Il videoclip. Strategie e figure di una forma breve


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Segnature Collana diretta da Paolo Fabbri e Gianfranco Marrone 24

Edizione originale: Né de la Terre

Editions du Seuil, 1996

Copyright © 2004 Meltemi editore srl, Roma Le immagini alle pp. 75, 76, 77, 79, 94, 100, 101, 104 sono tratte da Reiss, Feineman 2000. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata.

Meltemi editore via dell’Olmata, 30 – 00184 Roma tel. 06 4741063 – fax 06 4741407 [email protected] www.meltemieditore.it

Paolo Peverini

Il videoclip Strategie e figure di una forma breve

MELTEMI

Ringraziamenti Desidero ringraziare innanzitutto Isabella Pezzini per aver sostenuto con pazienza ed entusiasmo il mio lavoro in questi anni, coinvolgendomi in discussioni stimolanti e condividendo con me una riflessione appassionata sulle forme brevi. Un ringraziamento sincero a Gianfranco Marrone i cui consigli si sono rivelati preziosi per intervenire sulla forma dell’espressione (e del contenuto) di questo volume. Ringrazio Paolo Fabbri per la disponibilità che ha dimostrato nei confronti del mio lavoro. Nicola Dusi, Franciscu Sedda, Pierluigi Cervelli, Paolo Guarino, Piero Polidoro, Daniela Panosetti hanno “subito” con simpatia e affetto il mio entusiasmo per i videoclip dimostrandosi sempre disponibili a un dialogo fruttuoso sia nelle situazioni ufficiali, sia nelle occasioni informali. Ringrazio gli studenti di Scienze della Comunicazione dell’Università di Roma “La Sapienza” per gli interventi critici, il rumore senza fine, le mani alzate e le risposte incoraggianti. Un ringraziamento davvero speciale ai miei amici e compagni di lavoro cut-tivi: Elisa, Mimmo, Simona per aver scovato videoclip, riletto/corretto con pazienza le mie posizioni e riempito di musica, rumori e voci il backstage di questo volume. Grazie a Ninì Candalino per aver incoraggiato le mie esplorazioni teoriche, alimentando il mio slancio semiotico con osservazioni sempre stimolanti. Un grande grazie ai miei genitori, Virginia e Alessandro, e ai miei fratelli, Stefano e Fabrizio, per l’incoraggiamento affettuoso.

Nel volume vengono proposte in una nuova versione due analisi testuali che hanno avuto una prima pubblicazione e sono state presentate nell’ambito del XXVIII convegno annuale dell’AISS (Associazione Italiana di Studi Semiotici), Castiglioncello (Livorno) 2000, e del convegno internazionale di semiotica “Narratività e media”, Urbino, Centro internazionale di semiotica e linguistica, Università di Urbino, 2002: “Le strategie enunciative di Outside. Iperciclo non lineare di dramma gotico” in Bertetti, Manetti, a cura, 2001, pp. 276-286; No Distance left to run. Strategie enunciative di una forma breve, «Documenti di lavoro», n. 320-321-322 B, 2003, Urbino, Centro internazionale di semiotica e linguistica, Università di Urbino, pp. 26-40.

A Elisa. Perché è Elisa

Indice

p.

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Parte prima Strumenti Capitolo primo Un fenomeno testuale tra sperimentazione e promozione Introduzione La nascita di un fenomeno audiovisivo. Innovazioni stilistiche e logiche produttive Ricostruzione di un dibattito in corso I videoclip. Micro-testi esemplari delle culture giovanili

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Capitolo secondo L’autonomia linguistica delle forme brevi Una prospettiva sociosemiotica Le strategie dell’enunciazione di una forma breve Il corpo in gioco

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Capitolo terzo Ritmi visivi, ritmi sonori, ritmi audiovisivi Suono e immagine, una saldatura inevitabile Il montaggio audiovisivo Il videoclip. Oltre l’associazione di suono e immagine Figure del ritmo e strategie di montaggio Il ritmo contagioso delle forme brevi

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Capitolo quarto La star musicale. Sperimentazioni enunciative e costruzione dell’identità nei videoclip L’enunciazione impersonale nei testi audiovisivi Nuove forme della metatestualità Sincretismo e sinestesia. Dal corpo del performer all’identità della star

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Parte seconda Analisi

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Capitolo quinto L’identità della star come forma estrema di bricolage. David Bowie e 1.Outside. Il book I brani musicali Il video musicale

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Capitolo sesto Una notte dietro le quinte. I Blur e No Distance left to run Introduzione Il prologo Il videoclip L’epilogo

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Capitolo settimo Verso nuove strategie di risemantizzazione Manipolazione del corpo e forme della veridizione Dove hai la testa? Il vero volto di una deformazione professionale Daft Punk. Un modello di identità sospeso tra sovraesposizione e negazione Gorillaz. L’appeal irresistibile di un’identità multiformato

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Per concludere

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Bibliografia

Parte prima Strumenti

Capitolo primo Un fenomeno testuale tra sperimentazione e promozione

Se vuoi una spiegazione più colta, diciamo che hai visto un fantasma semiotico. Tutte queste storie di visitatori e di Ufo, per fare un esempio, sono collegate a un certo tipo di immagini fantascientifiche che ormai sono diffusissime nella nostra cultura. (…) Un alieno può andarmi bene, ma non un alieno che assomiglia a un fumetto degli anni cinquanta. Sono fantasmi semiotici, frammenti di questo immaginario collettivo che si sono staccati e hanno presa vita autonoma, come le aeronavi alla Jules Verne che quei vecchi contadini del Kansas continuavano a vedere. (William Gibson, Il Continuum di Gernsback, Mirrorshades)

Introduzione Il videoclip è una forma breve della comunicazione audiovisiva il cui linguaggio nasce e si sviluppa in relazione all’esigenza di promuovere un bene di consumo effimero e immateriale, la musica. La durata ridotta e la funzione commerciale non condizionano negativamente il potenziale espressivo dei video musicali, certamente non in senso assoluto. Al contrario queste costrizioni spesso si rivelano uno stimolo prezioso, un’occasione per andare oltre i limiti tracciati dalle forme di testualità audiovisiva più consolidate. Sebbene a una prima impressione il videoclip possa apparire come il prodotto di una sovrapposizione caotica di suoni e immagini, una forma espressiva minore,

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“leggera”, uno sguardo approfondito può rilevare le tracce di una sperimentazione originale che coinvolge tanto la dimensione narrativa quanto quella propriamente discorsiva, ovvero le immagini, i suoni, i ritmi: in altri termini le modalità audiovisive che regolano la messa in scena di un plot. Per quanto riguarda il versante narrativo è interessante notare che i video musicali non si limitano a riproporre sempre in modo semplificato temi e storie elaborati in diversi ambiti comunicativi, ma valorizzano la pratica del bricolage, l’assemblaggio inedito di frammenti preesistenti. Questo intenso lavoro di riconfigurazione spesso si traduce a livello audiovisivo in una strategia di montaggio che privilegia il frammento alla compiuta unità narrativa, le forme della ripetizione alla successione regolare delle sequenze, l’esibizione delle qualità “imperfette” della sostanza sonora e visiva (immagini sfocate e sgranate, sonorità “sporche”) alla perfezione compositiva dell’immagine cinematografica, la de-sicronizzazione alla coincidenza di suoni e immagini. A partire da queste premesse il volume esplora con un impianto teorico e metodologico sociosemiotico le ragioni del successo crescente di questi fenomeni audiovisivi, soffermandosi in particolare sul legame tra sperimentazione espressiva, routine di produzione/distribuzione e stili di consumo. La prima parte della ricerca è dedicata a una riflessione sulla nascita e l’evoluzione dei videoclip. In un paragrafo viene ricostruito il dibattito sul valore che i diversi orientamenti critici hanno attribuito a queste forme testuali, in seguito anche ai tentativi di classificazione proposti nell’ambito di diversi approcci disciplinari (semiotica, cultural studies, sociologia dei consumi, musicologia, critica cinematografica). Il capitolo si conclude con la proposta di ripensare il videoclip come fenomeno esemplare delle culture giovanili, fonte di stili e tendenze che contribuiscono a rinnovare,

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talvolta in modo radicale, le diverse forme dell’espressività contemporanea. Nella seconda parte viene affrontato in una prospettiva sociosemiotica il tema dell’autonomia linguistica di queste forme brevi. In particolare vengono illustrate alcune nozioni fondamentali come la prassi discorsiva, la presenza di regimi della significazione che si fondano su un far senso del corpo, le forme di adesione passionale che legano il testo al suo spettatore. Viene dunque avanzata l’ipotesi di analizzare le strategie testuali dei videoclip privilegiando le figure che ne rendono seducente il livello discorsivo, come le forme del ritmo audiovisivo, le strategie di montaggio, gli interventi di manipolazione sui regimi di visibilità, elementi che rinviano all’esigenza promozionale di costruire testi sufficientemente anticonformisti da resistere al logorio imposto dai passaggi televisivi. Nella terza parte del volume viene proposto uno studio approfondito dei dispositivi che assicurano l’efficacia di queste forme brevi. In particolare vengono utilizzati gli strumenti di metodo elaborati dalla semiotica del cinema e degli audiovisivi per analizzare nel dettaglio le figure del ritmo e le forme di manipolazione dell’immagine che trasformano il corpo del performer in veicolo di seduzione. Nel capitolo dedicato al ritmo videomusicale vengono analizzate le differenti strategie di costruzione dei punti di sincronizzazione audiovisiva, momenti in cui i suoni e le immagini entrano in risonanza assicurando al testo la capacità di far presa sullo spettatore. Nel capitolo che esplora il rapporto tra sperimentazione enunciativa e costruzione dell’identità della star vengono indagate in dettaglio le complesse operazioni di risemantizzazione cui viene sottoposto il performer, corpo-immagine per definizione plasmabile, spazio di frontiera in cui il talento visionario dei registi e le esigenze commerciali di televisioni musicali ed etichette discografiche si influenzano reciprocamente.

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L’ultima parte del volume è dedicata infine all’analisi di alcuni testi che riassumono in modo esemplare i tratti peculiari di queste forme brevi. I video selezionati sono Outside (1995), regia di Sam Bayer per David Bowie, No Distance left to run (1999), del regista danese Tomas Vinterberg per la band inglese dei Blur, Where’s your head at? (2000), realizzato da Traktor per i Basement Jaxx e infine El Salvador (2003), lavoro d’esordio della pop band degli Athlete. Lo scopo delle analisi è verificare innanzitutto la presenza di un legame tra le diverse forme di manipolazione cui è sottoposto il corpo della star e le strategie di valorizzazione di un oggetto di largo consumo, il cd. Come si tenterà di dimostrare, nella produzione più recente, indipendentemente dal genere di riferimento (industrial, pop, dance), il perfomer mira a riconfigurare il rapporto di fiducia con il proprio pubblico offrendosi non più semplicemente come corpo patinato, ma come figura visibilmente contraffatta, tanto più autentica e credibile quanto più esplicita nel mostrare sulla propria pelle i segni della sua stessa costruzione. La nascita di un fenomeno audiovisivo. Innovazioni stilistiche e logiche produttive La ricostruzione delle origini del video musicale è un obiettivo ricorrente negli studi dedicati a queste forme brevi, sia in ambito accademico che giornalistico. Michael Shore, un autorevole critico musicale, ricorda che la stessa BBC nel 1986 realizzò un programma, Video Juke Box, che individuava nel film di Oskar Fischinger del 1934, Komposition in Blau, un antecedente del moderno videoclip. La stampa specializzata spesso ha ricondotto la nascita di queste forme brevi ai soundies, cortometraggi musicali realizzati negli Stati Uniti tra il 1941 e il 1947 come strumento di promozione per la musica jazz. Questi mi-

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ni-film la cui durata era compresa tra tre e otto minuti, avevano come protagonisti, tra gli altri, Bessie Smith, Billie Holiday, Duke Ellington, Cab Calloway e Bing Crosby. Commissionati dai proprietari dei teatri per intrattenere i clienti, i soundies erano anche utilizzati come forme interstiziali all’interno della programmazione televisiva. Poiché erano oggetto di un controllo minore da parte degli organi di censura, i soundies spesso si dimostravano più irriverenti degli stessi film nei confronti dei quali svolgevano una funzione di supporto. Precorrendo una tendenza che avrebbe segnato profondamente la realizzazione di videoclip per molti anni, la maggior parte della produzione dei soundies documentava performance artistiche su un palco o all’interno di un set. In alcuni casi particolarmente ambiziosi l’efficacia di queste forme brevi si fondava sull’abilità a mettere in forma un plot, una piccola storia realizzata con ironia e rivolta alla realtà socio economica e politica. Negli studi dedicati alla storia del videoclip viene spesso menzionato lo Scopitone, video jukebox realizzato in Francia negli anni Sessanta. I clip, selezionabili a pagamento dall’utente, erano realizzati a colori e mostravano le performance di artisti pop come Johnny Halliday, Petula Clark, Dionne Warwick, Neil Sedaka. Tra i fattori che hanno influenzato profondamente la produzione videomusicale vengono spesso citati i musical hollywoodiani degli anni Cinquanta interpretati da Elvis Presley e dedicati alle culture giovanili e alla scena rock and roll (The Blackboard Jungle, Rock around the clock, Blue Hawaii), e le serie televisive di successo degli anni Sessanta come The Monkees, una rock sit-com prodotta dalla NBC i cui protagonisti interpretavano sul piccolo schermo le avventure surreali di una band musicale. Il produttore Don Kirshner reclutò i membri della “band” Davj Jones, Mike Nesmith, Peter Tork e Mickey Dolenz affidandosi unicamente al potenziale telegenico piuttosto che alle abilità musicali (…). Gli interpreti non suonavano i lo-

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ro strumenti (lo facevano musicisti professionisti), né realizzavano i testi (era compito di Neil Diamond e del team di Tommy Boyce e Bobby Hart). I Monkees ha un ruolo importante nella storia del video rock anche perché la stessa band venne formata dai produttori esecutivi del canale prima di realizzare le musiche, e uno dei membri, Mike Nesmith, sarebbe in seguito divenuto un pioniere dei video rock alla fine degli anni Settanta (Shore 1984, pp. 34-35).

Secondo i critici musicali le radici del videoclip affondano anche nei primi film dei Beatles (A Hard Day’s Night, Help), nei successivi clip promozionali (Penny Lane, Strawberry Fields Forever) e negli speciali televisivi (The Magical Mistery Tour). Tuttavia come sostiene ironicamente Andrew Goodwin (1992, p. 30) in Dancing in the distraction factory. Music, television and popular culture, uno dei saggi più articolati condotti in ambito anglosassone sulle dinamiche esistenti tra etichette discografiche, emittenti musicali e culture giovanili “il candidato più popolare per il titolo di ‘primo video musicale’ è il clip di sei minuti realizzato da Bruce Gowers nel 1975 per Bohemian Rapsody, il singolo di maggior successo dei Queen”. Goodwin assume una posizione fortemente polemica nei confronti di un dibattito che spesso si riduce a una vera e propria “caccia” alle origini del videoclip, affermando che per ricostruire l’evoluzione del fenomeno è necessario innanzitutto analizzare alcuni fondamentali fattori extratestuali. Certamente la maggior parte di questi primi tentativi di riunificare suoni e immagini sono molto importanti e forniscono indicazioni molto utili per comprendere i fenomeni pop, ma se vogliamo identificare le origini del videoclip, considerato nelle sue forme più attuali, è necessario prendere in considerazione anche il contesto. Se i suoni e le immagini pop su pellicola e videocassetta risalgono a Bill Haley e Elvis Presley, ai Monkees e ai Beatles, agli Abba e ai Sex Pistols, allora perché è solo a partire dal 1980 che i critici

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musicali e gli addetti ai lavori dell’industria discografica iniziano a discutere di qualcosa che si chiama video musicale? (p. 30).

Le premesse per la nascita e l’evoluzione dei video musicali si sviluppano in Inghilterra negli anni Ottanta, a partire dalla profonda trasformazione che investe le strategie di promozione dei singoli pop nel mercato discografico. In particolare esiste una stretta correlazione tra le strategie commerciali delle televisioni musicali inglesi e l’affermazione sulla scena musicale del New Pop, e in particolare delle band che hanno dato vita al movimento New Romantic. Il New Pop si impone come un fenomeno segnato da una concezione del tutto inedita delle relazioni tra musica, immagini e mercato discografico, spiegabile in parte come una reazione alla conclusione repentina del movimento punk rock. Le premesse dell’evoluzione del linguaggio audiovisivo a scopo promozionale risalgono proprio agli anni Settanta, in particolare all’utilizzo della tecnologia elettronica da parte di gruppi come Cabaret Voltaire e Human League che impiegano in maniera sperimentale i primi sintetizzatori, sequencers e drum machines. Durante gli anni del trionfo punk la performance live non prevede tuttavia in alcun modo l’utilizzo degli strumenti elettronici come sostituti dei musicisti nell’esecuzione del brano. È solo con la fine del movimento e con la nascita di un rinnovato interesse per il mercato mainstream e in particolare per la musica dance che la tecnologia elettronica si diffonde rapidamente sia nelle fasi di produzione che durante le esibizioni live. Nel corso degli anni Ottanta l’impiego degli strumenti elettronici diviene rapidamente una routine, brani musicali e intere session vengono pre-registrati in studio. Progressivamente prende forma un fenomeno inedito. Il successo crescente della moderna tecnologia digitale nel-

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le fasi di produzione e distribuzione della musica pop rende in alcuni casi pressoché inutile la presenza del musicista nel ruolo tradizionale di esecutore del brano musicale, e in generale costringe a ridefinire completamente il significato del termine performance. Nel dinamico panorama discografico inglese si afferma rapidamente la tendenza a utilizzare la musica pre-registrata in studio come sfondo musicale delle esibizioni live. La performance della band si riduce progressivamente a una serie di interventi sul brano, la cui esecuzione in alcuni casi viene completamente affidata agli strumenti elettronici. Contemporaneamente a questa profonda innovazione sul piano produttivo, si sviluppano nuove dinamiche di consumo. Durante gli anni Ottanta il tradizionale pubblico dei concerti pop, rock e rap si abitua all’idea che una parte della musica ascoltata dal vivo è in realtà registrata su un nastro, rielaborata e diffusa da una macchina. Questo fenomeno produttivo ha delle profonde conseguenze sull’industria nascente dei videoclip. se l’esecuzione della musica pop consisteva nel cantare su suoni registrati pressoché identici alla musica su nastro e cassetta, allora mancava solo un passo per accettare come una pratica pop del tutto legittima l’imitazione di una performance in un video musicale (p. 33).

Le nuove tecnologie elettroniche impiegate nella realizzazione e promozione di generi musicali di vasto successo valorizzano la dimensione visiva della performance pop. Se fino alla prima metà degli anni Ottanta i musicisti avevano tentato di nascondere il fatto che talvolta le performance live erano in parte simulate, il fenomeno musicale del New Pop legittima definitivamente le performance come un “medium visuale con una colonna sonora” (ib). Il secondo fattore determinante per la nascita e la diffusione dei videoclip consiste nella rinnovata capacità

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delle band di assumere un atteggiamento smaliziato nei confronti delle logiche promozionali del mercato discografico. I nuovi protagonisti del pop mirano ad autolegittimarsi nei confronti del pubblico valorizzando la propria immagine, proponendosi nei confronti delle nuove generazioni come modelli di riferimento non solo nell’ambito musicale ma anche in quello della moda. In artisti come Madonna e i Pet Shop Boys, l’idea di autenticità operava ancora a un alto livello, ma si fondava sull’abilità di mettere in scena una finzione in grado di manipolare e costruire l’immaginario massmediale (ib.).

Per comprendere le ragioni del successo del videoclip negli anni Ottanta è necessario tuttavia prendere in considerazione anche l’evoluzione delle politiche economiche degli apparati dell’industria culturale. Come osserva Domenico Baldini (2000, p. 56), studioso delle strategie di posizionamento dei canali televisivi in relazione ai target giovanili, in Europa e in particolare nel Regno Unito, le radio non erano il principale veicolo per far conoscere la “nuova” musica al pubblico. La gestione e la regolazione dell’etere da parte dei governi aveva dato origine a un ristretto numero di radio che offrivano scarsissime opportunità al passaggio della musica rock. In tv c’erano invece spazi per il pop e il rock (…). Dopo l’esplosione della beatlemania che ha inizio nel 1963 negli Uk e l’anno dopo negli USA, l’industria televisiva si accorge della crescente domanda di musica in tv.

Nel 1963 iniziano le trasmissioni di Ready Steady Go!, un programma televisivo dedicato alla musica pop, seguito subito dopo da Top of the Pops e Oh Boy. Questi show musicali sono basati sullo stesso schema generale, ogni settimana famose band pop eseguono dal vivo i loro singoli di maggior successo. Per i responsabili di produzione di questi programmi emerge immediatamente l’esigenza di poter disporre setti-

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manalmente della presenza di gruppi musicali di richiamo. Le band, tuttavia, sono spesso impegnate in tour promozionali particolarmente impegnativi, e dunque difficilmente riescono a garantire la loro presenza all’interno dello spettacolo televisivo. Le case discografiche per ottimizzare le routine produttive e limitare i costi iniziano dunque a commissionare dei piccoli film promozionali che generalmente si limitano a documentare la performance delle band di maggior successo durante i concerti, e solo occasionalmente deviano da questa impostazione. Questa soluzione innesca una solida sinergia tra industria discografica ed emittenti televisive, tuttavia fino alla metà degli anni Settanta il numero di videoclip prodotti esclusivamente per il piccolo schermo è ancora estremamente ridotto. È a partire dalla seconda metà degli anni Settanta che si assiste a una vera e propria svolta nel panorama della produzione videomusicale inglese. Nel 1975 la band dei Queen affida a Bruce Gowers, un giovane regista, il compito di realizzare il videoclip del brano musicale Bohemian Rhapsody, considerato talmente complesso da un punto di vista strutturale, che si riteneva fosse impossibile suonarlo dal vivo. Il successo del videoclip di Bohemian Rapsody spinge le case discografiche a realizzare un numero maggiore di quelli che vengono definiti promo clips. Contemporaneamente, a Londra iniziano a nascere le prima case di produzione specializzate nella realizzazione di video musicali. Movimenti come il glam o il punk hanno ormai aperto la strada a un modo completamente nuovo di usare e consumare le immagini e la musica. I video iniziano a svincolarsi dalla dimensione micro-documentaristica valorizzando una sperimentazione praticata soprattutto da giovani filmakers. Progressivamente emergono i primi segnali di una cultura del videoclip. Mentre in Inghilterra sono ormai chiaramente visibili i segnali di un’inedita convergenza tra le strategie di marketing dell’industria discografica e le esigenze di rin-

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novamento delle emittenti televisive, negli Stati Uniti la situazione è molto diversa. Nel 1975 la Sony introduce sul mercato il primo videoregistratore Betamax e vengono pubblicati i primi resoconti sulla nascente tecnologia del laser disc. In contemporanea con l’introduzione della tecnologia dell’home video, le televisioni via cavo iniziano a nascere su tutto il territorio. Tuttavia, l’affermazione del videoclip come forma originale di promozione musicale viene ostacolata dalla diffidenza che gli autori televisivi e i responsabili di produzione nutrono nei confronti della possibilità di offrire alla musica rock uno spazio sul piccolo schermo. Questa sfiducia viene motivata dai risultati di vaste ricerche demografiche che dimostrano come, durante il prime time, la tradizionale fascia di consumatori di questo genere musicale non guardi la televisione. Ma c’è un altro fattore che incide profondamente sulla diffusione dei videoclip nelle emittenti televisive statunitensi. Mentre in Inghilterra le televisioni, i club e la stampa specializzata contribuiscono in modo sostanziale a innalzare il livello di competenza e di interesse delle nuove generazioni nei confronti della dimensione visiva della musica rock e pop, e numerose band sono ormai in grado di valorizzare con le immagini il potenziale commerciale dei loro singoli, negli Stati Uniti le case discografiche si dimostrano estremamente restie a produrre videoclip che escano almeno parzialmente dalla rigida logica del “reportage live”. Lo stesso Bruce Gowers afferma: la situazione realmente difficile di quel periodo era che le case discografiche utilizzavano ancora i propri video principalmente per le televisioni europee, di conseguenza continuavano a insistere nel mostrare le performance live delle band e nient’altro. Credo che questo dipendesse dal fatto che le band non raggiungevano spesso in tour l’Europa e le etichette si preoccupavano esclusivamente di ricordare ai consumatori chi era chi, e chi faceva cosa nel gruppo musicale (Shore 1984, p. 57).

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Di conseguenza negli Stati Uniti il fenomeno dei videoclip inizia a imporsi effettivamente solo a partire dal 1977. In quest’anno «Billboard», il magazine musicale per eccellenza che con le sue classifiche dichiara i successi o i fallimenti di qulsiasi impresa discografica, inserisce una rubrica chiamata Starstream che si occupa proprio di video. Alcune compagnie discografiche, tra cui la Warner Records, cominciano a creare divisioni di ricerca e sviluppo per studiare le potenzialità del videoclip. Probabilmente la pressione maggiore negli USA viene dai musicisti. Michael Nesmith, David Bowie, i Devo, Blondie, l’avanguardia del videoclip per quanto riguardava, in quel momento, l’universo rock che investiva l’America, intensificarono la loro produzione (Baldini 2000, p. 61).

Alla fine del 1979 ad Atlanta nasce Video Concert Hall, un canale musicale via cavo che trasmette molti dei video prodotti dalle case discografiche. Contemporaneamente Casey Kasem, un dj, inaugura in una syndicate un programma della durata di mezz’ora chiamato America’s Top 10 che propone al pubblico la classifica americana dei dischi più venduti affidandosi esclusivamente ai videoclip. Il 31 luglio 1981 infine iniziano le trasmissioni di MTV che attingono da una library estremamente ridotta, composta di duecentocinquanta videoclip che vengono utilizzati secondo una strategia di palinsesto che prevede tre tipologie di trasmissione. Nella heavy rotation sono inclusi i video di maggior successo trasmessi con una frequenza di sei o sette passaggi televisivi, nella medium rotation i passaggi scendono a tre o quattro al giorno, infine nella light rotation vengono inseriti i video che non superano uno o due passaggi giornalieri. In questa prima fase i vertici di MTV tentano di convincere le case discografiche che la produzione e la messa in onda dei video costituiscono lo strumento migliore per la promozione su larga scala dei nuovi artisti. A questo scopo vengono commissionate da Robert Pittman,

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giovane responsabile della programmazione, le prime ricerche sulle vendite discografiche nelle zone dove il nuovo canale è disponibile. I risultati di queste prime ricerche di mercato contribuiscono a stimolare positivamente i rapporti tra la nuova emittente musicale, i cable operators, i pubblicitari, le case discografiche e il pubblico. Nel numero di gennaio del 1983 di Billboard viene pubblicata per la prima volta la programmazione dei videoclip e la National Association for Record Manufacturers premia MTV. Nella prima metà degli anni Ottanta le etichette discografiche considerano ormai la produzione di videoclip e la relativa distribuzione televisiva come strumenti di promozione assolutamente imprescindibili. Come sostiene Simon Frith, uno dei più autorevoli studiosi di popular music, MTV si legittima definitivamente nei confronti delle case discografiche come lo strumento di promozione “familiare” per eccellenza. è stato davvero il primo strumento promozionale dal declino della radio nazionale a consentire una rapida commercializzazione nazionale dei dischi. Offrì alle compagnie discografiche un’alternativa, sia alla commercializzazione radiofonica secondo il modello del goffo impatto regionale, sia alle strategie della lenta promozione del disco attraverso la tournée o attravero le connessioni fra giovani, cinema e colonne sonore. La MTV (…) ebbe effetto sulla velocità di vendita e ricevette presto credito per aver risollevato l’industria discografica americana da una recessione quinquennale (Frith 1990, p. 245).

MTV

Quindi il videoclip, fin dal momento della sua affermazione, si differenzia notevolmente dalle altre forme brevi di promozione: diversamente da quanto accade in uno spot pubblicitario, esso pone in primo piano non il prodotto, ma la confezione: “il video si riferisce al disco soltanto in quanto mezzo di appropriazione fantastica, e l’esperienza del video non coincide con ciò che tutti si aspettano” (p. 252).

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La storia e l’evoluzione del videoclip dimostrano come il successo commerciale di queste forme brevi venga valutato nei termini del processo globale di costruzione divistica, e non semplicemente di vendita delle canzoni. Per le case discografiche questi micro-testi promozionali devono assolvere una funzione essenziale, promuovere l’uscita dell’album musicale valorizzando l’identità del suo performer. “Per la maggior parte degli spettatori, ciò che importa è l’autorevolezza degli interpreti, e questo dovrebbe costituire il punto d’avvio di ogni discussione circa il funzionamento dei video” (p. 253). L’esigenza di promuovere l’album musicale tramite l’immagine del suo autore/interprete, “costringe” l’industria discografica e le case di produzione a una ricerca che si focalizza innanzitutto sulla pratica di soluzioni espressive necessariamente coinvolgenti, in grado di “ricostruire sul piccolo schermo il senso di comunione che nelle esibizioni in diretta dipende dal rumore (…) l’obiettivo è di trasformarci in fan, in consumatori, di identificarci non tanto con gli esecutori stessi quanto con il loro pubblico, la comunità che creano” (ib.). Ricostruzione di un dibattito in corso Nel corso di circa venticinque anni la forma breve videoclip ha subito un’evoluzione sorprendente. All’inizio degli anni Ottanta l’esigenza commerciale, l’imperativo di “vendere l’artista a tutti i costi”, prevaleva spesso sulla sperimentazione espressiva, vincolando gli autori al rispetto della dimensione documentaristica (le riprese dei concerti live) o all’utilizzo di rudimentali effetti speciali per colpire gli spettatori. Nel giro di pochi anni, con una notevole velocità, i video hanno raggiunto invece un’autonomia stilistica, sfruttando la brevità come uno stimolo creativo straordinario. Forti di una condizione ibrida che obbliga a un confronto costante tra la razionalità del marketing e la vocazione ar-

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tistica, questi piccoli testi promozionali contribuiscono a rinnovare profondamente i canoni estetici di espressioni artistiche ben più consolidate come il cinema. In questo complesso panorama prevale da parte degli studiosi la tendenza a sistematizzare il fenomeno, a esplorarne le principali forme espressive in vista della costruzione di modelli esplicativi generali. Come osserva acutamente Andrew Goodwin, queste forme brevi sono state di volta in volta considerate come: - genere cinematografico (Holdstein 1984; Mercer 1986); - pubblicità (Aufderheide 1986; Fry, Fry 1986); - nuove forme televisive (Fiske 1984); - arte visiva (Walker 1987); - carta da parati elettronica (Gehr 1983); - sogni (Kinder 1984); - testi postmoderni (Fiske 1986; Kaplan 1987, Tetzlaff 1986; Wollen 1986); - propaganda nichilista e neofascista (Bloom 1987); - poesia metafisica (Lorch 1988); - shopping mall culture (Lewis 1987a; 1987b; 1990); - lsd (Powers 1991); - pornografia semiotica (Marcus 1987). Una prima tipologia dei videoclip è proposta da Arnold S. Wolfe già nel 1983, in «Popular music and society» una rivista accademica americana che raccoglie riflessioni e analisi sulle diverse forme di popular music, estremamente diversificati sia per quanto riguarda l’impianto teorico che l’apparato metodologico. Nel saggio intitolato Rock on cable. On Mtv: Music television, the first music video channel, l’autore distingue i videoclip performance, caratterizzati dalla semplice esibizione della band, dai videoclip concettuali, nei quali prevale la messa in scena di una breve storia. Questo primo tentativo di classificazione dei videoclip viene ulteriormente elaborato nel 1984 da Joan D. Lynch in un saggio pubblicato in «The Journal of popu-

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lar music» periodico dedicato allo studio interdisciplinare delle comunicazioni di massa. L’autore in Music video from performance to dada surrealism individua tre modelli generali, i videoclip performance, i videoclip narrativi e i videoclip non narrativi. Una classificazione simile viene proposta inizialmente anche nell’ambito della critica musicale. Michael Shore (1985, p. 99) distingue i videoclipperformance, realizzati con la tecnica del lyp sinch che permette di sincronizzare le parole con i movimenti delle labbra del performer, dai videoclip altamente concettuali, “sovraccarichi di immagini e narrativamente ambigui, al punto da raggiungere solo occasionalmente la parvenza di un plot”. Tra queste due categorie si situano varie forme ibride: video che combinano performance con plot concettuali, o video che associano l’esecuzione del brano musicale con frammenti di immagini evocative. Le tecniche impiegate nella produzione videomusicale sono numerose, vengono inoltre ampiamente utilizzati gli effetti speciali, come solarizzazioni, negativizzazioni e il frazionamento dello schermo in riquadri. John A. Walker, noto critico musicale e autore di Crossovers: art into pop/pop into art (1987), un saggio dedicato alle forme di contaminazione tra le arti visive e la musica pop, ribadisce che non è possibile tracciare rigide linee di demarcazione nel panorama videomusicale internazionale. Anch’egli, tuttavia, propone di distinguere due diverse forme espressive, i video musicali dal vivo e quelli a soggetto, in cui prevale la messa in scena di un’idea o di un tema attraverso una concezione olistica di suono e immagine. Questi primi tentativi di classificazione distinguono dunque tre tipologie generali. Nei video live la pop star o il gruppo musicale vengono ripresi durante l’esecuzione sul palco o in studio. Nei video concettuali viene privilegiata un’idea o un tema, tramite una libera visualizzazione delle emozioni evocate dalla musica.

