Dante

In pressappoco sette giorni di viaggio narrati nella Divina Commedia, l’anima umana, sotto forma del corpo di Dante, compie i più diversi, sterminati itinerari: dalla storia lontanissima al presente, dagli abissi nefandi dell’esistenza alla gloria dell’Empireo, dall’ignoranza bruta alla conoscenza teologica, politica, etica e filosofica della civiltà umana. La Commedia è tutto questo: un’enciclopedia dell’anima, sia dal punto di vista immanente sia da quello trascendente, che non ha paragoni in tutto l’Occidente. Per la prima volta Dante usa la poesia non per rappresentare il mondo nella sua astrattezza ma per riformarlo, e colloca al centro della scena non solo Dio, ma anche l’agire dell’uomo nell’esistenza terrena. E, tanto nella Commedia quanto in altre sue opere, Dante conduce a maturità, e a dignità, la lingua italiana, reinventandola e portandola integra fino a noi. «Sotto ’l velame de li versi strani», come i suoi possono apparire, c’è quasi tutto l’italiano del XXI secolo.

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GRANDANGOLO LETTERATURA

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DANTE a cura d i Emiliano Bertin

COBBIEBE DELLA SEBA

Grandangolo Letteratura Voi. 2 - Dante Alighieri © 2017 RCS MediaGroup S.p.A., Milano E vietata la riproduzione dell’opera o di parte di essa, con qualsiasi mezzo, compresa stampa, copia fotostatica, microfilm e memorizzazione elettronica, se non espressamente autorizzata dall’editore. Tutti i diritti di copyright sono riservati. Ogni violazione sarà perseguita a termini di legge. Edizione speciale per Corriere della Sera pubblicata su licenza di O ut of Nowhere S.r.l. Il presente volume deve essere venduto esclusivamence in abbinamento al quotidiano Corriere della Sera LE GRANDI INIZIATIVE DEL CORRIERE DELLA SERA n. 27 del 29/11/2017 Direttore responsabile: Luciano Fontana RCS MediaGroup S.p.A. Via Solferino 28, 20121 Milano Sede legale: via Rizzoli 8, 20132 Milano Reg.Trìb. N. 795 del 16/11/2004 ISSN 1824-92800 Responsabile area collaterali Corriere della Sera: Luisa Sacchi Editor: Martina Tonfoni Concept e realizzazione: O ut of Nowhere Srl Ideazione e introduzioni di Giorgio Rivieccio Focus e pagine scelte a cura di Emiliano Bertin Biografìa e ambiente a cura di Gabriele Dadati Impaginazione: Marco Pennisi & C. Srl

Indice

Il poema enciclopedico dell’anima

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PANORAMA

La vita L’ambiente Cronologia

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FOCUS a cura di Emiliano Bertin

Il suo mondo e le sue idee Le opere La fortuna e gli influssi Amici e nemici

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APPROFONDIMENTI

I gradi di separazione di Dante Pagine celebri e pagine dimenticate Leggere, vedere, visitare

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IL POEMA ENCICLOPEDICO DELL’A NIMA

Nell’epoca in cui i pellegrini andavano a Roma o a Geru­ salemme, Dante Alighieri attraversò tutto questo mondo, dall’antichitàfino ai suoi tempi, e oltre, raggiungendo l ’ultra­ terreno. Il veicolo era il suo corpo, in senso materiale e spiri­ tuale, razionale e mistico, con cui attraversare gli abissi più nefandi della vita passata epresente dell’umanità e ascendere alla conoscenza ultima, al di là dei confini della nostra men­ te, al cospetto di quel Dio dal volto ineffabile che riassume tutto l’universo e le esperienze umane. Così è nato il libro più importante della letteratura italiana e, secondo alcuni, della civiltà occidentale. Dante usa la poesia non più per rappresentare il mon­ do, ma per riformarlo, risistemarlo secondo nuovi canoni, impartire una lezione a tutti i suoi abitanti: «ritornato di là, fa che tu scrive», gli ordina Beatrice. Dante reinven­ ta la tradizione enciclopedica medievale e usa la poesia, all’epoca considerata manifestazione letteraria “minore”ed

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emotiva, per esprimere invece l ’intero universo della cono­ scenza: teologia, politica, etica efilosofia, come ha osservato l ’italianista Giuseppe Mazzotta. Trasforma in reale Timmaginario con una tecnica di mimesi che mette sullo stesso piano personaggi esistenti e di fantasia — rappresentando ciascuno nella sua concretezza storica efisica di individuo fino allo stesso oltretomba che diviene per noi un luogo concreto: «La fictio della Divina Commedia è che essa non sia una fictio», sottolineava il dantista statunitense Charles Singleton. Non basta. «Dante è la lingua italiana», secondo ilfilo­ logo Ignazio Baldelli. Come osservava il linguista Tullio De Mauro, all’epoca «il vocabolario fondamentale [dell’italia­ no] è già costituito al 60%. La Commedia lofa proprio, lo integra e col suo sigillo lo trasmette nei secolifino a noi. A l­ la fine del Trecento [...] è configurato e completo a l90%. Ben poco è stato aggiunto nei secoli seguenti. [...] Non è enfasi retorica dire che parliamo la lingua di Dante. E un fatto». Il linguaggio poetico di Dante è lucido, diretto, mai vago, dalle visioni più sublimi al comico, fino al realismo più crudo, violento, allucinatorio: una «ripugnante, spesso orribile grandezza» (Goethe). Il suo testo può avere signi­ ficati polisemici, allegorici, storici, morali, anagogici (tali cioè da condurre dall’esperienza sensibile a quella divina): da qui sette secoli (finora) delle interpretazioni più diverse, dalle singole parole all’intera opera. M a Dante non è solo la Commedia: questa eclissa altre opere che invece, da sole, manterrebbero l’Alighieri ai vertici

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della letteratura italiana. La Vita nova, educazione senti­ mentale e poetica del suo autore dove già si uniscono i temi dell’amore e della conoscenza, da tempo due mondi separati; il Convivio, trattato filosofico che di fatto delinea l ’itinera­ rio spirituale del Poeta; il De vulgati eloquentia, scritto ( In latino) per mostrare agli studiosi la dignità del volgare co­ me lingua nazionale «illustre, cardinale, aulica e curiale». Fino alla Monarchia, apologia dell’Impero come forma di governo naturale, indispensabile per la felicità dell’uomo, e che discende direttamente da Dio e non dal potere papale, anch’esso indispensabile all’uomo, ma che non deve possede­ re una «potestas directa in temporalibus». Se le opere di Dante, e sopra tutte la Commedia, sono una sorta di “poema enciclopedico dell’a nima”, rappresen­ tano anche un libro aperto, nel quale la pluralità dei livelli di lettura si arricchisce nel tempo, con l’aggiunta di signifi­ cati a significati, in un gioco di rincorsa che non avrà mai termine. Ma, al di là di tutto, resta il fatto che si tratta, come diceva il grande filologo e dantista Erich Auerbach, di una svolta decisiva nella cultura occidentale, dall’antica epica alla letteratura moderna, nella quale al centro non c’è più Dio ma l ’uomo nella sua unità di spirito e corpo, di realtà individuale e realtà storica. G.R.

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LA VITA

a data di nascita di Dante Alighieri, il poeta più importante della nostra tradizione, non è attestata per via documentaria e tradizionalmente viene ricavata dalle allusioni contenute nelle sue opere. Il celebre ver­ so incipitario della Divina Commedia —«Nel mezzo del cammin di nostra vita» —allude al fatto che il viaggio oltremondano dell’autore sarebbe avvenuto a trentacinque anni: ed essendo il poema ambientato nella settima­ na santa del 1300, permette per sottrazione di ipotizzare il 1265 come data di nascita. Intuizione corroborata da alcune allusioni comprese nella Vita nova. Si suppone che il 27 marzo 1266 fosse il giorno del suo battesimo, perché a Firenze si usava somministrare il sacramento in maniera “massiva” al Sabato Santo. Dante è la contrazione di Durante, nome dato in ricordo del nonno materno, ghibellino. I guelfi erano stati cacciati e la fedeltà all’imperatore consentiva una

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Incipit delta p rim issim a edizione della Divina Commedia in caratteri mobili del 1472.

prosperità economica in cui la famiglia del poeta si in­ seriva appieno. Per quanto meno in vista di altre in città, aveva raggiunto un’agiatezza mai in precedenza così significativa. Il padre, Aleghiero o Alighiero di Bellincione, era compsor (cambiavalute), anche se documenti conserva­ ti presso l’Archivio Diocesano di Lucca direbbero di una seconda attività come usuraio. Certo è che fu in grado di garantire una vita soddisfacente alla numerosa famiglia e la posizione politica moderata non lo pose mai a rischio di esilio. Della madre di Dante, Bella de­ gli Abati, sappiamo invece poco. Morì quando il figlio aveva cinque o sei anni e Alighiero si risposò presto con Lapa di Chiarissimo Cialuffi, da cui ebbe altri figli. Anche sulla formazione di Dante possediamo ben poche notizie. Fu con tutta probabilità conforme alle consuetudini dell’epoca: dapprima lo studio con un

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grammatico per i rudimenti linguistici e in seguito l’at­ tenzione alle arti liberali. Il quadrivio (aritmetica, mu­ sica, geometria, astronomia) da un lato e il trivio (dia­ lettica, grammatica, retorica) dall’altro erano, infatti, il fondamento per un giovane di buona famiglia. Sappia­ mo però anche come fondamentali siano stati incontri che una città come Firenze favoriva con la sua economia vivace, con i suoi scambi con i regni europei, con il tran­ sito di mercanti. Su tutti quello con Brunetto Latini, di rientro dalla Francia. Leggiamo una certa commozione nel ricordo che Dante ha dell’autore del Tresor. [...] E OR M’ACCORA, LA CARA E BUONA IMAGINE PATERNA DI VOI QUANDO NEL MONDO AD ORA AD ORA M’INSEGNAVATE COME L’UOM S’ETTERNA *

Inferno, XV, w . 82 -8 5

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Che cosa trasmise Brunetto al giovane? Il senso di una letteratura di utilità civica. Tradizioni minori vorrebbero inoltre Dante, negli anni della formazione, anche a Bologna e a Parigi. Ma, mentre in Emilia fu forse almeno nelle estati del 1286 e del 1287 dove potrebbe aver conosciuto Bartolomeo da Bologna, foriero di un’interpretazione dell’Empi­ reo che il fiorentino avrebbe fatta propria, la presenza in Francia - e precisamente alla Sorbona, tra 1309 e 1310 - è del tutto congetturale, basata su un’allusione contenuta nel Paradiso. Si ipotizza che tra il 1283 e il 1285 si sia sposato con Gemma Donati, cui era promesso dal 1277. Veniva così instaurato il legame con una famiglia importante. Dall’unione sarebbero venuti tre figli - Jacopo, Pietro e Antonia - e forse un quarto, Giovanni. Alla donna il poeta non indirizzò mai componimenti, né abbiamo te-

