare un segmento di tempo equivalente al tempo dell’azione messa in scena, come ad esempio in Cléo dalle 5 alle 7 di Agnès Varda: ma nel film di Varda la ricerca della continuità temporale dell’azione è meno rigorosa e il lavoro del montaggio spezza spesso la continuità dell’azione, mentre il film di Hitchcock cerca in tutti i modi di preservarla. 163

In ogni modo, sono i film costituiti da un’unica inquadratura che, a rigore, mostrano il divenire puro nella sua continuità. E spesso sono film sperimentali, come i film che Warhol realizza dapprima con una Bell and Howell muta (ad esempio, Blow Job, Couch) e poi con una Auricon sonora con un macrocaricatore da 50⬘ (The Life of Juanita Castro, Vinyl, o gli episodi di The Chelsea Girls), o un film come Wavelenght di Snow. Wavelenght è costituito da un lungo e progressivo movimento di macchina in avanti che da un corridoio penetra in uno spazio ampio con due porte-finestre sullo sfondo. La macchina da presa avanza sino a isolare sulla parete tra le finestre la fotografia di una superficie d’acqua. Il movimento di macchina progressivo e la registrazione del vuoto fanno di Wavelenght una registrazione del tempo nella sua purezza, anche se per ragioni tecniche la pellicola presenta cesure nella ripresa nascoste ma non cancellate. I film di Warhol sono ancora più complessi. Perché in Blow Job e nei singoli episodi di The Chelsea Girls il tempo funzionale e il tempo dell’azione recitata coincidono. In The Chelsea Girls, che è formato da otto episodi registrati senza stacchi e proiettati su due schermi, l’immagine filmica mostra la continuità del tempo nella sua durata pura e ci permette di coglierlo come un tessuto compatto in cui la concatenazione degli istanti e l’azione agita si fondono. In Blow Job, che è una ripresa senza stacchi in piano ravvicinato di un giovane in piedi contro un muro, mentre un altro performer gli pratica una fellatio, il tempo appare in fondo in una forma diversa. Perché in Nodo alla gola e negli episodi di The Chelsea Girls l’esperienza del tempo è strettamente legata alla visione dell’azione agita e il passare degli istanti tende a identificarsi e a confondersi con i movi164

menti e i gesti agiti sullo schermo, mentre in Blow Job sullo schermo noi vediamo solo il volto del protagonista e qualche limitato mutamento di espressione e quindi tendiamo a percepire più il passare del tempo che lo sviluppo dell’azione: l’azione resta totalmente esterna allo schermo, mentre il visibile mostra una linearità gestuale ridotta al minimo, che lascia emergere più forte il senso del trascorrere del tempo. In fondo, il minimalismo dell’azione – che nasconde tuttavia un complesso gioco voyeuristico – palesa davvero il tempo in una sua purezza ed evidenza aggiuntiva e lo spettatore, per quanto incuriosito e magari divertito o frustrato dal blow job non visto, ha la possibilità di cogliere il passare del tempo nella dimensione di durata pura. La durata temporale liberata dall’azione acquista una purezza aggiuntiva. La narrazione filmica, il montaggio e il divenire complesso Nel film, quindi, il divenire narrativizzato appare generalmente non nella forma del piano sequenza e del segmento registrato in continuità, ma nella forma del tessuto variato costituito di discontinuità, che il montaggio rende a sua volta continuo, come un mosaico di differenti momenti temporali trasformati e modificati dall’editing. Il divenire filmico realizzato dal montaggio è un divenire complesso. Il lavoro del montaggio è infatti doppiamente funzionale alle esigenze di costruzione dell’intrigo in quanto permette alla materia visibile di delinearsi secondo le esigenze narrative. D’altronde una funzione combinatoria (e quindi di montaggio) è ovviamente attiva anche nella configurazione narrativa degli eventi che deve selezionare, distribuire e ordinare lo svi165