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I video narrativi infine, condensano le forme canoniche del racconto audiovisivo nel breve spazio di un brano musicale. A questo proposito, analizzando lo scenario attuale degli studi sui videoclip, è interessante rilevare come nuove classificazioni proposte si basino ancora sulla stessa matrice. Ad esempio, su un versante semiotico Gianni Sibilla (1999) afferma che da un punto di vista formale è possibile individuare tre tipologie generali di testi, la performance, il narrativo e il concettuale. Questi tre generi non sarebbero mai impiegati in una forma “pura”, piuttosto andrebbero considerati come macro codici di rappresentazione, modelli flessibili di riferimento da cui sviluppare videoclip differenti. Bruno di Marino, in un saggio che ripercorre alcune tappe essenziali della storia di queste forme brevi, individua tre categorie di clip narrativo, elaborate in funzione del grado di coinvolgimento del performer rispetto agli eventi narrati. Nella prima tipologia il performer appare come interprete assoluto, non si limita a eseguire il brano, ma recita nei panni di un personaggio fittizio. Nella seconda tipologia di videoclip narrativo il performer interpreta semplicemente il ruolo di un testimone degli eventi, assistendo alla vicenda dal di fuori o in una posizione sfumata, se non esplicitamente ambigua. Nell’ultima tipologia infine, il performer è del tutto assente, la sua identità si segnala all’interno del testo esclusivamente tramite la colonna audio. Di Marino individua inoltre un particolare tipo di videoclip, il clip trailer, basato sulla canzone-tema di un film. Generalmente nei clip-trailer si assiste a un’alternanza tra la performance del cantante e le sequenze tratte dalla pellicola. Questo genere di video manifesta una certa flessibilità nel combinare queste due componenti: - il performer si esibisce in uno spazio neutrale, intervallato da momenti salienti del film;

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- il performer si esibisce all’interno di uno degli spazi scenografici utilizzati nel film; - il performer interpreta un ruolo finzionale che rinvia in modo esplicito all’articolazione narrativa del film o al genere cinematografico di riferimento; - il performer interagisce direttamente con i protagonisti del film; - il performer si esibisce nello studio di missaggio mentre incide il brano musicale. Sebbene i contributi teorici dedicati ai videoclip siano estremamente differenziati sia per quanto riguarda la definizione del corpus testuale che la metodologia impiegata, tuttavia essi convergono nell’individuare l’ibridazione linguistica come una peculiarità di queste forme brevi. L’estrema diversificazione che caratterizza la produzione internazionale di videoclip emerge chiaramente dalle considerazioni di Neil Feineman. Sebbene ai critici sdegnosi i video possano sembrare tutti uguali, in realtà possono assumere qualsiasi dimensione, forma e colore. Ci sono video-performance... narrativi... gotici... d’animazione e video creati interamente al computer... ci sono inquietanti paesaggi onirici, ritratti classici, stravaganze futuristiche e home movies fortemente personali (Reiss, Feineman 2001, p. 24).

Questa convergenza permette tuttavia di rilevare un primo paradosso. A un’enorme visibilità dei testi si accompagna spesso la difficoltà di individuare i dispositivi e le strategie che ne assicurano l’efficacia. I videoclip sono un fenomeno fortemente mitizzato, forme brevi considerate spesso in modo riduttivo come micro-testi caratterizzati da una struttura narrativa debole o del tutto assente. Di Marino (2001, p. 13), ad esempio, descrive il videoclip come “un oggetto ontologicamente sfuggente, un puro flusso visivo senza inizio né fine inserito nella verti-

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gine postmoderna del palinsesto”. Secondo l’autore il video, pur essendo il prodotto recente di un’antica tradizione di ricerca sulle forme del sincretismo audiovisivo, sarebbe “leggero” per definizione e per destino. Il successo di questa forma breve inoltre sarebbe da mettere in relazione con l’estetica ipertestuale, che “costringe a ripensare in modo nuovo l’immagine in movimento, superando la logica narrativa, facendo a pezzi gli steccati tra discipline e generi, tra fiction e non-fiction” (ib.). Su un versante simile si situano le considerazioni di Marco Altavilla, membro del comitato scientifico responsabile della rassegna “Art Beat. Arte, narrativa, videoclip”, il quale sostiene che “il flusso vorticoso d’immagini di certi videoclip è così veloce e sfuggente che non ci permette di riconoscerle o di badare alle parole del testo” (Altavilla 1999, p. 26). Questo genere di dichiarazioni sintetizza perfettamente due stereotipi fortemente radicati relativi all’articolazione del livello discorsivo di queste forme brevi: il numero esasperato di inquadrature e il montaggio “frammentato”. Questi luoghi comuni contribuiscono a definire il videoclip in funzione di due parametri precisi e caratterizzati da una certa rigidità, la complessità della dimensione visiva e la velocità del ritmo. Se da un lato anche Gianni Sibilla (1999, p. 37) non sfugge alla tentazione di definire il videoclip come un testo schizofrenico e caleidoscopico, dall’altro, Franck Dupont, critico cinematografico e musicale dei «Cahiers du cinéma», ironizza sul presunto stile di montaggio introdotto da queste forme brevi Cos’è un videoclip? O piuttosto si dovrebbe dire cos’era, dal momento che l’originalità di numerose produzioni ha diversificato profondamente il fenomeno. Un continuum sonoro sul quale viene innestato il massimo di immagini o fotogrammi che tendono a eliminare la nozione di piano. Da allora si parla di montaggio “stile-videoclip” ogni volta che un film o una sequenza ha la sfortuna di avere una durata più breve della media (Dupont 1995, p. 109).

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In effetti i videoclip sembrano sottrarsi a qualsiasi tentativo di classificazione, forse anche a causa della tendenza diffusa a concepire l’analisi del fenomeno in termini astratti, prescindendo completamente dallo studio delle dinamiche di consumo e dalle relazioni che intercorrono tra il testo e gli apparati che presiedono alla sua produzione. Uno degli studiosi maggiormente consapevoli di questi limiti teorici e metodologici è senz’altro Goodwin (1992) che propone di indagare il modo in cui gli standard di produzione degli apparati televisivi influenzano le forme del videoclip, per delineare in seguito delle possibili linee di analisi in grado di mettere in evidenza le implicazioni estetiche e politiche del fenomeno. L’autore si prefigge dunque di analizzare l’evoluzione delle emittenti musicali e dei videoclip praticando - una sintesi interdisciplinare di analisi storiche, economiche, istituzionali; - un’analisi testuale fondata sulla sociologia della pop music e sulla musicologia; - uno studio della componente musicale dei video, in relazione alla cultura rock e alle strategie commerciali delle televisioni musicali. Nella parte conclusiva del suo saggio, Goodwin propone dunque un’ulteriore classificazione dei videoclip - Social criticism: videoclip in cui viene valorizzata la rappresentazione delle diverse forme di conflitto sociale; - Self-reflexive parody: videoclip la cui struttura testuale è il prodotto di una parodia del videoclip stesso; - Parody: videoclip costruiti sulla parodia di un testofonte diverso (esempio citato: Neil Young, Bad New Beat, in cui il musicista interpreta il ruolo di un cronista televisivo sul luogo di un incidente); - Pastiche: videoclip realizzati a partire dall’assemblaggio di sequenze preesistenti selezionate da fonti e generi molteplici (esempio citato: Queen, Radio Ga Ga (Metropolis); Ozzy Osbourne, The Ultimate Sin (Dallas); - Promotion: videoclip che promuovono film (esempio citato: Duran Duran, A View To A Kill).

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- Homage: videoclip che abbandonano del tutto la parodia in funzione di un tributo a un particolare regista, a uno show televisivo, o a una forma culturale (esempio citato: Big Audio Dinamite, E=MC2, in cui vengono utilizzate sequenze tratte da Don’t Look Now, The Man Who Fall to Earth, Insignificance, di Nicolas Roeg). Anche questa tipologia si presta tuttavia ad alcune osservazioni critiche. Innanzitutto essa rivela un’incoerenza strutturale. Le categorie Social criticism e Promotion sono ricavate a partire da considerazioni relative alle funzioni politiche e commerciali che un video può ricoprire, mentre valutazioni critiche e considerazioni risultanti da analisi testuali caratterizzano le categorie Self-reflexive parody, Parody, Pastiche, Homage. Inoltre la premessa iniziale secondo cui i videoclip andrebbero analizzati prendendone in considerazione lo scopo promozionale e la relazione tra suono e immagine, pur essendo estremamente pertinente, non si concretizza nella proposta di una classificazione in grado di fornire un’efficace sintesi formale del fenomeno. Complessivamente il dibattito sul videoclip da un lato ha avuto il merito di rivendicare il valore di queste forme brevi nell’ambito della produzione audiovisiva, dall’altro ne ha prevalentemente circoscritto la portata alla sola dimensione narrativa. In effetti tutti i tentativi di classificazione proposti per sistematizzare le diverse forme espressive di questi audiovisivi oppongono i testi narrativi o argomentativi a quelli concettuali e “frammentati”. Questo genere di distinzioni assumerebbe un valore operativo ed estetico soprattutto se si fondasse su criteri analitici comuni, su un comune filtro metalinguistico che distinguesse la narratività intesa come principio organizzatore di ogni discorso (Greimas, Courtés, a cura, 1979, pp. 236-237) dalla narrazione, considerata come genere discorsivo fortemente codificato, il prodotto di una successione orientata di stati e trasformazioni.

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Come conseguenza dell’applicazione impropria di categorie concettuali complesse come quelle di narratività e narrazione, le diverse tipologie proposte nel dibattito sulle forme del videoclip si sono spesso rivelate inadatte a rendere conto della ricchezza espressiva di questi micro-testi. In particolare la distinzione tra video-performance, video-narrativi e video-non narrativi, in tutte le sue declinazioni, non restituisce la complessità di una forma testuale la cui efficacia si fonda innanzitutto sulle peculiari modalità di articolazione del livello discorsivo. Infatti, come si tenterà di dimostrare nei capitoli successivi, il successo di un videoclip si costruisce non tanto sull’adesione o sul rifiuto di formule narrative più o meno consolidate quanto piuttosto sulla capacità di sfruttare pienamente le potenzialità seduttive del sincretismo linguistico, valorizzando la melodia e il ritmo di un brano musicale con la composizione di un’inquadratura, i movimenti di macchina, la grana delle immagini. I videoclip. Micro-testi esemplari delle culture giovanili La star è una divinità, ed è il pubblico che la rende tale. Ma lo star system la prepara, la allestisce, la modella, la propone, la costruisce. La star è la risposta a un bisogno affettivo o mitico che non è prodotto dallo star system, ma che senza lo star system non troverebbe le sue forme, i suoi supporti e i suoi afrodisiaci (Morin 1972, p. 122).

Come accennato in precedenza, all’inizio degli anni Ottanta le dinamiche di produzione e di fruizione dei linguaggi visivo e musicale subiscono una trasformazione radicale con l’affacciarsi di nuovi gruppi sociali che definiscono spazi di cultura, di stile e mercato prevalentemente inediti. Le nuove culture giovanili si definiscono progressivamente come “avanguardia di massa” dando vita a un

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complesso processo di rielaborazione che mira a sincretizzare le istanze provenienti dalla popular culture con gli stilemi e il potenziale trasgressivo delle avanguardie storiche. In questo complesso scenario di produzione culturale i videoclip emergono sin dall’inizio come il veicolo privilegiato con cui la cultura “separata” dei giovani fa il proprio ingresso nell’universo televisivo. I videoclip si affermano rapidamente come una forma di espressione in grado di raccontare e ridefinire profondamente l’immaginario collettivo delle nuove generazioni. A questo riguardo sono significative le osservazioni di Iain Chambers (1985, p. 199), uno dei massimi esponenti dei cultural studies: La cultura di massa contemporanea è vissuta direttamente attraverso le superfici immediate della vita quotidiana: una radio, un disco, un paio di cuffie, gli annunci pubblicitari, lo schermo televisivo. Immersi ogni giorno nel suo flusso, ne abbiamo una “percezione distratta” (Benjamin 1973). Criticato a torto da molti osservatori per una sua presunta passività, è proprio questo modo distratto di percepire i prodotti culturali, favorito dalla riproduzione elettronica dei vari linguaggi visivi e sonori esistenti, che fa presagire un mutamento nelle “regole del gioco” (Lyotard 1979), e una situazione in cui tutti noi diventiamo degli “esperti” (Benjamin).

I video musicali contribuiscono a ridefinire profondamente le tradizionali dinamiche che regolano la relazione tra spettatore e testo audiovisivo, imponendosi all’attenzione di un pubblico sempre più eterogeneo come fenomeni comunicativi fortemente invasivi. La fruizione di un video musicale non si riduce infatti alla visione familiare del salotto domestico né alla dimensione privata del consumo individuale. In un certo senso queste forme brevi “invadono” i territori dell’agire quotidiano, esibendo tutto il proprio appeal seduttivo dalle vetrine dei negozi di moda, negli spazi di transito delle

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stazioni ferroviarie, nelle hall degli aeroporti internazionali, nelle numerose installazioni che sfruttano il potere simbolico del videowall per riqualificare zone degradate del tessuto urbano, o risemantizzare spazi tradizionalmente deputati alla conservazione/esibizione di forme consolidate della cultura contemporanea (musei, gallerie, spazi espositivi). In questo senso i videoclip si rivelano come forme testuali straordinariamente attuali, piccole ma solide componenti di quel complesso tessuto connettivo che è l’industria culturale moderna, la cui evoluzione, come ribadisce Alberto Abruzzese, si realizza nel passaggio dal corpo metropolitano a quello cinematografico, fino all’avvento del corpo televisivo (Abruzzese 1989; Abruzzese, Borrelli 2000). Queste forme brevi emergono come il risultato maturo di una tendenza generale della comunicazione promozionale a uscire dai confini del piccolo schermo per sedurre i nuovi consumatori direttamente sul territorio metropolitano. Come osserva Iain Chambers (1985, p. 198), Nella musica pop, nel suo romanticismo, nei suoi gusti, stili e piaceri c’è un uso individualizzato e un dialogo aperto con i linguaggi della cultura urbana contemporanea: linguaggi che in apparenza ci mettono in una condizione di esserne simultaneamente “soggetto” e “oggetto”. Sono questi interrogativi concreti, spesso “privati”, in territorio di pubblico dominio – quale un’esibizione di break dancing o la scelta del colore del rossetto – che trasformano l’apparente “ovvietà” della cultura di massa in una conquista immaginaria della vita quotidiana.

Per catturare l’attenzione di un pubblico sempre più esigente il video è costretto a rielaborare costantemente formule espressive e soluzioni stilistiche, rilanciando ulteriormente la tendenza del linguaggio neo-televisivo ad abbandonare la forma chiusa della narrazione classica in favore di una nuova retorica che mira innanzitutto a stabilire un rapporto “confidenziale” con lo spettatore.

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I videoclip, oltre a svolgere una funzione strategica di supporto promozionale all’album musicale e al performer, condensano alcune caratteristiche essenziali dell’espressività contemporanea che si manifesta innanzitutto con un linguaggio che nasce da profonde contaminazioni spaziotemporali, da un uso intensivo delle citazioni – come era evidente ad esempio già nell’eclettismo e sincretismo architettonico realizzato nelle grandi esposizioni – e si sviluppa in modo specifico nel tempo delle risorse immateriali, della riduzione al presente dei flussi televisivi di ogni tradizione e contesto storico (Abruzzese, Borrelli 2000, p. 185).

Innanzitutto, pur essendo brevi dal punto di vista della quantità di informazione, rivelano una densità semantica spesso sorprendente. A partire dal sincretismo di differenti linguaggi (immagini, musica, testo) sviluppano una propria estetica, risultato di una pratica costante di rielaborazione espressiva che si esercita sulle forme canoniche del linguaggio audiovisivo. Sfruttano limiti strutturali, come la durata ridotta e la collocazione ripetuta e randomica all’interno di un flusso per esplorare nuove figure del ritmo audiovisivo che contribuiscono a ridefinire profondamente i canoni estetici del linguaggio televisivo e cinematografico. Infine i video musicali sono forme testuali felicemente compromesse con il circuito della moda. Da un lato ne subiscono l’influenza, sottoponendo le diverse figure dello stile a una pratica di selezione e rielaborazione costante, in un gioco di bricolage raffinato e consapevole. Dall’altro utilizzano il potenziale espressivo del sincretismo audio-visivo per rilanciare l’appeal di tutto quanto fa tendenza, sfruttando come veicolo privilegiato di questo “contagio stilistico” il corpo della star, supporto flessibile su cui inscrivere i segni di una pratica di manipolazione ri-creativa fortemente onnivora, rivolta esplicitamente al pubblico multiforme dei fan1. Non sorprende dunque che questa capacità di recepire, metabolizzare, rinnovare peculiarità espressive di for-

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me testuali preesistenti renda il videoclip uno degli strumenti privilegiati di costruzione delle nuove star2. La star è una merce totale: non c’è centimetro del suo corpo, fibra della sua anima, ricordo della sua vita che non possa essere messo sul mercato. Questa merce totale ha anche altri pregi: è la merce-tipo del grande capitalismo e quindi gli enormi investimenti, le tecniche industriali di realizzazione e di standardizzazione del sistema ne fanno un prodotto destinato al consumo di massa. La star ha tutti i pregi del prodotto di serie adottato dal mercato mondiale, come il chewing-gum, il frigorifero, il sapone da bucato, il rasoio, e così via. La diffusione di massa è assicurata dai più grandi moltiplicatori del mondo moderno: stampa, radio e naturalmente cinema (Morin 1972, pp. 124-125).

L’efficacia del video musicale si rivela anche nella capacità di riproporsi costantemente nel panorama della testualità televisiva come laboratorio avanzato per la produzione di forme di culto originali, che investono prepotentemente l’immaginario collettivo delle nuove generazioni3. Sottoposto a un repertorio di figure della manipolazione in costante evoluzione, il corpo della star assume innanzitutto un alone simbolico, la figura del perfomer si carica di un eccesso di significazione, una potenzialità connotativa che diviene veicolo di una seduzione irresistibile, dando avvio a forme rinnovate di feticismo4. Sfruttando l’appeal e la pervasività del videoclip, il performer nel suo divenire icona musicale assume un carattere fortemente mitico, dunque sostanzialmente narrativo. Star assolute della musica pop e rock come David Bowie hanno fondato buona parte del proprio successo artistico e commerciale sulla commistione di realtà e finzione, sulla costruzione della propria storia d’artista, sul backstage di una carriera rapidamente trasfigurata in “leggenda”. Il culto della star musicale esprime infine un carattere fortemente identitario, divenendo il territorio elettivo dell’aggregazione di soggetti diversi in gruppo di culto.

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La collettività dei fan si configura quindi come un soggetto attivo nel successo planetario delle icone del pop, un attante collettivo fondato sulla condivisione di un sapere articolato e sul rispetto di norme complesse, talvolta estremamente vincolanti, che si esprimono innanzitutto nell’accumulo e nella rielaborazione (spesso sul proprio corpo) di segni che rinviano al simulacro irraggiunibile dell’idolo5.

1 Cfr. in particolare Pezzini 2003, in cui vengono analizzate le caratteristiche che rendono queste forme brevi dei fenomeni testuali di moda. In particolare nel saggio vengono esplorate le complesse strategie testuali che permettono ai videoclip di recuperare e rielaborare frammenti di immaginario architettonico, mettendo in scena lo spazio costruito non tanto come testo che produce significazione, quanto piuttosto come territorio “sensibile”, in cui le diverse figure dell’abitare contemporaneo vengono filtrate da uno sguardo volutamente deformante, spesso visionario, che mira a colpire la sensibilità dello spettatore, a condizionarne la percezione. 2 “Nel sempre più rapido consumarsi del tempo (…), lo statuto di star gioca o per lo meno sino a oggi ha giocato sul meccanismo della nostalgia, quasi che fosse ormai chiaro a tutti che il tempo delle stelle è finito. I divi rock sfruttano la citazione, manipolando il tempo perduto della metropoli, sperimentano l’estetica della sopravvivenza tipica della fantascienza, simulano al presente o al futuro tutte le possibili figurazioni del passato” (Abruzzese 1989, pp. 60-61). 3 “Il piccolo schermo incoraggia e sostiene le estetiche della bellezza e della prestanza fisica, attraverso un’alchimia del suggerimento, che coinvolge il nostro sguardo e la nostra memoria in un gioco circolare e irriducibile di scambio tra apparenza e verità, che rimbalza dai “fantasmi di corpo in carne ed ossa” del teleschermo alla nostra personale e idiosincratica esperienza della corporeità” (Bolla, Cardini 1999, p. 15). 4 Sul tema delle nuove forme di culto catodico cfr. Volli, a cura, 2002. In particolare l’introduzione in cui Volli analizza i requisiti formali che costituiscono la premessa di un consumo di culto della produzione televisiva, proponendo di ripensare il culto televisivo come forma originale di dipendenza attiva. 5 “Fra la solitudine del singolo spettatore e la grandiosità del media system, si pone un gradino intermedio, un luogo di interazione sociale e di scambio simbolico, che ritaglia sullo sfondo confuso e magmatico dell’audience spazi di comunicazione e sociabilità” (Tedeschi 2003, p. 15).

Capitolo secondo L’autonomia linguistica delle forme brevi

Una prospettiva sociosemiotica Arte/commercio, underground/mainstream, lineare/ frammentato… la riflessione sull’estetica videomusicale nelle sue diverse forme (critica musicale e cinematografica, sociologia delle comunicazioni di massa, cultural studies, film studies) ripropone spesso formule fortemente usurate, inadatte a far presa su un territorio dai confini incerti, in costante evoluzione, le cui coordinate sono costantemente ridisegnate dalla logica del mercato discografico e televisivo. In uno scenario simile anche la tradizionale distinzione tra testo e contesto sembra sfumare progressivamente. Sperimentazione espressiva, logiche produttivo/distributive e stili di consumo si intersecano fortemente dando vita a un fenomeno complesso, di difficile lettura, che sollecita una riflessione sull’efficacia dei paradigmi teorici e sugli strumenti metodologici da impiegare. Se da un lato i video musicali condividono con altre forme brevi della comunicazione audiovisiva la capacità di attivare una “fitta rete di rinvii fra testi, storie, personaggi, ambienti, una rete satura di circolazione e di raccordi di desideri, curiosità, attese e nostalgie” (Pezzini 2002), dall’altro, essi possiedono anche un’autonomia di linguaggio che si esprime innanzitutto nella capacità di riunificare la musica e le immagini in forme originali, una “capacità di connettere il diverso e infrangere il si-

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mile. Capacità di narrare senza gli schemi e le forme dei regimi narrativi condivisi” (Abruzzese 2001, p. 131). Partendo da queste premesse nel volume si tenterà di analizzare le forme e le strategie testuali del videoclip formulando alcuni interrogativi e articolando delle possibili direzioni di ricerca. Come rendere compatibile l’indagine “macro” sugli apparati dell’industria culturale con uno sguardo ravvicinato sulle dinamiche interne alla forma-video? Come ritagliare un oggetto d’analisi sincretico, fortemente ibrido, che sembra sfuggire alle tradizionali definizioni di testo? In quale misura è possibile parlare di un linguaggio videomusicale? Infine, come restituire la complessità di un fenomeno “tutto ritmo e colori” la cui efficacia sembra fondarsi sul rifiuto delle forme classiche di narratività? Simili interrogativi rientrano pienamente nel recente dibattito avviato dalla sociosemiotica che si propone su un piano teorico e metodologico di ripensare il rapporto tra le diverse forme del discorso e il complesso dei fenomeni sociali. Come afferma Eric Landowski (1999, p. 9) la sociosemiotica si configura innanzitutto come una scommessa poiché rifiuta di considerare il linguaggio come un semplice strumento per far circolare messaggi tra un emittente e un destinatario del tutto privi di determinazioni concrete, rivolgendo il proprio interesse alle interazioni realizzate grazie al discorso tra i soggetti individuali e collettivi che vi si inscrivono e vi si riconoscono. In una prospettiva sociosemiotica il discorso in tutte le sue determinazioni (politico, giuridico, ideologico, mediatico) non si limita semplicemente a riflettere una realtà sociale predefinita piuttosto “rappresenta il luogo originario a partire dal quale il sociale, come sistema dei rapporti fra i soggetti, si costituisce mentre si pensa” (p. 13). In altri termini, come ribadisce Gianfranco Marrone (2001, p. XVI), il problema non è più quello di capire se e come la società influenzi o sia influenzata dal linguaggio, (…) ma semmai

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di comprendere i modi in cui la società entra in relazione con se stessa, si pensa, si rappresenta, si riflette attraverso i testi, i discorsi, i racconti che essa produce al suo interno.

Così, ad esempio, nello studio del discorso pubblicitario la sociosemiotica non è interessata semplicemente al modo in cui le aziende tentano di convincere i consumatori ad acquistare dei prodotti, piuttosto costruisce modelli discorsivi generali, coerenti e interdefiniti al loro interno, che spieghino a monte le scelte di consumo che si trovano rappresentate nei testi pubblicitari. Emerge così che, invece di limitarsi a scegliere un certo prodotto per ragioni di calcolo economico, il consumatore attribuisce a esso determinati valori, proiettando sulle sue presunte decisioni razionali una propria visione del mondo, le cui logiche occorre appunto individuare (p. XVII).

Su un piano teorico generale la sociosemiotica si prefigge dunque di superare la tradizionale nozione di testo in favore di quella più ampia di discorso, e di rivolgere il proprio interesse a temi di grande attualità come gli stili di consumo produttivo, l’accelerazione dei processi di trasformazione che rimodellano l’immaginario collettivo, l’esasperazione dei fenomeni di ibridazione linguistica che coinvolgono generi e linguaggi differenti, le nuove forme di aggregazione che invadono i territori immateriali aperti dai new media. Nell’ottica sociosemiotica la nozione di discorso non rinvia semplicemente a un costrutto linguistico ben definito, localizzato su un supporto (romanzo, film, fumetto…), ma è sia un’entità linguistica sia un processo sociale, è l’insieme delle regole del linguaggio (di qualsiasi linguaggio) che vengono concretamente vissute, esperite, e dunque si affermano all’interno di spazi intersoggettivi più o meno ampi, siano quelli di una conversazione a due o quelli di un’intera organizzazione culturale. Ma il discorso è anche, cambian-

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do punto di vista, l’insieme delle costrizioni socioculturali che, per così dire, agiscono sulla lingua, la permeano e la ricostituiscono, con tutto il peso delle entità consolidate dagli usi semiotici condivisi e ripetuti, di quegli stereotipi che rimodellano i codici linguistici limitando la libertà espressiva del singolo individuo (p. XXV).

Se dunque la discorsività può essere considerata in senso dinamico come un processo semiotico le cui radici affondano nelle convenzioni e nelle norme socio-culturali, è possibile ripensare la stessa nozione di contesto non più come semplice luogo sociale di esercizio di una serie di attività pragmatiche necessarie per produrre e consumare testi, quanto piuttosto come uno spazio il cui funzionamento risponde a una logica di tipo semiotico che investe in modo trasversale sia le pratiche linguistiche sia i comportamenti somatici1. In questo senso una manifestazione politica o una performance musicale sono pratiche discorsive esemplari, la cui efficacia non si riduce banalmente a un passaggio di informazione tra soggetti ma si fonda piuttosto su un’architettura complessa in cui gli elementi appartenenti a diversi sistemi di significazione (immagini/suoni/gesti) entrano in risonanza tra loro dando vita a figure del sensibile che non mirano semplicemente a catturare l’attenzione del pubblico ma a innescare una serie di trasformazioni dei rapporti intersoggettivi facendo leva su dispositivi ritmici e/o retorici. Questo allargamento di campo costringe a ripensare profondamente anche il problema dell’efficacia delle forme discorsive. Nel complesso processo di autorappresentazione che coinvolge trasversalmente le diverse sfere del sociale (discorso politico, giuridico, scientifico, economico, culturale) vengono convocate tutte le dimensioni della significazione. La dimensione cognitiva che si realizza nel passaggio di informazione tra le figure cardine dell’atto comunicativo; la dimensione pragmatica in cui le azioni del

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soggetto sono fortemente condizionate dal valore performativo del linguaggio; la dimensione passionale che interviene a rinforzare il legame tra il testo e il soggetto modulandone la reazione affettiva; la dimensione somatica che assicura al testo la capacità di far presa sul soggetto innescando una risposta di tipo senso-motorio. Partendo dalla constatazione che nelle forme testuali di largo consumo è particolarmente diffusa la valorizzazione della componente somatica e passionale della significazione la ricerca sociosemiotica si prefigge di ripensare complessivamente lo studio dei mass media. (…) non si tratta più di vedere nei mezzi di comunicazione gli strumenti di una mediazione immaginaria tra i soggetti e la realtà esterna, sia essa una operazione di distorsione, di costruzione, di manipolazione o di virtualizzazione. I media producono spesso testi che (…) inscrivendo al loro interno i propri contesti trasformano visceralmente il pubblico, non solo a livello cognitivo o pragmatico, ma anche passionale e somatico (p. XXXV).

Nel circuito imposto dai “sistemi della moda” (politica, televisiva, cinematografica, editoriale) il valore di un testo sembra passare sempre più per la capacità di coinvolgere il soggetto scavalcando la dimensione cognitiva, praticando (talvolta in modo felicemente esasperato) la dimensione passionale e somatica della significazione. I videoclip, in questo senso, possono essere riletti come complesse forme di testualità audiovisiva la cui efficacia non consiste unicamente nella capacità di stimolare lo spettatore a ricomporre diversi frammenti audio-visivi in una forma chiusa, ma si fonda soprattutto sull’attitudine a colpire il soggetto, a contagiarlo nell’esperienza di una fruizione in cui un profondo coinvolgimento sinestesico prevale in modo deciso sulla ricomposizione razionale di una narratività forte2. In un’ottica “macro” l’efficacia del videoclip si rivela inoltre nella capacità di influenzare profondamente lin-

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guaggi e generi differenti, nella tendenza a esasperare una logica del “contagio pubblicitario” che appare come una delle caratteristiche più rilevanti dell’industria culturale contemporanea. I processi di ibridazione che coinvolgono pubblicità e apparati della produzione culturale sono sempre più invasivi e trasversali. Ambiti discorsivi precedentemente distinti e dotati di caratteristiche proprie come il discorso scientifico, politico o dell’informazione progressivamente tendono a sovrapporsi, a contaminare reciprocamente strategie discorsive, formule narrative, peculiarità stilistiche. In questa dinamica il discorso pubblicitario in tutte le sue forme e formati non si limita a influenzare linguaggi e rinnovare generi predefiniti ma in termini più ampi riconfigura il significato stesso del termine comunicazione, rivendicando con forza il proprio ruolo nei confronti degli altri processi e sistemi della significazione. In questo scenario articolato i videoclip emergono come forme esemplari di una pratica di recupero fortemente autoreferenziale e ri-creativa che assimila formule narrative e peculiarità stilistiche di forme testuali preesistenti (spot pubblicitari, trailer cinematografici, generi televisivi basati sul meccanismo della serialità come fiction, soap opera, telefilm, reality show) sottoponendole a un intenso lavoro di riconfigurazione. Nei videoclip le operazioni che assicurano la riunificazione di suono e immagine si realizzano a prescindere dalle tradizionali modalità di mediazione tra spettacolo e pubblico che nel cinema e nella televisione sono garantite da architetture narrative collaudate. “La creatività si definisce nel connettere ciò che appartiene a universi tra loro distanti, nel suscitare l’imprevisto e l’inatteso, nel dare corpo all’impensabile, a ciò che è improvviso” (Abruzzese 2001, pp. 115-116). Nati per promuovere album musicali e performer, i video non nascondono una tensione irrisolta tra arte e commercio, piuttosto ne rivendicano le potenzialità espressive, esibendone continuamente le tracce in un

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movimento autoriflessivo che mira innanzitutto a catturare l’attenzione di un pubblico sempre più consapevole, avvertito delle “regole del gioco”. In altri termini la forma-video non punta tanto a valorizzare la dimensione oggettivante del linguaggio, quanto piuttosto a rinegoziare costantemente il rapporto con lo spettatore, mettendone in scena le dinamiche, gli scenari. Le strategie dell’enunciazione di una forma breve Il passaggio cruciale dalla dimensione extratestuale della produzione e del consumo alle sequenze apparentemente caotiche dei suoni-immagini è regolato, modulato dall’enunciazione. In semiotica l’enunciazione è un’istanza presupposta da qualsiasi tipo di enunciato, indipendentementre dalla sostanza in cui si esprime la sua forma dell’espressione (visiva, verbale, gestuale). L’enunciazione viene dunque concepita come un atto di produzione originario, la pratica fondante del senso, che può rendersi più o meno visibile all’interno dell’enunciato. In alcuni casi il soggetto dell’enunciazione emerge con forza dalla superficie del testo (sfruttando nel caso del linguaggio audiovisivo il potenziale di interpellazione di uno sguardo in camera, di un movimento di macchina brusco e apparentemente ingiustificato), in altri casi qualsiasi indizio dell’intenzionalità comunicativa viene cancellato, o meglio, reso “invisibile”, contribuendo a far sembrare l’enunciato completamente sganciato dalla soggettività dell’emittente e di conseguenza interamente finalizzato a restituire la realtà degli eventi narrati (privilegiando ad esempio le inquadrature oggettive). Nelle forme di testualità audiovisiva (cinema, televisione) l’enunciazione svolge un duplice ruolo decisivo. Innanzitutto agisce come istanza di mediazione tra sostanze dell’espressione differenti (suoni, immagini), rendendone possibile la ricomposizione in un’unica forma

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(audio-visiva). Inoltre, permette di rinegoziare su un piano pragmatico le forme di contatto tra emittente e destinatario attraverso figure peculiari, come la soggettiva, gli sguardi in camera, la messa in scena del backstage. Nei videoclip l’efficacia dell’enunciazione è assicurata dal montaggio, pratica raffinata che restituisce a questi micro-testi ibridi la straordinaria capacità di “fare del nuovo con del vecchio”, selezionando e riassemblando materiali preesistenti. I diversi linguaggi di manifestazione (sonoro, visivo, verbale) presi in carico dal montaggio sono oggetto di un’unica strategia globale di comunicazione sincretica che “ritaglia” il continuum discorsivo, articolando la linearità del testo con differenti sostanze dell’espressione. L’enunciazione sincretica che si esprime nel montaggio può dunque essere definita in via preliminare come una procedura che seleziona e rielabora le immagini sullo sfondo del brano musicale, come emerge del resto dal significato letterale del verbo “to clip” (ritagliare) che rinvia esplicitamente all’atto di assemblare un testo tramite la procedura del bricolage (Sibilla 1999). Nei videoclip il montaggio non si limita tuttavia a un’operazione di “taglia e incolla”, ma svolge la funzione essenziale di riunificare i suoni-immagine in un flusso audiovisivo compatto, ritmicamente coinvolgente, in grado di contagiare lo spettatore, di coinvolgerlo nell’esperienza di un’audiovisione fortemente patemizzata (Chion 1990), rendendolo partecipe emotivamente, ancora prima che cognitivamente, di performance altamente spettacolari. Come ribadisce Alberto Abruzzese (1989, pp. 5455) l’efficacia dei video musicali si rivela innanzitutto nella capacità di coinvolgere la dimensione “tattile” del consumo. (…) Questo risultato, proprio coinvolgendo tutti i sensi in dinamiche metaconcettuali e inconsce, può essere ottenuto soltanto attraverso la miscela esatta tra immagini, musica, rumori. E non soltanto: anche tra forme visive, contenuti

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evocativi, suggestioni mitologiche, archetipi collettivi, stereotipi di massa, trasgressioni e choc, corpi e ritmi, che, con ciascuno dei sensi linguisticamente impegnati, conservano e rilanciano precise ed identificabili marcature narrative, iconologiche, musicali.