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Dante Alighieri, affresco staccato della serie Uomini e donne illustri dipinti da Andrea del Castagno netta Villa Carducci-Pandotfini a Legnaia per il gonfaloniere di Giustizia Filippo Carducci tra il 1448 e il 1451. Firenze, Galleria degli Uffizi.

stimonianza di lei al suo fianco durante l’esilio. Si trattò, con tutta probabilità, di un matrimonio non particolar­ mente felice. Nel 1290 morì Beatrice, forse Beatrice Portinari, in ogni caso la donna amata davvero da Dante, pietra d’in­ ciampo generativa di parte rilevante del suo percorso poetico, a lei variamente dedicato almeno da un punto di vista immaginifico. L’aveva vista per la prima volta nel 1274, secondo la Vita nova, e s’era subito preso di lei. Il lutto lo spinse da un lato a dedicarsi con maggior convinzione allo studio della filosofia, frequentando le scuole organizzate dai domenicani di Santa Maria Novella e dai francescani di Santa Croce, dall’altro a interessarsi sempre più alla vita politica cittadina. In un contesto di notizie incerte, risultano ancora più importanti gli incontri, che furono invece certi. Dagli anni Sessanta del Duecento in Toscana erano

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Illustrazio ne di G ustave Dorè per la divina Commedia: si riferisce atte M alebo lge dove si trovano i M alebranche, un gruppo di diavoli presenti nell 'Inferno nei canti XXI, XXII e XXIII, deputati a controllare che i dannati de lla quinta bolgia d e ll’o ttavo cerchio, q u e llo dei fraudolenti, i "barattieri", non escano dalla pece bollente.

presenti i primi influssi della Scuola siciliana, sorta al­ la corte di Federico II e intesa a una rielaborazione in volgare delle tematiche amorose provenienti dalla lirica provenzale. Jacopo da Lentini e Guido delle Colonne, latori deH’amor cortese, vennero recepiti da Guittone d’Arezzo e da Bonagiunta Orbicciani, e per il trami­ te di Chiaro Davanzanti, il nuovo modo di fare poe­ sia approdò a Firenze. Qui un gruppo di giovani, tra cui spiccava Guido Cavalcanti, reagì con un dissenso nei confronti della complessità stilistica e linguistica dei siculo-toscani e si diede a fare versi più tersi, colmi di dolcezza. Nasceva così quello che sarebbe poi stato chiamato il Dolce stil novo. Dante si trovò a seguire il dibattito in corso e, da una prima posizione vicina ai siculo-toscani, si spostò ben presto sul versante degli stilnovisti. L’amicizia e la stima che lo legarono a Cavalcanti furono grandi, anche se poi

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i rapporti tra i due si sarebbero raffreddati, o addirittura trasformati in inimicizia. Sono gli anni di composizione di quelle che gli studiosi hanno raccolto sotto il titolo di Rime, comprensive delle tenzoni con Forese Donati e Dante da Maiano. Nel 1289 Dante partecipò a campagne militari contro Arezzo e Pisa, mentre nel 1294 avrebbe fatto parte della delegazione di cavalieri che scortò Carlo Martello d’Angiò a Firenze. Questi episodi accesero in lui la passione per la politica, in anni in cui la vita della Repubblica era molto travagliata. Dovette iscriversi all’Arte dei medici e degli speziali perché le sue origini nobili l’avrebbero altrimenti escluso dalla vita pubblica. Fu nel Consiglio del Capitano del popolo dal novembre 1295 all’aprile 1296; fu nel gruppo dei Savi, che nel dicembre 1296 rinnovò le norme per l’elezione dei priori, i massimi rap­ presentanti di ciascuna Arte che avrebbero occupato, per

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un bimestre, il ruolo istituzionale più importante della Repubblica; dal maggio al dicembre del 1296 fece par­ te del Consiglio dei Cento. Talvolta ricoprì l’incarico di ambasciatore. Nel mentre, si creava una grave frattura tra i guelfi neri, conservatori, capeggiati dai Donati, e i guelfi bianchi, moderatamente popolari, capeggiati dai Cerchi. Dante era schierato con questi ultimi. Il travagliatissimo torno d’anni di cui abbiamo scrit­ to è anche quello di composizione della Vita nova, prosimetro che accoglie parte delle liriche precedenti e le colloca, con commento, in una sorta di autobiografia poetica consacrata a Beatrice. Nel 1300 fu eletto priore e fu quindi nella posizione di opporsi a papa Bonifacio V ili, emblema - dal suo punto di vista - della decadenza morale della Chiesa. Ostacolò l’operato del Cardinal Matteo d’Acquasparta, inviato dal Vaticano come paciere, e approvò il grave

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Dante A lighieri, affresco di D om enico M ichelino del 1465, a Santa M aria del Fiore, Firenze. A sinistra è raffigurato l'Inferno, sulto sfondo la m ontagna del P urgatorio e a destra Firenze.

provvedimento d’esilio per otto guelfi neri e sette bian­ chi, tra cui Guido Cavalcanti, che morirà a Sarzana. Questo attirò su di lui e sugli altri firmatari l’ostilità di entrambe le parti. I priori che succedettero ai sette, tra cui era compreso Dante, revocarono l’esilio inflitto ai guelfi bianchi, mostrando così la loro partigianeria e peggiorando il rapporto di Firenze con Bonifacio VIIL Quest’ultimo inviò Carlo di Valois come nuovo paciere, Firenze rispose con una delegazione che oltre a Dan­ te comprendeva Maso Minerbetti e Corazza da Signa. Carlo di Valois si rivelò in realtà un conquistatore e im­ pose come podestà Carte Gabrielli da Gubbio. Per Dan­ te fu r inizio della fine: fu condannato, in contumacia, all’esilio perpetuo, al rogo e alla distruzione delle case. Non rientrerà mai più, nonostante i tentativi fatti sia per via militare sia per via diplomatica. Il primo decennio del XIV secolo segna l’inizio del

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cantiere della Commedia, così chiamata dall’autore per ragioni di registro e di spiccato plurilinguismo, e che avrebbe assunto su di sé l’etichetta di «divina» solo più tardi, in seguito a un suggerimento di Boccaccio. Le pri­ me copie manoscritte dell 'Inferno avrebbero iniziato a circolare nel 1313, il Purgatorio sarebbe stato compiuto nei due anni successivi e dal 1316 avrebbero iniziato a uscire i canti del Paradiso man mano che venivano composti. Dopo il suo primo soggiorno a Verona presso gli Sca­ ligeri, del suo esilio non tutto è noto. Nel 1306 fu in Lunigiana presso Moroello Malaspina, di cui divenne plenipotenziario e per il quale riuscì a concludere la pace di Castelnuovo con il vescovo-conte di Luni, Antonio Nuvolone da Camilla. La stima nei suoi confronti creb­ be. Di fatto, la sua vita d’esule era garantita solo dalla crescente notorietà e dalla possibilità di essere accolto dai

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Salvador Dall, Lo scaleo d'oro. Paradiso XXI. È una delle cento tavole originali per la Divina Commedia (acquerello con interventi a penna), realizzate dal pittore spagnolo d a ll 950 a ll 959.

signori presso cui si recava. Notorietà favorita anche dal Convivio, scritto tra il 1303 e il 1307, opera-manifesto che sostiene l’importanza della letteratura in ambito civile, secondo la lezione di Brunetto Latini. Oltre al Convivio, nel 1303-1305, Dante compose il De vulgari eloquentia, cui poneva alla lingua da lui stesso impiegata gli obiettivi di farsi «illustre», «cardinale», «aulica» e «cu­ riale» per poter eguagliare nell’impiego il latino. Passò nel Casentino, dove si fermò poco, poi fu a Lucca e forse di nuovo a Forlì. In quel momento si ac­ cese di speranza per la discesa nella Penisola di Enrico VII di Lussemburgo. L’imperatore avrebbe forse potuto porre fine all’anarchia politica italiana e si sarebbe aper­ to uno spiraglio per il rientro in città. Per questo moti­ vo si avvicinò alla fazione imperiale italiana, capeggiata dagli Scaligeri di Verona. Erano del resto gli anni in cui attendeva alla Monarchia.

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La tom ba di D ante presso la basilica di San Francesco nel centro di R avenna. È stata realizzata nel 1780-81 dall’architetto Cam itlo Morigia ed è m onum ento nazionale.

Il fato fu tuttavia avverso. La morte improvvisa di En­ rico VII, avvenuta il 24 agosto 1313 a Buonconvento, ar­ restò il processo in corso. Dante accolse la protezione di Cangrande della Scala, cui risulta dedicata XEpistola XIII, di grande importanza per quanto di autenticità dubbia. Si sarebbe fermato a Verona fino al 1318. La stima e l’amicizia tra i due è testimoniata da questo passaggio: 6 6 LE SUE MAGNIFICENZE CONOSCIUTE SARANNO ANCORA, SÌ CHE ’ SUOI NEMICI NON NE POTRAN TENER LE LINGUE MUTE. A LUI T ’ASPETTA E A ’ SUOI BENEFICI; PER LUI FIA TRASMUTATA MOLTA GENTE, CAMBIANDO CONDIZION RICCHI E MENDICI.* Non conosciamo i motivi del successivo passaggio a Ra* Paradiso, XVII, w . 85-90; l’elogio è posto in bocca a Cacciaguida

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venna, presso Guido Novello da Polenta. Forse una mis­ sione affidatagli da Cangrande stesso, forse al contrario un’incomprensione tra i due. Siamo agli ultimi tre anni di vita del poeta, che fu­ rono tranquilli. Dante creò un cenacolo letterario fre­ quentato dai figli Pietro e Jacopo e altri quali Dino Pe­ rini, Fiduccio de’ Milotti, Guido Novello, Menghino Mezzani, Pietro Giardini. L’ultimo incarico politico fu l’ambasceria per la sicurezza di Ravenna contro le minacce di Venezia. Ebbe buon esito, ma gli fu fatale. Tornando dalla città lagunare, attraversando le Valli di Comacchio, contrasse la malaria. Morì a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321, all’età di cinquantasei anni.

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L’A MBIENTE

er inquadrare il periodo in cui visse Dante, tra la se­ conda metà del Duecento e l’inizio del Trecento, è opportuno tenere conto non solo delle dinamiche in corso nella Penisola, ma del più ampio scacchiere europeo. E in­ fatti questo il torno d’anni in cui nacquero gli Stati nazio­ nali, che rappresentano un modello ben diverso dai piccoli comuni che in Italia sembrano orientarsi verso oligarchie di volta in volta dominate dalle diverse famiglie borghesi. Sempre a livello europeo avvennero fenomeni di grande importanza. Il primo è l’incremento demografi­ co. Iniziato prima del Mille non parve arrestarsi fino a tutto il XIII secolo, portando con sé un aumento della domanda di beni alimentari e di manufatti. Nacque­ ro inoltre nuove forme di coltivazione, nuove forme di contratto agrario e si affinarono alcune tecniche mani­ fatturiere, che favorirono tra l’altro un commercio di raggio sempre più ampio.