luppo dell’intrigo. Il montaggio, quindi, anche se spezza la ripresa in continuità e dunque la registrazione del divenire, contribuisce a costituire un altro modo di costruzione del tempo e quindi del divenire che non è legato alla mera durata, ma ricompone la temporalità attraverso una pratica di concettualizzazione, di simbolizzazione. Il tempo nel film appare quindi come il risultato di un doppio lavoro di riconfigurazione: innanzitutto la riconfigurazione narrativa e poi la riconfigurazione legata alla messa in scena, alla scrittura filmica. Il tempo è innanzitutto riorganizzato in funzione della costruzione dell’intrigo. Una serie di eventi è situata nel tessuto del racconto con una durata particolare, dei tempi morti, dei tempi cancellati, e alla fine delinea un orizzonte del tempo nuovo, che rielabora la durata pura in funzione di esigenze simboliche: certi eventi vengono narrati e altri correlativamente vengono ignorati; certi eventi sono narrati più ampiamente, altri vengono soltanto accennati. Abitualmente, e soprattutto nel cinema classico, gli eventi più rilevanti sotto il profilo diegetico raggiungono una durata narrativa più consistente. Al contrario, in un film fortemente innovativo come Fino all’ultimo respiro, il tempo filmico rovescia le abituali gerarchie narrative degli eventi: nel viaggio in auto verso Parigi, all’episodio del mancato autostop sono dedicati 29⬙, mentre all’assassinio del gendarme solo 11⬙. La tensione narrativa e il divenire alterato L’oggettivazione del divenire nel cinema non risponde semplicemente a una logica di costruzione dell’intrigo e di verosimiglianza, ma riflette un altro forte principio di 166

programmazione: la tensione narrativa. Il film, infatti, deve rispondere alla necessità di creare delle aspettative nello spettatore, di articolarle e di soddisfarle e costruisce quindi percorsi narrativi finalizzati alla realizzazione di tali esigenze. La costruzione del divenire e della narrazione è quindi effettuata per creare dinamiche emozionali particolari nello spettatore, capaci non solo di assicurarne l’attenzione, ma di garantire la sua partecipazione psichica. Questa finalità è segnata da un’intenzionale programmazione degli effetti della narrazione. La costruzione del testo narrativo implica dunque un’articolazione della tensività realizzata secondo tecniche e soluzioni differenziate, tutte caratterizzate da una forte programmazione e da un’alterazione del tempo. La tensione narrativa è generalmente garantita dalla produzione di una macchina testuale capace di coinvolgere progressivamente lo spettatore e, in secondo luogo, dalla realizzazione di una serie di attrazioni variamente dislocate nel testo narrativo. Contrariamente alle concezioni di Ejzenštejn e degli studiosi di cinema muto, le attrazioni sono certo momenti aggressivi dello spettacolo destinati a suscitare nello spettatore una reazione psico-sensoriale, come voleva Ejzenštejn, ma non hanno un carattere anti-narrativo. Dopo il cinema primitivo le attrazioni diventano totalmente funzionali alla narrazione, come ho direttamente e indirettamente cercato di argomentare in vari studi sul cinema muto. L’opposizione tra attrazione e narrazione è superata dal cinema proprio nel suo costituirsi come narrazionespettacolo capace di coinvolgere il fruitore attorno a un racconto dalle forti componenti identificanti. La tensività, dunque, può essere sviluppata attraverso flussi discontinui o attraverso la produzione di un 167

crescendo progressivo. Può essere formata dall’elaborazione di soluzioni tecnico-spettacolari particolari, funzionali alla valorizzazione degli eventi narrati, ma il suo asse fondamentale, i suoi punti di forza sono generalmente legati allo sviluppo degli eventi messi in scena e alla loro spettacolarizzazione. Questo processo costruttivo implica un’ulteriore modificazione del divenire e riflette una logica non legata alla temporalità esistenziale, ma a una diversa struttura, caratterizzata dall’artificialità e dalla ricerca di effetti intenzionali e generalmente dotati di una forza fascinativa. I diversi modi di organizzazione del tempo, dunque, definiscono le strutture del cinema e ne rivelano le forme interiori. E nella gestione della temporalità il cinema afferma una fluidità mutevole e misteriosa che ne costituisce forse il segreto più profondo. Prendiamo ancora una sequenza di Tartüff, la sequenza di apertura. Il nipote proietta all’anziano zio un film per liberarlo dalla subalternità a una donna, che punta alla sua eredità. Lasciamo per il momento da parte la consueta misoginia di Murnau. Il nipote di fatto non è meno interessato all’eredità della sua antagonista. Ma il film che egli proietta – Tartüff, naturalmente – viene proposto per la sua capacità di mostrare delle scene in cui lo spettatore può identificarsi. Il film dunque è una macchina che produce fantasmi che parlano alla nostra psiche. Non è una registrazione del mondo, è una macchina per produrre un mondo immaginario che rivela relazioni tra persone, situazioni esistenziali, condizioni della soggettività: è una macchina che ci fa capire il nostro mondo. Il nipote avrebbe potuto benissimo portare allo zio il libro di Molière dedicato a Tartufo. E invece sceglie il cinema. Perché sa bene che la forza rivelativa del cinema è infinitamente più grande di quel168