Come si vedrà dettagliatamente nel corso dei seguenti capitoli, nei video le figure dell’enunciazione si manifestano sotto forma di elaborate costruzioni riflessive (Metz 1991), che traducono nel testo l’esigenza promozionale di ridurre la distanza tra la star e il suo pubblico per rinnovare le motivazioni all’acquisto del prodotto musicale. Finti scenari di produzione, backstage fittizi, continui rimandi all’apparato “invisibile” della produzione video sono espedienti particolarmente sfruttati nella produzione più recente, formule in continua evoluzione soggette a una rapida usura, cui spetta il compito essenziale di rinegoziare il legame con lo spettatore, proponendogli in alcuni casi non più di identificarsi con l’inarrivabile modello di un mito musicale, quanto piuttosto di condividere il sapere sulla sua costruzione. Spesso, il luogo in cui si realizzano le condizioni per questo patto rinnovato è il corpo stesso della star, oggetto di un’intensa sperimentazione enunciativa. Sul piccolo schermo la figura del performer viene costantemente rimodellata attraverso deformazioni, scomposizioni, moltiplicazioni, figure estreme di una manipolazione che interviene a svelare i dettagli più nascosti, insoliti dell’icona musicale, contribuendo a definire i canoni di un’originale e sorprendente estetica videomusicale. Gli elementi che rendono peculiare il livello discorsivo di un video musicale, come gli interventi sui regimi di visibilità del corpo della star, la ridefinizione delle coordinate spazio-temporali, non sono dunque semplici marche stilistiche, segni isolati che esprimono un linguaggio in continua evoluzione, ma le figure di una sperimentazione enunciativa che si esibisce nel testo, traducendo al

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suo interno logiche extratestuali che rinviano esplicitamente agli stili di consumo televisivo/musicale delle nuove generazioni e alle dinamiche produttive e commerciali dell’industria discografica e televisiva. È in questo passaggio che emergono i segnali di una progressiva autonomia linguistica del videoclip, nell’attitudine a testualizzare il rapporto fragile e polemico che coinvolge emittenti televisive, etichette discografiche, performer/band e consumatori. In termini socio-semiotici la dimensione macro degli apparati culturali ed economici si inscrive nel testo, ne informa la materia (audiovisiva), dando vita a forme, talvolta sorprendenti, di auto-rappresentazione. Nel piccolo schermo prende forma e si auto-alimenta un fenomeno che influenza la produzione mediatica nel suo complesso, e che consiste nel valorizzare non solo le strategie discorsive relative alla qualità del prodotto commercializzato, ma soprattutto quelle riguardanti l’asse produzione-consumo. Le forme di valorizzazione si fondano sempre più su una logica del contratto, che sfrutta il discorso pubblicitario per stabilire relazione fra i soggetti e offrire identità possibili, piuttosto che su una logica dell’acquisto che riduce la funzione del soggetto dell’enunciazione a un venditore e quella dell’enunciatario a un semplice acquirente. Se i videoclip hanno contribuito a rinnovare profondamente il panorama audiovisivo sfruttando il potenziale espressivo del sincretismo linguistico, ciò è dovuto in gran parte alla formula essenzialmente ibrida che ne regola il processo di produzione. Il video musicale è una forma breve “studiata a tavolino”, la sua efficacia è innanzitutto il risultato di un sottile equilibrio tra le esigenze spesso divergenti di diversi soggetti: l’etichetta discografica, l’emittente musicale, il performer/band, il management dell’artista, il regista, la casa di produzione. In quest’ottica è possibile ripensare i videoclip (certamente non tutti) non come forme brevi rapidamente deperibili, quanto piuttosto come testi sincretici infinita-

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mente rivedibili, “costretti” alla sperimentazione del proprio linguaggio dalla necessità di stabilire/rinnovare un contatto forte tra star e pubblico e di resistere al logorio imposto dai passaggi televisivi delle emittenti musicali. Il video metabolizza forme consolidate, riconfigura linguaggi preesistenti, produce senso per assemblaggio, in un gioco equilibristico tra innovazione e permanenza che da un lato tenta di suscitare la sorpresa, dall’altro il piacere della conferma3. L’estetica videomusicale si fonda sul rifiuto di ogni forma di rassicurazione, compreso il potere di configurazione che si riconosce ai testi narrativi e all’esperienza di “sintesi dell’eterogeneo” del vissuto che essi simbolicamente saprebbero restituire (Pezzini 2002). La portata estetica di questi micro testi si gioca sulla possibilità di riconfigurare il tempo audiovisivo, di manipolarne le forme, in un gioco autoriflessivo che non mira tanto a destrutturare le forme canoniche del racconto quanto piuttosto a praticare le inedite soluzioni ritmiche che scaturiscono dalla sovrapposizione di suoni e immagini. La sua definizione ruota intorno a tre parole chiave: sincretismo, ritmo, corpo. Nei video la sperimentazione enunciativa produce delle originali forme di ibridazione audio-visiva in cui le immagini non svolgono tanto la funzione di descrivere “alla lettera” il contenuto del brano musicale, quanto piuttosto di sottoporlo a una deformazione più o meno coerente4. Il risultato di questa pratica di selezione e rielaborazione è spesso un testo originale, “anticonformista”, in cui le immagini intervengono a raddoppiare il ritmo del brano musicale, rafforzandone ulteriormente l’efficacia. Il ritmo prodotto dal sincretismo di differenti linguaggi conferisce a questi testi brevi la capacità di coinvolgere profondamente lo spettatore, sfruttando il canale della visione per indurre a una ricezione fortemente sinestesica. Il rapporto tra corporeità e linguaggio audiovisivo non emerge dunque unicamente all’interno del testo, sot-

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to forma di manipolazione del performer, il corpo viene anche chiamato in causa dai video, nel senso che queste forme brevi mirano soprattutto a stimolare nello spettatore un coinvolgimento pre-cognitivo, ritmico. La fruizione di un videoclip non si risolve esclusivamente nel piacere di un’audiovisione, essa è innanzitutto esperienza sensibile di un ritmo in atto, coinvolgimento estesico profondo che contagia il corpo, costringendolo al movimento. Ed è proprio la capacità di ridefinire profondamente le tradizionali modalità di fruizione dei testi audiovisivi, a delineare uno dei temi più interessanti dell’attuale ricerca semiotica. La velocità nel montaggio delle immagini, la sincronizzazione fra immagine e suono, la ricerca di effetti sinestesici e plastici è spesso spinta al limite, nel tentativo anzitutto di “colpire e attrarre”, in definitiva a livello fisico, corporeo, lo spettatore. Attivarne a volte l’attenzione, ed eventualmente provocarlo all’interpretazione, alle operazioni complesse della “ricomposizione” (Pezzini 2002, p. 24).

Per approfondire la riflessione sul valore estetico delle forme brevi sembra dunque inevitabile fare i conti con la dimensione sensoriale, estesica della significazione5. Il corpo in gioco La semiotica di origine strutturalista, in netto contrasto con le teorie cognitiviste che ribadiscono la separazione di mente e corpo, di intelligibile e sensibile, rivendica con forza il ruolo che la dimensione percettiva, estesica, del linguaggio riveste nella formazione di ogni genere di discorso. (…) al momento della percezione, lì dove le macrosemiotiche della lingua e del mondo s’incrociano all’interno della discorsività, i semi esterocettivi (dati dal mondo esterno) si

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integrano con quelli interocettivi (dati dalla mente) per il tramite del corpo, che vi include a sua volta i propri semi, detti propriocettivi. Non si dà categorizzazione del mondo, dunque cognizione e autocognizione, se non a partire da un timismo profondo, dove il corpo vive relazioni di attrazione e repulsione nei confronti di se stesso e di ciò che immediatamente lo circonda (Fabbri, Marrone, a cura, 2001, p. 268).

Partendo dal presupposto che la sensorialità giochi un ruolo fondamentale nella produzione della significazione, la semiotica contemporanea ha iniziato progressivamente ad affrontare il tema complesso dell’estesia, lavorando sull’ipotesi che l’interazione tra i diversi sensi possa svolgere un ruolo determinante nella costruzione del contenuto di manifestazioni discorsive differenti. La sensorialità viene considerata da questo indirizzo di ricerca come esterna ai discorsi, poiché contribuisce all’articolazione delle sostanze dell’espressione, ma anche interna, poiché appare come “figurazione di una logica delle materie che la componente semantica dei testi, per così dire, tiene in memoria” (Fabbri, Marrone, a cura, 2001, p. 270). Di conseguenza, all’interno del vasto orizzonte di studi semiotici è emersa progressivamente la necessità di affrontare il problema di una semiotica della corporeità. Il corpo per la semiotica è innanzitutto “oggetto del mondo e punto di vista sul mondo, luogo a partire da cui si costituisce qualcosa come un’esteriorità ma si produce al contempo qualcosa come un’interiorità” (p. 270). Lo scopo prioritario di una simile semiotica non è quello di descrivere dall’esterno le forme e il funzionamento di un “essere somatico oggettualizzato”, quanto piuttosto di ritrovare all’interno della componente semantica dei vari sistemi e processi di significazione quella linea di continuità che unisce una serie di fenomeni intermedi quali l’euforia e la disforia, le tensioni e le distensioni, le intensità e gli aspetti, i ritmi e le temporalità profonde, ma soprattutto il mondo complesso e variegato dell’affettività” (ib.).

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A questo proposito Francesco Marsciani (1999, p. 223) ribadisce come la chiusura del testo, postulato semiotico fondamentale per una descrizione scientifica dei fenomeni significanti, si sia sempre scontrato con l’effettività del corpo, con una caratteristica assolutamente peculiare, l’apertura. Il corpo non è mai chiuso, ma anzi è un sistema di travasi, di ferite, di trasbordi, un sistema di permeabilità in cui l’interno e l’esterno continuamente si ridefiniscono a partire da una significazione che lo abita. Non è un oggetto con i suoi confini predeterminati sul quale sia possibile scrivere e leggere segni, ma un modificatore di senso, il luogo delle trasformazioni che donano vita ed effettività al senso.

Come osserva Eric Landowski (2001), lo studio della corporeità rientra pienamente in una tendenza generale della semiotica contemporanea ad analizzare forme di testualità dal carattere incerto. In particolare il corpo costituisce un oggetto d’analisi decisamente ambiguo, a uno sguardo semiotico esso si rivela infatti familiare e al tempo stesso estraneo. Di fatto, in relazione al corpo, ancor più che in relazione a qualsiasi altro oggetto, la pratica di uno sguardo esterno, medico per esempio, finalizzato a una descrizione e a una spiegazione in termini di funzioni oggettivabili, si oppone all’esperienza di una prensione effettuata dall’interno, fondata su un “provato” che può fare senso di per se stesso, soggettivamente e forse anche intersoggettivamente (p. 60).

Tradizionalmente il corpo è oggetto di due concezioni opposte e simmetriche che separano in maniera decisa razionalità e passioni, intelligibile e sensibile. La prima è tipica delle scienze naturali, e concepisce il corpo come privo di senso, desemantizzato. L’esigenza di rigore della scienza medica produce spesso il risultato di ridurre il corpo a un organismo “frammentato, smembrato, fatto a pezzi, conformemente a una necessaria de-

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moltiplicazione degli angoli e dei livelli di approccio” (p. 61), trascurando spesso lo stato d’animo del paziente, il modo soggettivo con cui egli percepisce, “sente”, il proprio corpo. Per il semiotico questa concezione “oggettiva” del corpo umano conduce a negare che esso possa costituire il luogo di produzione di una qualche forma di significazione. Per la scienza medica è possibile solamente riconoscere dei sintomi, attribuire dei significati alle sensazioni, “in breve, per il medico, il senso, quale è provato da colui che vive il proprio corpo – il proprio male –, non ha praticamente alcun senso” (ib.). La seconda concezione del corpo e della sensorialità è invece caratteristica di una certa forma di positivismo rinvenibile nelle scienze umane che considera il senso come un oggetto di studio del tutto legittimo, ma trascura completamente la relazione che esso instaura con la fisicità dei soggetti. In questa seconda accezione il senso è spesso un senso disincarnato, poiché “dal punto di vista sia della sua produzione che della sua prensione, non sembra mai dipendere propriamente dal ‘corpo’, dal corpo empirico, in carne e ossa che sente e si sente”, ma da istanze e competenze cognitive che svincolano il senso “da qualsiasi legame diretto con la carne viva dei soggetti” (ib.). Partendo dalla distinzione tra un senso disincarnato e un corpo desemantizzato, Landowski propone di ripensare drasticamente il problema dei regimi di significazione del corpo, concependo quest’ultimo come istanza discorsiva vivente che produce senso a partire da una relazione intersomatica vissuta. In questa nuova prospettiva di ricerca il corpo non viene considerato semplicemente come una superficie sensibile, un organismo privo di senso, quanto piuttosto come un’istanza discorsiva vivente, “una forma perpetuamente in costruzione, il cui senso e valore non possono essere colti che relazionalmente e dinamicamente, nel sempre mutevole rapporto del soggetto con se stesso e contemporaneamente con l’altro” (ib.).

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Il corpo comunica sfruttando un regime di significazione del tutto peculiare, esso non cessa mai di fare senso, poiché possiede una certa dose di “opacità, uno spessore, un volume propri e diviene per il soggetto uno dei luoghi dell’emergenza stessa del senso, di un senso percepito indissociabilmente come configurazione intelligibile e come presenza sensibile” (ib.). In quest’ottica la semiotica dell’estesia si inserisce dunque nel quadro più generale di una semiotica dell’azione e dell’interazione. Il senso del corpo, infatti, è sempre un senso in atto, il suo grado di efficacia è indissolubilmente legato alla co-presenza di soggetti differenti, in grado di interagire e di far circolare le proprie esperienze estesiche secondo una logica del contagio passionale. Un esempio utile per rendere conto di questo regime di significazione del corpo è quello della seduzione. Come afferma Landowski, accanto a forme di desiderio che valorizzano il corpo altrui a partire da un giudizio innanzitutto estetico, sussiste una forma di seduzione che si fonda su una prensione del senso non cognitiva ma essenzialmente estesica. In questo caso, ciò che suscita nel soggetto il desiderio non è il riconoscimento di forme desiderabili che riproducono una configurazione estetica prefissata, quanto piuttosto lo stato stesso del corpo altrui, una presenza sensibile che può essere a sua volta percepita come un corpo desiderante. In una prospettiva sociosemiotica, questa esperienza estesica del corpo diviene dunque un’autentica forma di conoscenza che si sottrae alla tradizionale distinzione tra sensibile e intelligibile. L’esperienza di questo regime della significazione si configura infatti come assolutamente bilaterale, il corpo del soggetto desiderato non può che essere coinvolto nel desiderio dell’altro. In altri termini, il corpo non appare più come un corpooggetto, valore irrinunciabile per un soggetto che aspira al riconoscimento altrui, quanto piuttosto come lo strumento di un’esperienza rinnovata che agisce profondamente sulla percezione della propria identità, un corpo-soggetto.

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In una prospettiva semiotica il contagio si configura dunque come un processo di trasmissione che implicando almeno due partecipanti, consiste nella riproduzione tramite uno di essi di un concatenamento di stati e di azioni, il cui modello sarà fornito (direttamente o indirettamente, volontariamente o involontariamente, coscientemente o incoscientemente) dall’altro (p. 13).

Sebbene questo regime della significazione corporea si realizzi compiutamente nella presenza in atto di due soggettività distinte, può rivelarsi tuttavia estremamente utile per comprendere anche le ragioni dell’efficacia dei video musicali, in cui il contagio tra il corpo della star e quello dello spettatore può essere esclusivamente simulato. Con i videoclip si affermano progressivamente nuove strategie di fruizione, nuove pratiche di consumo produttivo in cui il piacere del testo consiste anche nel ritrovare le tracce di esperienze di consumo extratestuali, non verbali. La tendenza a esplorare modi sempre più estremi della risemantizzazione del corpo probabilmente deve essere messa in relazione con l’esigenza di ricreare quell’esperienza dello scambio reciproco della sensibilità corporea, che nelle performance live trasforma la platea dei fan da totalità partitiva ad attante collettivo, comunità indistinta che esprime il proprio sentire secondo il regime della significazione del corpo a corpo. Nei videoclip la manipolazione delle immagini (velocizzazione e ralenti, scomposizioni, deformazioni prospettiche, inversioni cromatiche) agisce come una forma estrema di interpellazione che mira a coinvolgere lo spettatore, a imprimere sul suo corpo un ritmo irresistibile in grado di condensare in pochi istanti “l’onda d’urto estesica” che in una situazione live ha origine dalla combinazione di musica, apparato scenografico, movimenti del performer, reazioni senso-motorie del pubblico6.

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È nello spazio di una programmazione sempre più contratta che si gioca la portata estetica dei videoclip, è qui, nello sforzo di restituire una sensazione di vicinanza con il corpo della star che la sovrapposizione apparentemente caotica e priva di senso dei suoni-immagini rivela la presenza di una struttura, le tracce di un’articolazione linguistica che non esita ad appropriarsi del repertorio di temi e figure dell’espressività contemporanea per “contagiare” lo spettatore con la promessa, felicemente illusoria, di una tattilità impossibile, di un contatto pieno.

1 “La scommessa avanzata dalla semiotica consiste quindi semplicemente, come si può ben vedere, nel ridefinire il preteso contesto del discorso, altrimenti detto il mondo “reale” che gli funge da riferimento, come un linguaggio: un linguaggio come gli altri, il cui privilegio non ha nulla di necessario o di assoluto (poiché non risiede nell’ordine della primità ontologica né in quello della primità logica) ma dipende dalla posizione che gli viene culturalmente assegnata in rapporto ad altri sistemi semiotici ugualmente costruiti (Landowski 1999, pp. 189-190). 2 Cfr. il saggio di Isabella Pezzini Giovani nel tempo a passo di danza, in Ardrizzo, a cura, 2003, in cui vengono analizzate le diverse strategie con le quali i video riconfigurano la percezione del tempo, ridefinendo profondamente l’immaginario collettivo e gli stili di consumo televisivo delle nuove generazioni. In particolare nel paragrafo Testi oltrenarrativi viene affrontato il problema particolarmente attuale del rapporto tra brevità del testo e rottura delle tradizionali forme di narrazione. 3 “Nello stesso videoclip si possono trovare tracce di iconografie surrealiste e di aggressive immagini pop, le severe spaziature Bauhaus e i segni dell’informale, il colore dell’espressionismo e i linguaggi del design, il teatro sperimentale e il cinema delle avanguardie, il futurismo e il cinema underground” (Taiuti 1996, p. 140). 4 “Il video interroga i suoi oggetti, ne trae un significato che ricompone nell’insieme delle sue parti. E come tutti gli oggetti di bricolage, il risultato è sempre qualcosa di diverso dai materiali che lo compongono” (Sibilla 1999, p. 21). 5 “Il successo di questi formati dipende dall’intensità evocativa di cui sono capaci, dunque dal modo in cui toccano la sensibilità, scavalcando ogni altra preliminare piattaforma espressiva tradizionale” (Abruzzese 2001, p. 115). 6 Del resto, come osserva anche Paolo Fabbri nel corso dell’intervista sul tema “Un corpo da terzo millennio” rilasciata a Rai Educational, ciò

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che rende assolutamente unico un concerto dal vivo è proprio la presenza di un ritmo collettivo, la cui efficacia consiste nel produrre una simultaneità di sentimenti grazie alla quale ci ritroviamo a provare le sensazioni che vengono vissute dalle persone che ci circondano.

Capitolo terzo Ritmi visivi, ritmi sonori, ritmi audiovisivi

Suono e immagine, una saldatura inevitabile Il ruolo del suono nella costruzione del montaggio audiovisivo è stato oggetto di dibattito sin dall’introduzione del sonoro nel cinema muto verso la fine degli anni Venti. In questo primo periodo, in cui sono particolarmente diffusi i paragoni tra cinema e musica, viene coniata l’espressione contrappunto audiovisivo per designare “la formula ideale in abstracto di cinema sonoro in cui i suoni e le immagini appartengono a due catene parallele e liberamente collegabili, senza alcun genere di dipendenza unilaterale” (Chion 1990, p. 37). Nella terminologia della musica classica occidentale il termine contrappunto indica un tipo di scrittura che impone a differenti voci simultanee di essere eseguite ciascuna in uno svolgimento orizzontale, coordinato con l’esecuzione delle altre, ma al tempo stesso autonomo. Una forma di scrittura radicalmente differente è invece l’armonia in cui prevale una relazione che privilegia i rapporti verticali tra le note e le voci in funzione della realizzazione degli accordi. L’utilizzo del termine contrappunto in ambito cinematografico è estremamente controverso. Mentre in musica questo tipo di relazione interviene a regolare i rapporti tra elementi che condividono un’unica sostanza dell’espressione (sonora), nel film i suoni e le immagini sono caratterizzati da materialità del tutto differenti. Un presunto contrappunto audiovisivo implicherebbe la presenza di una sorta di “voce sonora”, percepita orizzontalmente come

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coordinata alla colonna video, ma al tempo stessa del tutto distinta. Il cinema tuttavia, tende a escludere la possibilità di un simile funzionamento orizzontale e contrappuntistico, privilegiando decisamente i rapporti armonici e verticali tra i suoni e le immagini. In ambito cinematografico la nozione stessa di colonna audio si rivela problematica. Infatti, se da un punto di vista strettamente tecnico è possibile isolare una pista sonora che attraversa il film interamente o in parte, è tuttavia impossibile ricondurre l’insieme dei suoni e dei rumori a una totalità unitaria. La nozione di colonna audio, così come viene utilizzata, è in realtà un puro e semplice calco meccanico dell’idea di colonna immagine, la quale invece esiste, poiché essa deve il proprio essere e la propria unità alla presenza di un quadro, di un luogo di immagini investito dallo spettatore (p. 40).

L’ordine sequenziale dei suoni in un film non è una condizione sufficiente per dimostrare che esiste un complesso sonoro, un insieme chiuso, dotato di una qualche forma di coesione e quindi potenzialmente confrontabile con la colonna delle immagini. Piuttosto, ogni elemento sonoro (suoni/rumori) allaccia con gli elementi narrativi contenuti nell’immagine (personaggi/azioni) e con gli elementi visivi compositivi e scenografici, dei rapporti verticali simultanei più immediati, forti e significativi di quelli che questo stesso elemento sonoro può allacciare parallelamente con gli altri suoni che lo precedono o lo seguono nel flusso musicale. L’esempio del suono fuori campo può aiutare a chiarire ulteriormente questo passaggio teorico. In un film i suoni fuori campo sono quelli che intrattengono con la colonna video il rapporto più semplice e vincolante, l’esclusione visiva della sorgente sonora è infatti la condizione sufficiente a separare questi suoni da tutti gli altri, a farli emergere dal continuum della pista audio. Eliminando l’immagine, tuttavia, diviene immediatamente evidente che nulla distingue

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questo tipo di suoni da tutti gli altri, “la struttura globale crolla, e i suoni, insieme, ne ricostruiscono una del tutto nuova” (ib.). Le forme di testualità audiovisiva dunque non sono caratterizzate dalla presenza separata di una colonna immagini e di una colonna audio, piuttosto si configurano come lo spazio della loro reciproca fusione, un luogo di immagini e di suoni. Le ragioni di questo legame così vincolante devono essere ricercate nell’operazione del montaggio. Per quanto riguarda le immagini, è il montaggio che ha reso possibile la creazione di un’unità specifica del linguaggio cinematografico, il piano. Sia che lo si consideri come un’unità narrativa fortemente strutturata (Chion 1990), o esclusivamente come una porzione di pellicola impressionata dalla macchina da presa tra l’inizio e la fine di una ripresa (Vanoye, Lété 1992), il piano presenta il vantaggio innegabile di essere un’unità neutra, oggettivamente individuabile. Al contrario, per quanto riguarda la componente audio, il montaggio sonoro non ha prodotto alcun tipo di unità specifica. In un film l’ascolto della successione dei suoni non permette infatti di isolare alcun genere di unità, soprattutto perché le giunte tra i singoli suoni non sono affatto evidenti, come invece avviene per gli stacchi che separano le inquadrature in una sequenza di montaggio. Ciò non significa che la componente sonora di un film costituisca per il suo ascoltatore un flusso del tutto privo di cesure; è infatti possibile individuare delle unità, come frammenti di dialogo, rumori, melodie, cellule ritmiche, ma la percezione della loro presenza dipende essenzialmente dalle caratteristiche peculiari dei suoni, dal grado di competenza musicale e dal livello di attenzione. Se si tratta di rumori, realizziamo un découpage percettivo scomponendoli in eventi sonori, il che risulta più facile se si tratta di suoni isolati. In una musica isoliamo delle melodie, dei temi e delle cellule ritmiche, secondo il grado della nostra cultura musicale. In breve, ci comportiamo come sempre, e

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abbiamo a che fare con unità che non sono specificamente cinematografiche, e dipendono completamente dal tipo di suono e dal livello di ascolto prescelto (Chion 1990, p. 44).

Il film non è concepibile dunque come il luogo della libera associazione di due diverse sostanze dell’espressione che rinviano a sistemi di segni paralleli e autonomi, ma esclusivamente come il prodotto del loro sincretismo, lo spazio in cui agiscono combinazioni audiovisive. Il montaggio audiovisivo Le “origini” del montaggio si trovano nella composizione plastica. Il “futuro” del montaggio sta nella composizione musicale (Ejzensˇtejn 1963-70, p. 6.).

Ciò che rende i videoclip delle forme originali di testualità audiovisiva non è unicamente la capacità di condensare in uno spazio breve un gran numero di inquadrature, complessi movimenti di macchina ed elaborati effetti speciali, ma anche l’attitudine a esplorare le potenzialità del sincretismo audiovisivo per spingersi al limite della soglia che separa una narratività forte dall’assemblaggio del tutto arbitrario di suoni e immagini. In questo senso il montaggio non si riduce semplicemente a un’operazione tecnica necessaria a “chiudere il testo” o a mettere in forma in modo virtuosistico suoni e immagini, piuttosto costituisce il luogo stesso della realizzazione del senso, lo spazio in cui gli elementi appartenenti a linguaggi diversi (scritto, visivo, musicale) confluiscono in combinazioni audiovisive che sfruttano i meccanismi sinestesici per stimolare nello spettatore una reazione di tipo passionale. Se la pratica del montaggio costituisce “l’arma segreta” dei videoclip, lo strumento privilegiato che ne assicura l’ef-

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ficacia, per comprenderne il funzionamento e individuarne i dispositivi è necessario innanzitutto risalire all’origine della riflessione sull’unione di suoni e immagini, all’autore che più di ogni altro ha teorizzato le potenzialità espressive del montaggio audiovisivo, Sergej M. Ejzensˇtejn. Come si tenterà di dimostrare in questo capitolo, le considerazioni avanzate da Ejzensˇ tejn sulle forme della correlazione audiovisiva si rivelano infatti straordinariamente attuali e decisamente utili per affrontare il tema complesso dell’efficacia ritmica dei videoclip. Nel 1937 il cineasta russo dedica al montaggio un’opera fondamentale, la Teoria generale del montaggio. In questo lavoro egli propone di distinguere innanzitutto tra rappresentazione (izobrazenie) e immagine (obraz). Nella riflessione di Ejzensˇtejn il primo concetto esprime l’ordine delle cose percepito nella sua semplice “datità” (ci sono cose nel mondo che possono essere rappresentate tramite le parole, le fotografie o le immagini in movimento), il secondo, l’immagine, rinvia alla decostruzione di quest’ordine preesistente e alla sua riconfigurazione significante. Mentre la rappresentazione costituirebbe un atto semplicemente riproduttivo, l’immagine, configurandosi come un procedimento di smontaggio e rimontaggio dei dati reali, si caricherebbe di virtù espressive o interpretative. Nella riflessione di Ejzensˇtejn tuttavia, il termine immagine non rinvia esclusivamente all’insieme di procedure utili a intervenire sul dato reale per manipolarne l’ordine costitutivo, piuttosto esso esprime “l’orizzonte istitutivo della sensatezza in generale” (Montani 1999, p. 20). L’immagine infatti mira a ricondurre il soggetto fino alle radici profonde, alle precondizioni stesse di quell’attività originaria che rende possibile la comparsa del senso. Se con questa attività originaria, in altri termini, noi stiamo rispondendo a un incontro che ci ha già presi, l’immagine mira a mostrare, al tempo stesso, questo esser-presi e questa risposta: immaginare è dunque un’attività che si riconosce in debito con un aver patito, con una passività, con un pathos (p. 20).

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Tra rappresentazione e immagine non esiste uno scarto temporale, non è possibile, in altri termini, isolare una riproducibilità originaria, pura, soggetta in un secondo momento a un insieme di operazioni che ne rendono possibile una riconfigurazione assoluta. La stessa rappresentazione del mondo reale è già sempre un’attività istitutiva cui non è possibile contrapporre nessun genere di materia grezza, nessun elemento amorfo successivamente plasmabile. Ciò che si offre alla rappresentazione del soggetto, pur risultando da un’istituzione originaria, costituisce dunque sin dall’inizio la premessa della realizzazione di un senso. Poiché tuttavia questa attività di costituzione del reale sfugge a una percezione piena, consapevole, cessando di essere avvertita nella sua processualità, emerge per il soggetto la necessità di riafferrarne il principio tramite un intervento creativo, l’immagine. Il testo estetico emerge dunque come il luogo di questo ritorno, lo spazio in cui diviene possibile esibire le potenzialità e i limiti di questa originaria formatività. È precisamente a partire dalla consapevolezza che il rapporto tra rappresentazione e immagine è di natura processuale che nella riflessione di Ejzensˇtejn emerge il ruolo fondante del montaggio. Se, infatti, l’immagine è un intervento espressivo che rivela la natura costitutivamente creativa della rappresentazione, allora lo scopo dell’arte cinematografica sarà innanzitutto quello di rendere percepibile questo processo immaginativo, dandogli un tempo e una forma. L’arte cinematografica, autentico territorio dell’immagine, non presenta mai risultati, ma sempre e solo processi. Proprio per questo, l’immagine richiede tempo e sviluppa tempo (p. 21).

Nella riflessione di Ejzensˇtejn il montaggio si configura dunque come l’insieme delle procedure necessarie a qualificare il tempo dell’immaginare. Significativamente egli distingue tre diversi modi del montaggio che rinviano ad altrettante manifestazioni della temporalità dell’immagine. Il primo tipo di montaggio è chiamato compositivo. Visibile compiutamente nelle arti figurative, esso trova realiz-

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zazione nel cinema nella composizione plastica delle singole inquadrature, dove ”il tempo si fa presente nel percorso che l’occhio dello spettatore è tenuto a effettuare, per apprensioni successive, lungo il profilo della composizione: è questo percorso a costituire, per sintesi finale, l’unità dell’immagine” (ib.). La seconda modalità è il montaggio sequenziale che rende percepibile la scansione delle sequenze marcando l’alternanza degli stacchi tra le inquadrature. Questo secondo tipo di montaggio sovrintende direttamente alla durata e alla distribuzione degli intervalli temporali, inscrivendo nel testo un’ossatura ritmica di base. Diversamente dal montaggio compositivo, il montaggio sequenziale è tipicamente cinematografico, il senso infatti non emerge dalla composizione delle singole inquadrature ma si dispiega a partire dal ritmo della loro alternanza. Con il montaggio sequenziale il tempo si impone all’attenzione del soggetto come incoatività, come processo in piena fase di sviluppo, esso aspira a esibirsi come tempo configurante. La terza modalità è definita da Ejzensˇtejn montaggio audiovisivo ed è caratterizzata innanzitutto dalla presenza del sonoro. Questo terzo tipo di montaggio si differenzia profondamente dal montaggio compositivo e dal montaggio sequenziale non solo per la presenza materiale di una nuova sostanza dell’espressione, quanto piuttosto per le inedite possibilità espressive che scaturiscono dall’associazione tra elementi visivi ed elementi sonori. Come rileva Pietro Montani (pp. 23-24) con il montaggio audiovisivo la dimensione espressiva, l’intervento creativo, si spostano in uno “spazio-tempo intermedio che non dipende, come nel caso precedente, da un’alternanza (da un movimento sequenziale), bensì consiste (…) in una simultaneità internamente differita o ek-statica, in un gioco multiforme (perché occasionato da molti stimoli sensibili) di ritensioni e di protensioni”. Con la terza modalità di montaggio si apre dunque per il cinema la possibilità di spingersi oltre le forme consolidate della narrazione classica.