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Il secondo fenomeno è quello del ripopolamento delle città, difese da mura rinnovate di continuo: quel­ le fiorentine, di epoca romana, vennero allargate nel 1173 e poi di nuovo nel 1284. Mura che servivano a porre al riparo la produzione artigianale, ma anche attività bancarie più strutturate. Il terzo è la lotta tra Impero e Papato, che non conobbe requie. Si tratta in ogni caso di due istituzioni a carattere universale, in una certa misura in crisi e tuttavia portate a vedere in ogni città un potenziale luogo di scontro, e rispetto alle quali ogni nobile e ogni borghese era chiamato a schierarsi. Un ultimo fenomeno, specificatamente ita­ liano e che riguarda la stessa Firenze, fu l’affermarsi, nelle realtà comunali, di singoli gruppi familiari emer­ genti. Questo portò alla progressiva trasformazione dei comuni in Signorie, governate da personalità che go­ devano di ampio consenso e conseguente autonomia nel prendere decisioni. L’italianista francese Pierre Antonetti ha osservato: «Divisa geograficamente e linguisticamente, l’Italia è anche divisa di fronte ai poteri che se la spartiscono. Certo la rivalità fra il papa e l’imperatore ha perso ogni virulenza con la morte di Federico II nel 1250. “Roma non è più Roma” dopo l’elezione di un papa di origine francese: Clemente V, nel 1305, e l’insediamento del Papato ad Avignone a partire dal 1309. Ciò nonostan­ te, in ogni città italiana, due fazioni si fronteggiano: quella guelfa e quella ghibellina, ancora molto tempo

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dopo la morte di Federico II».* Anche se in realtà la virulenza dello scontro tra i due grandi poteri non era ancora del tutto alle spalle. Firenze fu teatro di scontri durissimi tra la vecchia nobiltà cittadina e la nuova aristocrazia dei ricchi, or­ ganizzata in Corporazioni delle Arti e dei Mestieri. Nel 1248 i ghibellini, filo-imperiali, avevano sconfitto i guelfi proprio grazie all’intervento di Federico II. Il pre­ dominio tuttavia era durato meno di ventiquattro mesi, cui erano seguiti dieci anni in cui la sorte aveva sorriso ai guelfi. Solo nel 1260, con la battaglia di Montaperti, le sorti si sarebbero di nuovo ribaltate. Cruciali risultarono poi i Vespri Siciliani, che gene­ rarono nel 1282 un’aperta opposizione ai dominatori francesi dell’isola, gli Angioini. Questo portò a uno sbandamento che favorì, a Firenze, il sorgere del gover­ no delle Arti, espressione degli interessi delle classi no­ biliari. Solo l’opposizione di Giano della Bella nel 1293 portò all’esclusione dei nobili dalla vita politica, ma nel febbraio di due anni dopo, con la sua caduta, gli Ordi­ namenti di Giustizia vennero abrogati. Ecco che anche i nobili avevano di nuovo accesso al governo, a patto che si iscrivessero a una delle Corporazioni. Parallelamente ai ribaltamenti in atto a Firenze, perdu­ rava lo scontro tra papa e imperatore. Clemente IV si era opposto alle pretese che Manfredi, figlio naturale di Fe­ * P. Antonetti, La vita quotidiana a Firenze ai tempi di Dante, tr. ic. di G. Caiìero, Rizzoli, Milano 1983

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derico II, aveva sul Regno di Sicilia chiamando in Italia Carlo I d’Angiò, incoronato nel 1263 re di Napoli. Man­ fredi non sarebbe più stato un problema tre anni dopo: il suo destino infatti era quello di perire nella battaglia di Benevento, che lo vedeva opporsi proprio alle truppe della Chiesa e a quelle di Carlo I. Due anni dopo, aTagliacozzo, i francesi avevano avuto ragione anche dei tedeschi guidati da Corrado V di Svevia, che una volta catturato era stato decapitato sulla piazza del mercato a Napoli, a soli sedici anni. Si arenava quindi il progetto di proiettare nuovamen­ te il Sacro Romano Impero in una dimensione europea, perché acquisisse di nuovo la dignità di superiore potere temporale da affrancare a quello spirituale della Chiesa. Il sogno di Federico Barbarossa prima, di Federico II poi e infine di Manfredi era infranto. L’epoca dei ghibellini era al tramonto. L’Impero esisteva solo nominalmente. Le lotte passarono a essere intestine alla parte guelfa, che finì per polarizzarsi a sua volta fornendo sostenitori alle due parti. Nuovamente dunque Firenze era dilaniata dalla con­ trapposizione, talvolta molto violenta, delle fazioni cit­ tadine: da una parte i guelfi bianchi, che facevano ca­ po ai Cerchi, e dall’altra i neri, guidati dai Donati. Le cronache rimandano a un’inimicizia nata anche per ra­ gioni di un matrimonio saltato: questo avrebbe portato all’uccisione di Buondelmonte, giovane che non aveva prestato fede alla promessa fatta. L’episodio non giustifica certo decenni di scontri e porta con sé più il sapore dell’aneddoto che del concreto snodo storico, ma vi si

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allude per mostrare come gli equilibri cittadini fossero delicati e passassero anche per matrimoni visti sub specie economica e sociale. Nel 1300 i bianchi controllavano la città. I neri, che avevano tentato una sommossa, subirono la reazione degli avversari, che riuscirono a mantenere il potere. I priori di allora, tra cui Dante, presero una decisione all’apparenza equanime, ma lo stesso molto contestata: espellere gli esponenti più facinorosi dell’una e dell’altra fazione. La violenza delle lotte intestine non era mài stata così grande. Bonifacio V ili, creato papa nel 1294, che sosteneva i neri e appoggiava apertamente Corso Donati, inviò a Firenze il principe francese Carlo di Valois, che Giovanni Villani, storico coevo, ritrae icasticamente così: VENNE IN TOSCANA PER PACIARO, E LASCIÒ IL PAESE IN GUERRA; E ANDÒ IN CICILIA PER FARE GUERRA, E RECONNE VERGOGNOSA PACE.* 99 Carlo di Valois insomma non fu il paciere che ci si aspettava. Grazie a lui i neri ebbero la meglio: i fuoriu­ sciti tornarono tra le mura fiorentine e lì si diedero al saccheggio. In seguito si misero a governare a forza di provvedimenti a loro favorevoli e a condanne all’esilio per le figure di spicco dell’altra parte. * Giovanni Villani, Nuova cronica, 3 voli., a cura di G. Porta, Fondazione Pietro BcmboGuanda, Parma 2007

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Firenze tuttavia non era il solo terreno di scontro. Basti ricordare almeno altri due snodi: la bolla Unam Sanctam, del 1302, con cui Bonifacio V ili tentò un’ul­ tima affermazione della propria supremazia e il triennio 1310-13, in cui la discesa in Italia di Enrico VII rap­ presenta un ultimo tentativo di imporre la superiorità del potere imperiale, se non nei confronti della Chiesa, almeno su quello dei Comuni. Se il secondo Duecento e il primo Trecento furono anni di intenso coinvolgimento della compagine sociale negli andirivieni della politica, di contro si assistette al fiorire di una poesia che privilegiava il contenuto degli affetti, con particolare riferimento al tema amoroso. La scuola poetica alla corte di Federico II era incoraggia­ ta in questo senso dall’imperatore e l’amore cortese qui rappresentato, di origine provenzale, si sarebbe ulterior­ mente affinato nel passaggio dapprima a Bologna e poi a Firenze e a Pistoia. La definizione di Dolce stil novo, che accomuna i poeti migliori di questi anni, viene pro­ prio da Dante: £ 6 E IO A LUI: « r MI SON UN CHE, QUANDO AMOR MI SPIRA, NOTO, E A QUEL MODO CH’E’ DITTA DENTRO VO SIGNIFICANDO». «O FRATE, ISSA VEGG’IO», DISS’ELLI, «IL NODO CHE ’L NOTARO E GUITTONE E ME RITENNE DI QUA DAL DOLCE STIL NOVO C H T ODO!»*9 9 * Purgatorio, XXIV, w. 53-57

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I siciliani, che avevano ancora come riferimento il mon­ do feudale, vennero superati dai maggiori stilnovisti: Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia e Dante stesso. Questi poeti insistevano soprattutto sulla gentilezza, la qualità morale che chi ama deve necessariamente possedere. La donna non era più solo una figura astratta, ma acquisiva una con­ cretezza che le permetteva di essere descritta. Compito dell’uomo era quello di usare l’amore verso la bellezza della donna non per indulgere a una bassa sensualità, che pure si sarebbe potuta dare, quanto per elevarsi. In palio non c’era solo l’amore, quanto la salvezza dell’ani­ ma, visto che la donna era un angelo che guidava verso Dio. Il sentimento conteneva una dolcezza che introdu­ ceva alla beatitudine ultraterrena. Ecco dunque come questa poesia, in conclusione, ha un ulteriore valore di matrice cristiana. Per l’uomo me­ dievale, del resto, la vita terrena non era che un esilio che sarebbe finito il giorno in cui, con la morte, avrebbe avuto accesso alla vita eterna. La storia era retta dalla vo­ lontà divina e dalla Provvidenza a essa connessa: duran­ te la vita l’uomo doveva compiere ogni azione pensando di accordarsi a tale volontà. E, in fin dei conti, anche il potere politico avrebbe dovuto essere considerato uno strumento della Provvidenza divina.

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MONDO

PENSIERO

1220 II re di Sicilia Federico II Hohenstaufen (Federico II di Svevia) diviene im perato­ re del Sacro Rom ano Im pero. Monarca illum inato, m ecenate, patrono delle arti, fonda l'Università di Napoli, entra in conflitto con il papa Gregorio IX, che lo scom unica, per il tentativo di riunire i territori dell'Im pero (Germ ania, parte della penisola italiana, Sicilia) in una sola unità politica.

1240-1270 II dom enicano Alberto M agno, considerato il m a ggior teologo tedesco del Medioevo in Germ ania, pubblica le sue opere m aggiori, rivolte a «ren d e re intelligibile ai la tin i» la nuova filosofia aristotelica. Chiam ato Doctor Universalis, m aestro di Tom m aso d ’A quino, pone, a differenza di quest'ultim o, una netta separazione tra filosofia aristotelica e teologia, nella co nsapevolezza che «i principi fisici non si accordano con i principi teo logici».

1237 Dopo la m orte di Gengis Khan (1 227) e la frantum azione dell'Im pero in cinque parti, riprende la conquista della Rus' di Kiev, che viene divisa in territori corrispondenti all'incirca nelle attuali Russia, Bielorussia e Ucraina.

1259 Bonaventura da Bagnoregio, francesca­ no, scrive la sua opera più im portante, l'Itinerarium mentis in Deum (Cam m ino della m ente verso Dio), nella quale ripro­ pone la tradizione patristica (Agostino), in contrapposizione all'aristotelism o di Tom m aso, e in particolare sui rapporto tra ragione e fede, sostenendo il pri­ m ato di quest'ultim a nell’avvicinam ento dell’uom o a Dio e alla Verità e ritenendo che l'anim a possa conoscere Dio e se stessa senza l'aiuto dei sensi esterni.