la di un libro. Sa che il cinema può arrivare alle profondità dell’io con una potenza infinitamente superiore a quella della letteratura. Forse perché ci riconosciamo nell’immagine sullo schermo. Forse perché le storie raccontate ci rivelano la nostra condizione esistenziale di soggetti immersi nella varietà del mondo e nel tempo. Prendiamo un’altra sequenza in cui l’allusione allo spettacolo filmico è forte: la sequenza di Mulholland Drive dedicata al Club Silencio, che abbiamo già evocato. È una sequenza che allude al cinema. Ma è anche una sequenza che nello sviluppo narrativo del film provoca la rottura radicale che si concretizza nella sequenza successiva. Il lungo sogno (o delirio psicotico) della protagonista Diane Selwyn/Naomi Watts finisce e termina anche l’illusione di equilibrio e di forza che nel sogno caratterizzava la condizione esistenziale della sognatrice. Tutto si disgrega, l’universo del nero profondo si apre davanti alle due donne. Il sogno si dissolve. La macchina che produce immaginario, la macchina che disegna fantasmi ha rivelato il proprio carattere di illusione. Ma in questa rivelazione ha scatenato un processo di verità soggettiva nella spettatrice. La scoperta dell’illusione del cinema l’ha condotta fuori dell’illusione immaginaria in cui il soggetto era immerso. Proprio perché è illusione il cinema parla al nostro immaginario e contribuisce ad arricchirlo e a trasformarlo. Proprio perché non è banale registrazione del quotidiano ci guida sulla via della riflessione e della comprensione. L’illusione è necessaria alla nostra esistenza. Come racconta mirabilmente La donna che visse due volte, il soggetto (Scottie/James Stewart) si forma nell’illusione e l’illusione gli consente di vivere. L’illusione del cinema ci accompagna nella vita quotidiana. Perché è altra. Forse perché è più profonda. 169

L’uscita dal sogno di Diane è come l’uscita dal cinema. Perduta la fantasmagoria luminosa dell’immagine sullo schermo non ci resta altro che ritornare alla nostra vita. Ma con una ricchezza e una consapevolezza che prima non avevamo. O almeno con un piacere che abbiamo sperimentato e che ci può aiutare in quella cura di sé che ogni spettatore è impegnato a esercitare. All’inizio del libro siamo entrati al cinema. Alla fine usciamo. Magari portando con noi Diane Selwyn e il suo mondo. Enigmatico. Non meno del nostro.

Bibliografia

Oltre ai testi citati nel volume, vengono qui segnalati al lettore alcuni studi che possono costituire un utile riferimento. Si tratta, naturalmente, di una bibliografia essenziale e quindi forzatamente ridotta. Ma, come noterà il lettore, oltre ai libri di cinema sono presenti anche libri di filosofia, di estetica, di psicoanalisi, di critica. È un segno della convinzione dell’autore della necessità di comprendere e interpretare il cinema attraverso la cultura e la teoria.

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Indici

Indice dei film

L’âge d’or, di L. Buñuel (1930), 133. L’angelo sterminatore (El ángel exterminador), di L. Buñuel (1962), 139. L’anno scorso a Marienbad (L’année dernière à Marienbad), di A. Resnais (1961), 35. Aquila nera (The Eagle), di C. Brown (1925), 18. Arabesque, di G. Dulac (1929), 152. Arancia meccanica (A Clockwork Orange), di S. Kubrick (1971), 38, 104, 132. L’armata a cavallo (Csillagosok katonak), di M. Jancsò (1967), 72. The Art of Vision, di S. Brakhage (1965), 133. Avatar, di J. Cameron (2009), 53, 143. L’avventura, di M. Antonioni (1960), 28, 90, 124. Il bandito delle ore undici (Pierrot le fou), di J.-L. Godard (1965), 36, 124, 131.