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L’arte comincia propriamente solo a partire dal momento in cui l’associazione tra il suono e la rappresentazione visiva non è più semplicemente registrata secondo il rapporto esistente in natura, ma è istituita secondo il rapporto richiesto dai compiti espressivi dell’opera. Nelle forme più rudimentali si tratterà della sottomissione di ambedue gli elementi allo stesso ritmo, rispondente al contenuto della scena. È questo il caso più semplice, più accessibile e più frequente di montaggio audiovisivo: in cui i pezzi della rappresentazione visiva vengono tagliati e montati secondo il ritmo della musica che scorre parallelamente sulla colonna sonora. (…) A partire da questo caso più elementare – la semplice coincidenza “metrica” degli accenti nella “scansione” – è possibile ottenere un gran numero di combinazioni sincopate e un “contrappunto” puramente ritmico che consiste nel gioco calcolato della non coincidenza degli accenti, delle lunghezze, delle frequenze, delle ripetizioni ecc. (Ejzensˇtejn 1986, pp. 157-158).

Ne Il montaggio verticale (1986, p. 132) Ejzensˇtejn approfondisce ulteriormente la riflessione relativa alle innovazioni espressive rese possibili dall’introduzione del sonoro. Pur sostenendo che tra la concezione di un montaggio puramente visivo e quella di un montaggio che relaziona elementi di aree diverse – in particolare l’immagine visiva e l’immagine sonora – non ci sono differenze di fondo sulla linea della creazione di un’immagine audiovisiva unitaria e coerente, il cineasta russo insiste sulla necessità di ripensare in termini nuovi la correlazione tra elementi visivi ed elementi sonori. Per chiarire la nuova concezione di montaggio, in cui prevale una correlazione di tipo verticale tra suoni e immagini, Ejzensˇtejn ricorre non a caso a un esempio tratto dall’ambito musicale: a tutti è familiare l’aspetto esteriore di una partitura d’orchestra: una certa quantità di pentagrammi in ciascuno dei quali è scritta la parte di un determinato strumento. Ogni parte si sviluppa con un movimento progressivo in orizzontale. Ma la connessione verticale è un fattore non meno importante e decisivo: la correlazione musicale dei diversi elementi dell’orchestra in ogni unità di tempo. Così con il movimento

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progressivo della verticale che coinvolge tutta l’orchestra e avanza orizzontalmente, si realizza il complesso e armonico movimento musicale dell’intera orchestra. Se ora passiamo dall’immagine di una partitura musicale a quella di una partitura audiovisiva, osserveremo che in questo nuovo stadio è come se alla partitura musicale si aggiungesse un ulteriore pentagramma: quello delle inquadrature che procedono l’una dopo l’altra conformandosi plasticamente al movimento della musica e viceversa (ib.).

Nel montaggio audiovisivo il rapporto tra suoni e immagini non privilegia la dimensione della sequenzialità, in altri termini non consiste in una semplice successione orizzontale secondo una logica del contrappunto, quanto piuttosto nella simultanea sovrapposizione verticale di elementi appartenenti a due sistemi semiotici indipendenti1. Le risonanze audio-visive che scaturiscono da questa originale forma di sincretismo inscrivono nel testo delle complesse configurazioni ritmiche che valorizzano la dimensione estesica e passionale della significazione, aprendo a un’esperienza piena della fruizione. koiné aisthesis, unità del “sentire”, unità nelle differenze del sentire. Ecco con cosa intende lavorare la terza modalità del montaggio: non solo con un “io vedo” e un “io ascolto”, ma, dice Ejzensˇtejn (1986, p. 59), con un “io sento”, con l’unità ek-statica o “differente” (perché ottica, acustica, tattile…) di questo sentire (Montani 1999, p. 24).

Questa spinta a riformulare i canoni tradizionali del racconto, l’attitudine a “forzare” i confini dello spazio letterario, si estendono ben oltre i limiti del linguaggio cinematografico. La lezione di Ejzensˇtejn e delle avanguardie storiche nel corso di un secolo ha influenzato profondamente le diverse forme di testualità audiovisiva, innescando pratiche di sperimentazione videoartistica, delineando spazi di intervento del tutto inediti per il grande schermo, condizionando i tentativi successivi di restituire la forma e il ritmo della musica attraverso le immagini.

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In questa prospettiva le soluzioni ritmiche delle forme brevi contemporanee, in particolare nell’ambito dei videoclip, possono essere rilette a partire dalla nozione di montaggio audiovisivo. Il videoclip. Oltre l’associazione di suono e immagine Nei casi più interessanti la manipolazione delle sonorità, la decostruzione/riconfigurazione del materiale visivo si sottraggono spesso in maniera decisa a qualsiasi tentativo di ricomposizione narrativa da parte dello spettatore. Nei videoclip il montaggio, ritornando sugli stessi motivi, e giocando ogni volta su quattro o cinque temi visivi di base, (…) è, più che un modo per far avanzare l’azione, un modo per far girare le facce del prisma, e per creare così, tramite la rapida successione dei piani, una sensazione di polifonia visiva e persino di simultaneità (Chion 1990, p. 140).

Il suono non si riduce a un semplice contrappunto delle immagini, piuttosto contribuisce in maniera esplicita alla sperimentazione di nuovi regimi della significazione, in cui la coincidenza marcata con le immagini costituisce solo uno dei momenti che compongono un gioco ritmico complesso fatto di scarti audio/visivi, corrispondenze mancate, fratture esibite. Il videoclip soprattutto procede per frammentazione: le riprese convergono, a volte collegandosi, altre volte respingendosi, senza che nessun tema o oggetto si impongano alla vista. Le inquadrature magari hanno un “contenuto” perché sono stati filmati luoghi, scene, persone, ma il modo in cui sono state raggruppate nella continuità della pellicola impedisce che si scopra in esse un punto di riferimento comune. (…) La dissolvenza per il videoclip non è la forma incerta in cui si opera un passaggio, ha una sua durata, le immagini che la compongono crescono ciascuna su se stessa, e anche nella relazione

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forzata imposta loro dalla simultaneità, si afferma quindi come un’immagine indipendente il cui fascino poggia sulla combinatoria che sviluppa (Sorlin 1997, pp. 235-236).

Un videoclip che esprime in modo esemplare queste potenzialità espressive del montaggio audiovisivo è senz’altro Drop del musicista giapponese Cornelius. Il video si apre con una combinazione audiovisiva decisamente insolita: alcune gocce cadono da un rubinetto, si infrangono sulla superficie del lavandino a un ritmo costante producendo un lieve rumore. Dopo alcuni secondi sullo sfondo ritmico prodotto da questo rumore persistente si insinua una sonorità elettronica estremamente dilatata. L’effetto di questa sovrapposizione tra musica e rumori rafforza ulteriormente la sensazione di una forte solidarietà audiovisiva. Nelle sequenze successive un bambino si avvicina al lavandino, apre definitivamente il rubinetto e inizia a lavarsi meticolosamente le mani. La sequenza dei gesti del bambino si ripete davanti a uno specchio, i suoni e le immagini sono perfettamente coincidenti, disegnano un flusso assolutamente lineare, compatto. Due microritmi distinti (visivo e musicale) si sovrappongono fino a fondersi in un’unica combinazione audiovisiva, sancita dal gesto simbolico del bambino che con l’indice della mano destra interrompe a intervalli regolari il flusso dell’acqua, simulando in modo esplicito una forma decisamente originale di metronomo.

Fig. 1. Cornelius, Drop.

Fig. 2. Cornelius, Drop.

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La durata delle immagini, la composizione delle inquadrature, il ritmo del montaggio inscrivono progressivamente nel video un andamento tensivo crescente. I gesti ripetitivi del piccolo protagonista sembrano rinviare non tanto all’esecuzione quasi meccanica di una banale attività quotidiana come la pulizia personale, quanto piuttosto a un preciso rituale che si annuncia drammatico. Il bambino ora immerge completamente il viso sott’acqua, il suo sguardo è assente, gli occhi sbarrati sono velati dal liquido che ormai ricopre il pavimento.

Fig. 3. Cornelius, Drop.

La musica si è fatta distante, durante gli interminabili secondi che trascorrono sott’acqua retrocede addirittura a elemento di sfondo, la sua percezione è filtrata dalla presenza del bambino, i suoni sono ovattati, il ritmo appena distinguibile. Finalmente il bambino rialza la testa, tossisce, solleva lo sguardo sullo specchio, mentre la musica interviene di nuovo a rivendicare con forza il suo ruolo, agganciandosi vigorosamente alle immagini. Questa breve ma intensa immersione nell’acqua ha prodotto una frattura nell’andamento lineare del testo, una trasformazione radicale che investe sia il piano della narrazione sia il livello più superficiale del videoclip, lo stile di regia. L’effetto di forte realismo inscritto nel video a partire dalle prime inquadrature viene completamente rovesciato, la tosse del bambino dà avvio a una sequenza in cui viene figurativizzato un vero e proprio stato di allucinazione. Immagini irregolari, mosse, sfocate, manipolano il corpo del bambino e l’ambiente circostante.

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Fig. 4. Cornelius, Drop.

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Fig. 5. Cornelius, Drop.

Gli effetti di distorsione alterano linee, figure, colori, compromettono la coerenza e la leggibilità del mondo reale aprendo contemporaneamente un varco in una dimensione “aliena”.

Fig. 6. Cornelius, Drop.

Lo specchio del bagno assolve pienamente la sua funzione di dipositivo autoriflessivo, trasformandosi in una finestra che permette al bambino di proiettarsi in uno spazio aperto e incontaminato, un luogo onirico, un sogno a occhi aperti, a portata di chiunque e al tempo stesso distante.

Fig. 7. Cornelius, Drop.

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Una dimensione “invisibile”, effimera, pronta a svelarsi o a svanire come un’epifania improvvisa, come una banale scritta su una t-shirt, come una semplice decorazione che per un istante si fa segno, traccia di un’intenzione e di uno stato d’animo. “DREAM”. Nello spazio di poche inquadrature interno ed esterno si rovesciano costantemente l’uno nell’altro in un movimento irregolare dagli esiti assolutamente imprevedibili. Ecco allora che in un angolo del bagno compare per pochi istanti Cornelius, l’autore di Drop, figura-rinvio che, come accade spesso nei videoclip, non resiste alla tentazione di legittimarsi nei confronti del pubblico confondendo realtà e finzione, esasperando il meccanismo dei rimandi, delle simulazioni. Il rimedio all’allucinazione è a portata di mano. Il bambino afferra una piccola bottiglia verde e riversa lentamente alcune gocce negli occhi. Lo stato alterato della percezione scompare immediatamente.

Fig. 8. Cornelius, Drop.

Fig. 9. Cornelius, Drop.

Nel finale del video l’acqua è ancora protagonista. Un’inquadratura singolare colloca lo sguardo dello spettatore sul fondo del lavandino e permette di ammirare nel dettaglio i gesti del bambino che ora non si limita a interrompere con le dita il flusso dell’acqua ma interviene sulla sua superficie con movimenti ampi e controllati fino a tradurre il ritmo e la melodia della musica sotto forma di gocce, schizzi, increspature e piccole onde.

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Apparentemente Drop è solo uno tra i tanti video che giornalmente vanno in rotazione nei palinsesti delle emittenti musicali, tuttavia è evidente come in questo piccolo testo siano condensati numerosi elementi di interesse. L’utilizzo musicale dei rumori che rovescia significativamente la tradizionale distinzione tra musica diegetica ed extradiegetica, la costruzione di un ritmo audiovisivo composto di anticipazioni, conferme, scarti, che trasforma il racconto di un gesto quotidiano in una sequenza di azioni fortemente emozionali, la rielaborazione originale della soggettiva, una figura-cardine del linguaggio cinematografico, che viene impiegata inizialmente per esasperare il piano visivo, e in seguito per rilanciare strategicamente l’appeal melodico del brano musicale. In questo video il montaggio non è semplice esibizione tecnica, puro assemblaggio finalizzato a restituire uno stile alla sequenza di suoni-immagine, ma risponde a un’esigenza (promuovere un album) con una scommessa: pur di catturare l’attenzione dello spettatore esso non esita a relegare sullo sfondo, seppur temporaneamente, il suo elemento più significativo e prezioso, la musica. Figure del ritmo e strategie di montaggio Nei video musicali il sincretismo di suoni e immagini risponde a una logica che in parte si distingue da quella cinematografica. In questi micro-testi audiovisivi non c’è quasi mai una narrazione sostenuta dal dialogo e la musica costituisce una componente autonoma poiché è sempre preesistente rispetto alle immagini. Di conseguenza le sequenze visive sono parzialmente slegate dalla linearità imposta dal suono. Nei videoclip le combinazioni tra suoni e immagini non sono il prodotto di una semplice giustapposizione di sostanze dell’espressione differenti, ma l’effetto di una sincresi, termine che esprime la riunificazione di due movimenti diversi, il sincronismo e la sintesi. La sincresi

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è la saldatura inevitabile e spontanea che si realizza tra un fenomeno sonoro e un fenomeno visivo puntuale quando questi accadono contemporaneamente, indipendentemente da ogni logica di tipo razionale (Chion 1990).

La sincresi non è un processo del tutto automatico: dipende infatti dal senso complessivo di un testo, e si organizza secondo leggi gestaltiche. Per far emergere con chiarezza il processo della sincresi è sufficiente accostare in modo del tutto casuale elementi visivi ed elementi sonori, in alcuni punti i suoni e le immagini daranno vita a combinazioni audiovisive estremamente efficaci, in altri punti resteranno del tutto separati, inconciliabili. La sequenza si “fraseggia” da sola, in ragione di fenomeni di rinforzamento, di “buona forma” che non obbediscono a una semplice legge. Talvolta questa logica è evidente: quando si tratta di un suono più potente degli altri, esso si coagula con l’immagine che gli è sincrona più degli altri che lo precedono o lo seguono. Questo può essere un fenomeno di senso o di ritmo (ib.).

In una sequenza audiovisiva i punti in cui si realizza compiutamente l’unione tra elementi sonori ed elementi visivi sono definiti punti di sincronizzazione. Nei videoclip esiste un rapporto elementare tra colonna audio e colonna video che si riduce alla presenza puntuale ma estremamente efficace di punti di sincronizzazione in cui l’immagine interviene a “mimare” la produzione del suono. Al di fuori di questi momenti di coincidenza audiovisiva le immagini e i suoni rispondono a logiche di sviluppo indipendenti. Nei video il montaggio è fatto sulla musica. In un certo senso si può dire che la musica costituisca il punto di partenza e di arrivo di un video musicale. La sincresi, coordinando i tempi separati del suono e dell’immagine in funzione della riunificazione di sostanze dell’espressione diverse, costruisce la struttura ritmica del testo audiovisivo, contribuendo in maniera decisiva a orientarne la fruizione. Nelle forme brevi dell’audiovisivo i punti di sincronizzazione scandiscono i momenti di massima solidarietà tra suoni

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e immagini. Questi intervalli in cui il sincretismo audiovisivo esibisce tutte le proprie potenzialità espressive inscrivono nei testi dei punti di forza, suscitando nello spettatore una specifica disposizione percettiva in cui lo sguardo e la vista si influenzano reciprocamente e contribuiscono a trasformarsi. Nei videoclip un punto di sincronizzazione diffuso è costituito dai raccordi a stacco del suono e dell’immagine. In questi casi la sintesi audiovisiva si realizza come una doppia cesura sincrona. Un esempio rappresentativo di questo legame tra suoni e immagini è senz’altro quello dei video hip hop. In questo senso sono esemplari i lavori del regista Hype Williams (She’s a bitch, No scrubs) in cui il ritmo frenetico imposto alle immagini dai numerosi tagli di montaggio, si aggancia, rilanciandolo, al ritmo dei brani musicali e ai gesti sincopati dei performer. Tra le figure della sincronizzazione audio-visiva è possibile individuare innanzitutto quelle fondate su una manipolazione esibita della sostanza visiva, realizzate prevalentemente nella fase di postproduzione. Uno dei primi espedienti visivi utilizzato nei videoclip per marcare il ritmo del brano musicale è stato senz’altro l’alternanza tra il bianco e nero e il colore. In questo senso sono esemplari i video realizzati nella seconda metà degli anni Ottanta dal regista Derek Jarman per la band inglese degli Smiths. In particolare il video di How soon is now (1986) in cui le immagini colorate e fortemente astratte di alcuni frammenti di pellicola vengono utilizzate come efficaci inserti visivi per ribadire il ritmo della canzone scandito dalle percussioni. Un tipo di manipolazione dell’immagine molto frequente nella realizzazione della sincresi audiovisiva è lo sfocato.

Fig. 10. Nirvana, Heart Shaped Box.

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Si pensi al videoclip di Smells like teen spirit realizzato da Anton Corbjin per i Nirvana. Nel video viene messa in scena la performance del gruppo musicale all’interno di uno spazio estremamente ristretto e scarsamente illuminato. L’uso alternato di immagini nitide e sfocate contribuisce a restituire allo spettatore una sensazione di forte claustrofobia, ma soprattutto si rivela uno strumento straordinariamente efficace di valorizzazione del suono. Le sonorità estremamente dilatate dei Nirvana vengono infatti prese in carico e rilanciate dai continui passaggi tra le immagini perfettamente a fuoco degli ambienti e i dettagli sfocati del leader Kurt Cobain.

Fig. 11. Nirvana, Heart Shaped Box.

Nei videoclip l’uso dello sfocato si combina spesso con un altro tipo di manipolazione della sostanza visiva che consiste nell’intervenire direttamente sulla grana delle immagini alternando l’alta definizione alla bassa definizione. Questo espediente diviene marca stilistica nei lavori realizzati da Floria Sigismondi, regista italo-canadese particolarmente sensibile alla sperimentazione tecnica ed espressiva sui regimi di visibilità.

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In Beautiful People, videoclip realizzato per Marylin Manson nel 1997, il ritmo veloce della canzone e le sonorità sporche si saldano sul piano visivo a brevi sequenze caratterizzate dalla rapida alternanza tra immagini nitide e sgranate.

Fig. 12. Tricky, You make me wanna die.

Nel video di You make me wanna die realizzato dalla regista per Tricky nello stesso anno, i suoni si sviluppano in modo uniforme e continuo scandendo in modo regolare il ritmo musicale. Sul piano visivo l’agganciamento con la musica si realizza tramite un movimento estremamente fluido di parziale defigurativizzazione: in sincrono con l’evoluzione regolare del flusso sonoro le immagini degli ambienti e del musicista vengono infatti private progressivamente di tutti i dettagli fino a esibire un livello prefigurativo in cui dominano linee confuse e macchie sfumate di colore. Un intervento estremo di manipolazione visiva è il morphing, una figura molto usata nei video musicali che permette di “tradurre” in maniera efficace sul piano visivo la definizione del suono e la sua durata. Nel pluripremiato video di Black Hole Sun realizzato da Howard Greenhalgh nel 1994 per i Soundgarden, i dettagli anatomici dei protagonisti vengono totalmente sfigurati in corrispondenza di suoni prolungati, regolari e ricchi di frequenze acute contribuendo in questo modo a drammatizzare fortemente l’ascolto del brano musicale. Il repertorio di queste forme della sincronizzazione audiovisiva è estremamente vasto. Se le figure appena esaminate contribuiscono alla costruzione del ritmo agendo direttamente sulla qualità materiale delle immagini (grana, il-

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luminazione, definizione), esiste tutta una serie di interventi che mirano a saldare i suoni e le immagini lavorando principalmente sulla riconfigurazione del tempo visivo. Tra questi gli effetti di velocizzazione e ralenti che intervengono direttamente sulla dimensione ritmica del brano musicale. Un caso esemplare è il video di Ray of light realizzato da Jonas Akerlund nel 1998, in cui le immagini accelerate degli spazi metropolitani vengono utilizzate come “sfondo ritmico” per accompagnare la performance coreografica di Madonna. Un uso strategico della decelerazione caratterizza invece il video di It’s oh so quiet realizzato da Spike Jonze per Bjork nel 1995. Il video sfrutta in maniera assolutamente originale la melodia del brano musicale mettendo in scena un vero e proprio micro-musical in cui il ralenti interviene a marcare su un piano visivo le pause ritmiche della canzone. Due interventi ampiamenti utilizzati nella costruzione del ritmo audiovisivo sono il congelamento dell’immagine (freeze frame), puntuale intervento di sincronizzazione che consiste nel bloccare temporaneamente il movimento della macchina da presa o degli elementi profilmici per marcare una pausa significativa nel flusso sonoro, e il frazionamento dello schermo in riquadri (split screen) che permette di modulare in modo flessibile i tempi di ingresso delle immagini sui suoni. Una figura emblematica del ritmo audiovisivo è il loop. La ripetizione della stessa sequenza di immagini è un espediente molto frequente soprattutto nei video realizzati per la musica dance in cui le ritmiche generate dagli strumenti elettronici (sequencer e drum machine) sono caratterizzate dalla ricorsività ossessiva di poche battute. Nella costruzione del ritmo audiovisivo infine svolgono un ruolo fondamentale le figure di avvicinamento, come gli stacchi sull’asse e gli zoom. Il ritmo del video di Don’t tell me (2000), realizzato da J. B. Mondino per Madonna, ad esempio, è costruito proprio sull’uso combinato di zoom e stacchi sull’asse che marcano in modo estremamente rigido le linee evolutive della musica.

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Fig. 13. Beck, Mixed Bizness.

Nello stesso anno anche il regista Stephan Sednaoui ha utilizzato in modo simile queste due figure della sincronizzazione in Mixed Bizness, di Beck. Nel video l’alternanza costante tra zoom in e zoom out viene impiegata per tradurre sul piano visivo l’andamento sincopato della canzone, un brano funky in cui prevalgono ritmi irregolari e scarti melodici. Il ritmo contagioso delle forme brevi Il ritmo dei video musicali non è semplicemente il risultato di una coincidenza audiovisiva marcata, ma dipende in gran parte dal grado di prevedibilità dei punti di contatto tra elementi visivi e sonori. Da un punto di vista orizzontale in una sequenza audiovisiva i suoni e le immagini non appaiono come elementi semplicemente allineati, distribuiti nel testo in modo tale da inscrivere al suo interno un andamento ritmico lineare e uniforme. Piuttosto, essi hanno delle tendenze, seguono leggi di evoluzione fatte di ripetizioni e scarti, che mirano a coinvolgere lo spettatore suscitando un senso di attesa e speranza, di saturazione da spezzare o di vuoto da riempire. I punti di sincronizzazione stimolano lo spettatore a individuare consapevolmente o inconsciamente delle linee di sviluppo e a verificare in seguito se questa evoluzione innescata si realizza come previsto2.

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Per il soggetto sentire il tempo non significa semplicemente ricondurre mentalmente i singoli elementi a una forma compiuta, ricomporre gli istanti in una durata. La sensazione del ritmo, la percezione della sua articolazione è innanzitutto un’esperienza timica, passionale. Come afferma Jacques Geninasca (1992, p. 14) nei suoi studi dedicati all’analisi morfologica dei discorsi estetici “nell’esperienza stessa del ritmo il sentimento del tempo non si riduce alla semplice coscienza di un succedersi cronologico degli istanti ma si confonde con l’esperienza di una pienezza esistenziale”. Il ritmo, da un punto di vista teorico, si presenta dunque come “un sintagma organizzato di stati tensivi: attesa, distensione per l’attesa soddisfatta, sorpresa e disorientamento per un’attesa delusa, scoperta infine ed inversione euforica delle tensioni accumulate nella fase inventiva dello smarrimento” (ib.). In tutte le forme testuali la successione di termini discreti (lessemi, figure, note musicali) a intervalli regolari è sufficiente a stabilire tra questi una relazione di dipendenza orientata. Questa ripetizione istituisce una norma testuale che dispone il fruitore in uno stato iniziale di attesa. Ogni infrazione nei confronti di questa norma provoca sorpresa, suscita nel soggetto una delusione, non tanto per l’oggetto atteso che non si è manifestato, quanto piuttosto per l’errore nella previsione. La sorpresa generata da un’aspettativa fallita viene vissuta in modo fortemente disforico, le sensazioni prevalenti sono il disagio e lo smarrimento, poiché “il mondo, il testo, quando non si conforma al contenuto dell’attesa, appare privo di coerenza e comunque non intelligibile” (p. 16). Questo stadio intermedio costringe il soggetto a tornare sul testo, a insistere nella ricerca di un nuovo ordine, di una logica di sviluppo regolare cui ricondurre i singoli elementi. La scoperta di una coerenza che per definizione si distingue dall’ordine ricercato inizialmente sfocia infine in un sentimento euforico. Per effetto di questa intelligibilità

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riconquistata il soggetto riconfigura profondamente anche il suo rapporto con il tempo, “al senso di sgomento di chi è travolto dallo sgranarsi insignificante dei momenti succede quello di un tempo vivo e pieno per il senso di partecipazione all’ordine intelligibile che organizza il divenire” (ib.). Geninasca definisce questo modello generale di organizzazione discorsiva sintagma seriale, proponendo di estenderne l’applicazione a “ogni enunciato compiuto e completo che abbia la forma di una serie finita di termini, qualsiasi sia la sua natura linguistica e la sua dimensione”. Il sintagma seriale si presta a letture simultanee di natura diversa definite prensioni (saisie). Nella riflessione di Geninasca il termine prensione rinvia al modo con cui il soggetto esperisce il mondo e i testi (che del mondo costituiscono una parte integrante). Le prensioni, pur disponendosi su un continuum graduato, possono essere ricondotte a tre forme distinte. La prensione molare definisce un sapere di tipo associativo sociolettale o idiolettale. Questa prima forma di conoscenza permette al soggetto di individuare figure, configurazioni e percorsi figurativi di una semiotica del mondo naturale, così come concetti e insiemi concettuali. La prensione semantica deriva dalla comprensione della struttura semantica profonda dei testi. La prensione ritmica o impressiva infine esprime un modo del senso che si rivela compiutamente nell’esperienza di fruizione dei testi estetici. La prensione ritmica rinvia infatti a un rapporto pre-logico tra testo e soggetto in cui prevale il coinvolgimento sinestesico, in cui si colgono il rapporto sensibile, gli effetti passionali, il valore vissuto che il testo produce nel soggetto. La nozione di sintagma seriale e la riflessione articolata sulle dinamiche di costruzione del ritmo audiovisivo, in particolare la descrizione dei modelli di agganciamento tra suoni e immagini, si rivelano estremamente utili per affrontare la questione dell’efficacia ritmica dei video musicali. Uno degli espedienti maggiormente utilizzati nei video per suscitare quel senso di attesa che è indispensabile per

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far presa ritmicamente sul soggetto è l’anticipazione controllata dei punti di sincronizzazione. Così come in una canzone le prime note sono fondamentali per suscitare l’interesse dell’ascoltatore, in un video le combinazioni audiovisive iniziali ne condizionano fortemente l’efficacia. Non è un caso che l’attacco audiovisivo di queste forme brevi si imponga spesso all’attenzione dello spettatore esibendo una corrispondenza marcata tra suoni e immagini. Si pensi all’attacco del video di Drop analizzato in precedenza, in cui l’immagine in dettaglio delle gocce e le sonorità regolari del brano musicale si riunificano sin dall’inizio in un’unica combinazione audiovisiva, inscrivendo all’interno del testo un punto di sincronizzazione che dà avvio al ritmo dell’intero videoclip, ne organizza l’evoluzione, momento incoativo che anticipa e prefigura un vero e proprio arco tensivo. Viorar vel til loftárása, videoclip recente della band islandese dei Sigur Ross, è uno straordinario esempio di solidarietà audiovisiva. Nel video viene messo in scena l’amore omosessuale tra due adolescenti in un paese di provincia tramite l’esibizione di un’originale sincresi audio-visiva. Sin dalle prime inquadrature il video anticipa la propria strategia di sincronizzazione, su un tappeto sonoro rarefatto, in cui le sonorità del pianoforte e degli archi delineano un ritmo estremamente lento, si inseriscono in sincrono delle immagini fortemente rallentate: un ragazzo gioca con due bambole, il suo sguardo è rapito dai giocattoli che stringe al petto, alle sue spalle un secondo adolescente lo osserva incuriosito. La sintesi tra la decelerazione delle immagini e il ritmo cadenzato del brano musicale drammatizza fortemente la prima sequenza del video, rendendone estremamente coinvolgente l’attacco. Questo sincronismo stretto tra musica e immagini viene ulteriormente rafforzato nel resto del video, in cui i risvolti drammatici della storia d’amore vengono narrati con una lentezza volutamente esasperante. Vio-

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rar vel til loftárása rappresenta in modo esemplare la vitalità espressiva della forma breve-videoclip. In assoluta controtendenza rispetto alle tradizionali forme di costruzione del ritmo audiovisivo, questo video dei Sigur Ross privilegia il ralenti all’accelerazione, le lunghe pause alle rapide sequenze di montaggio. In questo caso l’anticipazione controllata di punti di sincronizzazione stimola sin dall’inizio il soggetto a prevedere delle linee evolutive, ad anticipare i movimenti reciproci di suoni e immagini, precorrendo le cadenze di una sincresi marcata, apparentemente inevitabile. Nell’ambito della produzione videomusicale Viorar vel til loftárása appare tuttavia come un caso isolato. Infatti, così come nella musica occidentale esistono le cadenze evitate (cadenze che inizialmente vengono anticipate tramite l’inflessione melodica e la progressione armonica, e poi improvvisamente evitate), nelle forme brevi dell’audiovisivo è molto frequente l’utilizzo di punti di sincronizzazione evitati, combinazioni tra suoni e immagini che si sottraggono in maniera del tutto imprevedibile a una coincidenza piena. La mancata sincresi tra elementi sonori e visivi si rivela spesso efficace tanto quanto una completa riunificazione, poiché, intervenendo come uno scarto inaspettato nel flusso audiovisivo, modifica talvolta in maniera drastica il ritmo della sequenza, sorprendendo lo spettatore e mantenendone alto il livello di attenzione. La desincronizzazione non si produce a partire da uno scollamento radicale di suoni e immagini; in altri termini, non ha origine da un montaggio video che “cade nel vuoto” ma è un effetto di senso che nasce dalla variazione improvvisa dei punti di contatto tra le inquadrature e le battute musicali. Ad esempio, se i tagli di montaggio si susseguono in corrispondenza del ritmo scandito da uno strumento come le percussioni, il cui suono si impone immediatamente all’attenzione dello spettatore, è sufficiente “staccare” le immagini su un suono differente o di sfondo, ritardando o anticipando l’aggancio audiovisivo, per produrre un effetto di desincronizzazione.

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Contrariamente a quanto si pensa, nei videoclip la desincronizzazione è una componente fondamentale della costruzione ritmica. La sua diffusione, del tutto trasversale rispetto alle tradizionali distinzioni dei generi musicali, deve essere messa in relazione con l’evoluzione delle dinamiche di consumo del medium televisivo. A questo proposito Chion sostiene che nei paesi in cui la televisione non ha diversificato la propria offerta in decine di canali attivi durante tutto l’arco della giornata, essa viene ancora percepita come un medium prevalentemente visivo, al contrario “laddove estende la propria programmazione a tutta la giornata e la propria presenza a diversi luoghi di lavoro e di abitazione, essa finisce inevitabilmente per assumere la propria natura radiofonica” (Chion 1990 p. 139). In particolare, alcune fasce di puro flusso videomusicale si possono seguire “distrattamente”, continuando a svolgere altre attività lavorative o ricreative, ma con la possibilità di gettarvi lo sguardo per cogliere qualche frammento audiovisivo. In ciò che viene chiamato clip, vale a dire qualsiasi cosa di visivo messo su una canzone, si trova certamente di tutto, di tutti i budget e di tutte le qualità, ma talvolta anche cose superbe per vita e invenzione, in cui l’energia del disegno animato si combina con la presenza concreta della ripresa. In esso si inventa o si ritrova tutto un arsenale di procedimenti (ib.).

In questa complessa retorica dell’immagine la desincronizzazione colpisce direttamente lo spettatore, lo costringe a tornare allo schermo, a ricongiungersi con un ritmo imprevedibile che gioca sulla rottura dell’abitudine. Proprio questo è il paradosso della televisione a immagine facoltativa (ib.): libera gli occhi. La televisione non è mai tanto visiva quanto in questi momenti di programmazione di clip, proprio nel momento in cui l’immagine va ad aggiungersi apertamente a una musica che bastava già a se stessa (p. 140).

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Tra i numerosi interventi che permettono di tradurre sul piano visivo il ritmo del brano musicale la soluzione che si avvicina maggiormente alla simultaneità polifonica dei suoni e della musica è senza dubbio la rapida successione delle immagini singole. Questo espediente di montaggio stimola infatti la memoria dello spettatore a funzionare come un “perfetto mixer che è in grado di miscelare, molto meglio di una macchina, impressioni visive concatenate le une alle altre nel tempo” (ib.). In questo, paradossalmente, il videoclip rivela una prossimità sorprendente con il cinema muto, è proprio nella misura in cui vi è una musica alla base, e non vi è narrazione sostenuta da un dialogo, che l’immagine è totalmente slegata dalla linearità imposta dal suono. Se i clip funzionano, è sicuramente perché c’è un rapporto elementare tra colonna audio e colonna immagine, e le due non sono del tutto indipendenti (ib.).

I videoclip, facendo leva “su immagini e suoni puntuali che non hanno, alla lettera, nulla a che vedere gli uni con gli altri, e che formano nella percezione degli agglomerati mostruosi, ma irresistibili e inevitabili” (p. 59), rivelano dunque un’efficacia sorprendente. Ciò che rende estremamente seducenti questi micro-testi è la capacità di tradurre in immagini il ritmo della musica, che per definizione è un’arte passionale, poiché in essa il trattamento della disposizione del tempo – che tanto ha a che fare con la passione – è del tutto cruciale. (…) la passionalità è l’immediata forma del contenuto che ha come forma di espressione il ritmo della musica (Fabbri 1998, p. 46).