1272-1273 Si svolge la Nona Crociata, l'ultima di una certa im portanza in Terrasanta. 1273 Rodolfo I d'Asburgo viene eletto im pera­ tore dei Sacro Rom ano Im pero, del qua­ le rinforza ia struttura e i dom ini all'Est, ponendo inoltre te basi del futuro potere della casa Asburgo.

1265-1274 Tom m aso d'Aquino com pone la Summa theologiae, la sua opera più fam osa, pubblicata postum a, nella qua­ le espone il suo pensiero che concilia l'aristotelism o con la teologia cristiana, indicando com e fede e ragione non sia­ no contrapposte m a rappresentino due strade com plem entari per raggiungere la Verità.

1279 Con ia battaglia di Yam en ha term ine in Cina la dinastia Song, che viene so­ stituita dalla dinastia Yuan, fondata dal condottiero m ongolo Kublai Khan. 1282 La rivolta dei Vespri Siciliani dà inizio alla guerra che sancirà la fine del dom inio in Sicilia della dinastia francese Angiò e l'attribuzione della corona allo spagnolo Pietro III d'Aragona che, quale m arito di Costanza, figlia di Manfredi, rivendica i diritti dell'estinta dinastia sveva.

1267-1268 Sono pubblicati l'Opus maius, l'O­ pus minus e l'Opus tertium del filosofo e scienziato inglese Roger Bacon (R ug­ gero Bacone), agostiniano, uno dei padri dell'em pirism o e pioniere della scienza sperim entale, avversario dell'aristotelism o nella filosofia religiosa e sosteni­ tore dell’illum inazione divina com e fon­ dam ento di tutta la conoscenza um ana.

1299 II su lta n o O sm a n I fonda l’Im pero ot­ tom a n o, che durerà per 623 anni, fino ai 1922. 1302 Con la Pace di Caltabellotta fra Angioini

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LETTERATURA E ARTI

SCIENZA ED ESPLORAZIONI

1247-1260 È a ttivo in To sca n a N icola Pi­ sano, architetto e scultore che rein­ terpreta il gotico con un nuovo lin ­ gu a gg io "italiano", svilu p p a n d o u n 'im ­ m a gin e u m a n izza ta de ll'u om o e del suo a m biente terreno che si distacca dalla sacralità trascendente dell'arte e uro pea. Tra le sue opere, il D uom o di Siena e il Battistero di Pisa.

1252 Vengono com pilate, su richiesta del re spagnolo Alfonso X di Castiglia, detto “il saggio", le Tavole atfonsine, redatte da una cinquantina di astronom i: forni­ scono te posizioni del Sole, dei pianeti e delle stelle e le date delle eclissi e costituiscono il prim o trattato di astro­ nom ia dell'Europa cristiana. 1269 llfrancese Petrus Peregrinus de Maricourt scrive il De magnete, prim o trattato sul m agnetism o e sulle sue proprietà, fra le quali quella di attrarre l'ago delta bussola.

1260 Viene consacrata in Francia la Catte­ drale di Chartres, ricostruita, sulla pre­ cedente cattedrale rom anica, nel nuovo stile gotico, del quale rappresenta una delle m anifestazioni m aggiori.

1272 Com paiono in Italia i prim i m ulini ad acqua in grado di fornire forza m otrice alle industrie: a Bologna per azionare i filatoi e a Fabriano (1276) per la fabbri­ cazione della carta.

1280 Lo scrittore catalano, filosofo, m istico e m issionario francescano Raim ondo Lullo scrive il Libro M o rd in e di ca­ valleria, com pendio delle origini delta cavalleria cristiana e delle sue virtù di saggezza, carità, lealtà, coraggio, gene­ rosità, um iltà.

1283 Nel m on a stero inglese di D unstable com pare il prim o orologio m eccanico a scappam ento di cui esista notizia. Non ha né quadrante né lancette, ma si lim i­ ta a segnare it tem po suonando le ore.

1292-1293 D ante Alighieri com pone la Vita Nova, rite n u ta la sua a u to biografia rom anzata, che tratta dell’evoluzione spirituale e letteraria del poeta ed è dedicata all'am ata Beatrice Portinari.

1289 Ideati pre su m ib ilm e n te dai cinesi, gli occhiali vengono introdotti (o rein­ ventati) in O ccidente in quest'anno dall'ottico italiano Salvino Arm ato degli Arm ati. Gli occhiali di Arm ato hanno le lenti convesse e sono quindi adatti ai presbiti. Gli occhiali per m iopi, con lenti concave, com pariranno nel 1450 e saranno accreditati al filosofo, teologo e scienziato tedesco Niccolò Cusano (Nikolaus Chrypffs).

1296 II pittore e architetto Giotto di Bondone lavora agli affreschi della basilica superiore di Assisi con le Storie di San Francesco. Giotto crea un nuovo lin ­ guaggio artistico, superando te astra­ zioni detl’arte bizantina per calare i suoi personaggi nella realtà e nella natura e proponendo il prim o esem pio di pittura tridim ensionale attraverso una rigorosa tecnica della prospettiva.

1290 Om odeo Tasso, bergam asco, istituisce il prim o servizio postale attraverso corrieri tra i principali Stati europei, precursore della m oderna rete postale.

129Bca.il m ercante veneziano Marco Polo pub­ blica Il Milione, relazione del suo viaggio in Oriente e vero e proprio trattato stori­ co-geografico dell'Asia m edievale.

1300 L’alchim ista e m edico spagnolo Arnal­ do di Villanova sviluppa le tecniche di

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MONDO

PENSIERO

e Aragonesi, la Sicilia viene assegnata definitivam ente a questi ultim i.

1271 II filosofo, teologo, m istico e m issio n a ­ rio catalano R aim ondo Lu llo (v. sino t­ tica Letteratura e arti, in questo libro) p u bblica l'Ars compendiosa inveniendi veritatem (Co m pendio dell'arte di tro­ vare la ve rità ). Noto per le sue tecniche di m e m o ria che influe n ze ra n n o m olto Giordano Bruno, Lullo propone una "lo ­ gica universale", capace di scoprire la verità com b in a n d o in m odo m a te m a ti­ co term ini se m plici. La sua logica co m ­ binatoria e le sue tecniche di m em oria a vranno una larga in flue n za fino al XVII secolo.

1303 II re di Francia Filippo il Bello um ilia Papa Bonifacio Vili ("schiaffo di Anagni") e io destituisce. Va in crisi il Papato com e potere universale. 1305 Inizio del Papato avignonese con Papa Clem ente V. I pontefici entrano nell'or­ bita politica della Francia. Il periodo avignonese avrà term ine nel 1377. 1325 Gti Aztechi fondano la città di Tenochtitlàn, capitale dell’Im pero fino alla con­ quista da parte degli spagnoli. 1337 Ha inizio la Guerra dei C ent’anni tra Francia e Inghilterra, che si concluderà nel 1453 con l'espulsione degli inglesi da tutti i territori continentali.

Inizio XIV sec. Dante Alighieri espone in diver­ se opere (fra cui la Monarchia) la sua v i­ sione politica, che sostiene la necessità dell’Im pero com e istituzione universale e sovranazionale e l'autonom ia del po­ tere im periale da quello ecclesiastico (teoria dei "due Soli").

1347-1350 Scoppia in Europa la peste nera, che decim erà la popolazione u cci­ dendo dal 25 al 3 5 % degli abitanti e creando una carestia che durerà anni. L’evento avrà pesanti ripercussioni sul­ l'econom ia e tutta la società europea del Tardo M edioevo.

Metà XIV sec. Francesco Petrarca recupera la filosofia di Agostino, della quale svilu p ­ pa il problem a del conflitto interiore tra vita m ondana e vita dedita all'elevazio­ ne spirituale. 1323 II filosofo scozzese Guglielm o di Ockham com pone la Somma logicae. Il suo pen­ siero m uove contro la ierocrazia del Papato, ma anche contro la laicità dello Stato; inoltre, considerando fede e ragione due cam pi separati, ritiene che il pensiero um ano debba liberarsi dalle "astrazioni" caratteristiche delta scolastica m edieva­ le, stabilendo il principio della "spiegazio­ ne più sem plice" (Rasoio di Ockham ).

1350 Viene fondata la Lega Anseatica, allean­ za di città che fino al XVI secolo avrà il m onopolio dei com m erci in Europa Set­ tentrionale e nel Baltico. 1370 Scism a d'Occidente; i cardinali francesi si oppongono al rientro del papa a Roma ed eleggono un proprio antipapa. Lo sci­ sm a si concluderà nel 1417.

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LETTERATURA E ARTI

SCIENZA ED ESPLORAZIONI

Prima metà XIV sec. Il pittore e architetto toscano Giotto di Bondone rivoluziona l'arte superando le caratteristiche della pittura m edievale, com e la tridim ensio­ nalità, la trascendenza, la sim bolicità, inaugurando uno stile che si avvicina alla tridim ensionalità, alla prospettiva intuitiva e al realism o. Tra le sue m a g­ giori opere gli affreschi della Basilica Superiore di Assisi e della Cappella degli Scrovegni a Padova, nonché il cam panile del Duom o di Firenze.

distillazione del vino giungendo alla prim a preparazione dell’alcol puro o aqua ardens. Già in uso nell'antichità in Cina, il carbo­ ne viene utilizzato per la prim a volta in Europa rivelandosi un ottim o sostituto della legna. Lo sviluppo della tecnica di estrazione e utilizzazione del carbone e successivam ente la produzione di coke sarà poi alla base della rivoluzione in­ dustriale del 7 0 0 .

1306/7-1309/10 D ante A lig h ie ri in izia la com posizione della Divina Commedia, capolavoro indiscusso della letteratura italiana e tra i m assim i esem pi della letteratura m ondiale.

1316 II m edico bolognese M ondino de’ Luzzi pratica una serie di dissezioni di cada­ veri. il suo libro Anothomia è il prim o a essere fondato sulla realtà delle inda­ gini anatom iche, che verranno presto diffuse in altre università europee.

Metà XIV sec. Francesco Petrarca scrive il Canzoniere, opera fondam entale per lo sviluppo della poesia italiana in vo lga­ re. Il letterato anticipa inoltre nelle sue opere il rinnovam ento dell'interesse per la cultura classica che troverà pieno fulgore nel secolo successivo. Secondo alcuni studiosi, è qui che nasce l'um a­ nesim o.

1328 Com pare in Europa ia prim a segheria azionata da m ulini ad acqua, che darà grande sviluppo alla costruzione di navi. 1340 Com pare a Liegi, in Belgio, il prim o a lto forno, apparecchiatura che rivoluziona la m etallurgia rendendo possibile per la prim a volta la realizzazione di fusio­ ni di ferro o di ghisa, con cui ottenere m anufatti (dagli utensili alle ruote dei carri, fino ai cannoni) in un solo pezzo preform ato.