Barry Lyndon, di S. Kubrick (1975), 71. Bella di giorno (Belle de jour), di L. Buñuel (1966), 5, 139. Blade Runner, di R. Scott (1982), 143. Blow Job, di A. Warhol (1964), 164-165. Bourne Supremacy, di P. Greengrass (2004), 66. Bourne Ultimatum, di P. Greengrass (2007), 47. Braveheart – Cuore impavido (Braveheart), di M. Gibson (1995), 66. Cabiria, di G. Pastrone (1914), 35, 63. Cantando sotto la pioggia (Singin’ in the Rain), di G. Kelly, S. Donen (1952), 71. Il cantante di jazz (The Jazz Singer), di A. Crosland (1927), 54. Capriccio spagnolo (The Devil Is a Woman), di J. von Sternberg (1935), 18. I carabinieri (Les Carabiniers), di J.-L. Godard (1963), 4.

181

I cavalieri del nord-ovest (She Wore a Yellow Ribbon), di J. Ford (1949), 90. The Chelsea Girls, di A. Warhol (1966), 133, 164. Un chien andalou, di L. Buñuel (1929), 133, 150. Cinq minutes de cinéma pur, di H. Chomette (1924), 152. Cléo dalle 5 alle 7 (Cléo de 5 à 7), di A. Varda (1962), 163. La commare secca, di B. Bertolucci (1962), 129. La congiura dei boiardi (Ivan Groznyi II), di S.M. Ejzenštejn (1944-1958), 99, 108. La corazzata Potëmkin (Bronenosec Potëmkin), di S.M. Ejzenštejn (1926), 71. Couch, di A. Warhol (1964), 164. Cronaca di un amore, di M. Antonioni (1950), 145. Decalogo 6 (Dekalog szesc), di K. Kies´lowski (1989), 5. Il diabolico dottor Mabuse (Die 1000 Augen des Dr. Mabuse), di F. Lang (1960), 80. Il disprezzo (Le Mépris), di J.-L. Godard (1963), 23. Disque 927, di G. Dulac (1928), 152. Dog Star Man, di S. Brakhage (1964), 133. La dolce vita, di F. Fellini (1960), 82, 91. Don Giovanni e Lucrezia Borgia (Don Juan), di A. Crosland (1926), 54. La donna che visse due volte (Vertigo), di A. Hitchcock (1958), VII, 38, 70, 81, 91, 169. La donna del ritratto (The Woman in the Window), di F. Lang (1944), 128.

La donna di platino (Platinum Blonde), di F. Capra ( 1931), 36. Una donna sposata (Une femme mariée), di J.-L. Godard (1964), 42, 131. Il dottor Mabuse (Dr. Mabuse. Der Spieler), di F. Lang (1922), 19, 70, 86, 144, 149. Duello al sole (Duel in the Sun), di K. Vidor (1946), 21. 2002: la seconda Odissea (Silent Running), di D. Trumbull (1972), 51. 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey), di S. Kubrick (1968), 51, 71,132 143. L’eclisse, di M. Antonioni (1962), 124. Emak-Bakia, di Man Ray (1926), 150. Empire, di A. Warhol (1964), 33, 91. E.T., l’extra-terrestre (E.T.: The Extra-Terrestrial), di S. Spielberg (1982), 50. Il fantasma della libertà (Le Fantome de la liberté), di L. Buñuel (1974), 131. Il fascino discreto della borghesia (Le Charme discret de la bourgeosie), di L. Buñuel (1972), 120, 128, 131, 139. La fiamma del peccato (Double Indemnity), di B. Wilder (1944), 128. I figli della violenza (Los Olvidados), di L. Buñuel (1950), 70, 139. Il figlio dello sceicco (The Son of the Sheikh), di G. Fitzmaurice (1926), 18.

182

Filmstudie, di H. Richter (1927), 150. La finestra sul cortile (Rear Window), di A. Hitchcock (1954), 5, 19, 37, 70, 119, 143. Fino all’ultimo respiro (A bout de souffle), di J.-L. Godard (1960), 26, 34, 35, 70, 166. Fuoco fatuo (Le feu follet), di L. Malle (1963 ), 124. Il gabinetto del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari), di R. Wiene (1920), 31, 70, 128, 139. Gatto nero, gatto bianco (Crna mack, beli macor), di E. Kusturica (1998), 47. Ghostbusters – Acchiappafantasmi (Ghostbusters), di I. Reitman (1984), 50. Ghost’s Dance, di K. McMullen (1983), 111, 113. Grandma’s Reading Glass, di G.A. Smith (1900), 149. La guerra è finita (La Guerre est finie), di A. Resnais (1966), 128. Guerre stellari (Star Wars), di G. Lucas (1977), 51, 52. Hiroshima mon amour, di A. Resnais (1959), 28. The Hurt Locker, di K. Bigelow (2009), 39. Improvvisamente un uomo nella notte (Nightcomers), di M. Winner (1972), 5. L’inafferrabile (Spione), di F. Lang (1928), 80. Inauguration of the Pleasure Dome, di K. Anger (1954), 133. In der Nacht, di W. Ruttmann (1931), 152.