In questo senso si rivela del tutto infondata l’idea secondo cui la musica non sarebbe un linguaggio poiché priva di un contenuto. La musica piuttosto deve essere considerata come un sistema ritmico, o meglio, come una

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“forma di organizzazione ritmica che ha come forma del contenuto certe determinate passioni, cioè i ritmi che sono costitutivi delle emozioni” (ib.). Nei video, diversamente da quanto accade nel cinema, è al lavoro una prassi ritmica che mira a suscitare l’interesse dello spettatore a prescindere dal suo coinvolgimento cognitivo, rivendicando piuttosto una reazione corporea immediata. In questo senso i videoclip si offrono a una prensione impressiva prima ancora che semantica, un’esperienza del senso che si realizza nell’esplorazione del proprio sentire, nelle risonanze passionali che agiscono sul corpo del soggetto sottoponendolo a tensioni e distensioni. I video sono complessi micro-testi in cui temi e figure vengono presi in carico e rilanciati da forme ritmiche complesse, risultato sorprendente di una pratica di montaggio in cui l’esplorazione delle potenzialità espressive del sincretismo audiovisivo prevale sulla costruzione di effetti di realtà. Queste forme brevi rivelano dunque una straordinaria capacità di manipolare il soggetto, agendo in particolare sulla sua sensomotricità (Fontanille 1999). Per effetto del montaggio verticale suoni e immagini danno vita a configurazioni plastiche talvolta estremamente complesse che agiscono sul soggetto, mettendo in moto il suo corpo, sollecitando la reazione della sua carne. I video non si limitano a suscitare attenzione, reclamano piuttosto un coinvolgimento immediato, una partecipazione attiva, che si realizza compiutamente nel gesto quotidiano, ma denso di significato, di tenere il ritmo con i piedi o di battere il tempo con piccoli movimenti delle mani o della testa. L’efficacia seduttiva di queste forme brevi è tutta qui, nella capacità di costringere il soggetto a prendere in carico sul proprio corpo un ritmo travolgente, nell’armonia disarmante con cui i battiti e le pulsioni del nostro sentire individuale si accordano a brevi sequenze di suoni-immagine.

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1 Bisogna inoltre tenere presente che per sincronia non intendiamo una necessaria consonanza. Per noi è del tutto lecito qualsiasi gioco di coincidenze e non-coincidenze del “movimento”, alla sola condizione che il nesso sia stabilito e motivato da un punto di vista compositivo (p. 139). 2 Spesso, evidentemente, è più interessante quando la tendenza innescata viene contrastata, talvolta quando tutto va come previsto, la dolcezza e la perfezione nella realizzazione dell’anticipazione bastano alla nostra emozione (Chion 1990, p. 44).

Capitolo quarto La star musicale. Sperimentazioni enunciative e costruzione dell’identità nei videoclip

L’enunciazione impersonale nei testi audiovisivi Una delle caratteristiche più interessanti dei video musicali consiste senza dubbio nella capacità di trasformare delle costrizioni esterne vincolanti (strategie di marketing delle case discografiche, esigenze commerciali delle emittenti televisive musicali, routine produttive delle figure professionali coinvolte nel processo di realizzazione) in stimoli a una pratica di sperimentazione stilistica. Partendo dall’ipotesi che il fine promozionale dei video musicali è vendere l’album sfruttando l’immagine del suo performer, si tratta di individuare le strategie della costruzione di questa identità, le forme con le quali l’esigenza commerciale si inscrive sotto forma di simulacro all’interno del testo. Come si è detto, una delle peculiarità espressive di questi micro-testi sincretici consiste nella costante sperimentazione di regimi della significazione in grado di valorizzare la dimensione corporea, estesica, in vista della costruzione/rielaborazione dell’identità della star. L’acquisizione di un’identità audiovisiva è il risultato di un’elaborata pratica dell’enunciazione che non è circoscritta esclusivamente al singolo videoclip, ma si dispiega nel tempo, talvolta nel complesso di un intero percorso artistico. Per aspirare a divenire una star, il cantante deve andare oltre la semplice esibizione di una performance, predisporsi a “subire” una serie di inter-

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venti di manipolazione che mirano a trasformare un’immagine pubblica in un’icona, un corpo patinato in un marchio discografico. Come si vedrà nel corso dei seguenti paragrafi, all’interno del videoclip i diversi interventi del corpo e sul corpo non sono semplici espedienti stilistici, ma figure dell’enunciazione audiovisiva. Prima di analizzare nel dettaglio le strategie che nei videoclip assicurano la valorizzazione della star a partire dalla risemantizzazione del suo corpo è necessario innanzitutto verificare in che modo i dispositivi dell’enunciazione contribuiscono all’efficacia complessiva del linguaggio audiovisivo. La narratologia e la semiotica, pur avendo ribadito a più riprese che le figure dell’enunciatore e dell’enunciatario non coincidono assolutamente con l’emittente e il destinatario del testo, per un lungo periodo non sono state in grado di concepire i due poli enunciativi se non facendo ricorso a figure antropomorfe, a istanze di incarnazione. È solo a partire dai primi anni Novanta, con la pubblicazione de L’enunciazione impersonale. O il luogo del film di Christian Metz, che si afferma progressivamente una proposta teorica differente. Parole come “enunciatore” ed “enunciatario”, con il loro suffisso, contengono connotazioni antropomorfiche difficili da evitare e assai infelici in alcuni campi, soprattutto in quello cinematografico in cui tutto è basato sulle macchine (Metz 1995, p. 8).

Partendo da queste premesse, Metz propone di ripensare in maniera radicale il problema dell’enunciazione nel cinema, rivolgendo in particolare la sua attenzione all’analisi delle forme che essa assume nel suo riflettersi all’interno dell’enunciato. In questa nuova prospettiva teorica, gli apparati tecnologici di produzione e distribuzione del testo filmico ri-

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vestono un ruolo di primo piano nell’atto enunciativo, e costringono a ripensare in termini assolutamente non antropomorfi le figure con cui l’enunciazione marca la sua presenza nell’enunciato. In altri termini l’enunciazione enunciata non emerge sotto forma di un repertorio di figure standardizzate che rinviano a una serie di scambi virtuali tra figure antropomorfe (IO, TU, LUI), quanto piuttosto facendo ricorso a complesse costruzioni riflessive. Nello studio delle tracce testuali dell’enunciazione, viene privilegiata dunque la dimensione impersonale dell’enunciazione cinematografica, il suo essere innanzitutto uno spazio testuale destinato all’iscrizione di un atto, luogo che solo in una seconda fase può essere occupato da figure antropomorfe. I due termini proposti dall’autore per definire le posizioni estreme dell’atto enunciativo sono infatti del tutto privi di connotazioni antropomorfe: foyer (fonte dell’enunciazione) e cible (bersaglio dell’enunciazione). Il film ci parla di se stesso, o del cinema, o della posizione dello spettatore, ed è allora che si manifesta quella sorta di sdoppiamento dell’enunciato che, in tutte le teorie, costituisce l’elemento essenziale in mancanza del quale non si potrebbe nemmeno pensare all’enunciazione (Metz 1991, p. 18).

L’enunciazione cinematografica non segnala la sua presenza facendo ricorso a segni isolati che, pur essendo parte integrante del testo, rinviano alla dimensione extratestuale della sua realizzazione o del suo consumo; la sua presenza e la sua forza emergono negli spazi testuali in cui il film non si limita a mettere in scena una situazione di finzione, ma si ripiega su se stesso, in un movimento autoriflessivo che lascia intravedere le tracce di un lavoro tecnico preesistente1. Ora, che cos’è, in fondo, l’enunciazione? (…) è più in generale la capacità di molti enunciati di piegarsi qua e là, di apparire qua e là come in rilievo, di desquamarsi di una loro

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sottile pellicola che reca incise alcune indicazioni di un’altra natura (o di un altro livello) concernenti la produzione e non il prodotto, o, se si vuole, inserite nel prodotto dall’estremo opposto (Metz 1991, pp. 18-19).

Nell’ambito delle forme di testualità audiovisiva non esiste un repertorio fisso di segni enunciativi, piuttosto l’apparato dell’enunciazione sembra in grado di utilizzare alternativamente qualsiasi segno per produrre delle costruzioni riflessive. Un esempio particolarmente noto è quello degli sguardi in camera, forme riflessive di appello che provocano un particolare effetto-specchio. In un testo audiovisivo lo sguardo in camera non è mai “innocente” perché introduce un rovesciamento, si impone all’attenzione dello spettatore svelando (seppur parzialmente) il dispositivo filmico. Come una marea montante nell’estuario di un fiume che si riversa in mare, come uno sguardo che lo specchio intercetta e mi rilancia, il fascio uscito dagli occhi del personaggio risale (e ferma a metà) il flusso più ordinario uscito dall’apperecchio di proiezione, e anche dagli occhi dello spettatore puntati sullo schermo: sospensione un po’ simile all’immobilizzazione precaria di una bilancia i cui piatti stanno sospesi a mezza altezza (p. 42).

Il carattere impersonale di questi ripiegamenti del film su se stesso esclude la presenza di qualsiasi forma di interazione tra presunte figure antropomorfe protagoniste dell’atto enunciativo. L’enunciatore non è un essere umano o un suo simulacro, ma il film, inteso come macchina, come insieme di apparati e pratiche finalizzati alla produzione del senso. L’unico “corpo” disponibile nel testo filmico è lo spazio del testo stesso, che non presenta alcuna caratteristica antropomorfa, non rinvia ad alcuna figura umana, poiché consiste unicamente in una fonte di immagini e suoni. L’enunciazione cinematografica non può che essere un’enunciazione sul film, non deittica ma metadiscorsiva, essa non reca

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indicazioni su qualche fuori-testo, ma esclusivamente su un testo che porta in sé la sua origine e la sua destinazione. L’enunciatore è il film, in film in quanto foyer, che agisce come tale, orientato come tale, il film come attività. Ed è proprio ciò che pensa la gente: ciò che lo spettatore ha di fronte, ciò con cui ha a che fare, è il film (…). Non essendo un IO, il foyer dell’enunciazione non costituisce davanti a sé un TU, e nemmeno un EGLI sullo schermo (p. 26).

Nel testo audiovisivo non esistono dunque immagini e suoni neutri. Tutti gli elementi, compresi quelli che non danno luogo a costruzioni riflessive chiaramente metadiscorsive, sono sempre il risultato di una scelta comunicativa, di un’attività intenzionale, di una pratica dell’enunciazione che può defilarsi all’interno dell’enunciato, ma non per questo è inesistente2. Nuove forme della metatestualità Con i videoclip la messa in scena dell’apparato enunciativo diviene estremamente raffinata. La riflessività del testo non si esaurisce nell’ostentazione di soluzioni canoniche (retroscena del dietro le quinte, attori che rinviano esplicitamente alla posizione “onnisciente” del regista, o assolvono la funzione di delegati dello spettatore) ma si fonda sull’esibizione esasperata di piccole pieghe, smagliature di superficie che lasciano intravedere le tracce di un lavoro tecnico preesistente, rivelano la presenza di un’articolazione linguistica, una “trama testuale”, che infrange i limiti tracciati dal linguaggio cinematografico. A partire dagli anni Ottanta e dall’inizio del regno delle nuove immagini, dei clips, delle pubblicità sconvolgenti, della TV rock, si è assistito all’instaurazione, al livello più basso, di un nuovo genere di parentela, una connivenza inedita tra una musica tonitruante con funzione di interpellazione manifesta e persino volgare, e il continente visivo

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rutilante, appiattito e frantumato. (…) È nato un nuovo cinema sonoro, convulso e impastato, che combina le seduzioni dell’isteria con quelle dell’obesità (p. 67).

L’esplosione di questa “isteria audiovisiva” sul piccolo schermo coincide dunque con l’esibizione esasperata di un incredibile apparato enunciativo. Gli effetti ottici, le inquadrature insolite, gli improvvisi scarti ritmici, gli esasperati movimenti della macchina da presa, i loop visivi/musicali, sono figure esemplari di un’enunciazione enunciata che mira non tanto a svelare al pubblico il dispositivo della finzione (assolutamente esplicito), quanto piuttosto a stupire, esibendo le potenzialità apparentemente inesauribili del linguaggio audiovisivo3.

Fig. 14. Bjork, Big Time Sensuality.

Il fine promozionale dei videoclip, l’esigenza di resistere il più a lungo possibile all’interno della programmazione televisiva, l’urgenza dei registi di sperimentare nuove forme espressive, ma soprattutto la necessità delle star musicali di rinnovare la propria identità massmediale senza tradire le aspettative di un pubblico consolidato, sono alcuni tra i fattori principali che hanno reso i video musicali le forme brevi maggiormente soggette a questo genere di sperimentazione. Sin dalle origini, nei video si è tentato di stabilire un contatto immediato, coinvolgente, tra star e pubblico, facendo ricorso a ogni genere di intervento extradiegetico, commentativo.

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Lo “svelamento del dispositivo” è una della figure enunciative chiave nella breve e intensa storia del videoclip. Già a partire dai primi anni Ottanta, sebbene un accurato lavoro di montaggio permettesse di rendere visivamente accattivante una banale performance musicale eseguita in studio, si afferma rapidamente la tendenza a fare un ampio uso di effetti speciali nel tentativo di valorizzare brani musicali e band. A causa di questa applicazione indiscriminata gli effetti più incredibili, diventavano banali con allarmante rapidità, specialmente se usati in continuazione da diversi registi. La frenetica corsa alla novità rendeva il susseguirsi dei video musicali simile a una parodia, una sorta di versione accelerata della storia dell’arte d’avanguardia. L’incessante perfezionamento delle risorse tecniche spingeva a sovraccaricare i video di effetti speciali, ricorrendo ad essi anche quando non avevano alcuna connessione col tema della canzone o con la musica (Walker 1987, p. 148).

Uno dei primi videoclip che esprime in modo esemplare questa tendenza a esasperare soluzioni visive ed effetti speciali è Hyperactive, realizzato da Thomas Dolby e Danny Kleinman nel 1984, in un periodo di forte sperimentazione del linguaggio audiovisivo. Nel video un personaggio posto di fronte a un’immagine in movimento l’afferrava e la strappava via come la pagina di un calendario, rivelando un’altra immagine sottostante che veniva poi strappata anch’essa. L’illusionismo, ovvero l’effetto realistico dell’immagine in movimento, veniva sovvertito dall’atto stesso di strappar via l’immagine, che equivaleva a dire: “Guarda, è solo un’immagine” (ib.).

Sin dall’inizio i videoclip si rivelano dunque come un laboratorio privilegiato per la sperimentazione di nuove figure della manipolazione audiovisiva.

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L’esibizione delle transizioni tramite iris, tendine, deformazioni, sfocature, inversioni, accelerazioni e ralenti, freeze-frame, sovrapposizioni, rinvia sempre a un regime della significazione extra-diegetico che può reclamare la sua presenza (e la sua funzione) nel testo secondo forme e gradi di intensità estremamente variabili. Come sottolinea efficacemente Metz (1972, p. 269) “mentre le immagini del film hanno degli oggetti come referenti, gli effetti ottici hanno come referenti, in un certo senso, le stesse immagini, o almeno quelle che sono a esse contigue nella catena”. Due figure esemplari di questo scambio particolarmente labile fra l’enunciazione e l’enunciato sono le stratificazioni video e lo split screen (divisione dello schermo in più quadri), tra le forme più frequenti che le costruzioni riflessive, sperimentate inizialmente nel cinema d’avanguardia e nelle performance di videoarte, assumono nei video musicali. Dalla moltiplicazione degli schermi in Bohemian Rapsody, alle sovrapposizioni cromatiche e figurative ottenute con il chromakey in Video Killed The Radio Stars dei Buggles e nei video dei Kraftwerk, fino alla divisione dello schermo come espediente per invertire la normale logica causale degli eventi in Sugar Water di Cibo Matto, questi procedimenti esplicitamente extradiegetici sono stati impiegati massicciamente a partire dagli anni Ottanta, segnando in maniera indelebile la produzione videomusicale delle origini. Tra le figure dell’enunciazione maggiormente sperimentate nei video ci sono senz’altro gli interventi di deformazione ottica che marcano con forza l’enunciato tramite l’angolatura eccentrica di un’inquadratura o elaborati effetti speciali in grado di rimodellare qualsiasi elemento profilmico4. Nel repertorio di queste rinnovate figure dell’enunciazione ci sono infine le didascalie extradiegetiche, commenti verbali che deviano in parte o totalmente dall’universo finzionale messo in scena, chiamando direttamente in causa lo spettatore5.

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Queste configurazioni riflessive possono reclamare con forza l’intervento attivo di un pubblico sempre più abituato a forme di consumo “discontinuiste” (Pezzini 2002), o piuttosto limitarsi ad assumere una posizione “neutra”, connotando stilisticamente le immagini. In questo senso, esiste tutto un repertorio di figure private quasi del tutto della capacità di commentare il dispositivo enunciativo, e ridotte a comuni elementi profilmici, componenti talvolta persino banali di allestimenti scenici. Tra queste, in particolare, gli schermi. La messa in scena di schermi cinematografici o televisivi può avere la funzione di marcare con forza l’artificialità della messa in scena, il dispositivo della finzione; tuttavia, come accade spesso nella produzione audiovisiva più recente, l’esibizione dello schermo non ha tanto la funzione di rinviare al testo stesso, di marcare il rapporto asimmetrico tra istanza dell’enunciazione ed enunciatario, quanto piuttosto si segnala come un espediente scenografico fortemente codificato, che garantisce al video un grado minimo di connotazione stilistica. Sul tema dell’autoreferenzialità Gianni Sibilla (1999, p. 43) afferma che il videoclip è conscio del proprio ruolo, della propria posizione nel contesto musicale ed audiovisivo e non perde occasione di esporre le proprie modalità comunicative. C’è un passaggio da una autoreferenzialità dei protagonisti ad una più decisa autoreferenzialità del mezzo, esibita tramite marche metalinguistiche. L’autoreferenzialità non è quindi giocata solo sulla costruzione del ruolo del performer, ma attraverso l’esplicitazione del mezzo. Con l’esibizione dei mezzi tecnici (telecamere, televisori, svelando il set) il clip non si nasconde dietro pretese di verosimiglianza, ma rende palese la sua opera di costruzione.

Questo slittamento verso l’autoreferenzialità va collocato su un doppio piano. Da un punto di vista musicale il videoclip ribadisce il proprio ruolo di forma breve promozionale indispensabile per costruire l’immagine di un artista, su un versante più strettamente audiovisivo la meta-

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testualità è soprattutto uno strumento per marcare la propria peculiarità nei confronti degli altri testi televisivi. Ma la causa principale di questa spinta all’autoreferenzialità, che indubbiamente costituisce una delle caratteristiche peculiari di queste forme brevi, va ricercata innanzitutto nella particolare forma di cooperazione testuale che i video tendono a instaurare con i loro spettatori. Diversamente da quanto accade nel cinema, nei video musicali non si cerca di ottenere l’adesione degli spettatori costruendo un mondo finzionale, coerente e verosimile, piuttosto si tende a marcare costantemente l’artificio della messa in scena per rafforzare il legame tra la star musicale e il pubblico. L’esibizione dell’apparato tecnico e il rinvio costante a linguaggi e generi differenti costituiscono dunque per i musicisti e per gli spettatori un “modo facile e rapido di indicare la loro accortezza rispetto a ciò che succede (…). Allestendo un ovvio scenario hollywoodiano i musicisti denotano il proprio distacco dall’immaginazione, la propria identità, che i fan possono scrutare in trasparenza” (Frith 1990, p. 255). Nella produzione internazionale più recente emerge chiaramente la tendenza a costruire video fortemente metatestuali, nei quali si offre allo spettatore la possibilità di osservare da vicino un luogo enunciativo fittizio, uno scenario più o meno extradiegetico in cui viene esibito il falso backstage del video e la figura patinata della star lascia intravedere le tracce di una soggettività “autentica”, quella del suo interprete6. La strategia testuale di questi video mira dichiaratamente a produrre un preciso effetto di senso, ridurre quella distanza tra star e pubblico che per la case discografiche costituisce un ostacolo alle vendite dell’album. Sincretismo e sinestesia. Dal corpo del performer all’identità della star Rock Dj, un video realizzato nel 2000 dal regista Vaughan Arnell per Robbie Williams esprime in modo esem-

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plare questa tendenza alla riflessività che caratterizza gran parte della produzione audiovisiva promozionale, in cui la narrazione, più che morire, sposta ad esempio il suo interesse e il suo accento da un contenuto narrato, da una storia “rappresentata” e messa a distanza, in questo senso oggettivata, alla valorizzazione del percorso o dello stesso ambiente percettivo, esperienziale, che può vivere o compiere un soggetto situato in un momento e in uno spazio dati, dove ambiente esterno e sentimento interno si toccano, e nel migliore dei casi si significano reciprocamente (Pezzini 2002, p. 25).

Nel video, la star musicale (Robbie Wiliams) si esibisce all’interno di un palcoscenico che ha la forma di una gabbia circolare, e tenta con la propria performance di catturare a tutti i costi l’attenzione di una dj situata in uno spazio rialzato del palco, e di un gruppo di giovani donne che inizialmente sembrano non accorgersi della sua presenza. Dopo una serie di tentativi falliti, il cantante-ballerino inizia a spogliarsi in modo provocatorio, ma la reazione del suo pubblico non cambia. La frustrazione della star raggiunge il culmine, la reazione è estrema e introduce uno scarto inaspettato nella strategia di messa in scena della performance musicale. Il protagonista, ormai quasi nudo, inizia a strapparsi frammenti di tessuto organico, su cui si avventano in modo irrefrenabile le ragazze. La gabbia, le cui forme rinviano in maniera esplicita agli allestimenti scenografici dei film epici, in particolare dei kolossal sui gladiatori, si rivela definitivamente come lo scenario di una messa in scena teatrale, estrema. Il video si chiude con le immagini della dj che scende dal suo spazio isolato e inizia a ballare con ciò che resta della star, un corpo totalmente sfigurato, desemantizzato, ridotto a pura sostanza organica da un processo estremo di defigurativizzazione.

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In questo video la metatestualità si segnala in maniera esplicita, richiamando l’attenzione dello spettatore sulla messa in scena fittizia di una performance musicale, reinterpretata in chiave assolutamente ironica. L’isotopia7 ricorrente è quella dello svelamento, della messa a nudo della star, il cui corpo costituisce per il fan oggetto di un desiderio morboso, insaziabile, in un gioco esasperato tra “vittima” e “carnefice” di cui il performer è non solo consapevole, ma in qualche modo artefice. Rock Dj rappresenta in modo efficace il percorso di sperimentazione sulla messa in scena del corpo del performer che ha segnato in modo assolutamente trasversale la produzione internazionale di video musicali.

Fig. 15. Rollins Band, Liar.

Il corpo messo in scena nei video non è un semplice organismo, piuttosto appare come un’istanza discorsiva malleabile, modulabile, oggetto di operazioni di manipolazione che si dispongono su un continuum di possibili interventi, i cui estremi sono da un lato l’esasperazione dei dettagli anatomici, dall’altro la completa defigurazione, l’esibizione di un livello pre-figurativo, in cui l’identità del soggetto viene fortemente compromessa8.

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Fig. 16. Marilyn Manson, Long hard road out of hell.

Nei videoclip i diversi modi della deformazione del corpo rinviano a una strategia enunciativa globale che punta innanzitutto a suscitare l’interesse del pubblico specializzato dei fan, per i quali ogni oggetto o dettaglio che riguarda il mito musicale si configura come luogo di iscrizione ed esercizio di una competenza e di una dedizione proverbiali9.

Fig. 17. Porno for pyros, Pets.

A questo scopo viene valorizzato non tanto l’effetto della deformazione quanto piuttosto la pratica, il dispiegarsi del processo, che spesso si inscrive nel testo assumendo la forma di una vera e propria interpellazione rivolta ai fan, stimolo a un percorso della visione ricco, reso seducente dalla moltiplicazione e differenziazione dei punti di vista, sia intradiegetici che extradiegetici, sul corpo del performer.

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I modi dello svelamento di quest’operazione di manipolazione rinviano chiaramente alla categoria dei trucchi filmici proposta da Metz ne La significazione nel cinema. Come è noto, Metz distingue i trucchi profilmici dai trucchi specificamente cinematografici, filmici. I primi sono il prodotto di qualche marchingegno preventivamente integrato allo svolgimento di un’azione o di oggetti posizionati davanti alla macchina da presa. I secondi, diversamente, prendono forma in una fase successiva, riguardano direttamente l’azione del filmare, non il filmato, la loro realizzazione può avvenire durante le riprese (trucchi di cinepresa) o in seguito, durante la post-produzione (trucchi sulla pellicola). Questa distinzione tra profilmico e cinematografico rende pertinente innanzitutto il versante della produzione del testo audiovisivo. Sul versante della fruizione è possibile introdurre una distinzione ulteriore tra trucchi impercettibili, invisibili e visibili. “Il trucco impercettibile è sempre compatibile con la convenzione, tipica della maggioranza dei film attuali, di un grado minimo di realismo medio, cioè col regime di ciò che viene definito il ‘film realistico’” (Metz 1972, p. 278), al contrario “i trucchi invisibili non si sa dove sono, non li si vede (mentre un ‘flou’ o una sovrimpressione si vedono) ma sono percettibili, perché si percepisce, si ‘sente’ la loro presenza” (ib.). I trucchi visibili infine manifestano chiaramente nei confronti dello spettatore l’artificio della loro realizzazione. A quest’ultima categoria appartengono tutti i segni di punteggiatura come le transizioni che regolano i passaggi tra le diverse inquadrature in una sequenza di montaggio (dissolvenze in apertura, in chiusura, incrociate). La nozione di trucco esprime dunque inevitabilmente una certa duplicità. Vi è in esso qualcosa che è sempre nascosto (poiché è un trucco solo fin tanto che la percezione dello spettatore è

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presa di sorpresa) e contemporaneamente qualcosa che si palesa sempre, poiché ciò che importa è che questa sorpresa di senso sia attribuita ai poteri del cinema (p. 279).

Tra i trucchi visibili ci sono senz’altro gli effetti ottici che non si limitano a restituire allo spettatore in modo “realistico” tutto ciò che appartiene alla categoria del profilmico, a documentare la presenza di figure poste davanti alla macchina da presa, ma si distaccano in modo più o meno esplicito dalla normale dimensione diegetica, inscrivendo all’interno del testo indicazioni di ordine metalinguistico. Nell’ambito dei videoclip le transizioni marcate, le sovrapposizioni, le accelerazioni, i ralenti, lo split-screen, le negativizzazioni, le deformazioni, sono solo alcune delle forme che gli effetti ottici possono assumere. Dal punto di vista della produzione, questi trucchi sono realizzati quasi esclusivamente nella fase di post-produzione; rientrano dunque pienamente nella categoria dei trucchi filmici. Per quanto riguarda la loro fruizione, si tratta innegabilmente di trucchi visibili che all’interno del testo possono esibire con un’intensità variabile la loro funzione di “marche” dell’enunciazione. Nella produzione videomusicale, tra i trucchi maggiormente utilizzati per intervenire sul corpo del performer ci sono senz’altro gli sfocati. Da un punto di vista semiotico, lo sfocato è un effetto di senso prodotto dall’articolazione tra un piano dell’espressione e un piano del contenuto. Come sottolinea opportunamente Nicola Dusi (1999, p. 16) sul piano dell’espressione lo sfocato rileva della presenza di un meccanismo “che lavora per dispersione dei contorni (contrasti eidetici) e per dissipazione della densità figurativa delle figure (contrasti cromatici)”. Questi interventi di manipolazione producono sul piano del contenuto una “defigurazione che può giungere fino alla deformazione – sfigurazione – totale, a volte per saturazione, per eccesso di precisione o di luminosità, a volte per offuscamento o rarefazione” (ib.).

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L’esasperazione del processo di sfocatura può produrre “un meccanismo di addensamento e con/fusione delle figure, un ritorno alle sostanze dell’espressione” (ib.). Nei video lo sfocato viene spesso impiegato per produrre l’effetto di senso di un ritorno a un livello pre-figurativo, uno stadio preliminare della significazione, dove la figura del performer viene temporaneamente offuscata per lasciare il posto a linee, forme e colori, formanti plastici localizzati.

Fig. 18. Garbage, Stupid girl.

Lo sfocato viene spesso utilizzato per esasperare il processo di risemantizzazione del corpo della star, contribuendo in alcuni casi a ridefinire profondamente l’identità del performer e le forme di mediazione con il suo pubblico. Intervenire sul corpo del performer sfocando i contorni, annullare parzialmente o totalmente i dettagli riconoscibili della figura non è semplicemente una forma di enunciazione enunciata, un’operazione che rinvia in modo esplicito alla presenza di un apparato di produzione, ma anche un dispositivo che mira a chiamare direttamente in causa lo spettatore, installando all’interno del testo un osservatore modalizzato secondo il volere, disposto a mettersi in gioco per saperne di più e per riconquistare una presa privilegiata sul corpo della star.

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Nei videoclip forse ancor più che nel cinema, si mette dunque in gioco una tensione tra poter e non-poter vedere e quindi riconoscere (per poter sapere), ovvero tra occultamento (con nebbie, veli, vetrate, ecc.) e focalizzazione esplicita del sapere del soggetto, movimenti che prevedono possibilità di presentazione parziali” (ib.).

Queste strategie testuali dei videoclip sono fortemente condizionate da complesse dinamiche commerciali che mirano a costruire/rielaborare l’immagine del performer praticando una sintesi tra due esigenze contrapposte. Da un lato queste forme brevi devono garantire alla star una riconoscibilità immediata. Per far presa su un pubblico consolidato, lo “zoccolo duro” dei fan, viene di conseguenza privilegiata la ripetizione di alcuni tratti invarianti e fortemente codificati. Dall’altro, prevale spesso l’urgenza opposta di marcare una distinzione, di ribadire l’assoluta estraneità del performer alle “regole del gioco”, alle norme di stile. In questo senso l’obiettivo principale è intervenire sull’immagine della star, rimodularne profondamente i tratti, plasmare un nuovo modello di identità. Il corpo della star è il risultato, sempre provvisorio, di un conflitto irrisolto tra recupero e rielaborazione, citazione di figure preesistenti e prefigurazione di forme impossibili. Come afferma Alberto Abruzzese (1989, p. 60), dopo Marylin non c’è altro corpo da ricordare se non, appunto, qualche divo rock, in cui rivive allo stesso tempo la sensualità maschile e quella femminile della cultura industriale, sino ad interpretare alcune figurazioni androgine, transessuali. Si tratta di fasi di transizione e di integrazioni tra diversi modi di fare e consumare spettacolo, tra diverse sensibilità, tra diversi vissuti.

Questa dialettica tra ripetizione e scarto, permanenza e innovazione permette dunque di rileggere l’intero processo di realizzazione dei video musicali come un’unica strategia globale di costruzione di identità audio-visive.

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(…) il problema teorico e progettuale che sta dietro al fenomeno divistico non riguarda i modi in cui verificare la mediazione e sintesi tra non-senso del divo e senso delle forme, i modi in cui risarcire il mito delle sue contaminazioni consumiste. Anzi il problema è esattamente opposto: selezionare l’inautentico, verificare le rotture formali, valutare lo spirito del mercato (p. 62).

Il trasformismo delle star musicali non si riduce esclusivamente a una serie di manipolazioni radicali, nella maggior parte dei casi esso è il risultato di interventi soft che mirano a rinnovare il look senza stravolgerne l’aspetto. Per assecondare le mode musicali e rilanciare l’appeal dell’album musicale le case discografiche e i registi non esitano infatti a sottoporre l’identità del performer a un vero e proprio processo di make-up. Un caso esemplare di questa tendenza alla rielaborazione mirata del look è Britney Spears, che ha conquistato il target degli adolescenti con il video del singolo Baby one more time interpretando il ruolo di una lolita pop (divisa del college, treccine e lecca lecca). In seguito, per continuare a far presa su un pubblico oramai passato dall’età adolescenziale a quella adulta, Britney Spears è stata costretta a rinnovare profondamente il proprio look, fino al video di Slave for you in cui, seminuda, si offre esplicitamente a un gruppo di uomini come oggetto del desiderio sessuale. Tra le star che hanno sfruttato in modo eclatante il look come mezzo privilegiato di affermazione della propria identità c’è senz’altro Madonna, la cui immagine si è basata sin dall’inizio sulla contrapposizione di valori opposti e inconciliabili, sessualità vs spiritualità. Senza ricostruire nel dettaglio le tappe di una carriera fondata sul trasformismo è sufficiente focalizzare l’attenzione su due videoclip. Il 1992 è l’anno in cui viene pubblicato il libro-scandalo SEX, e realizzato il videoclip di Erotica un vero e proprio backstage dell’operazione editoriale. La protagonista assoluta è Dita Parlo10, un alter-ego narrante

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di Madonna, autrice delle lettere contenute nel libro in cui racconta le proprie fantasie sessuali. Nel video vengono messe in scena le fantasie erotiche di uomini e donne. Dita è vestita di nero, i suoi occhi sono coperti da una mascherina, in mano ha un frustino. In Erotica Madonna assume pose e maschere diverse, indossa vestiti sia maschili che femminili, i suoi capelli sono lunghi e corti, ma ostenta anche delle parrucche, il suo atteggiamento è di volta in volta elegante e volgare, il suo ruolo cambia continuamente da dominatrice del gioco erotico a corpo dominato dalle fantasie altrui. In seguito il videoclip di Frozen del 1998 incarna la svolta spirituale della star Madonna. Nel video prevalgono i toni cupi, il look della performer è completamente rimodellato, Madonna è vestita di nero, simbolicamente a lutto, anche i suoi capelli sono neri, lisci, ricadono ordinati sulle spalle, i movimenti sono studiati, gli sguardi in camera penetranti, mai irriverenti. In Frozen la messa in ridicolo delle convenzioni sessuali è ormai alle spalle, Madonna non interpreta più il ruolo della star ostinatamente provocatrice, ma quello di uno spirito del deserto, un essere solitario e misterioso che ha per unici compagni gli animali. Erotica e Frozen sono solo due fasi di uno star-text talmente complesso e ricco da aver profondamente segnato il panorama della pop music. Pressate da esigenze commerciali sempre più invasive, le star della musica pop oggi non si accontentano di esibire il proprio corpo in performance audio-visive brevi ed efficaci, piuttosto incarnano una nuova strategia della seduzione che mira a suscitare il desiderio del fan sottraendosi a uno sguardo pieno, invadente. Figura ambigua e sovraesposta, l’icona musicale si trasforma progressivamente in un testo-rinvio, innescando un gioco di destrutturazione che affida il momento della ricomposizione allo sforzo decisivo di uno spettatore sempre più protagonista.