1349-1353 Giovanni Boccaccio, considerato it fondatore del rom anzo italiano, co m ­ pone il Decameron, capostipite della letteratura in prosa in italiano volgare, e anticipatore dei tem i dell'um anesim o, anche attraverso una rappresentazione naturalistica dell’am ore.

1346 Il m onaco tedesco Bertold Schw arz cui è attribuita la "riscoperta" della polvere da sparo realizza anche la prim a arm a da fuoco, il cannone. Nel 1378 viene costruito in Germ ania il prim o cannone con la canna realizzata in u n ’unica fu­ sione di bronzo. La prim a arm a da fuoco portatile, l'archibugio, risale al 1450 e viene inventata in Spagna.

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IL SUO MONDO E LE SUE IDEE

J età di Dante è segnata da almeno tre grandi dil namiche storiche, che toccarono l’Alighieri da vicino e condizionarono la sua visione del mondo. Tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, la politica europea è contraddistinta dal rafforzamento delle mo­ narchie nazionali (la Francia è quella che più influenze­ rà la vicenda italiana) e dal progressivo indebolimento delle istituzioni tradizionali, cioè Impero e Papato. Il primo è alla ricerca di una vera guida dopo la fine della dinastia sveva, e il secondo, invano, reclama le sue pre­ rogative teocratiche con Bonifacio V ili, ma soccombe sotto la pressione di Filippo IV di Francia ed è costretto a migrare oltralpe per circa settant’anni. E il momento della massima fioritura dei Comuni italiani che, con il picco della loro fortuna economica, vedono arrivare anche feroci lotte intestine.

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Una seconda linea di lettura per compren­ dere la storia del Due-Trecento riguarda, in campo religioso, la ricerca di una riforma eti­ ca e spirituale per la Chiesa, all’interno della quale corruzione e ansie politiche sono fin troppo presenti. Protagonisti di questo tentativo di cambiamento sono, con i loro Ordini, Domenico di Guzmàn (1170-1221) e Francesco d’Assisi (1182-1226). Il terzo filo da tenere presente per capire meglio l’e­ poca di Dante è quello della cultura, permeata allora di cristianesimo, interessata nel secolo XIII dalla dottri­ na delle grandi università, dalla riscoperta di Aristotele (tradotto in latino) e, per quanto riguarda l’Italia, dalla nascita della letteratura in volgare e dal rinnovamento delle arti figurative dovuto a grandi maestri come Giot­ to, Nicola Pisano e a suo figlio Giovanni. In tutte queste vicende l’Alighieri appare ben inseri­ to: fece politica attivamente e rimase vittima dei conflit­ ti interni a Firenze; si batté con i suoi scritti per il ripri­ stino del potere imperiale e per un ritorno della Chiesa a una dimensione genuinamente evangelica; portò nel­ le sue opere in volgare il sapere accademico (anche se probabilmente non frequentò un vero e proprio iter di studi universitari), manifestando pure una notevole at­ tenzione per l’arte. Fatte queste premesse, bisognerà anche chiarire che

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Dante fu certamente in vita una personalità di rilievo come rimatore (sue poesie sono attestate in manoscritti fin dal 1287), meno come politico e come pensatore. La grande fama gli giunse verso il termine della vita (ma so­ prattutto dopo la morte) dalla Commedia: raccogliamo echi della reputazione che si stava conquistando dalla corrispondenza con Giovanni del Virgilio (1319-1321) e dal fatto che nel 1320 tenne, di fronte a un pubblico di dotti, quella lezione che oggi chiamiamo Questio de aqua et terra. Com’è capitato ad altri grandi scrittori (Ci­ cerone, per esempio), il pensiero di Dante sfugge alla classificazione e, dato che attin­ ge a una pluralità di fonti, viene normalmen­ te marchiato come eclettico. Tuttavia, almeno tre nuclei di riflessione, connessi alle dinamiche sopra esposte, mostrano una certa originali­ tà: l’amore in poesia, la promozione del volgare, la rifor­ ma delle istituzioni ecclesiale e imperiale. Il primo argomento che ha dominato la meditazione dantesca è stato la natura di amore - inteso fondamental­ mente come tensione sentimentale verso una donna (e, quindi, non come amore filiale, amicale o divino). L’idea che l’Alighieri ereditava dalla tradizione era legata al trat­ tato De Amore, scritto, forse alla fine del XII secolo, dal francese Andrea Cappellano. Secondo questo autore, del

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quale sappiamo poco, «l’amore è una passione innata», da cui scaturisce il desiderio di una persona e di una soddi­ sfazione fisica. Questa visione rimase più o meno la stessa fino alla fine del Duecento, coniugandosi con l’insegna­ mento dei poeti provenzali, che predicavano l’amore co­ me un servizio da prestare a una donna, l’equivalente di un signore feudale cui sottomettersi. Tale idea di amore è poi passata nella poesia italiana, che ha però trasformato la donna in un’immagine sempre più convenzionale e diafana, slegata dalla sua realtà fisica e storica. E il migliore amico di Dante, Guido Cavalcanti, a portare il modello di Andrea Cappellano alle estreme conseguenze: l’amore, nella sua poesia, si manifesta co­ me una passione irrazionale che travolge l’uomo e ne ottenebra i sensi, un inevitabile motivo di sofferenza al quale bisogna dare soddisfazione. Dante si stacca da Ca­ valcanti e dai suoi contemporanei, ed elabora un’idea originale di amore, che si arricchisce di caritas cristiana, diventa lode armoniosa e disinteressata, omaggio gratui­ to, che non chiede niente in cambio, fuorché la liber­ tà di cantare la propria donna. In lei vengono colti un miracolo, una sovraumana occasione di salvezza (il suo strumento è il saluto), che nulla tolgono alla sua fisicità (si potrà forse cogliere un’analogia con il realismo in pit­ tura inaugurato da Giotto, contemporaneo di Dante). L’amore è irrazionale per Cavalcanti, per l’Alighieri assolutamente no.

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Nella sua opera giovanile, la Vita nova, Dante conferma che l’immagine della propria donna «nulla volta sofferse ch’Amore lo regesse sanza ’l fedel consiglio de la Ragio­ ne» (I 10): testa e cuore camminano di pari passo. Dante rimase della sua idea con il passare degli anni e, almeno quindici anni dopo la Vita nova, scrisse FInferno. Qui, nel canto V, i lussuriosi sono puniti perché «la ragion sommettono al talento» (v. 39), cioè assoggettano la pro­ pria componente razionale, carattere distintivo dell’es­ sere umano, alla passione amorosa e all’istinto sensuale. Nei canti centrali del Purgatorio torna ancora una volta la riflessione sull’amore (inteso, però, più ampia­ mente rispetto all’accezione di “amore per una donna”), che non sempre è «in sé laudabil cosa» (XVIII 36), ma andrà sottoposto alla «virtù che consiglia» (la ragione, v. 62) di un soggetto che esercita il suo libero arbitrio. Siamo quindi distanti anni luce da una delle idee di fondo del De amore, per cui - scrive Dante stesso «amor, ch’a nullo amato amar perdona» {Inf. V 103), cioè “l’amore non permette all’oggetto di amore stesso (uomo o donna) di non restituire l’amore ricevuto”. L’a­ more, insomma, secondo Dante, esige sempre il vaglio della ragione e della volontà, ed è questo che lo rende autentico e schiettamente umano. Altro tema di novità nel pensiero di Dante è la difesa del volgare come strumento di am­ pia comunicazione in concorrenza con il lati-

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no, allora lingua ufficiale della cultura scola­ stica e accademica, del culto religioso, delle amministrazioni pubbliche. L’Alighieri in quest’ambito ha due convinzioni, svilup­ pate soprattutto dopo l’esilio: 1) il sapere alto, quello filosofico-scientifico, può essere reso accessibile, tramite il volgare, anche a persone di ambo i sessi che non conosco­ no il latino. Un’idea rivoluzionaria per l’epoca, che forse possiamo accostare solo all’operazione messa in atto, negli stessi anni, dal domenicano Meister Eckart (1260-1328) che, con i suoi sermoni tedeschi, esponeva contenuti di fi­ losofia, mistica e teologia al suo uditorio di gente comune usando la lingua del popolo. 2) Si può superare il partico­ larismo e la divisione dei tanti dialetti italiani, giungendo a un unico volgare sovracomunale e valido per tutta l’Ita­ lia, attraverso l’elaborazione linguistica che i grandi poeti dell’epoca stavano già attuando nei loro scritti. Dante sviluppò queste due opinioni rispettivamente nel Convivio (scritto in italiano e rivolto alle persone non dotte) e nel De vulgari eloquentia (scritto in latino e indirizzato a lettori colti), rimasti però incompiuti e inediti durante la vita del loro autore. Questi diede con­ creta attuazione al suo pensiero con la Commedia, for­ midabile prova di «ricchezza, concretezza, forza e dutti­ lità» comunicative, linguisticamente un «miracolo quasi inconcepibile». Così il filologo tedesco Erich Auerbach, che nella sua celebre opera Mimesis. Il realismo nella let-

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teratura occidentale metteva a confronto il poema con la produzione italiana precedente a esso. Non tutti i contemporanei, però, guardarono con favore alla scelta linguistica dell’Alighieri: il latinista Giovanni del Virgilio (che probabilmente interpretava l’umore di molta intellighenzia accademica) scrisse a Dante che «l’uomo di lettere disprezza le opere in volga­ re» e che nessuno dei classici amati dall’Alighieri si era mai servito della «lingua da piazza»: bisognava perciò comporre un poema epico in latino per ottenere anche l’ammirazione dei dotti. Niente da fare: Dante, che pu­ re dimostrò al suo interlocutore di saper poetare in la­ tino come gli antichi, era consapevole della grandezza della sua opera. L’Alighieri era uomo ben ostinato nei suoi propositi: è grazie a questa sua tenacia nell’amore per «la propria loquela» che lo possiamo considerare a buon diritto il padre della nostra lingua. La terza questione sulla quale Dante ha meditato e scrit­ to a lungo, con elementi di novità, è la riforma di Chiesa e Impero, maturata a partire da esperienze contingenti: la spirale di disordine e violenza su cui si stava avvitan­ do la politica comunale e le eccessive preoccupazioni temporali del Papato, coinvolto addirittura - secondo Dante - nella sua messa al bando da Firenze.