Inland Empire, di D. Lynch (2007), 132. Io la conoscevo bene, di A. Pietrangeli (1965), 34. Io ti salverò (Spellbound), di A. Hitchcock (1945), 150. Jurassic Park, di S. Spielberg (1993), 57. Il kimono scarlatto (The Crimson Kimono), di S. Fuller (1959), 36. King Kong (King Kong), di M. Cooper, E. Schoedsack (1933), 8. Kinoglaz, di D. Vertov, 149. Ladri di biciclette, di V. De Sica (1948), 104. The Life of Juanita Castro, di A. Warhol (1965), 164. Lisbon Story, di W. Wenders (1996), 56. Ludwig, di L. Visconti (1975), 74. Madagascar, di E. Darnell, T. McGrath (2005), 53. Madagascar 2 (Madagascar. Escape 2 Africa), di E. Darnell, T. McGrath (2008), 53. Il mago di Oz (The Wizard of Oz), di V. Fleming (1939), 51, 104. Marnie, di A. Hitchcock (1964), 128. Marocco (Morocco), di J. von Sternberg (1930), 18. Il massacro di Fort Apache (Fort Apache), di J. Ford (1948), 90. Melodie der Welt, di W. Ruttmann (1929), 152. Meshes of the Afternoon, di M. Deren (1943), 133. Metropolis, di F. Lang (1927),

183

31,45, 49, 80, 86,119, 132, 143144, 150. M il mostro di Dusseldorf (M), di F. Lang (1931), 36, 127. I misteri di Shanghai (Shanghai Gesture), di J. von Sternberg (1941), 37. Il mistero del falco (The Maltese Falcon), di J. Huston (1941), 29. Mulholland Drive, di D. Lynch (2001), V, 15, 71, 132, 169. Napoléon, di A. Gance (1927), 44, 132, 143. Nel corso del tempo (Im Lauf der Zeit), di W. Wenders (1975), 124. I Nibelunghi (Nibelungen), di F. Lang (1924),144. Nodo alla gola (Rope), di A. Hitchcock (1948), 72, 163. Non desiderare la donna d’altri (Krótki film o milosci), di K. Kies´lowski (1989), 5. Nosferatu il vampiro (Nosferatu. Eine Symphonie des Grauens), di F.W. Murnau (1922), 31, 70, 111. Notorius (Notorious), di A. Hitchcock (1946), 26, 31, 37, 70, 72, 145. La notte, di M. Antonioni (1960), 124. Nove vite da donna (Nine Lives), di R. Garcìa (2005), 162. Nuovo cinema paradiso, di G. Tornatore (1988), 74. Odio implacabile (Crossfire), di E. Dmytryk (1947), 128. Ombre ammonitrici (Schatten), di A. Robison (1923), 5, 31, 112. 8½, di F. Fellini (1963), 82, 128.

Paisà, di R. Rossellini (1946), 104. La passione di Giovanna d’Arco (La passion de Jeanne d’Arc), di C.Th. Dreyer (1928), 25. Paura in palcoscenico (Stage Fright), di A. Hitchcock (1950), 129. Le petit soldat, di J.-L. Godard (1960), 34, 124. Das Phantom, di F.W. Murnau (1922), 112. Point Break - Punto di rottura (Point Break), di K. Bigelow (1991), 39. I predatori dell’arca perduta (Raiders of the Lost Ark), di S. Spielberg (1981), 51. Professione: reporter, di M. Antonioni (1974), 37. Providence, di A. Resnais (1977), 128. Psyco (Psycho), di A. Hitchcock (1960), 5, 37, 42. Quarto potere (Citizen Kane), di O. Welles (1941), VI, 25, 36, 41, 46, 70, 138, 144. Quell’oscuro oggetto del desiderio (Cet obscur objet du désir), di L. Buñuel (1977), 128. Rapacità (Greed), di E. von Stroheim (1924), 74. Rashomon, di A. Kurosawa (1950), 129. La recita (O Thiasos), di Th. Anghelopulos (1975), 46. La regola del gioco (La Règle du jeu), di J. Renoir (1939), 70. Rien que les heures, di A. Cavalcanti (1927), 149. Romance sentimentale, di S.M. Ejzenštejn, G. Alexandrov (1930), 152.