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1 È importante precisare che questa è una definizione generale di enunciazione che prescinde da un’applicazione specifica ai testi audiovisivi. La proposta teorica di Metz, infatti, non si situa esclusivamente all’interno di un dibattito specialistico sull’enunciazione cinematografica, piuttosto prefigura la possibilità di ripensare radicalmente le forme con le quali l’enunciazione simula la sua presenza in testi caratterizzati anche da sostanze dell’espressione differenti. “L’esempio del cinema (come altri, certamente) ci invita ad allargare la nostra idea di enunciazione e, per una volta, è la teoria del film che potrebbe (?) retroagire sulla semiologia e linguistica generali” (Metz 1991, p. 18). 2 Ciò non significa che in questi casi l’enunciazione esista unicamente in quanto presupposta dalla presenza di un enunciato “trasparente”: l’enunciazione resta infatti allo stato di semplice presupposto finché noi prestiamo poca attenzione alla costruzione del film; “non appena guardiamo o ascoltiamo meglio, scorgiamo accenni di marche che, per quanto tenui possano essere, prefigurano un orientamento ‘vero’” (p. 199). 3 “Si tratta di avvertimenti gratuiti lanciati allo spettatore, di sobbalzi del film che improvvisamente si designa, si commenta in diretta con esponenti visivi o sonori e, in tutti i sensi del termine, si riprende” (Metz 1991, p. 195). Nella produzione videomusicale queste forme dell’enunciazione audiovisiva non solo sono presenti, ma in alcuni casi sono oggetto di una sperimentazione tecnica e stilistica del tutto inedita sul grande schermo. 4 Queste configurazioni enunciative producono “un commento non sviluppato: al contrario, avviluppato nell’immagine. È il coefficiente incomprimibile di intervento enunciativo, e l’atto di nascita del gesto metatestuale, in parte ancora invischiato in ciò che designerà. Ed è anche, in modo ancora indistinto, la prefigurazione di uno stile5” (1991, p. 36). 5 “Le didascalie di commento tessono una sorta di racconto letterario, frammentato, un racconto altro e traforato (…), possono avere una funzione chiaramente metadiscorsiva, come discorso di secondo grado che commenta quello sviluppato dalle immagini alle quali si aggiunge, e che cerca di programmare la loro decifrazione” (Metz 1991, pp. 72-73). 6 Afferma ancora Frith (1990, p. 255): “il musicista ‘autentico’ è, in effetti, una finzione tanto elaborata quanto ogni altra cosa in mostra. Da un punto di vista analitico, la costruzione video del ‘reale’ è più interessante (perché più surrettizia) dei frammenti dell’immaginazione in primo piano”. 7 Isotopia: permanenza o ridondanza di un elemento semantico all’interno del testo che produce un effetto di continuità garantendo la coerenza sul piano del contenuto. In un testo l’isotopia può essere impiegata per dare corpo a un universo figurativo (isotopie degli attori, del tempo dello spazio) sia per tematizzare questo universo (isotopie astratte, tematiche, assiologiche) (cfr. Bertrand 2002). 8 La tendenza a spettacolarizzare lo svelamento del corpo è uno dei tratti peculiari della programmazione televisiva degli ultimi anni. “Scoprire, rendere pubblico, manifestare il corpo. Insinuarsi, penetrare, aprirne l’interiorità. (…). L’organismo è una Macchina emozionale, un dispositivo misterioso e segreto che produce emozioni quando è esposto allo sguardo collettivo, quando viene proiettato nel virtuale televisivo (…). Nell’impulso ossessivo della visi-

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bilità e dell’invasività, la tv rilegge la vita dei corpi attraverso ecografie ed endoscopie, mostrando i cambiamenti che vi avvengono con il passare del tempo. La nozione di corpo viene scompaginata dalla riproduzione della sua immagine in parti, pezzi, organi, in cui le telecamere entrano, percorrendo il corpo nello spazio e nel tempo, o pre-correndolo dal concepimento al parto, dall’agonia alla morte e, al di là della morte, nel trapianto degli organi (Bolla, Cardini 1999, pp. 198-199). 9 Non è un caso che spesso i siti che i fan dedicano alle star musicali siano più frequentati e aggiornati di quelli ufficiali delle etichette discografiche. 10 Dita Parlo fu una delle prime attrici porno.

Parte seconda Analisi

Il corpus testuale I testi che compongono il corpus analizzato sono video d’autore realizzati tra il 1995 e il 2002 che hanno goduto di un’ampia visibilità nei palinsesti delle emittenti televisive musicali, e in seguito sono stati commercializzati su supporto digitale per il circuito home video. Nei videoclip gli interventi sul piano dell’enunciazione non vengono impiegati esclusivamente per valorizzare il ritmo o la melodia della musica, ma per inscrivere sulla superficie dei testi una forte componente metatestuale, un rinvio esplicito alla forma breve, ai suoi generi, ai suoi protagonisti. Questa dimensione autoriflessiva non è un puro esercizio di stile, al contrario essa spesso assolve una vera e propria funzione di veridizione1 che investe direttamente la figura del performer e si riverbera sulle modalità di fruizione del videoclip da parte del suo spettatore. Le combinazioni tra voce, immagini e testo scritto producono delle originali costruzioni riflessive che agiscono come segni di un profondo conflitto passionale del performer, figurativizzando lo scontro tra la realtà della vita quotidiana e la finzione dello star system come una sfida tra due identità opposte, inconciliabili. Se in tutti i video i suoni e le immagini si fanno segni di una seduzione e strumento di una strategia commerciale, tuttavia le strategie enunciative impiegate sono profondamente divergenti, al punto da suggerire la presenza di una vera e propria contrapposizione.

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L’esasperazione, la spettacolarizzazione degli interventi di risemantizzazione possono accompagnarsi a uno svelamento esplicito del processo, in un movimento autoriflessivo che si appropria di soluzioni linguistiche e scenografiche elaborate per restituire alla star un alone di “inviolabile autenticità”, o al contrario il corpo del performer può essere completamente ridisegnato nel testo lavorando per sottrazione, privilegiando una sperimentazione che investe la dimensione plastica delle immagini, la sostanza piuttosto che la forma dell’espressione, la grana della luce e la definizione dei colori piuttosto che gli effetti speciali.

1 Veridizione: la semiotica rifiuta di considerare la verità come il risultato di una coincidenza tra il messaggio e il referente, preferendo piuttosto ripensare il vero come un effetto di senso prodotto dal discorso. In altri termini la semiotica non analizza la verità ma la sua messa in scena, il dir-vero, la veridizione. Nel discorso il dispositivo veridittivo si inscrive sotto forma di contratto di veridizione tra le due figure dell’enunciatore e dell’enunciatario. ll creder-vero dell’enunciatore infatti non è sufficiente alla trasmissione efficace della “verità”, è necessario che l’enunciatario lo condivida (consapevolmente o inconsciamente) dando vita a un fragile equilibrio che si inscrive all’interno del discorso sotto forma di una rete complessa di relazioni tra il fare persuasivo dell’uno e le mosse interpretative dell’altro.

Capitolo quinto L’identità della star come forma estrema di bricolage. David Bowie e 1.Outside.

Il performer che ha maggiormente sperimentato le potenzialità espressive del videoclip sulla propria pelle elaborando un corpo flessibile, modulare, infinitamente trasformabile, è senz’altro David Bowie, figura emblematica della scena musicale pop e rock il cui straordinario successo è innanzitutto il risultato di una dialettica irrisolta tra sedimentazione e innovazione, tra la pratica raffinata del recupero e l’assemblaggio sregolato e irruento di nuove forme di soggettività. Il legame tra sperimentazione artistica e logiche promozionali è un elemento ricorrente nella carriera del performer inglese. I diversi personaggi che hanno segnato come originali figure di alter-ego l’intera vita artistica di Bowie non sono semplici “accessori” di un elaborato apparato scenografico, comune a concerti live e video musicali, ma componenti fondamentali di una medesima strategia che sfrutta il trasformismo della star come strumento privilegiato di promozione. In questo senso è interessante rileggere l’identità Bowie come il risultato sorprendente e irrimediabilmente provvisorio di un conflitto sempre aperto tra due logiche contrapposte, l’innovazione e la ripetizione, che si fondano rispettivamente su un’organizzazione di tipo paradigmatico e una di tipo sintagmatico. L’urgenza di imporsi nel panorama musicale come una figura dinamica, fortemente innovativa, rinvia a una logica di tipo paradigmatico che si segnala in maniera esplicita sotto forma di un marcato contrasto plastico e figurativo che distingue le diverse forme di soggettività “indossate” di volta in volta dall’artista come modelli di identità provvisoria.

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Ziggy Stardust e The Thin White Duke esprimono in modo esemplare questo gioco provocatorio sull’identità basato sugli scarti improvvisi e le rotture inaspettate. Se l’alieno androgino suscita sorpresa sfruttando fino in fondo l’ambiguità dei ruoli sessuali, esibendo un look glamour, volutamente “sfacciato”, in cui prevalgono arditi accostamenti cromatici e dettagli bizzarri, il Duca Bianco esprime un’identità completamente opposta, tramite un look volutamente minimale, in cui il bianco e nero e le linee ordinate degli abiti classici si fanno segni privilegiati di una forma di soggettività che reclama la propria forza lavorando non più sull’accumulo ma sulla sottrazione, secondo un strategia che mira ad affermare innanzitutto l’inarrivabile compostezza aristocratica del performer. Questo contrasto tra due modelli opposti di identità viene riassorbito secondo una logica di tipo sintagmatico in un unico movimento che si sviluppa nell’arco di un’intera carriera. Sin dall’inizio David Robert Jones (alias: David Bowie) ha sfruttato la sua abilità di trasformista per rinforzare l’appeal dei suoi brani musicali. Questa strategia emerge con chiarezza rileggendo in senso diacronico la sua carriera. L’affermazione sulla scena musicale di queste maschere provvisorie è sempre legata all’uscita di un album musicale. Anno

Album musicale

Alter-ego

1972

The Rise And Fall Of Ziggy Stardust and The Spiders From Mars

Ziggy Stardust

1974

Diamond Dogs

Uomo/cane

1976

Station to Station

Thin White Duke

1995

Outside

Nathan Adler Baby Grace Blue Ramona Stone Algeria Touchshriek Leon Blank Paddy Uomo/pesce Minotauro/artista

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Con Bowie la rielaborazione dell’immagine pubblica della star musicale diviene vero e proprio intervento radicale sull’identità personale che si realizza compiutamente nell’inversione degli stereotipi più diffusi, nell’esplorazione sfrenata delle potenzialità espressive che si celano nel sincretismo di posizioni opposte: uomo/donna (la figura androgina nella copertina di The man who sold the world), umano/alieno (Ziggy Stardust), umano/animale (l’uomo/cane di Diamond Dogs). Uno dei progetti più complessi realizzati da Bowie negli ultimi anni è 1.Outside. Iperciclo non lineare di dramma gotico, in cui l’autore spinge fino alle estreme conseguenze un percorso di ricerca e costruzione della propria figura di artista, sfruttando in maniera inedita la compresenza di differenti linguaggi di manifestazione (scritto, visivo, musicale). 1.Outside è un concept album realizzato nel 1995 da David Bowie con la collaborazione di Brian Eno. Il concept album è un macrotesto narrativo composto di brani musicali e di un book che contiene immagini e testi delle canzoni. 1.Outside è il primo capitolo di un progetto audiovisivo sperimentale a lungo termine, un’originale micro-serializzazione rimasta incompiuta, che doveva concludersi con la pubblicazione di altri due lavori, Contamination e Afrikaan. L’intero progetto è composto da 19 tracce musicali, un booklet che accompagna il cd e un videoclip. 1.Outside è un testo emblematico, non solo perché presenta le caratteristiche peculiari di molti prodotti audiovisivi contemporanei: una struttura narrativa frammentata, un uso esasperato dei rinvii intertestuali, un ritmo sostenuto, ma soprattutto perché la sua efficacia è il prodotto di un’impalcatura enunciazionale straordinariamente complessa che, sfruttando le moderne tecniche della riproduzione digitale, permette al suo autore di assumere tutti i ruoli essenziali nella costruzione di una forma di testualità sincretica. Autore delle musiche, delle liriche, dell’intero progetto editoriale, protagonista principale del videoclip e de-

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gli eventi narrati nel book, David Bowie si nasconde al lettore, segna una distanza tra se stesso e i suoi personaggi, costringe il lettore/spettatore a una sfida interpretativa serrata dagli esiti incerti. Nello studio della strategia testuale di 1.Outside si è scelto di rispettare l’ordine di lettura che l’album impone al suo lettore (libero comunque di ignorare il percorso della narrazione e di focalizzare la propria attenzione su ognuna delle sue componenti), il primo testo analizzato sarà dunque il book del cd, seguito dai brani musicali e infine dal videoclip. Il book Titolo del book: Il Diario di Nathan Adler o l’omicidio artistico rituale di Baby Grace Blue, sottotitolo: Un iperciclo non lineare di dramma gotico. La storia prende inizio dal ritrovamento del corpo della quattordicenne Baby Grace Blue, dissezionato ed esposto all’interno del “Museo di Parti Moderne di Oxford Town”. Da qui si sviluppa la ricerca del Detective Professor Nathan Adler della “Sezione Crimini Artistici”. Fu esattamente alle 5 e 47 antimeridiane di venerdì 31 dicembre 1999 che uno spirito multidotato al nero iniziò la dissezione della quattordicenne “Baby Grace”. Le braccia della vittima furono ridotte a puntaspilli da 16 aghi ipodermici che le pompavano dentro quattro conservanti principali, sostanze coloranti, fluidi da trasporto per informazioni memorizzate e certa altra roba verde. Col diciassettesimo e ultimo vennero estratti tutto il sangue e i liquidi. L’area dello stomaco fu slabbrata con cura e gli intestini rimossi, sbrogliati e rilavorati a maglia così come si presentavano, in una piccola rete o tela e appesi tra i pilastri del luogo del delitto, l’ingresso principale del Museo di Parti Moderne di Oxford Town, New Jersey. Gli arti di Baby furono poi recisi dal torso. In ogni arto venne impiantato un piccolo traduttore a codice binario, altamente sofisticato, a sua volta

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collegato a piccoli altoparlanti attaccati all’estremità di ogni arto. Furono quindi attivati gli inclusi mini terminali per amplificare le sostanze da trasporto delle informazioni memorizzate decodificate, le quali si svelarono per piccoli haiku a chiave, brevi versi con ricordi dettagliati di altri atti brutali, ben documentati dalle ROMviste. Gli arti e i loro componenti furono poi appesi all’interno della rete, come la flaccida preda di una qualche inimmaginabile creatura. Il torso, per mezzo del suo orifizio inferiore, era stato posto su un piccolo supporto fissato a una base di marmo. Veniva mostrato con vari gradi di effetto a seconda di dove ci si trovava, da dietro la rete ma di fronte alla porta stessa del Museo, in atteggiamento a un tempo di significante e di custode dell’atto. Era sicuramente un delitto – ma era arte? Tutto ciò doveva portare all’evento più provocatorio dell’intera sequenza di eventi seriali che era cominciata verso novembre dello stesso anno, piombandomi nel più portentoso caotico abisso che un placido hacker solitario come me potesse comprendere. Mi chiamo Nathan Adler, o Professor Detective Adler nel mio circondario. Faccio parte della divisione Crimini Artistici Ass., la società di recente istigazione fondata con un contributo del Protettorato delle Arti di Londra appena ci si rese conto di come l’investigazione sui crimini d’arte fosse in sé inseparabile dalle altre forme d’espressione e perciò degna di essere supportata da un ente di tale importanza. (brano tratto da Il Diario di Nathan Adler o l’omicidio artistico rituale di Baby Grace Blue, trad. di Tito Schipa Jr.)

Una serie di ricordi di precedenti performance sfociate in delitti a opera di giovani artisti permette a Nathan Adler di associare al nome della vittima altri tre nomi: Leon Blank, Ramona A. Stone, Algeria Touchshriek, rispettivamente “un outsider colpevole di piccoli furti”, “una trafficante di droga, futurista tirannica”, e “un ricettatore specializzato in droghe artistiche, impronte genetiche e materiale mass mediale di qualunque tipo”. Nathan Adler, nella speranza di ricavare qualche suggerimento utile su come procedere nelle indagini, inserisce in un computer le informazioni riguardanti gli inda-

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gati. Dopo aver assemblato tutti questi dati tramite il Mack-Verbasiser, un “programma metarandom”, il detective ottiene una serie di indicazioni ambigue. VENERDÌ 31 DICEMBRE 1999 11 ANTIMERIDIANE. QUARTIER GENERALE DEGLI “IMBRATTATELE”, SOHO

Denti piccoli, ingranaggi niente. Non molto su cui procedere, ma R. A. Stone mi ricorda qualcosa di grosso. Non c’è problema, mi verrà. Il meglio da fare adesso è infilare tutti i pezzi connessi nel Mack-Verbasiser, il programma Metarandom che ti ri-stringa la vita vissuta in una serie di improbabili fatti virtuali. Magari ne cavo un paio di dritte. VENERDÌ

31 DICEMBRE 1999 11:15 ANTIMERIDIANE

Gesù coso. Odio lavorare sulla tastiera. Comunque, abbiamo qualche solvente di sicuro interesse uscito dal Mack-random. Sentite questo! Download Verbasiser, primo paragrafo: Niente reclusioni di santi determinati credevano caucasica uscita tirannica evocavano niente immagini descrivevano santi Cristiani domande niente femmine cristiana macchina credeva niente lavoro è caucasico determinati santi credevano femmina descrivevano cristiana tirannica domanda R.A. Stone reclusioni martiri e tirannici sono evocati femmina descriveva sadomasochistiche domande io sono suicida descriveva la macchina tessile Scudisciando uscita santi e martiri e scaraventati per le scale Ecco che comincia il mulinello. Ecco che il mazzo di immagini arretra e si piazza a centro scena. Ramona A. Stone. Mi ricordo di questa densità, di questo pensiero come una melassa liquida. Un momento però, mi sto precorrendo.

Il risultato evoca all’investigatore una serie di ricordi, il diario oscilla tra il presente e il passato in una narrazione sconnessa di efferati delitti e performance artistiche estreme. Un ricordo emerge su tutti: Ramona nel 1986 durante un’esposizione di parti corporee-gioiello da lei stessa disegnate annuncia la propria gravidanza.

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VENERDÌ

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31 DICEMBRE 1999 11:30 ANTIMERIDIANE

Dopo un intervento chirurgico e un investimento in una maschera anti proiettile, Ramona comparve a Londra, Canada, come proprietaria di una catena di negozi di particorporee-gioiello. Girocollo di pene di agnello, borsette di scroto di capra, capezzoli-orecchini, quel tipo di roba. Le voci in giro, comunque, dicevano che non era l’affare migliore diventare suoi clienti, dato che occasionalmente il compratore poteva entrare nella sua bottega e non uscirne mai più. L’allarme suonò dopo che un’amatissima e rispettatissima celebrità, conosciuta per essere conosciuta, mancò di comparire a una mostra dove lei aveva esposto dei suoi specchi. Altre celebrità, parimenti conosciute per essere conosciute, alcune solo alla propria vicina, la giudicarono la più profonda esposizione degli ultimi anni e non riuscivano più a staccare gli occhi dalle opere. Tutti i pezzi furono venduti in un’ora, molti a prezzi record. Quando il critico della rivista «Tate» richiese un’intervista con la celebre artista, il proprietario della galleria si ricordò di non averla più vista da qualche ora prima. Aveva detto di voler andarsi a comprare un cordone ombelicale incrostato di diamanti come oggetto celebrativo per annunciare la propria gravidanza. Sarebbe tornata in un’ora. Solo un saltino da “Calcoli Biliari”. 1986. La gravidanza avrebbe prodotto un essere che sarebbe attorno ai 14 anni di età. Se fosse ancora vivo. Continua… (ib.).

La narrazione si interrompe qui. Il diario, dopo un primo momento in cui sembra fornire tutte le competenze necessarie per poter comprendere l’universo finzionale della storia, mostra in realtà la sua natura di “iperciclo non lineare di dramma gotico”, suscitando nel lettore un effetto di crescente disorientamento e confusione che sembra compromettere definitivamente la possibilità di ricondurre gli avvenimenti a una successione logicamente ordinata di stati e trasformazioni.

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Nell’impianto narrativo del diario la risoluzione dell’intreccio resta sospesa. Tra i frammenti del book emerge il ruolo centrale dell’elaboratore Mac Verbasiser, destinante manipolatore dell’attante-soggetto Nathan Adler, unico strumento capace di fornire al Detective Professor la competenza modale e i valori in gioco. Ecco sorgere i primi dubbi interpretativi. Chi è il vero autore del diario? Qual è il collegamento tra il computer e il detective? Che relazione sussiste tra il diario e i testi delle canzoni? Come ricorda Fernarda Pivano nell’introduzione all’edizione italiana a tiratura limitata di Outside, il diario di Nathan Adler è un caso esemplare di cut-up elettronico. Questa componente del concept album è il prodotto di un processo di collaborazione tra l’uomo e l’elaboratore. Il diario, scritto in una prima fase da David Bowie, è stato inserito realmente in un computer e riassemblato in maniera casuale da un software che riconfigurando il livello discorsivo del testo originario, ne ha stravolto completamente la struttura narrativa. L’utilizzo esteso di débrayage ed embrayage1, unito all’imprecisione dei parametri spazio-temporali cala il lettore in un’atmosfera di totale disorientamento, accresciuta dalle fotografie di forte impatto che si incontrano sfogliando le pagine del diario del detective Nathan Adler e che ritraggono i principali protagonisti di 1.Outside.

Fig. 19. David Bowie, Outside.

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Fig. 20. David Bowie, Outside.

La composizione plastica delle immagini sembra favorire una fruizione rapida, disimpegnata. La figura umana, sempre posta in primo piano rispetto all’osservatore, è estremamente dettagliata e si contrappone a uno sfondo in cui formanti plastici localizzati come macchie di colore e figure astratte si alternano a oggetti e stringhe di caratteri resi parzialmente illeggibili da ampie zone di sfocato.

Fig. 21. David Bowie, Outside.

A prima vista queste fotografie sono delle semplici illustrazioni che non permettono di colmare le lacune del diario e di avanzare in alcun modo delle ipotesi sulla dinamica

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dell’omicio e dell’indagine. Uno sguardo più approfondito può individuare tuttavia alcuni indizi che ne rivelano il valore effettivo nella strategia testuale complessiva dell’opera. Gli zigomi di Ramona, gli occhi di colore diverso di Leon Blank, i tratti spigolosi del viso dell’Uomo Pesce… ogni personaggio fotografato nel book presenta delle curiose affinità con i lineamenti dell’autore, David Bowie. Osservando lo speciale andato in onda su MTV pochi giorni prima dell’uscita dell’album si ricava un’informazione essenziale. Partendo dalle pratiche di travestitismo ampiamente sperimentate in passato, David Bowie ha generato sette figure a sé stanti, sfruttando un processo di elaborazione delle immagini in quattro fasi: travestimento, fotografia, riproduzione digitale, rielaborazione. Nelle fotografie che accompagnano il diario di Nathan Adler l’autore diventa di volta in volta bambina, donna, vecchio e giovane. Non si tratta di un fotomontaggio ma di una rielaborazione digitale, un processo di dereferenzializzazione parziale che interviene a modificare drasticamente i tratti fisici identificativi dell’autore. Le foto iniziali in cui egli compare travestito e tuttavia ancora riconoscibile vengono riprodotte digitalmente e successivamente manipolate fino alla completa distruzione dell’identità Bowie che si dissolve in sette identità complesse. Per comprendere questa complessa procedura di risemantizzazione è utile analizzare nel dettaglio l’immagine di uno dei personaggi indagati da Nathan Adler.

Fig. 22. David Bowie, Outside.

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La figura di una donna si staglia su uno sfondo pluricromatico da cui emergono figure dai contorni indefiniti e frammenti di caratteri alfanumerici sovrapposti e sfocati. In questa immagine, così come nelle altre che compongono il book, sono co-presenti diversi livelli di figuratività. All’astrazione che caratterizza le figure plastiche che compongono lo sfondo fa da contrasto l’iconizzazione della figura di donna posta in primo piano. L’effetto visivo di emersione della figura femminile dallo sfondo è il risultato dell’impiego di un forte contrasto cromatico attualizzato nell’opposizione non saturo/saturo che determina nello spettatore l’impressione di osservare uno spazio prospettico. Il lettering che incornicia parzialmente la donna non è immediatamente interpretabile: è caratterizzato infatti dalla sovrapposizione di frammenti di caratteri digitali, alcuni dei quali hanno i contorni sfocati. Nella prima e nella terza sequenza di caratteri che occupano la zona periferico-destra è possibile leggere la scritta RAM, seguita dal sintagma TONE, preceduto da alcuni caratteri di difficile lettura. Queste lettere che a un primo sguardo sembrerebbero svolgere semplicemente un ruolo decorativo, costituiscono in realtà un elemento di ancoraggio dell’immagine molto forte. La foto affianca la pagina del diario in cui l’investigatore esamina i profili degli indagati risultanti dalla ricerca compiuta casualmente dal computer. I nomi sono Leon Blank, Algeria Touchsrieck e Ramona A. Stone. Le stringhe di caratteri digitali apparentemente incomprensibili si rivelano dunque degli indizi, frammenti utili a identificare la fotografia del principale indagato per l’omicidio di Baby Grace Blue: Ramona A. Stone. Nel book il legame tra le fotografie e il diario di Nathan Adler è assicurato da un insieme di elementi plastici e figurativi che connotano stilisticamente tutte le illustrazioni di 1.Outside.

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Fig. 23. David Bowie, Outside.

Nella prima immagine del book una scritta difficilmente leggibile posta in alto a sinistra identifica il personaggio-Baby Grace che al centro dell’inquadratura dirige il suo sguardo fuori campo. Lo sfondo della pagina è indistinguibile, sulla destra è attraversato da stringhe di caratteri che ripetono il nome del personaggio e sulla sinistra dalla parola VICTIM che definisce il ruolo del soggetto all’interno della storia. Sul lato destro dell’inquadratura sono visibili i resti di un arto e frammenti di organi umani che rinviano in maniera esplicita all’installazione presente nel Museo di Parti Moderne di Oxford Town su cui indaga il detective. A livello temporale in quest’immagine sono inscritti due momenti diversi del racconto per frammenti narrato nel diario di Nathan Adler. Baby Grace è raffigurata infatti prima e dopo la performance del suo assassino. I caratteri presenti nell’immagine non svolgono unicamente la funzione di garantirne la corretta interpretazione ma piuttosto simulano la schermata di un computer, il Mac Verb del detective Nathan Adler che “ti ristringa la vita vissuta in improbabili fatti virtuali”. La composizione caotica delle figure all’interno della pagina rappresenta la visualizzazione del processo casuale di ricostruzione degli

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eventi operato dal Mac Verb, simulandone le schermate video. La grafica “graffiata” dei caratteri impiegati nella pagina ribadisce infine al livello plastico la natura frammentata delle informazioni a disposizione del detective.

Fig. 24. David Bowie, Outside.

Scorrendo rapidamente le altre immagini si nota immediatamente che la foto di Nathan Adler ha uno statuto particolare. È l’unica immagine non ritoccata digitalmente, l’unica in cui l’autore, pur indossando i panni di un personaggio fittizio, risulta immediatamente identificabile da un lettore competente. Attore e autore si avvicinano, sembrano quasi coincidere, tuttavia nell’economia del racconto il Detective Professor non occupa una posizione privilegiata, le sue indagini non conducono ad alcun risultato di rilievo. È ora di chiudere il diario. Sul retro della copertina emerge il volto di un uomo sfocato, indistinto. In alto alla sua sinistra, un logo: DB - David Bowie. Ma quante sono le maschere dell’autore? Come si articola la regia di Outside? L’effetto di disorientamento provocato dalla lettura del diario e delle sue immagini, e amplificato come si vedrà dall’ascolto dei brani musicali e dalla visione del videoclip, è costruito su un’impalcatura enunciazionale singolare, all’interno della quale l’autore del testo e i suoi simulacri entrano in relazione tra di loro in maniera particolarmente elaborata.

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D. Bowie/Macintosh Enunciatore

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1. OUTSIDE Nathan Adler/Mac Verb Narratore Attori Ramona Algeria Baby Grace Leon Paddy Minotauro

D. Bowie

L’impiego di un débrayage enunciazionale permette all’autore di simulare la sua presenza all’interno del diario. La coppia Nathan Adler/Mac Verb riveste nel book il ruolo di narratore e costituisce il simulacro dell’istanza dell’enunciazione, risultante dalla collaborazione autoriale tra David Bowie e il Mac Intosh impiegato per il montaggio casuale dei testi scritti. Nathan Adler e il Mac Verb coinvolgono il lettore del diario di Outside in un’intricata storia i cui attori sono il prodotto della manipolazione del loro autore. Le immagini del diario permettono all’autore di assumere un ruolo diverso, di entrare seppur parzialmente all’interno dell’enunciato di cui è responsabile, utilizzando alcuni dei tratti distintivi del suo corpo come dettagli identificativi dei personaggi. Il detective, la vittima, i possibili assassini “vivono” esclusivamente in un mondo finzionale ma il loro corpo è il risultato della manipolazione di un unico corpo-sorgente, quello del loro enunciatore e costruttore. 1.Outside mette in scena un complesso gioco delle identità, in cui l’autore della finzione oltre al ruolo enunciativo riveste anche quello del narratore e degli attori. I ruoli narrativi si confondono, l’autore è onnipresente – in fondo un Cd è un prodotto commerciale – ma non riusciamo che a coglierne le tracce. È ora di ascoltarne la voce.

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I brani musicali Le liriche sono 14, disposte in un Prologo e in 13 atti organizzati come in un’opera, ognuno dei quali reca una nota: parte cantata per… seguita dal nome del personaggio del diario che a turno ri-enuncia in musica la propria versione dei fatti. I testi delle canzoni sono stati realizzati con la stessa tecnica impiegata nella costruzione del diario, il cut-up, forma di bricolage enunciativo che contribuisce in modo determinante a stravolgere la logica narrativa degli eventi. Ogni lirica del book sembra autorizzare il lettore a formulare delle previsioni inferenziali sul risultato dell’indagine, senza tuttavia che il testo dei brani musicali renda possibile una disambiguazione finale. La fabula delle liriche è aperta, l’assassino di Baby Grace è destinato ad avere troppi nomi potenziali e dunque nessuno. Il cd si apre con Leon takes us Outside, un tappeto sonoro elettronico in cui sonorità fortemente dilatate si alternano a un elenco di date e luoghi privo di qualsiasi logica sequenziale, recitato da una voce anonima. Seguono Outside e The heart’s filthy lesson, rispettivamente il Prologo e una Parte cantata per il detective Nathan Adler. La voce del cantante in entrambi i casi è immediatamente riconoscibile come quella di David Bowie. Con le tracce seguenti, corrispondenti alle parti cantate per i personaggi Leon Blank, Ramona A. Stone e Algeria Touchsrieck, le cose si complicano di nuovo. La voce non è più quella dell’autore, ma rispettivamente di un giovane uomo, di una donna e di un vecchio. Le identità degli attori assemblate a livello scritto e visivo vengono dunque definitivamente completate sul registro musicale da un timbro vocale distintivo che costituisce l’ultimo stadio di un processo di iconizzazione costruito a partire dal corpo-sorgente dell’autore, in questo caso dalla sua voce, rielaborata da un sofisticato software. È in questo punto che Outside si rivela definitivamente come un’opera polifonica in cui i livelli finzionali si com-

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plicano. La confusione dei ruoli enunciativi raggiunge il suo culmine. L’enunciatore enuncia se stesso in un complesso mondo narrativo che assume le sembianze di un macrotesto multimediale animato da creature finzionali che recano sul corpo e sulla voce tracce del loro autore. Questa complessa strategia enunciativa permette all’autore da un lato di costruire un mondo fittizio abitato da personaggi che sembrano veri, dall’altro, di disseminare ovunque tracce della sua costruzione che ne mettono in discussione l’attendibilità. Outside non è solo il resoconto di un’indagine fittizia su un crimine artistico ma è anche un complesso meta-testo che ha per oggetto l’integrazione uomo-macchina nella costruzione di un testo estetico, i relativi processi di simulazione del mondo reale e la crisi del concetto di identità dell’autore. Il video musicale L’ultima componente di Outside è costituita dal videoclip del singolo The Heart’s Filthy Lesson (regia: Sam Bayer). Il videoclip è il punto di arrivo del processo di fruizione di Outside, una sorta di capitolo finale in cui sono sintetizzati i temi e i meccanismi enunciativi che caratterizzano tutto l’impianto del lavoro. La struttura di questo videoclip tuttavia ne fa un testo autonomo che risulta fruibile anche da uno spettatore che non conosce le altre componenti del progetto. The Heart’s Filthy Lesson infatti non fornisce informazioni ulteriori rispetto a quanto contenuto nell’album ma ne riproduce le stesse atmosfere, catturando l’attenzione dello spettatore attraverso elaborate soluzioni scenografiche e un gioco continuo di rimandi tra i diversi livelli finzionali. Nel video alcuni temi chiave di Outside come il conflitto tra sacro e profano e l’idea dell’omicidio come pratica artistica estrema vengono figurativizzati sotto forma di una

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performance di body art fortemente ritualizzata che si svolge all’interno di un teatro dismesso. David Bowie non appare unicamente come performer del brano ma anche come protagonista degli avvenimenti. In particolare egli dirige un gruppo di giovani artisti nella costruzione di uno dei sette personaggi della storia, una creatura mitica, il “Minotauro Artista”. Il suo ruolo è quello dell’autore, del costruttore, incarnazione di una figura estrema di bricoleur che plasma la propria creatura, un mostro, sezionando e ricombinando in maniera inedita parti di organi, frammenti di tessuto. Il “personaggio” David Bowie appare immediatamente riconoscibile dal grande pubblico, abituato a identificarlo con i ruoli del cantante e dell’attore. Il video si chiude tuttavia in maniera inaspettata con l’immagine di Bowie su un palcoscenico che rivela il suo “vero volto”, togliendosi una maschera da minotauro, l’essere da lui stesso creato. Ancora una volta la narrazione procede per frammenti, le informazioni non rispettano un ordine cronologico e l’autore enuncia se stesso come protagonista della storia da lui stesso creata. Il video musicale, ultimo contenitore di brandelli di informazione di Outside, esaspera dunque il meccanismo della metatestualità, spingendolo oltre i limiti costruiti nel corso dell’opera. L’autore incarna ancora una volta ruoli diversi. Enunciandosi come protagonista smaschera il gioco delle dissimulazioni, ma lo fa su un palcoscenico, per definizione luogo della simulazione, spazio della finzione che incrina definitivamente la credibilità e la natura perentoria del suo gesto. L’obiettivo dell’autore di prendere le distanze dai suoi personaggi si realizza dunque tramite una strategia testuale assolutamente inedita. David Bowie disperde parti della sua immagine in ognuno dei personaggi della storia, dotandoli di un’identità autonoma, ma negando contemporaneamente a ognu-

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no di essi di assumere le sembianze di un vero e proprio alter-ego. Marcando le creature da lui stesso create con le tracce esplicite del processo di costruzione, ribadisce il suo ruolo di autore, di responsabile della simulazione, distanziandosi tuttavia dalla sua opera. Ho voluto creare sette personaggi per prendere totalmente distacco dal mio lavoro. Mi era già capitato in passato di crearmi un unico personaggio e quello che gli succedeva nella finzione finiva per ripercuotersi in qualche modo nella mia vita privata (…). È come se questi personaggi fossero stati via per molto tempo e ora fossero tornati. In realtà è come se ci fossero sempre stati e penso che prima o poi torneranno nei prossimi lavori2.