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In molti desideravano all’epoca un ritorno della Chiesa e dei suoi vertici a una dimensione più semplice e alla purezza della sua missione evangelica: San Fran­ cesco (figura molto cara aH’Alighieri), per esempio, e la corrente “spirituale” dei suoi seguaci, più rigorosa nell’osservanza della povertà. Due importanti frati di orientamento spirituale, il teologo francese Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298) e Ubertino da Casale (cir­ ca 1259-1330), passarono proprio da Firenze quando Dante era poco più che ventenne: non è da escludere che li abbia conosciuti personalmente. Molti cultori del Poverello di Assisi, compreso l’Alighieri, furono inoltre influenzati dalla lezione escato­ logica di un altro personaggio carismatico, Gioacchino da Fiore (circa 1130-1202): per questo monaco calabre­ se, successivamente alle due età del Padre (Antico Te­ stamento) e del Figlio (aperta dal Nuovo Testamento), si avvicinava lo stato dello Spirito Santo, sotto il segno dell’amore e della libertà in direzione dei tempi ultimi. Da questo punto di vista, per i lettori di Gioacchino la Chiesa doveva prepararsi alla nuova epoca che si schiu­ deva, diventando meno mondana e cedendo le cure temporali all’Impero, anch’esso da ripristinare nelle sue prerogative di potere. Per far questo Dante diede il suo contributo da intel­ lettuale, scrivendo un trattato latino, la Monarchia, anti­ cipata in alcuni contenuti dal Convivio, dove si dimostra che il conseguimento della felicità tra gli uomini non sta

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nella molteplice frammentazione degli egoismi, ma nella pura singolarità di chi esercita il potere, che tutto possie­ de e nulla desidera: «Onde, con ciò sia cosa che l’animo umano in terminata possessione di terra non si queti, ma sempre desideri gloria d’acquistare, sì come per espe­ rienza vedemo, discordie e guerre conviene surgere intra regno e regno, le quali sono tribulazioni delle cittadi, e per le cittadi delle vicinanze, e per le vicinanze delle case [e per le case] dell’uomo; e così s’impedisce la felicitade. Il perché, a queste guerre e alle loro cagioni tórre via, conviene di necessitade tutta la terra, e quanto all’umana generazione a possedere è dato, essere Monarchia, cioè uno solo principato, e uno prencipe avere; lo quale, tutto possedendo e più desiderare non possendo, li regi tegna contenti nelli termini delli regni, sì che pace intra loro sia, nella quale si posino le cittadi, e in questa posa le vicinanze s’amino, [e] in questo amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso, l’uomo viva felicemen­ te: che è quello per che esso è nato» (Conv. IV iv 3-4). È una soluzione che non va ad annullare i po­ teri locali (per esempio i regni nazionali, ma è a loro sovraordinata, per dirimere i conflitti e conseguire la pace, condizione necessaria per la felicità: un parallelismo moderno, forse banale ma esemplifica­ tivo, potrebbe essere quello dell’arbitrato internaziona-

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le dell’Onu. Qualche anno dopo, nella Monarchia, la trattazione del tema divenne più estesa e sistematica, usando con sapienza gli strumenti logici della filoso­ fia aristotelica. Sono forse due i dati più apprezzabili di quest’opera: il primo è l’applicazione per la politica del metodo scientifico (un approccio che idealmente collega l’Alighieri al Seicento di Hobbes e Spinoza), in questo caso l’uso del ragionamento sillogistico, che trae conclusioni a partire da principi che non possono essere messi in dubbio. Nella prima parte del suo trattato, per esempio, Dan­ te dimostra con una lunga e complessa argomentazione che lo stato ottimo del mondo si realizza proprio con l’impero, a partire da un fatto per lui inconfutabile, cioè che «la pace universale è la più importante condizione per la nostra beatitudine» (Mon. I iv 2). Il secondo elemento di interesse presente nella M o n a rc h ia è la teorizzazione di una feli­ cità terrena, raggiungibile da tutti gli uomini già in questo mondo, a prescindere dalla cul­ tura e dalla fede religiosa: è proprio per aiutare il conseguimento di questa felicità che i popoli necessitano della guida dell’imperatore, il quale si serve - autonomamente dal papa e dal potere religioso - degli insegnamenti dei filosofi. Si legge spesso che la Monarchia è un’opera anacro-

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rùstica, ma ci appare nelle sue premesse ben ancorata al suo tempo e collegata al dibattito che si svolgeva tra Due e Trecento. All’epoca, infatti, sono molti gli au­ tori che riflettono, usando risorse filosofiche, teologi­ che, giuridiche, sul rapporto tra Impero (noi diremmo “Stato laico”) e Chiesa, nonché sui rispettivi ambiti di potere, con esiti diversi. Alcuni pensatori affermano la superiorità del Papa­ to, a partire dal primato dello spirituale sul temporale: tra questi il massimo teologo del Duecento, Tommaso d’Aquino. Fautori invece dell’autonomia dell’Impero e, quindi, vicini all’opinione di Dante, furono Marsilio da Padova, che forse lesse la Monarchia e teorizzò la legit­ timazione del potere non nell’alto dei cieli, ma in terra tra il popolo, e Guglielmo di Ockham, un altro fran­ cescano in cerca di una Chiesa più povera e libera dai legami del potere: per lui incoronare un sovrano non equivaleva a sottometterlo a sé.

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LE OPERE

sando un pizzico di arbitrio, possiamo per como­ dità suddividere le opere dantesche secondo i tre periodi fissati dal filologo dell’Otto-Novecento Miche­ le Barbi nella sua Vita di Dante: il primo (anni O ttan­ ta del Duecento-1301), combaciante grosso modo con gli anni fiorentini, caratterizzato dal culto della poesia amorosa ( Vita nova, la maggioranza delle Rime e i con­ troversi Fiore e Detto d ’amore, secondo alcuni studiosi estranei alla paternità deH’Alighieri); il secondo (13021307 circa), da collocare nei primi anni dell’esilio, se­ gnato dall’entusiasmo per la scienza come vera perfe­ zione dell’uomo (Convivio, De vulgari eloquentia e un ristretto numero di rime); il terzo (1307-1321), quello della piena maturità, contraddistinto dal desiderio di una riforma politico-religiosa del mondo e dalla missio­ ne di vate e profeta assunta da Dante stesso (Commedia, Monarchia, Epistole, Questio, Ecloge).

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LA VITA NOVA E LE COMPOSIZIONI POETICHE Lo scritto principale della prima fase, da collocare ne­ gli anni immediatamente a ridosso del 1291, è la Vita nova. Il titolo in latino - ma diversi studiosi preferisco­ no la versione italiana Vita nuova - rimanda al duplice significato di “giovinezza” e “vita rinnovata” dall’amore e dall’esperienza di grazia raccontati nel testo, tecnicamente un prosimetro, cioè una commistione di testi poetici (31 in tutto: 5 canzoni, una ballata, 25 sonetti) e brani in prosa. Questi ultimi servono per commentare i componimenti in rima, scritti in precedenza ed even­ tualmente ritoccati per essere inseriti nella nuova ope­ ra, e per dipanare la storia dell’amore di Dante per una donna di nome Beatrice, da identificare storicamente in Bice di Folco Portinari (personaggio in vista nella Firen­ ze di Dante), di poco più giovane del poeta, maritata con Simone de’ Bardi e morta nel giugno 1290. Unendo memoria personale e filtro letterario, Dante racconta di aver incontrato Beatrice la prima volta nel 1274 e la seconda nel 1283, all’età quindi di nove e diciotto anni. Il ritorno del numero 9 e dei suoi multi­ pli (il 3 moltiplicato per sé stesso è segno di perfezione e immagine della Trinità cristiana) è una costante del «libello» - così lo chiama Dante - e rivela la natura pro­ digiosa di Beatrice. Dal secondo incontro con la giovane nasce il primo sonetto composto da Dante, A ciascunalmapresa, inviato

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agli altri rimatori volgari perché ne diano un’interpreta­ zione: tra loro è anche il poeta Guido Cavalcanti che di­ verrà il «primo amico» dell’autore. Secondo i codici corte­ si, l’amore per Beatrice è nascosto dal poeta, che rivolge la sua attenzione ad altre due donne, dette «dello schermo». Beatrice quindi inizialmente toglie a Dante il saluto (un gesto semplice, che cela in sé, però, del miracoloso, per­ ché capace di dare salutem, in latino “salvezza”) e succes­ sivamente lo «gabba», ossia si fa beffe di lui in pubblico: gli effetti sono così dolorosi che Dante non riesce più a sostenere la presenza della giovane. Da qui la svolta: inter­ rogato da una donna su quale sia il valore di questo tipo di amore, non ricambiato neanche con il saluto, Dante intuisce che la propria felicità non risiede più nel ricevere un gesto da parte di Beatrice, ma nella totale gratuità della sua poesia, che d’ora in poi sarà di semplice lode. Il manifesto di questo nuovo corso del pensiero dan­ tesco è la canzone Donne ch’avete intelletto d ’amore, nella quale la giovane amata è assimilata a una creatura ange­ lica. Dopo una serie di riflessioni sulla sua virtù saluti­ fera e alcuni eventi che ne preannunciano la scomparsa, Beatrice muore in una cornice ricca di echi biblici. A un anno circa dal lutto, Dante incontra una donna, «gen­ tile» e «pietosa» (prova infatti compassione per il dolore del poeta), e per lei scrive delle rime. Pentitosi - dopo una visione di Beatrice - per la deviazione dal suo antico amore, l’autore-protagonista torna decisamente al pri­ mo proposito, ossia a lodare colei che ormai è creatura

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del Paradiso, impegnandosi a scrivere in futuro un’ope­ ra più degna in suo onore (intento concretizzatosi più tardi, secondo alcuni critici, proprio con la Commedia). Nessun autore inventa qualcosa dal nulla: con la Vita nova Dante ha dovuto rivolgersi a dei modelli. Questi sono la Bibbia, il Lelio o dell’amicizia di Cicerone (che teorizzava l’amore perfetto come disinteressato), le autobiografiche Confessioni di Sant’Agostino, il prosimetro La consolazione della Filosofia del filosofo tardo-antico Severino Boezio e i testi introduttivi alle rime proven­ zali (cioè le vidas, “vite” dei poeti, e le razos, “ragioni” esegetiche). L’opera uscita dalla penna del giovane Ali­ ghieri è già un capolavoro e ambisce a supe­ rare gli scritti del maestro Cavalcanti: in essa possiamo leggere non solo una storia d’amore, ma anche il racconto agiografico di una donna assimi­ lata ai santi e a «uno miracolo», nonché la riflessione dell’autore sull’evoluzione della propria poesia, partita dalle tradizionali modalità cortesi e approdata a quelle consapevolmente innovative della «loda» spontanea, che neanche la morte può fermare. Non tutte le liriche dantesche furono accolte nella Vita nova: evidentemente non adatte a delineare il per­ corso là progettato oppure scritte in un momento suc­ cessivo, sono state pubblicate dagli editori con il titolo