184

La roue, di A. Gance (1922), 151. Scirocco d’inverno (Scirocco d’hiver), di M. Jancso (1969), 46, 71, 162. Scorpio Rising, di K. Anger (1963), 133. Senso, di L. Visconti (1954), 33. Sentieri selvaggi (The Searchers), di J. Ford (1956), 70, 90, 119. Shanghai Express, di J. von Sternberg (1932), 18. Shining, di S. Kubrick (1980), 39. Shrek 2, di A. Adamson, K. Asbury, C. Vernon (2004), 53. Shrek terzo (Shrek the Third), di C. Miller, R. Hui (2007), 53. Slittamenti progressivi del piacere (Glissements progressifs du plaisir), di A. Robbe-Grillet (1973), VII. Smoking No Smoking, di A. Resnais (1993), 133. Strade perdute (Lost Highway), di D. Lynch (1996), 132. Strange Days, di K. Bigelow (1995), 39. Stranger than Paradise, di J. Jarmush (1984), 162.

Tartüff, di F.W. Murnau (1925), 154, 168. Themes et variations, di G. Dulac (1929), 152. Toy Story – Il mondo dei giocattoli (Toy Story), di J. Lasseter (1995), 53. Toy Story 2 – Woody e Buzz alla riscossa (Toy Story 2), di J. Lasseter, A. Brannon, L. Unkrich (1999), 53. L’ultimo uomo (Der letzte Mann), di F.W. Murnau (1924), 34. L’uomo con la macchina da presa (Celovek s Kinoapparatom), di D. Vertov (1929), 71. Viale del tramonto (Sunset Boulevard), di B. Wilder (1950), 71, 129. Vinyl, di A. Warhol (1965), 47, 133, 164. Viridiana, di L. Buñuel (1961), 71. Wavelenght, di M. Snow (1967), 164.

Indice del volume

1.

Premessa

V

Lo spettatore/la spettatrice

3

Lo spettatore è un voyeur, p. 4 - L’identificazione, p. 7 - Prima dell’interpretazione psicanalitca, la filmologia, p. 11 - Emozione, doppia credenza, seduzione, p. 13 Il punto di vista della spettatrice e la Feminist Film Theory, p. 20

2.

La tecnica e il linguaggio

23

La fotografia e l’illuminazione, p. 28 - I movimenti di macchina, p. 33 - Il montaggio, p. 40 - Trucchi ed effetti speciali, p. 48 - Il suono, p. 54

3.

I modelli di messa in scena e il lavoro del set

60

Modelli di messa in scena: cinema classico, moderno, contemporaneo, p. 60 - Regia/messa in scena, p. 66 Messa in scena d’autore?, p. 69 - Il lavoro del set, p. 73 - Girare una sequenza, p. 78 - La direzione d’attore e i modelli di recitazione, p. 79 - La direzione d’attore. Questioni teoriche, p. 85

4.

L’immagine filmica

90

Le teorie dell’immagine filmica, p. 92 - L’immagine e

187

gli strati di significazione, p. 98 - L’immagine, l’illusione, il simulacro, p. 101

5.

I fantasmi, l’immaginario, il racconto

111

I fantasmi e l’immaginario, p. 111 - Un mondo immaginario che ha la forma di un racconto, p. 117 - Modelli di racconto, p. 121 - Le nozioni della narratologia, p. 126 - Il racconto e la configurazione temporale degli eventi, p. 129

6.

Il punto di vista e le forme dello sguardo

135

Il punto di vista, p. 135 - Le forme dello sguardo, p. 140 - L’immagine dell’occhio e il metacinema, p. 149

7.

Movimento, tempo, divenire

151

Il movimento, p. 151 - «Tartüff» e l’immagine divenire, p. 154 - Il tempo e il divenire, p. 159 - Il divenire puro e il piano sequenza, p. 162 - La narrazione filmica, il montaggio e il divenire complesso, p. 165 - La tensione narrativa e il divenire alterato, p. 166

Bibliografia

171

Indice dei film

181

Smile Life

When life gives you a hundred reasons to cry, show life that you have a thousand reasons to smile

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