Lo strumento testuale che garantisce all’autore di raggiungere il suo scopo è dunque l’apparato enunciativo elaborato in un impianto multimediale, che permette a Bowie di muoversi su tre registri diversi e interconnessi (scritto, visivo, musicale) e di superare un ostacolo difficilmente aggirabile, la soglia che separa l’autore dal testo di cui è responsabile. Il video di The Heart’s Filthy Lesson rilancia la strategia testuale di Outside, mirando a disorientare ulteriormente il lettore-ascoltatore, a renderlo incapace di ricostruire le fila di una narrazione estremamente frammentata. Outside non comunica alcun messaggio, in realtà il mio obiettivo era comunicare l’atmosfera del 19953.

L’impiego di queste elaborate strategie enunciative costituisce uno strumento essenziale per lo sviluppo di una rinnovata complicità tra il performer e lo spettatore, tra il divo-Bowie e il pubblico dei suoi fan, che si concretizza nella ricerca da parte di quest’ultimo degli indizi del processo di costruzione del suo mito e nella partecipazione illusoria al backstage della sua nascita. Paradossalmente l’originalità di Outside, la sua capacità di anticipare le tendenze registiche presenti in molti pro-

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dotti attuali, sono forse le cause principali del suo fallimento commerciale. Se l’identità di una star trasformista non può che esprimersi esibendo i frammenti della propria costruzione, le tracce effimere delle storie interpretate nell’arco di una vita intera, 1.Outside emerge senz’altro come un progetto felicemente incompleto, la sintesi assolutamente parziale dei temi e delle figure che hanno segnato la nascita e l’evoluzione di una complessa identità audiovisiva.

Fig. 25. David Bowie, Outside.

Un ultimo sguardo alla copertina del diario, sotto al nome dell’autore appare il titolo: 1.Outside, non solo il primo capitolo di una trilogia, ma anche 1.0, il marchio della prima release, testo per definizione provvisorio e indefinitamente implementabile. 1.0: il marchio di una breve opera aperta polifonica.

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1 Débrayage: “disinnesco”, operazione enunciativa che permette al soggetto dell’atto comunicativo di proiettare “fuori di sé” le tre categorie fondamentali di ogni attività discorsiva, spazio, tempo, soggetto. Il débrayage viene definito enunciazionale se proietta all’interno dell’enunciato dei simulacri del soggetto dell’enunciazione (discorsi in prima persona, dialoghi); viene invece definito enunciativo se proietta soggetti diversi da quelli dell’enunciazione (discorso oggettivato, in terza persona). L’operazione di débrayage è correlata con quella di embrayage (cfr. Pozzato 2001). Embrayage: “innesco”, operazione che simula il ritorno dal testo all’istanza dell’enunciazione che ne è responsabile. L’embrayage è sempre successivo a un débrayage. Questi due regimi discorsivi si concretizzano spesso nel testo sotto forma di inscatolamenti progressivi, dando luogo a effetti di realtà, poiché ogni livello precedente si costituisce come piano referenziale rispetto al successivo (cfr. Pozzato 2001). 2 Dichiarazione rilasciata da David Bowie nello special andato in onda su MTV. 3 Dichiarazione rilasciata da David Bowie nello special andato in onda su MTV.

Capitolo sesto Una notte dietro le quinte. I Blur e No Distance left to run

Introduzione Il videoclip del singolo No Distance left to run è stato realizzato nel 1999 dal regista danese Tomas Vinterberg per la band inglese dei Blur, in occasione dell’uscita dell’album 13. No Distance left to run è un’operazione decisamente originale nel panorama della produzione audiovisiva e rappresenta in modo esemplare l’estrema flessibilità che caratterizza l’enunciazione nelle sue incisive forme di inscrizione testuale. Il video infatti non si limita a mettere in scena una performance musicale, piuttosto si configura come un complesso metatesto che riflette parzialmente al suo interno il processo di produzione, agendo in particolare sulla rappresentazione dell’identità dei componenti della band, che vengono raffigurati non come inarrivabili star, ma come persone comuni, “autentiche”. No Distance left to run coniuga infatti la sperimentazione enunciativa con l’estetica Dogma, proponendosi nei confronti dello spettatore come un testo fortemente “oggettivato”. La strategia enunciativa del film nel film viene declinata nel video in maniera originale; tutto è finalizzato a restituire allo spettatore la sensazione di poter sbirciare nel vero dietro le quinte della vita di una band. No Distance left to run è il racconto di un esperimento inedito, il tentativo di ridurre drasticamente la distanza che separa star

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e pubblico, documentando semplicemente il sonno di quattro musicisti. In questo caso la strategia dell’enuciazione consiste innanzitutto nell’ibridare profondamente forme espressive distinte, il video e il documentario, in una pratica di rielaborazione creativa che produce un testo sincretico, una breve docufiction. No Distance left to run si compone di tre parti ben distinte, un prologo, il video vero e proprio, un epilogo. La durata complessiva è di circa 5’ e 50 secondi, ripartita nel seguente ordine: prologo (1’36’’), video (3’08’’), epilogo (1’06). Il prologo Sin dall’inizio il video tenta di stabilire un contatto immediato e coinvolgente tra star e pubblico facendo ricorso a interventi extradiegetici, commentativi. Il prologo si apre infatti con la ripartizione del quadro in una serie di schermi supplementari, una figura esemplare di enunciazione enunciata particolarmente frequente nei video musicali. L’espediente dello split screen viene impiegato per descrivere allo spettatore un’operazione del tutto inedita, documentare uno degli aspetti più intimi della vita di una band, il sonno, facendo ricorso a un’attrezzatura estremamente leggera, minimamente intrusiva, composta di piccole telecamere digitali, un microfono e un diffusore di luce. Il significato dell’esperimento viene spiegato nel prologo dal leader della band, Damon Albarn, che guardando in camera si rivolge direttamente allo spettatore, interpellandolo: “stiamo girando un video, si tratta di sonno vero, non simulato, o altro. Divertente”. Lo split screen agisce come un dispositivo topologico che articola lo spazio dello schermo in zone diverse, riservando a ognuno dei componenti della band uno spazio indipendente. Contemporaneamente queste diverse finestre

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che si aprono alla visione dello spettatore intervengono a rompere la linearità narrativa, inscrivendo nel video un’articolazione cronologica decisamente frammentata che permette di accostare all’interno di un unico quadro momenti diversi della stessa narrazione. Questo espediente è chiaramente visibile in due inquadrature dedicate al batterista della band, Dave Rownthree. Nella finestra di sinistra il musicista rivolge il suo sguardo direttamente in camera dichiarando che il video di No Distance left to run “va oltre il privato, oltre l’intimità”, e che l’obiettivo dell’esperimento è rivelare “qualcosa che non conosci nemmeno tu quando dormi”. Contemporaneamente, nella finestra aperta sulla destra dello schermo scorrono le immagini di un momento successivo dell’esperimento in cui il musicista viene filmato poco prima di andare a dormire, mentre si lava i denti, illuminato da una luce estremamente debole. Queste immagini sono in netto contrasto con le precedenti non solo da un punto di vista figurativo ma anche plastico, hanno una definizione molto bassa e sono sostanzialmente monocromatiche. L’enunciazione enunciata, presente sin dalle prime inquadrature, si segnala con forza sul finire del prologo, sotto forma di un breve dialogo tra Damon Albarn, inquadrato in primo piano, e il regista, situato fuori campo: - D. A. (guardando fuori campo): “che ore sono?”. - Voce off: “L’una meno un quarto”. - D. A. (guardando direttamente in camera): “Bene, è ora di andare a dormire”.

Questo breve scambio di battute tra il musicista e il regista del video simula un ritorno all’istanza dell’enunciazione, contribuendo a restituire allo spettatore l’illusione di una simultaneità degli avvenimenti. Questa sensazione di contemporaneità degli eventi viene ulteriormente rafforzata dalla sequenza di montaggio immediatamente successiva in cui i quattro componenti della band spengono le luci e si preparano per andare a dormire.

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L’ultima inquadratura del prologo è un dettaglio delle dita di uno dei musicisti che spegne un interruttore. Segue il buio. E il silenzio. Il videoclip Dopo un istante di buio assoluto, inizia la musica. Il video si apre con un punto di sincronizzazione decisamente originale. Il suono dilatato, il ritmo lento del brano musicale vengono “raddoppiati” efficacemente sul piano visivo dall’ingresso di una luce diffusa, leggermente in movimento, che interviene a contrastare l’oscurità totale dell’ambiente. La sincresi viene rafforzata ulteriormente dalla lenta apertura di una porta, il cui movimento è reso percepibile dal fascio luminoso. Lo spazio che si apre alla visione dello spettatore non è descritto minuziosamente da una luce intensa, invadente, abbagliante, piuttosto emerge lentamente dal buio indistinto come un ambiente appena svelato, che rivela solo parzialmente la sua articolazione. In questa prima inquadratura, come nel resto del video, le immagini hanno una bassa definizione, predominano decisamente i colori freddi e i toni desaturati. Come ha efficacemente dimostrato Jacques Fontanille (1995, pp. 27-28), la luce non è esclusivamente un fenomeno fisico, poiché presenta una configurazione semiotica che non deriva né da ciò che un soggetto può effettivamente osservare, né dalle proprietà del mondo fisico, piuttosto si presenta come una costruzione (in qualche modo oggettiva) le cui categorie costitutive dovrebbero permettere di descrivere gli effetti di senso nati dalle interazioni (deittiche, modali, passionali, ecc…) tra l’attività percettivo-enunciativa di un soggetto e il gradiente dell’energia.

Luminosità, tono e saturazione, le proprietà sostanziali della luce, agiscono dunque sullo spazio, trasformando ciò

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che inizialmente non è nient’altro che un sostrato, in una sorta di piano del contenuto dell’energia luminosa. La configurazione semiotica della luce si realizza dunque nell’atto stesso dell’articolazione dello spazio, dando vita a una semiotica del visibile. Questa interazione tra la luce e lo spazio produce quattro effetti di senso, articolati in una sequenza che riformula il passaggio dall’energia luminosa, intesa come fenomeno percepito dal soggetto come una sensazione elementare, alla luce, concepita come configurazione semiotica che produce significazione. Gli effetti di luminosità (éclat) localizzano le concentrazioni di energia, gli effetti di illuminazione (éclairage) rinviano a una rappresentazione vettoriale dello spazio, dove si realizza una diffusione della luce tra una fonte che ne regola l’intensità e un bersaglio che la riceve; gli effetti di cromatismo si ancorano a zone ben definite dello spazio, circoscrivendo la luce su plaghe localizzate; gli effetti di diffusione materica costituiscono infine una forma di occupazione dello spazio resa percepibile attraverso la luce. In termini semiotici lo spazio viene dunque articolato attraverso quattro stadi dell’energia luminosa, il cui funzionamento è regolato dai differenti valori che assumono due dimensioni fondamentali della luce, l’intensità e l’estensione. A ogni stadio della luce corrisponde dunque un’operazione sullo spazio. L’illuminazione con i suoi effetti vettorializzanti adotta il modo della “circolazione”; la luminosità è “puntualizzante”; il cromatismo concorre al contrario all’“immobilizzazione” della luce su zone circoscritte; la luce-materia, nella misura in cui rileva dei modi di occupazione dello spazio, partecipa della ‘diffusione’ (pp. 41-42).

Ne consegue che la luminosità, l’illuminazione, il cromatismo e la diffusione materica non intervengono semplicemente a modificare l’articolazione delle proprietà sensibili dello spazio, piuttosto lo modalizzano profondamente, in-

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scrivendo al suo interno valori e stili tensivi che ne assicurano una prensione sensibile e significante da parte del soggetto dell’enunciazione. Sintetizza efficacemente Nicola Dusi (1995, p. 14) è il soggetto che organizza il mondo visibile come un discorso, in cui gli effetti della luce sullo spazio sono predicabili in forme che vanno dalla propagazione (diffusione e circolazione) alla localizzazione (concentrazione e immobilizzazione).

Le categorie elaborate da Fontanille per l’analisi di una semiotica del visibile divengono oggetto, nel video di No Distance left to run, di una complessa strategia enunciativa che sfrutta le diverse configurazioni dell’energia luminosa per declinare in modo decisamente originale il tema dello svelamento del dispositivo filmico e degli effetti che esso produce sul legame fiduciario tra la star e il suo pubblico. Nelle prime inquadrature del video la luce che si insinua lentamente nell’oscurità, svelando parzialmente diversi ambienti come l’ingresso, la cucina, il soggiorno, agisce esplicitamente come una forma di occupazione di uno spazio indistinto, si tratta dunque di una luce-materia, che “amplifica la circolazione dell’energia luminosa, moltiplicandone le direzioni possibili, per rendere percepibile (visibile, palpabile…) l’occupazione materiale dello spazio” (Fontanille 1995, pp. 44-45). Questo stadio luminoso “rivela la presenza di spessori, volumi, superfici e testure, in uno spazio che appare intuitivamente come un contenitore, occupato da un contenuto che si svela alla luce” (pp. 34-35). La diffusione materica porta alla luce linee, figure, ma non interviene mai a rivelare compiutamente un’articolazione dettagliata dello spazio, limitandosi piuttosto a suggerire allo sguardo la presenza di zone più o meno indistinte. Ciò che questo effetto svela allo spettatore, al di là della composizione delle figure portate alla luce, è innanzitutto la presenza del fascio luminoso stesso, che si manifesta nel testo sotto forma di un soggetto rivelatore, penetratore, modellatore.

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Nel video questa luce-materia rinvia dunque a un’intenzionalità dello svelamento. La direzione e i movimenti del fascio luminoso tradiscono la presenza di un soggetto osservatore, che appare distintamente in alcune inquadrature successive, sotto forma di una piccola troupe cinematografica incaricata di spiare discretamente il sonno dei musicisti. Sin dalle prime inquadrature No Distance left to run richiama dunque l’attenzione dello spettatore sull’apparato dell’enunciazione, mettendo in scena, seppur parzialmente, alcune fasi della sua lavorazione. La luce costituisce dunque un dispositivo dell’enunciazione fondamentale in questa messa in scena dello svelamento. I movimenti e l’intensità del raggio luminoso regolano infatti tempi e modi della prensione delle figure, inscrivendo nel testo un percorso della visione il cui vero oggetto di valore non sono gli ambienti della casa, ma i corpi di chi la abita. Sotto l’azione del diffusore luminoso e delle piccole telecamere digitali le sembianze dei quattro musicisti cambiano aspetto: l’iconografia fortemente codificata della star musicale viene completamente stravolta dall’intervento di questa luce-materia che insiste sui corpi indifesi, agendo come un efficace dispositivo di risemantizzazione. L’alternanza continua di luci e ombre, la bassa definizione delle immagini, i colori fortemente desaturati rivestono i dettagli anatomici delle figure umane di un’opacità diffusa, sottraendole a una visione piena, per indurre a un modo della prensione fortemente sinestesico.

Fig. 26. Blur, No Distance left to run.

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Fig. 27. Blur, No Distance left to run.

Precisa Fontanille (pp. 36-37): la luce-materia permette l’intervento di altri modi della ricezione nel mondo visibile, in particolare il modo tattile (…). Questa combinazione dell’ottico e del tattile che Deleuze definisce aptico, appartiene sempre al visibile, cioè al mondo della luce. Di conseguenza non è la sensazione tattile che provoca degli effetti materici, ma sono gli effetti prodotti sulla materia dalla luce, che invitano a un percorso tattile dello spazio.

Questa visione tattile viene indotta nello spettatore dalla luce-materia, che interviene sullo spazio ridefinendone completamente la profondità. Il fascio di luce infatti non marca mai esplicitamente la distanza che separa la fonte dell’intensità luminosa dal suo bersaglio, poiché “i piani si sovrappongono come spessori in rapporto all’osservatore, ma non si può dire che si allontanino da lui” (ib.). La diffusione materica, portando alla luce uno spazio nascosto, inscrive sulla sua superficie un percorso della visione orientato, uno sguardo ravvicinato, che prelude a una forma di interazione tra il corpo del soggetto che osserva e il mondo visibile che gli si rivela1. Se dunque questa luce diffusa, morbida, leggermente vibrante, rileva di un’intenzionalità enunciativa, essa mira innanzitutto a ridefinire il legame tra star e pubblico coinvolgendo lo spettatore del video in un percorso di avvici-

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namento progressivo agli aspetti più intimi, ai dettagli nascosti dei performer. In questo senso la luce-materia, “rimodellando” i corpi, agisce come un efficace dispositivo di trasformazione delle identità dei soggetti inscritti nel testo, “caricandosi” al tempo stesso di un valore veridittivo. Com’è noto, Greimas descrive la “verità” come un effetto di senso la cui produzione corrisponde all’esercizio da parte dell’enunciatore di un fare cognitivo particolare, un far apparire vero, definito come fare persuasivo. La verità, dunque, non è che un simulacro prodotto dal discorso, il risultato di una dialettica tra il fare persuasivo dell’enunciatore e il fare interpretativo esercitato dall’enunciatario. Nel video la luce in continuo movimento svela parzialmente ciò che di solito è nascosto allo sguardo dell’estraneo, il corpo della star musicale nella sua assoluta normalità, nella sua spontanea naturalezza. Essa rinvia dunque a una precisa intenzionalità persuasiva, convincere lo spettatore dell’autenticità delle immagini, mostrando i soggetti su cui si diffonde, indugia, come persone assolutamente comuni, quasi a “portata di mano”.

Fig. 28. Blur, No Distance left to run.

Fig. 29. Blur, No Distance left to run.

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Su un piano strettamente audiovisivo questa luce-materia costituisce inoltre un importante dispositivo ritmico che contribuisce a regolare i tempi della fruizione del video. Il fascio luminoso si estende sulle superfici e sui corpi senza salti bruschi e interruzioni, i movimenti che ne regolano la direzione sono fluidi, in alcuni momenti quasi rallentati. Il ritmo di avanzamento della luce nello spazio è estremamente dilatato, e viene reso ancora più fluido dalla sequenza di dissolvenze in apertura e dissolvenze al nero che non si rendono percepibili tanto come tagli di montaggio, quanto piuttosto come parti integranti dell’arco tensivo del fascio luminoso. Infatti, mentre le dissolvenze in apertura accompagnano dolcemente l’ingresso soffuso della luce nello spazio buio, quelle in chiusura ribadiscono sempre lo scivolamento parziale del fascio luminoso verso l’oscurità. La combinazione tra intensità ed estensione della luce da un lato, e transizioni dall’altro, inscrive dunque all’interno del video una temporalità di riferimento, poiché lega tra loro momenti diversi, simulando la presenza di un unico piano sequenza. Questo effetto di fluidità audiovisiva viene ulteriormente rafforzato dai numerosi punti di sincronizzazione che creano una solidarietà percettiva molto forte tra le immagini e la musica. No Distance left to run privilegia infatti una logica interna del concatenamento audiovisivo, un modo della relazione tra suono e immagine che è concepito per rispondere a un processo organico flessibile di sviluppo, di variazione e di crescita, che nasce dalla situazione stessa e dalle sensazioni che essa ispira: la logica interna privilegia dunque, nel flusso sonoro, le modificazioni continue e progressive, e non utilizza le cesure brusche se non quando la situazione lo richiede (Chion 1990, p. 45).

Nel video i suoni costituiscono un vero e proprio valore aggiunto, perché intervengono a punteggiare, orientare

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UNA NOTTE DIETRO LE QUINTE

la successione delle immagini. In particolare nel lavoro di Vinterberg la musica agisce come un efficace dispositivo di inglobamento unificante che interviene sulla colonna video mascherando la presenza dei tagli di montaggio, per rafforzare ulteriormente l’illusione di un unico flusso audiovisivo. Questa solidarietà tra suoni e immagini viene tuttavia parzialmente infranta dall’ingresso di alcuni rumori che, sovrapponendosi al brano musicale, rivelano la presenza di un secondo livello audio. Il fruscio delle lenzuola, lo sfregamento dei piedi, gli improvvisi attacchi di tosse, gli urti involontari cui è sottoposta l’attrezzatura di ripresa, sono tutti rumori reali, registrati in presa diretta, che rinviano nuovamente a un’intenzionalità enunciativa, svelando in modo esplicito il registro commentativo del video. La sovrapposizione dei rumori e dei suoni, la bassa definizione delle immagini, l’uso della camera a mano, si segnalano nel video in maniera esplicita come vere e proprie marche stilistiche dell’estetica Dogma che fa dell’autenticità dello svelamento un oggetto di valore imprescindibile, un obiettivo programmatico. Emerge qui, declinata in maniera assolutamente originale, la presenza di una relazione di tipo semisimbolico, che costituisce una delle caratteristiche più rilevanti della recente produzione di video musicali: Verità M.d.p. a mano Lo-fi Monocromatismo

Finzione M.d.p. fissa Alta definizione Pluricromatismo

Il video si chiude con un’ultima inquadratura dedicata al leader della band che si gira verso il cuscino, infastidito dall’insistenza del fascio luminoso. La luce ne segue per qualche istante i movimenti, poi lentamente si ritrae, scivolando progressivamente verso il buio. Segue il nero.

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L’epilogo La parte finale di No Distance left to run si apre di nuovo con la divisione dello schermo in diversi riquadri. Le immagini sono realizzate con camera a mano e mostrano il risveglio dei quattro musicisti. Nell’epilogo lo stile documentaristico del video viene ulteriormente ribadito dal suono registrato in presa diretta e dalla presenza nelle inquadrature di alcuni membri della troupe che aprono tende e finestre, facendo irruzione nelle stanze dei musicisti. Una voce fuori campo, simulacro esplicito del foyer dell’enunciazione, si rivolge direttamente ai musicisti assonnati, augurando loro un buon giorno. In particolare viene interpellato con insistenza Damon Albarn. Voce (fuoricampo): “Damon, puoi dirmi di cosa tratta questa canzone?”.

Il leader della band viene inquadrato in primo piano a tutto schermo. Immerso in una luce bianca, invadente, inevitabile, sembra incapace di rispondere, sbadiglia vistosamente, sforzandosi inutilmente di mantenere gli occhi aperti. Dopo qualche secondo, con una lentezza esasperante, riesce infine ad abbozzare una risposta improvvisata e del tutto incompleta. D. A.: “questa canzone parla di… è una canzone molto triste… è un avvertimento”.

Nell’epilogo viene definitivamente esasperato il rovesciamento dei cliché che caratterizza tutto l’esperimento di No Distance left to run. Il performer viene inesorabilmente privato di tutto il suo appeal, costretto suo malgrado a confrontarsi con le telecamere, con i fan, diviene protagonista assoluto di un’intervista non convenzionale, il cui vero scopo non è

UNA NOTTE DIETRO LE QUINTE

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quello di ottenere delle risposte verosimili e banali, ma solo l’imbarazzante e credibile silenzio di una star musicale messa a nudo.

1 “Lo sguardo diviene dunque il sostituto di un corpo immaginario che attraversa il campo del visibile, ne sposa le forme e svela l’intimità della materia” (Fontanille 1995, pp. 36-37).

Capitolo settimo Verso nuove strategie di risemantizzazione

Manipolazione del corpo e forme della veridizione Il trasformismo della star è un gioco sull’identità sospeso tra marketing e sperimentazione artistica. In termini più strettamente semiotici può essere definito come un intervento di risemantizzazione che mira a riconfigurare l’immagine precostituita del performer sovrapponendo ai tratti distintivi di un’identità forte, stabile, le tracce sensibili di soggettività inedite, i frammenti di un’identità audiovisiva in costante rielaborazione. Nei videoclip la figura della star viene sottoposta a forme di manipolazione estremamente differenziate, sia per quanto riguarda le tecniche impiegate che il grado di deformazione raggiunto. Questi interventi di manipolazione trasformano il corpo della star in un supporto flessibile, malleabile; modificandone drasticamente la forma, riportano alla luce una sorta di grado zero in cui i dettagli anatomici cedono il posto a un livello pre-figurativo, a una materialità non ancora formata e infinitamente plasmabile. Lo scopo di questo elaborato processo di bricolage è proporre al consumatore delle forme di identità originali ma sufficientemente misteriose da resistere il più a lungo possibile nella hit list delle preferenze del pubblico. Un’identità incerta, enigmatica, può rilanciare l’appeal del performer, stimolare l’iniziativa del pubblico, rendendolo parte attiva nella ricerca di indizi rivelatori, in un gioco consapevole dello “smascheramento” che

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sollecita forme originali di contatto tra il fan e la star, dando vita a forme di contagio (come il tam tam mediatico, o il passa parola) che alimentano il fenomeno del mitismo, supportando in maniera decisiva il successo commerciale di un album musicale. Nei video le diverse figure della risemantizzazione del corpo non vengono impiegate esclusivamente per restituire al performer una nuova “pelle”, simulacro seducente di un’identità effimera, ma sempre più spesso sono esse stesse oggetto di una messa in scena ironica o polemica che si appropria di tutto un repertorio di clichés sul look delle star dando avvio a una vertigine autoriflessiva dagli esiti imprevedibili. Per conquistare un pubblico sempre più competente nei confronti delle strategie che assicurano l’efficacia del reality show in tutte le sue declinazioni, informato dei retroscena e delle dinamiche che decretano il successo di un personaggio pubblico, l’immagine della star si rinnova radicalmente. Il corpo patinato lascia il posto o si sovrappone alle tracce visibili della sua stessa costruzione, innescando un complesso gioco di specchi in cui la seduzione viene raffigurata come valore critico. Il corpo, tanto più seducente quanto più svelato come prodotto di un artificio, è rappresentato come il risultato fragile di una dialettica ininterrotta che coinvolge tanto il performer quanto l’intero apparato dell’industria discografica. Band esordienti, così come veri e propri miti musicali mirano ad affermarsi e autolegittimarsi nei confronti di un pubblico smaliziato come figure dotate di un’identità al tempo stesso originale e consapevole delle regole del gioco, parte del sistema e scheggia impazzita. In questo processo di autorappresentazione l’industria culturale viene spesso raffigurata sotto forma di una macchina infernale, un rullo compressore che travolge l’identità dell’autore in un processo di omologazione apparentemente senza via di uscita. Il rapporto conflittuale che lega il performer, l’apparato produttivo e il pubblico lascia il segno sul corpo. Nei video

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la manipolazione dell’identità viene spesso figurativizzata come deformazione, la cicatrice viene esibita come segno di ostinata distinzione e inevitabile appartenenza innescando forme di veridizione paradossali in cui l’autenticità della star è tanto più valorizzata quanto più esibisce la propria contraffazione. Se dunque l’autenticità passa sempre più per lo svelamento ostentato di un’estrema falsificazione, non sorprende che il luogo topico in cui il corpo del performer viene mostrato al pubblico come artificioso oggetto di consumo sia il reparto di chirurgia plastica. La messa in scena dell’intervento di chirurgia non mira infatti solo a valorizzare il sex appeal della star, riducendo o eliminando le imperfezioni del corpo, ma a innestare sulla sua superficie elementi estranei, frammenti che rivelano in modo più o meno diretto i conflitti e i compromessi che si nascondono sempre dietro un volto da copertina. Significativamente, nei video la maggior parte delle operazioni di chirurgia non coinvolge globalmente il corpo della star ma si concentra nella zona del viso, figura che esprime in modo simbolico l’identità del performer e al tempo stesso allude come un vero e proprio simulacro al valore commerciale ed estetico dell’album musicale.

Figg. 30-31-32-33. Madonna, Hollywood.

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Un testo esemplare in questo senso è senz’altro Hollywood, un recente video realizzato da Jean Baptiste Mondino per Madonna in cui la star non si limita a ironizzare sui canoni estetici effimeri proposti dall’industria discografica e cinematografica ma ne rivendica l’uso pienamente consapevole come efficace strumento di autopromozione. L’icona musicale, reinterpretando in una rapida successione tutte le trasformazioni affrontate nell’arco di un’intera carriera, rivela progressivamente il vero volto del successo, dal make up all’acconciatura, dallo stile dell’abbigliamento alle infiltrazioni di silicone negli zigomi e nelle labbra. Dove hai la testa? Il vero volto di una deformazione professionale Nella produzione videomusicale gli interventi di chirurgia plastica possono spingersi decisamente oltre questi limiti e rivendicare in modo sempre più eclatante l’uso del volto come strumento privilegiato di affermazione dell’identità. La sovrapposizione della dimensione privata e dell’immagine pubblica del perfomer viene messa in scena ricorrendo a vere e proprie deformazioni in cui il logo commerciale si inscrive sulla pelle trasformando il corpo in un veicolo di promozione. È il caso di Where’s your head at? realizzato da Traktor per i Basement Jaxx e premiato nel 2002 dalla MVPA (Music Video Production Association) come miglior video nella sezione musica elettronica. L’attacco del video è decisamente originale. Le prime inquadrature mostrano l’arrivo di un taxi nel cortile interno di un edificio anonimo, le riprese sono realizzate con camera a mano, la musica è assente, sostituita da un tappeto di rumori metropolitani registrato in presa diretta (martello pneumatico, clacson) che contribuisce a restituire a questa prima sequenza un forte effetto di realtà.

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Dal taxi scende rapidamente il manager di una band musicale. L’uomo parla al cellulare in modo piuttosto concitato, la sua voce si sovrappone ai rumori di fondo, per un istante si riesce a cogliere solo un frammento di conversazione che tuttavia si rivela indispensabile per comprendere l’argomento, il topic dell’intero video (…) I’m meeting some guys who say they have the latest thing in pop music (…)1.

Lo scopo del manager è scoprire l’ultima novità nell’industria discografica, un segreto custodito gelosamente all’interno dell’edificio. Terminata la conversazione il protagonista si avvia verso l’ingresso, dopo pochi passi sulla sua destra un evento inaspettato interviene a turbare la realizzazione del suo programma narrativo2. Alcuni uomini in camice bianco estraggono da un furgone una barella su cui giace steso un uomo che con una mano stringe ostinatamente il manico di una chitarra elettrica. Il manager osserva sorpreso la scena, incapace di dare un senso a una patologia quanto meno ambigua. Un punto di sincronizzazione interviene a marcare con forza un’evoluzione, uno scarto che investe sia l’ordine degli eventi narrati sia le operazioni che regolano sul versante audiovisivo la correlazione di suoni e immagini. Il “paziente” riesce a sollevarsi a fatica dalla barella e rivolge uno sguardo diretto alla camera. In piena coincidenza con questa forma di interpellazione diretta, i rumori in sottofondono cessano bruscamente e al loro posto si inserisce la musica. Il passaggio nell’inquadratura successiva da uno spazio esterno (cortile) a uno interno (corridoio dell’edificio) segnala definitivamente la conclusione di questa prima sequenza che innesca all’interno del video un movimento tensivo crescente configurandosi dunque come un vero e proprio prologo. Il corridoio dell’edificio è assolutamente asettico, mura bianche, porte bianche, nessuna indicazione, unica presenza un’infermiera che stringe tra le mani uno strumento mu-

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sicale, una tastiera elettronica, rivolgendo al manager uno sguardo curioso e insistente. Il protagonista attraversa nervosamente l’intero corridoio, finalmente viene accolto da un dottore che lo invita a entrare in uno studio. Il medico manovra ripetutamente alcune leve che trasmettono al manichino di una scimmia movimenti scomposti.

Figg. 34-35-36. Basement Jaxx, Where’s your head at?

In perfetta sincresi con il ritmo crescente del brano musicale lo scienziato simula i risultati di un misterioso esperimento che permetterebbe agli animali di suonare in modo efficace qualsiasi strumento musicale. Il tentativo di convincere il manager che le scimmie possono essere una valida alternativa alle band pop tradizionali sembra andare a vuoto. Non resta che coinvolgere direttamente il visitatore portandolo nel laboratorio dove vengono condotti gli esperimenti, nel backstage dell’intera operazione. Seduto all’interno di una gabbia trasparente, il manager osserva sempre più sorpreso un’incredibile performance musicale. Rispondendo a un segnale convenzionale del dottore, alcune scimmie prendono posizione su un piccolo palco, seguendo un ordine prestabilito afferrano degli strumenti musicali in miniatura e iniziano a suonare.