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generico di Rime (62 componimenti, se escludiamo i testi poetici della Vita nova e i tre inseriti poi nel Con­ vivio), che non possono quindi essere classificate come un’opera progettata da Dante. Domenico De Robertis, nel 2002, ha proposto una loro organizzazione fondata sulla tradizione manoscritta, ma, nel nostro caso, torna più comoda la successione pensata da Michele Barbi per la sua edizione del 1921, strutturata, attraverso un cri­ terio tematico-cronologico, in sette gruppi. Oltre alle rime della Vita nova, il filologo individuava una famiglia di altre rime del tempo della Vita nova (quin­ di, più o meno, 1283-primi anni Novanta), la tenzone con Forese Donati {ante 1296), un gruppo di rime alle­ goriche e dottrinali (posteriori al 1290, anno della morte di Beatrice), uno eterogeneo di altre rime d’amore e di corrispondenza, uno di rime per la Donna Pietra (circa 1296). A queste si aggiungono una manciata di rime del tempo dell’esilio (che rientrano quindi cronologicamente nel secondo periodo della produzione dantesca) e un’Ap­ pendice con i componimenti di dubbia attribuzione. La varietà di argomenti e di stili è la cifra co­ mune di questi testi, nei quali Dante dà prova della sua tempra di sperimentalista: la maggior parte dei componimenti tratta d’amore - ri­ volto soprattutto a Beatrice - presentando temi ricorren­ ti anche nella Vita nova (il potere nobilitante dell’amore,

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la fenomenologia dei suoi effetti, la natura angelica della donna, gli effetti del suo saluto, la poetica della lode) e perseguendo un obiettivo di chiarezza nella forma e di pulizia nello stile. Dante, però, nel De vulgari eloquentia, scritto nei primi anni dell’esilio, considera sua l’eccellen­ za nel canto della virtus, cioè della rettitudine morale: i componimenti che si occupano di questa sono relativa­ mente pochi (solo cinque); più spesso assistiamo, inve­ ce, a una mescolanza del tema amoroso con quello etico (come il raffinamento morale del cuore innamorato). Non mancano poi nella raccolta dantesca occasioni poetiche di tipo più cortese o corrispondenze in versi con altri poeti: Dante da Maiano, Guido Cavalcan­ ti, Guido Orlandi, Cino da Pistoia, Cecco Angiolieri. La più celebre corrispondenza dantesca è quella, però, con Forese Donati: qui, in sei sonetti, tre di Dante e tre di Forese, riprendendo le maniere scurrili e i temi della poesia comica, i due si scambiano insulti, anche pesanti, non si sa quanto legati a realtà concrete. D an­ te, per. esempio, accusa Forese di non scaldare adegua­ tamente il letto coniugale, Forese ricambia tacciando l’Alighieri di essere figlio di un usuraio. Degne di attenzione sono pure le cosiddette “rime petrose”, dedicate a una misteriosa e forse fittizia donnapietra: si tratta di quattro componimenti nei quali si as­ siste all’assimilazione tra la materia trattata (l’amore per una donna dura e ostile nei confronti di Dante) e la lin­ gua usata, con rime fonicamente aspre e un’elaborazione

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retorica raffinata a imitazione di Arnaut Daniel, maestro provenzale del trobar clus (“poetare chiuso, difficile”). Fra le “petrose” sono celebri A l poco giorno, sestina a imitazione proprio di Arnaut, con la ricercata struttura di sei stanze più congedo, con sei parole-rima ricorrenti in tutte le stanze, ricombinate secondo il meccanismo della retrogradatio cruciata (ogni stanza riprende le ul­ time tre rime della precedente alternate alle prime tre: ABCDEF, FAEBDC, CFDABE ecc.), e Così nel mio parlar, canzone dal tratto spiccatamente erotico: un te­ sto sorprendente per il lettore abituato alle atmosfere rarefatte della Vita nova. Forse da attribuire alla penna del giovane Dante (ma il dibattito è vivacemente discorde) sono il Fiore e il Det­ to d ’amore, risalenti agli anni Ottanta del secolo XIII e tramandati da un unico manoscritto oggi diviso in due unità, la prima a Montpellier, la seconda alla Biblioteca Laurenziana di Firenze. Il Fiore, il cui autore afferma di chiamarsi «ser Du­ rante» (di cui «Dante» è l’effettiva abbreviazione), è un poemetto - tecnicamente una “corona” - composto da 232 sonetti che compendiano e traducono il francese Roman de la Rose, iniziato da Guillaume de Lorris e ter­ minato da Jean de Meung nel corso del Duecento: nel testo si raccontano le varie peripezie di Amante per con­ quistare il fiore (metaforicamente la donna). Il Detto d ’amore, invece, è un poemetto di 480 set­ tenari, forse incompleto, da attribuire allo stesso au-

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tore del Fiore, con il quale condivide in modo com­ plementare la materia, cioè i giusti comportamenti del buon amante. Giocano a favore della paternità dantesca dei due scritti (sostenuta in particolare dall’autorevole giudizio di Gianfranco Contini), oltre al nome di D u­ rante citato nel testo e alla mancanza di altri candidati di spessore cui riferire questi versi, la fiorentinità della lingua, sottili tracce intertestuali e parallelismi stilistici con le altre opere dell’Alighieri. D ’altronde non man­ cano gli argomenti contrari all’attribuzione, il princi­ pale dei quali è la collocazione di Fiore e Detto d ’amore nell’ambito della biografia dantesca (i due scritti pre­ suppongono per un Dante poco più che ventenne una notevole conoscenza del francese) e nel percorso com­ plessivo della sua opera.

IL CONVIVIO Il secondo periodo della produzione dantesca viene pre­ parato da due passaggi biografici importanti: gli studi filosofici successivi alla Vita nova, in buona parte da autodidatta (accompagnati probabilmente da qualche frequentazione degli Studi dei francescani e dei dome­ nicani a Firenze), e l’esperienza politica con il conse­ guente esilio. Intorno al 1303-1307 un Dante «peregrino» tra le corti del Nord e Centro Italia concepisce due trattati,

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entrambi incompiuti e scritti più o meno parallelamen­ te, nei quali l’Alighieri cerca di accreditarsi (anche per re­ cuperare stima di fronte alla classe intellettuale e rispet­ tabilità tra quanti potevano ospitarlo) non solo e non più come poeta, ma pure come dotto uomo di scienza. La prima di queste opere è il Convivio, un trattato in lingua volgare di argomento enciclopedico-fìlosofico, pensato come la continuazione «temperata e virile» della «fervida e passionata» Vita nova, destinato agli uomini e alle donne che, per le inevitabili faccende della vita quotidiana, non hanno tempo da dedicare agli studi e sono inesperti di latino. Queste persone sono quindi invitate a un ideale banchetto sapienziale, il «convivio» cui allude il titolo. L’opera venne progettata come una successione di 15 trattati: uno proemiale e altri 14 destinati a commenta­ re, non senza ampie digressioni, altrettante canzoni di materia filosofica. Di questi 14 capitoli Dante ne scrisse solo tre, dedicati a chiosare Voi che ’ntendendo il terzo del movete, Amor che nella mente mi ragiona, Le dolci rime d ’amor ch’i ’solia, testi che precedono l’esilio. La spiegazione di questi componimenti pren­ de le mosse dalla teoria dei quattro sensi, mutuata dall’esegesi biblica:

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secondo questa linea di lettura, ogni testo è portatore di un significato letterale, di uno allegorico (il significato nascosto sotto il «manto» delle belle parole), di uno mo­ rale (quello che guarda al progresso spirituale del lettore), di uno anagogico (quando rinvia alle «superne cose»). Dante, concentrandosi in realtà sui primi due di questi sensi, nei trattati II e III spiega come la personalità fem­ minile lodata nelle rispettive canzoni sia la stessa donna gentile apparsa nella Vita nova dopo la morte di Beatrice, da identificare allegoricamente (forse con una ritrattazio­ ne di quanto scritto in passato) nella Filosofia stessa. Diverso, non solo per la maggiore estensione, il trat­ tato IV, incentrato su un tema importante per Dante, cioè la nobiltà, «perfezione di propia natura in ciascu­ na cosa»: questa si slega progressivamente - anche se non del tutto - dal concetto di ereditarietà familiare, diventa patrimonio del singolo individuo e assurge più ampiamente a grazia divina, principio delle virtù e del­ la felicità umana. Tra le digressioni della quarta parte va poi. segnalata quella sulla necessità di un unico prin­ cipato per il mantenimento della pace tra gli uomini, argomento ripreso più tardi nella Monarchia. Nelle pa­ gine del Convivio si avverte un Dante culturalmente più attrezzato rispetto agli anni giovanili: oltre ad Agosti­ no, Boezio, Cicerone, già influenti sulla Vita nova, il nuovo nutrimento per l’Alighieri giunge soprattutto da Aristotele (in versione latina) e dai suoi commentatori, in particolare Tommaso e Alberto Magno, anche se non

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mancano significative letture, sempre in traduzione, dal colto mondo arabo. Proprio a partire dalla cultura aristotelicascolastica Dante cerca di modellare la sua prosa con una struttura ipotattica (fondata cioè sulla subordinazione), che tende a imi­ tare quella del ragionamento sillogistico. Il trattato rimase interrotto al IV libro e dimenticato nel cassetto dal suo autore: fu pubblicato solo dopo la morte di Dante e in stato di piena provvisorietà, come dimostrano gli oltre mille errori consegnatici dalla tra­ dizione manoscritta.

\l DE VULGARI ELOQUENTE «Di questo [cioè della lingua volgare e delle sue muta­ zioni] si parlerà altrove più compiutamente in uno li­ bello ch’io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza». Così è annunciata nel Convivio la scrittura del De vulgari eloquentia, da collocarsi forse fra il III e il IV trattato del prosimetro filosofico (e quindi, più o meno, negli anni 1304-1305). Tra i progetti di Convivio e De vulgari pare esserci una studiata simmetria: nel primo Dante si rivolgeva a laici non dotti, affrontando una materia (la filosofia) che

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usava da secoli il latino e impiegando il volgare, consi­ derato inferiore al latino stesso; nel secondo l’autore usa invece il latino (giudicato questa volta inferiore) per ra­ gionare di lingua e letteratura volgare, indirizzando il suo messaggio a un pubblico di lettori colti. Le due concezioni complementari di superio­ rità riferite ora a una lingua ora all’altra sono frutto di un pensiero in fie ri, che sta maturan­ do e troverà il suo punto d’arrivo solo nella C o m m e d ia .

Anche il De vulgati rimase incompiuto e, probabilmente, pure sconosciuto ai lettori fino alla morte di Dante. Pun­ to di partenza dello scritto linguistico è il riconoscimento dell’assenza di «una qualche trattazione sulla teoria dell’e­ loquenza volgare», lacuna che l’autore vuole colmare. Del testo ci sono arrivati solo il primo libro e una parte del secondo (su un possibile progetto complessivo di quattro parti): nel primo, affermando la superiorità del volgare (lingua naturale) rispetto al latino (conside­ rato un’elaborazione artificiale e immutabile), si cerca di ricostruire una storia della lingua a partire da Adamo. Dante, che dimostra una coscienza linguistica più unica che rara, intuisce la variabilità nel tempo e nello spazio dei diversi idiomi, iniziata con l’episodio biblico della torre di Babele, giungendo perfino a descrivere come una parlata può essere mutevole nella stessa città.