VERSO NUOVE STRATEGIE DI RISEMANTIZZAZIONE

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Figg. 37-38-39-40. Basement Jaxx, Where’s your head at?

Nel laboratorio la performance delle scimmie si sovrappone fino a coincidere con il ritmo del brano musicale; il lip-synch perfeziona ulteriormente l’illusione di un’esecuzione live del singolo. Una serie di inquadrature ristrette permette di osservare da vicino i componenti di questa straordinaria formazione: si tratta di esseri ibridi, veri e propri uominiscimmia. Progressivamente, nel video si istituisce un parallelismo molto stretto tra gli esperimenti pseudo-scientifici condotti nella clinica e i tentativi talvolta grotteschi delle etichette discografiche di costruire nuovi miti musicali, di proporre al pubblico volti nuovi.

Fig. 41. Basement Jaxx, Where’s your head at?

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La figurativizzazione del processo di costruzione delle star musicali si realizza infatti sotto forma di manipolazione del corpo. Le creature ibride che eseguono la performance musicale non riproducono semplicemente i tratti somatici di un essere umano ideale, anonimo, ma recano sul volto le tracce esplicite di due figure profondamente coinvolte nella realizzazione del brano musicale, i veri componenti dei Basement Jaxx. Ancora una volta la deformazione del corpo, inscrivendo all’interno del testo una forma di interpellazione, un invito rivolto allo spettatore competente a riconoscere e valorizzare la presenza e il ruolo del performer, si rivela come una delle figure di enunciazione enunciata più frequenti ed efficaci nei videoclip. A questo intervento sul piano dell’espressione corrisponde una trasformazione sul piano del contenuto. La manipolazione del corpo della star permette di simulare all’interno del testo un rifiuto nei confronti delle strategie promozionali dell’industria discografica. I performer, ridotti a fenomeni da baraccone si ribellano sia nei confronti dello scienziato sia nei confronti del manager, distruggendo apparecchiature mediche e strumenti musicali. In questo modo il videoclip sottopone al suo spettatore un nuovo contratto di veridizione in cui la star musicale tenta di affermare la propria irrinunciabile autenticità valorizzando innanzitutto la falsificazione esplicita della sua identità. Il gioco di simulazioni e rivelazioni, l’alternanza continua di effetti di realtà e di finzione rientrano in una strategia globale di legittimazione dell’identità della band. Niente è come sembra. La stessa deformazione del volto, se da un lato esprime il rifiuto dei musicisti nei confronti delle regole imposte dal mercato, dall’altro è parte integrante di una medesima strategia dell’enunciazione che mira a valorizzare l’album musicale distribuendo all’interno del testo elementi che rimandano al corredo visivo realizzato per la promozione (composizione grafica della copertina del cd, book, fotografie).

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In particolare l’insistenza sulla performance delle scimmie, i piani di ripresa ravvicinati sulle espressioni del volto alludono in modo esplicito alla cover del cd di Rooty, l’album dei Basement Jaxx da cui è tratto il singolo.

Fig. 42. Basement Jaxx, Where’s your head at?

Come accade spesso nella produzione videomusicale più recente, la strategia testuale del videoclip mira a mantenere il rapporto di fiducia tra i musicisti e il pubblico valorizzando l’isotopia dominante della trasgressione sotto forma di percorsi narrativi e configurazioni discorsive molteplici (cfr. Peverini 2002). Il tema dominante dell’artista-vittima-del-sistema viene declinato a partire dal conflitto natura/cultura o arte/commercio e messo in scena a livello discorsivo facendo ricorso ai diversi linguaggi di cui si compone il testo audiovisivo. Suoni, immagini, testo scritto nelle loro reciproche sovrapposizioni si configurano progressivamente come interventi mirati dell’istanza dell’enunciazione, utili a orientare la fruizione del testo e a esplicitare il grado di coinvolgimento della star nei confronti delle dinamiche promozionali dell’industria discografica. Nei video la trasgressione viene raffigurata sotto forma di un conflitto simulato, un confronto polemico che vede opposti solo virtualmente due soggetti distinti, in cui la performanza della star consiste nell’acquisire la consapevolezza che destinante e antisoggetto coincidono, la certezza che il proprio programma d’azione e i limiti che ne ostaco-

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lano la realizzazione hanno origine dalla stessa figura, il mercato discografico. Nel video la credibilità della star si realizza dunque a partire dalla capacità del performer di rendere visibile al pubblico la propria consapevolezza nei confronti delle norme imposte dallo star system. Il musicista, disseminando all’interno del video tracce esplicite della sua presenza, embrayando continuamente il discorso di cui fa parte tenta di richiamarsi all’interno del testo, di affermare la propria identità, ponendosi al tempo stesso dentro e “fuori” il dispositivo finzionale. Questo ricorso esplicito al registro commentativo viene declinato spesso in modo ironico. È il caso di El Salvador, un videoclip realizzato nel 2003 per il lancio di Vehicles and animals, album d’esordio degli Athlete, una pop band inglese. Nel video il classico conflitto irrisolto tra la dimensione privata e quella pubblica della star viene figurativizzato in modo esplicito sostituendo al volto del leader della band la cover di un vinile che ne riproduce fedelmente i tratti.

Fig. 43. Athlete, El Salvador.

Caso esemplare di enunciazione enunciata, questo intervento di deformazione costringe il performer a trascinarsi dietro un giradischi portatile, e a esprimere i propri pensieri e stati d’animo manipolando l’oggetto di consumo da lui stesso realizzato, suonando direttamente il vinile. Lo scenario in cui si articola il percorso modale del protagonista è un reparto di chirurgia plastica, El Salvador Hospital, la cui insegna richiama in modo evidente il titolo del singolo.

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Il ricorso all’intervento chirurgico nel video è chiaramente metaforico: la clinica, infatti, è innanzitutto un luogo della veridizione dove si scontrano le due dimensioni dell’essere e dell’apparire, uno spazio d’azione per un soggetto alla ricerca di un’identità smarrita. La metatestualità è assolutamente esplicita e viene declinata a partire da soluzioni visive originali. Seduto nella sala d’aspetto il performer sfoglia una rivista sotto lo sguardo curioso di due figure chiaramente “compromesse” con bisturi e liposuzioni, un bodybuilder e un’anziana signora in tailleur. Tra le mani del musicista scorrono alcune pubblicità che sfruttano la sua stessa immagine e il nome della band, Athlete, per promuovere l’ultimo modello di televisore a schermo piatto e una rivista scandalistica dedicata alle star della musica pop.

Figg. 44-45. Athlete, El Salvador.

Durante la visita preliminare con il chirurgo il performer estrae il vinile dalla sua stessa testa. Alle immagini che raffigurano in dettaglio la puntina del giradischi si sovrappone una breve scritta, “MY LIFE”, che come un embrayage enunciativo permette di simulare la presa in carico della canzone da parte del suo interprete, richiamando in modo esplicito la presenza del soggetto dell’enunciazione.

Figg. 46-47. Athlete, El Salvador.

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Questo testo inscrive all’interno del video un secondo livello narrativo in cui una serie di piccole animazioni grafiche raffigura in modo estremamente sintetico il carico modale innescato dall’insolita deformazione del volto, un nonpoter fare che condiziona in modo assoluto sia la sfera affettiva sia la realizzazione professionale: la mancanza di amici, l’impossibilità di baciare una ragazza, le difficoltà nel trovare un posto di lavoro… Progressivamente l’isotopia dominante della perdita dell’identità viene raffigurata sotto forma di una vera e propria ossessione. Tutti gli oggetti a portata di mano rimandano in modo insistente alla deformazione del volto condizionando visibilmente la percezione dell’ambiente esterno da parte del soggetto e innescando un andamento ritmico crescente che prelude alla fase della performanza. Nel video questa linea di coerenza semantica viene attivata da alcune soluzioni visive che valorizzano sia la dimensione propriamente figurativa degli oggetti sia quella plastica. Il titolo di un libro, Being Yourself, uno spot televisivo che pubblicizza una serie di prodotti di bellezza, Beauty Kit, il corpo attraente di una donna e lo slogan “Look pretty! Feel beautiful!”, fino agli alimenti nel vassoio portato dall’infermiera in cui le forme circolari, disposte in una progressione regolare, riproducono in una singolare mise en abîme le caratteristiche del giradischi e del vinile, al punto che il musicista con un gesto tipico delle performance live simula uno scratch sui piatti facendoli ruotare in sincresi con il ritmo del brano musicale.

Fig. 48. Athlete, El Salvador.

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Alla star musicale non resta dunque che affrontare la prova decisiva, sottoponendosi a un intervento di chirurgia per “togliersi dalla testa” l’ossessione di un’immagine pubblica invadente. Nella sala operatoria, sotto l’azione di un raggio laser, il volto viene infine separato dal vinile. La sanzione del percorso modale del soggetto è affidata simbolicamente a uno specchio, dispositivo fortemente codificato di enunciazione enunciata, figura della veridizione in grado di arrestare o moltiplicare all’infinito le interferenze che coinvolgono diversi regimi di visibilità e di conseguenza gli effetti di senso di cui si caricano all’interno del testo (realtà/illusione; autenticità/finzione). Sul piano visivo un’inquadratura ristretta sul volto del performer restituisce l’intensità e la tensione che si accompagnano alle fasi conclusive di un profondo conflitto passionale che è innanzitutto uno scontro tra due identità distinte.

Fig. 49. Athlete, El Salvador.

Il musicista osserva soddisfatto la sua immagine nello specchio, poi ruota leggermente il volto e con un effetto a sorpresa si rende conto di essere ancora una figura piatta, priva di spessore, una semplice illustrazione bidimensionale. Deformazione professionale. Anche in questo si rivela in fondo la vitalità di una forma breve, nella capacità di cogliere alla lettera il senso di un’espressione d’uso comune, forzandone i limiti e facendone esplodere i possibili percorsi figurativi.

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Daft Punk. Un modello di identità sospeso tra sovraesposizione e negazione Il trasformismo della star, la costruzione di un’identità “offuscata”, prodotto sempre provvisorio di un assemblaggio ri-creativo, sono dinamiche in costante evoluzione, fenomeni comunicativi che riflettono l’andamento oscillante dell’industria discografica e televisiva. Nel gioco vorticoso dei rimandi intertestuali (speciali televisivi, inediti “dietro le quinte”, interviste radiofoniche, copertine di magazine, riviste specializzate) le tradizionali modalità di costruzione dell’icona musicale si rinnovano profondamente, il legame tra performer e pubblico si evolve verso forme di contatto mediato sempre più avvincenti che sfruttano anche il potenziale interattivo dei siti web per ridurre una distanza incolmabile, per rendere il fan protagonista consapevole di uno star text (Goodwin 1992) in costante evoluzione. Una delle formazioni musicali che ha praticato in maniera strategica la commistione tra realtà e finzione nella costruzione della propria immagine è senz’altro il gruppo francese dei Daft Punk. I due componenti della band, Thomas Bangalter e GuyManuel De Homem-Christo pubblicano nel 1997 Da Funk un album d’esordio destinato a ridisegnare profondamente il panorama della disco music internazionale dando avvio a una vera e propria nouvelle vague francese (Air, Cassius, Motorbass, Dimitri From Paris, Phoenix, The Micronauts, Impulsion, lo stesso Laurent Garnier che acquista una rinnovata popolarità). Sin dall’inizio i due musicisti/produttori adottano una curiosa strategia di autopromozione: sottraendosi completamente all’attenzione dei mass-media, alimentano vertiginosamente l’interesse della stampa e del pubblico per un fenomeno musicale assolutamente misterioso, “senza volto”. Mentre con l’avvento del “French touch”, la Francia, e in particolare Parigi, riacquistano credibilità sul versante musicale imponendosi come epicentro della nuova dance

VERSO NUOVE STRATEGIE DI RISEMANTIZZAZIONE

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music mondiale, i due Daft Punk affidano a un videomaker indipendente di culto, Spike Jonze, la regia di uno dei singoli di punta dell’album, Da Funk. Generalmente nei video realizzati per la musica dance regna la tendenza a valorizzare il corpo della star sfruttando vistosi effetti speciali; al contrario, in Da Funk i due autori sono del tutto assenti: il protagonista del video è infatti una creatura ibrida, un uomo con la testa di un cane, peraltro realizzata non con elaborati effetti speciali ma con una semplice maschera, segno esplicito di una messa in scena dichiaratamente artificiale. L’ostentazione di questa maschera assolutamente impenetrabile segna il trionfo dei Daft Punk, imponendo definitivamente all’attenzione del pubblico, dei critici e delle case discografiche non solo una band dal sound innovativo ma un logo spiazzante, un originale “marchio di fabbrica”. Il videoclip, declinando in maniera originale la strategia di costruzione di un’identità “per sottrazione”, ottiene un successo straordinario nei palinsesti delle emittenti musicali. Ogni mossa dell’enigmatico duo di musicisti/produttori è accuratamente studiata; l’obiettivo è modellare la nuova icona della musica francese costruendo progressivamente un’identità sfaccettata. Nasce così Daft Trax (divisione dedicata alla musica e al management), Daft Music (etichetta discografica che pubblica in Francia), Daft House (lo studio di registrazione parigino), Daft Arts (divisione che si occupa delle foto e dei logo, tra cui il logo Daft Punk ricamato sull’album Homework, creato dallo stesso De Homem-Christo) e infine Daft Life (divisione che si occupa della produzione di videoclip e DVD, come Daft-A Story About Dogs, Androids, Firemen And Tomatoes). Non amiamo farci ritrarre. In parte per perpetuare il mito Daft Punk e in parte perché fin dall’inizio abbiamo preferito porre maggiore importanza nella musica. A dir la verità ci piace l’idea del duo di produttori dall’identità sconosciuta. E poi abbiamo talmente tante maschere! Penso che l’idea delle maschere complichi e allo stesso tempo semplifichi le cose3.

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L’operazione Daft Punk si realizza sotto forma di una complessa strategia testuale che riconfigura radicalmente il legame consolidato tra la valorizzazione del corpo della star e le qualità dell’album musicale. Nei video analizzati in precedenza, le figure della manipolazione del corpo intervengono a trasformare in modo parziale o totale dei simulacri che rinviano in modo esplicito alla figura reale della star perché ne riproducono alcune caratteristiche note al pubblico. Questi interventi di risemantizzazione mirano a ridurre la distanza tra il soggetto dell’enunciazione (il performer) e le sue proiezioni, simulando sulla superficie del testo la presenza di un’operazione di reinnesco (embrayage). Diversamente nei video dei Daft Punk i dispositivi dell’enunciazione vengono impiegati prevalentemente per mettere a distanza il performer, per aumentare l’effetto di un distacco incolmabile tra la star e i suoi simulacri (débrayage), negando allo spettatore la possibilità di accedere alla dimensione veridittiva del backstage, di fare presa sulla figura concreta dell’autore. Daft Punk è dunque il prodotto di una doppia operazione: da un lato i performer si negano nei confronti del pubblico come figure autentiche, dotate di una fisicità, dall’altro legittimano la propria presenza moltiplicando i simulacri sotto forma di maschere, tanto più seducenti ed efficaci quanto più incapaci di restituire allo sguardo dello spettatore la vera identità della band. Per lanciare il nuovo album Discovery, i Daft Punk rielaborano profondamente la propria immagine, dando vita a una forma di identità collettiva che esprime un equilibrio perfetto tra la ripetizione e l’innovazione. Sfruttando i circuiti distributivi di un imponente apparato promozionale, il duo francese fa diramare in tutto il mondo un comunicato stampa ufficiale, secondo cui il 9 settembre del 1999, in seguito all’esplosione di un campionatore nel loro studio di registrazione, i vecchi Daft Punk sarebbero “morti”, per risorgere successivamente sotto nuove vesti, quelle di due veri e propri robot.

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Fig. 50. Daft Punk.

Come per Bowie, anche in questo caso l’uscita dell’album viene accompagnata da una profonda trasformazione dell’identità del performer, secondo una strategia promozionale che sfrutta il rinnovamento del look per marcare un’evoluzione che riguarda innanzitutto lo stile musicale. Discovery è infatti il risultato sorprendente della rielaborazione in chiave moderna di sonorità tipicamente anni Settanta. I ritmi e le melodie selezionati sono completamente stravolti mediante l’ausilio di un numero incredibile di filtri ed effetti4. L’album è il risultato di un sincretismo di generi fortemente codificati, house music, electro-dance, funky. Questa pratica di ricombinazione non si esercita esclusivamente sulla componente musicale ma si estende all’intero progetto Discovery.

Fig. 51. Daft Punk.

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I Daft Punk affidano la realizzazione dei due videoclip dell’album One more time e Aerodynamic a un guru dei manga giapponesi, Leiji Matsumoto, autore di classici dell’animazione degli anni Settanta come Capitan Harlock e Galaxy Express 999. I due video di Discovery sono completamente animati e sfruttano la forza evocativa dei disegni per valorizzare i due singoli. L’esibizione delle maschere, il gioco raffinato sull’identità ritornano in entrambi i video, primi episodi di Interstella 5555. The Story of the Secret Star System, una micro saga che narra il tentativo di rapimento di una band di musicisti alieni da parte di un produttore discografico senza scrupoli. Nei video riflessività e intertestualità si compenetrano, ogni personaggio rievoca in modo esplicito i protagonisti della serie Capitan Harlock, che qui impugnano delle chitarre come se fossero armi laser. Il batterista somiglia a Toshiro, braccio destro di Capitan Harlock, i tratti grafici del chitarrista, leader della band, richiamano direttamente la figura del protagonista di un’animazione del 1972, La Corazzata dello spazio, il personaggio femminile sembra infine provenire direttamente dalla serie Galaxy Express 999.

Fig. 52. Daft Punk.

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Per alimentare sul mercato discografico e videomusicale il culto per un’identità trasformista, in continua evoluzione, garanzia di una produzione musicale raffinata, i Daft Punk non esitano a indossare le nuove divise da robot in tutte le uscite pubbliche: interviste, esibizioni live, reportage fotografici. In questa complessa pratica del travestimento la maschera assolve pienamente la sua funzione simbolica. Come lo specchio, essa si rivela infatti un agente trasformatore, un dispositivo della veridizione in grado di riconfigurare il legame tra la star e il pubblico agendo al tempo stesso come una figura-rinvio che moltiplica l’identità pubblica del performer legandola alle icone dell’immaginario giovanile (l’universo dei supereroi) e come una figura-schermo, “oggetto magico” inamovibile, garanzia per il soggetto di un’identità inviolabile. Gorillaz. L’appeal irresistibile di un’identità multiformato Il fenomeno audiovisivo per eccellenza che ha sfruttato la co-presenza di linguaggi e media differenti per imporre sul mercato un modello assolutamente inedito di identità musicale è la band dei Gorillaz.

Fig. 53. Gorillaz.

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Un team di produttori all’avanguardia, formato da Dan The Automator Nakamura, Kid Koala e Del Tha Funkee Homosapien, ha supervisionato un’operazione del tutto originale: trasformare un gruppo di musicisti (Damon Albarn dei Blur, Miho Hatori delle Cibo Matto, Tina Weymouth, Chris Frantz di Tom Tom), in una band “virtuale” i cui componenti hanno nomi e identità da fumetti. 2D, il leader della band (“alter ego” di Damon Albarn), è un cantante con le orbite scavate e un look punk; Murdoc, il chitarrista, si presenta come un agguerrito cultore di riti satanici; Russell (“alter ego” di Dan The Automator Nakamura) è un batterista dal fisico massiccio posseduto dallo spirito di un rapper chiamato Del; Noodle, la bassista, è una principessa giapponese di undici anni. La caratterizzazione grafica della band è stata realizzata da Jamie Hewlett, il noto creatore del fumetto di culto Tank Girl. Con il progetto Gorillaz l’unione di scopi commerciali e sperimentazione artistica giunge a una svolta: per la prima volta l’immagine di una band debutta sul mercato sfruttando pienamente la strategia del multiformato. I quattro personaggi-alter ego si impongono all’attenzione del pubblico e della critica utilizzando la convergenza di mezzi di comunicazione e linguaggi diversi. Il collettivo Gorillaz esibisce sin dall’inizio un’identità complessa, fortemente dinamica. Le avventure dei quattro musicisti si evolvono sfruttando in modo trasversale la televisione (i video realizzati in occasione dell’uscita dell’album sono tre), la stampa (nelle interviste rilasciate dalla band sono rigorosamente inclusi i disegni dei quattro personaggi), ma soprattutto i siti web (nel sito ufficiale www.gorillaz.com, viene “rivelato” al pubblico il rifugio segreto della band, particolarmente ricco di news e materiali extra).

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Fig. 54. Gorillaz.

Il controllo sull’immagine Gorillaz è totale, ogni uscita pubblica del gruppo mira a costruire uno scenario virtuale, fortemente strutturato, un macro-testo multimediale che progressivamente assume le sembianze di un unico scenario sincretico, in cui vengono ridefiniti i tradizionali confini che separano forme testuali differenti. 2D, Murdoc, Russell e Noodle “vivono” in un ambiente complesso e in continua evoluzione, alimentandosi dell’attenzione dei media che essi stessi suscitano. Il sito in particolare rappresenta in modo esemplare questa strategia della convergenza, agendo come una sorta di macro-contenitore delle avventure della band (completamente realizzato in Flash™), all’interno del quale vengono esibiti video, interviste, speciali radiofonici, inediti back stage. Con i Gorillaz la linea di confine tra realtà e finzione viene definitivamente offuscata, il corpo della star viene sottoposto a un intervento di manipolazione che riduce i volumi a figure, l’icona di una pop star come Damon Albarn a una silhouette caricaturale a due dimensioni (2D) che mantiene solo alcuni tratti dell’originale: la voce, il taglio dei capelli, gli zigomi.

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Fig. 55. Gorillaz.

L’intento è quello di togliere dalla circolazione una formula trita e ritrita. Ovvero quella della band composta da cinque ragazze o da cinque ragazzi che sanno fare le capriole in aria e che sembrano dei modelli da passerella. È un abuso, uno sfruttamento… stanno “usando” questi ragazzi: A1, Hear’Say, Spice Girls, tutti loro vengono manipolati… non ho niente contro di loro, ma questa forma di abuso deve finire una volta per tutte. Un bel giorno si sentiranno dire che ormai sono troppo vecchi per continuare ad esistere, magari perché dietro l’angolo c’è un nuovo gruppo che è più bello e che suona meglio di loro, allora verranno abbandonati come fossero spazzatura

Gorillaz tuttavia non è una semplice operazione commerciale, ma il risultato, musicalmente valido, di una sperimentazione artistica e tecnologica. Il carattere fortemente sincretico di questa identità collettiva si riflette nelle sonorità dell’album. La matrice black degli arrangiamenti si fonde efficacemente con la voce di Damon Albarn (Tomorrow comes today), la combinazione insolita di sintetizzatori e tastiere vintage rende particolarmente coinvolgenti i loop di Dan The Automator (Double Bass). I generi musicali di riferimento dell’album, indie-pop e hip-hop da un lato sono chiaramente riconoscibili, dall’al-

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tro si contaminano reciprocamente. Se in alcuni passaggi si ha la sensazione di cogliere le influenze e lo stile di ciascuno dei quattro artisti, complessivamente Gorillaz non può essere assimilato a un album dei Blur, delle Cibo Matto, di Tom Tom Club o Dan The Automator.

Fig. 56. Gorillaz.

Con Gorillaz le tradizionali strategie di costruzione dell’identità della star si rinnovano profondamente. Nel confronto con i nuovi scenari della comunicazione multimediale i videoclip dimostrano una straordinaria capacità di adattamento, esibendo la propria natura di micro-testi ibridi si rivelano ancora una volta come luoghi strategici di un riciclaggio creativo, forme brevi la cui efficacia è vincolata a un trasformismo irrimediabilmente “schizofrenico”5.

1 “(…) Vado a un appuntamento con alcuni ragazzi che sostengono di aver trovato l’ultima novità nell’ambito della musica pop (…)”. 2 Programma narrativo: successione di stati e di trasformazioni in un racconto. I testi narrativi, indipendentemente dalla sostanza dell’espressione (verbale, visiva, sonora) possiedono un’architettura complessa di programmi narrativi che possono essere reiterati (es. una catena di fallimenti che sfocia nel

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successo finale), inseriti l’uno nell’altro (un programma può essere interrotto temporanemante o definitivamente da un altro programma), gerarchizzati (per realizzare un programma narrativo di base come la lotta contro l’anti-soggetto il soggetto deve superare un programma narrativo preliminare, detto d’uso, come ad esempio l’acquisizione dell’oggetto magico). La griglia culturale di lettura dei racconto contribuisce a inquadrare i diversi programmi narrativi all’interno di uno schema canonico generale che ne ordina la successione e ne definisce le finalità, lo schema narrativo canonico (Bertrand 2002). 3 Dichiarazione ufficiale rilasciata dalla band 4 Da qui il termine Filter House che designa la scena musicale house francese. 5 La sperimentazione sull’ibridazione del linguaggio, unitamente all’esigenza delle case discografiche e delle emittenti televisive di rinnovare costantemente le proprie strategie di marketing, sono alla base del tentativo recente di elaborare nuove forme di testualità promozionale. A partire dal primo settembre 2000, MTV ha iniziato a programmare una piccola selezione di “webeo” (web + video), forme brevi nate dalla contaminazione reciproca di linguaggio audiovisivo e multimediale. Diversamente dai video tradizionali, questi micro testi promozionali sono ideati e realizzati esclusivamente per il web, utilizzando riprese dal vero, grafica e animazione. L’obiettivo principale delle società di produzione impegnate nella realizzazione dei webeo (Fullerene Production, Sudden Industries) è proporre un’alternativa valida alle tradizionali modalità di fruizione dei videoclip sulla rete. Gli autori dei webeo (anche noti come music digitals) considerano queste forme brevi una sorta di controparte multimediale dello standard di compressione MP3 che ha completamente rivoluzionato la diffusione e lo scambio di musica sulla rete. I webeo sfruttano un grado minimo di interattività per ridurre ulteriormente la distanza che separa il performer dal pubblico; le forme di manipolazione del corpo della star sono in parte gestibili direttamente dall’utente che muovendo il mouse può scegliere tra un repertorio limitato di possibili effetti grafici. Ad esempio nel video di I’ve seen it all realizzato da Floria Sigismondi per Björk, gli spettatori possono intervenire alterando l’audio originale del brano musicale, o modificare la sequenza dei movimenti della cantante islandese, rielaborando completamente i colori della pelle e le immagini utilizzate per lo sfondo.

Per concludere

Al termine di questa riflessione sulle strategie testuali del videoclip può essere utile recuperare la dimensione diacronica del fenomeno, sintetizzare l’evoluzione di queste forme brevi individuando alcune fasi di un percorso di sperimentazione che ha impiegato le figure dell’enunciazione audiovisiva come dispositivi essenziali di valorizzazione della star. Lo schema proposto non ha la pretesa di ricostruire fedelmente la storia del videoclip, ma mira unicamente a indicare le linee evolutive di una tendenza all’utilizzo di forme dell’enunciazione sempre più complesse e raffinate, a prescindere dalle distinzioni dei generi musicali e dai tentativi di classificazione della forma-videoclip. Sebbene la dimensione metatestuale sia riscontrabile in alcuni videoclip realizzati fin dalle origini di questa forma breve (un testo esemplare in questo senso è Space Oddity del 1972, in cui David Bowie nei panni del suo alter ego Ziggy Stardust si esibisce all’interno di uno studio di registrazione), l’utilizzo consapevole delle figure dell’enunciazione si è imposto con regolarità solo progressivamente, al punto da raggiungere lo stadio attuale in cui alla standardizzazione e all’usura di formule sperimentate nel corso degli anni si alternano soluzioni espressive originali. 1.

2.

Messa in scena Manipolazione del corpo del corpo

3.

4.

Messa in scena della manipolazione del corpo

Messa in scena dei simulacri del corpo

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1. La messa in scena del corpo Nella prima fase le forme del videoclip sono fortemente condizionate dall’esigenza di garantire al performer un’immagine da esibire nei confronti del pubblico. La figura della star è oggetto di una messa in scena che sfrutta in modo limitato le potenzialità del linguaggio audiovisivo; il corpo viene esibito spesso con l’unica intenzione di assicurare al performer una riconoscibilità. All’interno dei testi la dimensione riflessiva è dunque assolutamente relativa, limitata a forme canoniche di enunciazione enunciata, formule elementari come gli sguardi in camera o il lip synch. L’imperativo è legittimare il performer associando la sua immagine all’esecuzione del brano musicale. Allo scopo di restituire una spettacolarità alle performance riprodotte nel piccolo schermo si afferma rapidamente la tendenza a combinare l’insistenza dei piani di ripresa sul corpo della star con il ricorso a scenari esotici o location stravaganti. Nel video di Like a Virgin (1984) il look trasgressivo di Madonna viene associato alla città di Venezia, mentre in Save a prayer (1982) i panorami dell’isola di Goa fanno da sfondo alla performance delle nuove star in ascesa del pop inglese, i Duran Duran. 2. La manipolazione del corpo Nella seconda fase il videoclip acquisisce progressivamente una legittimità nell’ambito della produzione audiovisiva. L’uso sempre più consapevole del linguaggio, la capacità di dare forma in modo efficace al ritmo e alla melodia del brano musicale, le abitudini di consumo di un pubblico abituato ai palinsesti delle emittenti televisive musicali si riflettono nell’impiego di forme originali di metatestualità. La manipolazione del corpo si afferma come una delle figure di enunciazione enunciata che assicurano al video-

PER CONCLUDERE

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clip la capacità di darsi a vedere nei confronti del proprio pubblico come testo promozionale. Gli effetti speciali impiegati per modificare la figura del corpo svelano in modo più o meno esplicito le fasi di un processo di risemantizzazione che mira a trasformare il musicista in un’icona. Il morphing è una figura esemplare di questo genere di deformazione perché non si limita a riconfigurare in modo puntuale il corpo della star, sovrapponendo al volto del performer dei tratti che rinviano a una soggettività estranea, ma mostra il dispiegarsi del percorso di risemantizzazione, la sua dimensione propriamente durativa, in altri termini l’evoluzione in corso di un’identità flessibile, modulabile. Il celebre videoclip di Black or white (1991) si conclude con un lungo piano sequenza in cui Michael Jackson si “appropria” del morphing, trasformandosi di volta in volta in uomini e donne appartenenti a razze diverse e rinviando in modo esplicito alle polemiche sulla sua appartenenza etnica. Recentemente anche un intero video di Björk, Hunter (1998), è stato realizzato con la tecnica del morphing. Nel videoclip il tema del conflitto insanabile tra natura e cultura, autenticità e finzione viene figurativizzato sotto forma di un processo di deformazione che agisce sul corpo e sull’identità della cantante islandese, trasformando progressivamente Björk in una figura ibrida, un orso metallico dichiaratamente artificiale, autenticamente falso. 3. La messa in scena della manipolazione del corpo Con la terza fase la dimensione propriamente metalinguistica si carica esplicitamente di una funzione veridittiva. La star si pone nei confronti del proprio pubblico non più semplicemente come una figura autentica, ma come il prodotto di un processo di falsificazione tanto più credibile quanto più esplicito. Alla messa in scena della manipolazione del corpo si accompagna una ricerca esasperata degli effetti di realtà e di finzione.

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La performance musicale è inquadrata all’interno di un dispositivo finzionale che sfrutta l’alternanza di débrayage ed embrayage per richiamare costantemente l’attenzione dello spettatore sulle due dimensioni dell’essere e dell’apparire. Questa strategia testuale è rappresentata in modo esemplare in Windowlicker (1999) un videoclip di grande successo realizzato da Chris Cunningham per Aphex Twin. Ancora una volta il video mette in scena il tema ricorrente della perdita dell’identità facendo ricorso a una strategia dell’enunciazione che consiste nel deformare in modo plateale il volto del performer per innestarlo direttamente sul corpo di soggetti differenti, donne, uomini, bambini. Questo débrayage enunciazionale apparentemente senza fine si riverbera sull’asse comunicativo video/spettatore figurativizzando in modo ironico la relazione asimmetrica che lega la star ai suoi fan, attante collettivo e vittima consapevole di una passione contagiosa. 4. La messa in scena dei simulacri del corpo Il processo di simulazione crescente innescato all’interno del testo dalla moltiplicazione delle figure-rinvio del performer raggiunge un livello di saturazione: il corpo della star viene cancellato e sostituito parzialmente o totalmente da uno o più simulacri, proiezioni di una fisicità tanto più valorizzata quanto più virtuale, inaccessibile. La quarta fase arresta e al tempo stesso riapre potenzialmente la progressione dei simulacri dell’enunciazione, contribuendo a produrre configurazioni metatestuali sempre più complesse in cui il gioco della veridizione si estende anche alla dimensione live della performance. È quanto avviene durante il tour dei concerti programmato per l’uscita pubblica dei Gorillaz. L’ambiguità che coinvolge l’intero apparato enunciativo si riflette direttamente nello spazio del palcoscenico e nelle sue articolazioni interne, riproducendo la strategia testuale del videoclip.

PER CONCLUDERE

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Lo spazio in primo piano, tradizionalmente occupato dai musicisti e dagli strumenti, ospita una serie di schermi all’interno dei quali scorrono immagini di vj set e frammenti di videoclip che vedono come protagonisti gli alter ego della band, mentre i veri componenti del gruppo, pur al centro della scena, sono nascosti alla vista del pubblico da un velo che restituisce unicamente le loro ombre. In questo rovesciamento paradossale in cui la musica viene eseguita in uno spazio inaccessibile, e il backstage riprodotto dal vivo su un palco, la forma videoclip raggiunge uno snodo fondamentale: riappropriandosi del dispositivo scenico del concerto continua a reclamare il nostro sguardo, rincorrendo davanti ai nostri occhi un embrayage dagli esiti imprevedibili.

Bibliografia

Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

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Stampato per conto della casa editrice Meltemi nel mese di aprile 2004 presso Arti Grafiche La Moderna, Roma Impaginazione Studio Agostini

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