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Dante isola tre grandi famiglie linguistiche europee: una nordico-tedesca, una greca, una meridionale-occidentale. Soffermandosi su quest’ultima la divide a sua volta in lingue d’oc (Provenza e - erroneamente - anche Spa­ gna), dìoil (Francia settentrionale) e di sì (Italia). Ponen­ do poi ulteriore attenzione proprio al contesto italiano, Dante individua 14 parlate regionali, ripartite nelle due macroaree dei versanti appenninici. Viene avviata una vera e propria inchiesta alla ricerca del volgare italiano eccellente, quello degno della poe­ sia (e così Dante scrive anche la prima storia letteraria d’Italia, dai siciliani della corte di Federico II ai tempi suoi): questo, però, gli sfugge, è come una pantera che lascia una traccia profumata - come credevano nel Me­ dioevo - ma resta inafferrabile. E dunque un volgare ideale, dal tratto sovracomunale (in tal senso non andrà sottovalutata la condizione dantesca di essere per forza di cose cosmopolita: «ho per patria il mondo come i pesci hanno il mare», I vi 3), che non si trova sulla bocca degli italiani, ma sulle pagine scritte dei poeti: Dante fu influenzato in tal senso anche dal leggere poesia siciliana in una veste linguistica che anonimi copisti toscani avevano reso simile alla propria. Si tratta di una riflessione che già anticipa molta della storia linguistica d’Italia, a lun-

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go gravitante sull’esempio dei suoi autori più importanti. Sono quattro gli aggettivi che determinano il volgare perfetto: illustre («sublime per capacità educativa e po­ tere», I xvii 2), cardinale (è il riferimento per gli altri volgari), aulico e curiale (adatto a una reggia e a una struttura unitaria di funzionari amministrativi). Sono quanto mai evidenti le ricadute anche politiche di tale proposta, assolutamente antimunicipale. Dato che il volgare illustre è quello usato dai poeti, il secondo libro è dedicato appunto ai generi che que­ sto può praticare in poesia, cioè i cosiddetti magnalia (“grandi argomenti”): salus, venus, virtus (armi, amore e morale). Seguono gli esempi: in Italia eccellono per l’amore Cino da Pistoia e per la virtus Dante stesso; manca invece nella Penisola un autore esemplare per il canto delle armi. Si passa poi a trattare la forma metrica che meglio può affrontare i magnalia, cioè la canzo­ ne (superiore a ballata e sonetto, ai quali sarebbe stato dedicato un eventuale quarto libro): a essa meglio si addice lo stile tragico (e non il comico o l’elegiaco) e il verso endecasillabo. Gli ultimi capitoli del trattato riguardano la costruzione del testo, tenuto conto dei molti fattori coinvolti: costrutti sintattici, lessico, metri e versi. La trattazione nel secondo libro è sovente ar­ ricchita da esempi tratti dalla poesia d’oc e di sì: Dante cita ben nove dei suoi testi.

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LA COMMEDIA Convivio e De vulgari probabilmente rimasero incom­ piuti per l’insorgere in Dante di un progetto più am­ bizioso, quello cioè della Commedia, anzi, alla greca, Comedìa. La sua stesura si dilata su una cronologia che inizia da data incerta (dal biennio 1306-1307, in Lunigiana, per alcuni, dal 1309-1310, in Casentino, per altri) e continua con pause alterne più o meno fino alla fine della vita del poeta. Quanto alla pubblicazione del poema, questa forse avvenne per piccoli gruppi di canti, inizialmente fra strette cerehie di lettori: sappiamo che l’Inferno era noto, almeno in parte, nel 1314, a France­ sco da Barberino, mentre il Purgatorio è citato verso il 1316 in un volgarizzamento AdVEneide e nell’iscrizione che accompagna la Maestà senese di Simone Martini. Verosimilmente la conoscenza integrale del Paradiso è da collocare dopo la morte del poeta. L’aggettivo «divina», cui siamo abituati, venne aggiun­ to nell’edizione curata da Ludovico Dolce (Venezia, Ga­ briele Giolito de’ Ferrari, 1555), che raccolse a sua vol­ ta una suggestione contenuta nel Trattatello in laude di Dante del Boccaccio. Secondo la versione del Certaldese, l’ultima parte del poema fu recuperata solo dopo la scom­ parsa di Dante, grazie al sogno di uno dei figli: «apparve [a Iacopo Alighieri] una mirabile visione, la quale [...] gli mostrò dove fossero li tredici canti, li quali alla divina Comedia mancavano, e da loro non saputi trovare».

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Perché questo titolo? Dante lo spiega nella sua E p is t o la XIII 29-31: la c o m e d ìa si oppo­ ne alla t r a g e d ia , che nella cultura medievale costituiva il modello di scrittura più eleva­ to, con un riferimento ben preciso - V E n e i­ d e di Virgilio -, che inizialmente è «ammira­ bile e quieta» ma si conclude come «fetida e orribile». La c o m e d ìa , invece, ha un’evo­ luzione opposta, «da principio è orribile e fetida [...], alla fine è prospera, desiderabile e gradita». In secondo luogo, sulla scorta di Orazio e in osservanza alla teoria della convenientia (al contenuto deve corri­ spondere un linguaggio adeguato), con la comedìa Dan­ te vorrebbe scardinare le vecchie nomenclature medie­ vali e unire stili diversi: sotto un tale cappello trovano posto le brutture e i turpiloqui del linguaggio infernale (diceva Giorgio Petrocchi che «nella Divina Commedia ci sono dei termini che [ciascuno di noi] non userebbe ripetere in famiglia o leggere da una cattedra»)* assieme alle vette sublimi del Paradiso. Andrà poi messo in rilievo il ruolo esemplare che la Bibbia giocò su Dante: la lingua del testo sacro (il cosiddetto sermo humilis, “linguaggio umile”), dimessa e disprezzata dai letterati di formazione alta, è però in grado di svelare le verità ultime. Sarà un po’ così an* G. Petrocchi, Dante e il suo tempo, ERI, Torino 1963

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che per l’Alighieri, che si serve del volgare, «dimesso e umile», nel quale «comunicano anche le donnette» {Epistola XIII 31), meno titolato del latino, per rac­ contare agli uomini il suo viaggio di redenzione verso il Paradiso. Ricordiamo però anche che il titolo non è mai stato accolto pacificamente: già nel XIV secolo Antonio da Tempo, Boccaccio e Benvenuto da Imola esprimevano perplessità. Più o meno negli stessi anni, una mano ano­ nima sul codice Gaddi 18 della Biblioteca Laurenziana di Firenze si riferiva al poema dantesco chiamandolo «tragedia». Oltre due secoli dopo, Traiano Boccalini, tra il serio e il faceto, immaginava nei suoi Ragguagli di Parnaso che un gruppo di letterati costringesse Dante, a forza di minacce e percosse, a svelare il vero titolo del poe­ ma. Questo, scritto appunto in volgare, in ossequio alle idee elaborate nel De vulgarì e nel Convivio, è suddiviso in tre cantiche {Inferno, Purgatorio, Paradiso), ognuna contenente 33 canti, con l’eccezione dell 'Inferno che presenta anche un canto proemiale: il totale restituisce il numero di 100, espressione di pienezza e perfezione. Ogni canto contiene da un minimo di 115 a un massimo di 160 versi, organizzati per terzine: si tratta di una struttura, inventata da Dante, che funziona con terne di endecasillabi con rime “incatenate” ABA BCB C D C XYX Y, particolarmente duttili nell’elaborazione di un racconto prolungato in poesia.

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Dalla terzina all’organizzazione delle cantiche, dunque, figura insistentemente il 3, che riman­ da - come già il 9 nella Vita n o v a - alla Trinità e alla sua perfezione, una sorta di omaggio al Creatore e di imitazione della sua opera. La Commedia è un poema allegorico (associa cioè al sen­ so letterale un sovrasenso simbolico), che narra il viag­ gio nell’aldilà che un Dante trentacinquenne compie nell’anno 1300, partendo da una «selva oscura» (simbo­ lo della perdizione morale) in cui si è smarrito, attraver­ sando l’Inferno (luogo di punizione eterna dei peccatori) e il monte Purgatorio (deputato alla purificazione delle colpe meno gravi), fino ad arrivare al Paradiso e all’Em­ pireo, vero fulcro del mondo celeste e sede dei beati. In questa scansione torna di nuovo il numero 9: tanti sono i cerchi dell’Inferno (cui si ag­ giunge una sorta di vestibolo iniziale), i luo­ ghi del secondo regno (antipurgatorio + set­ te cornici + Eden) e i cieli paradisiaci, ai quali si unisce il finale Empireo. L’Inferno è pensato come una grande voragine (collo­ cata sotto Gerusalemme, città al centro dell’emisfero boreale) a forma di cono rovesciato, formatosi nel mo­ mento in cui Lucifero si ribellò a Dio e venne cacciato dal Paradiso. Nella parte superiore sono castigati gli au-

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tori delle colpe meno gravi; scendendo verso il basso il peccato punito aumenta di gravità. Dopo un vestibolo destinato ai “pusillanimi” o “igna­ vi” (coloro che nella vita non hanno mai scelto tra il bene o il male) e il limbo (dove stanno i bambini non battezzati e le anime virtuose che non hanno conosciu­ to la fede cristiana), sono puniti in cerchi concentrici e digradanti prima di tutto gli incontinenti, coloro cioè che non furono in grado di governare i loro istinti (lus­ suriosi, golosi, avari e prodighi, iracondi e accidiosi). Seguono i violenti (eretici e violenti veri e propri), poi i fraudolenti (puniti in 10 bolge), e infine i traditori. Nel punto più profondo dell’Inferno è confitto Lu­ cifero, principe dei diavoli, che, con le sue tre bocche, mastica orrendamente Giuda (traditore di Cristo), Bru­ to e Cassio (traditori di Cesare, iniziatore dell’Impero). E aggrappandosi al pelo bestiale di Lucifero che Dante scende nel centro della terra e può iniziare a risalire poi nell’altra metà del globo. Attraverso un cunicolo sotterraneo, si approda al se­ condo luogo ultramondano, il monte Purgatorio, crea­ tosi, in mezzo alle acque dell’emisfero australe, dalle terre ritrattesi per non entrare in contatto con Lucifero. Qui, in una prospettiva di salvezza, le anime che si sono pentite dei propri peccati possono redimersi e prepararsi al Paradiso. Il Purgatorio è costituito da un’area preliminare (antipurgatorio) dove iniziano a purificarsi gli spiriti

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negligenti, morti scomunicati oppure pentitisi in fin di vita. Seguono sette cornici corrispondenti ai vizi capi­ tali (cui si associano altrettante beatitudini evangeliche da acquisire): superbia, invidia, ira, accidia, avarizia e prodigalità, gola, lussuria. Ogni anima rimane su cia­ scuna cornice per un tempo proporzionato all’inclina­ zione per quel peccato, un periodo comunque abbre­ v iarle anche grazie ai suffragi dei viventi. In cima al Purgatorio sta l’Eden, il Paradiso terrestre, abitato da Adamo ed Èva per una manciata di ore agli albori della creazione. Qui vive la misteriosa Matelda, che accompagna le anime purganti nell’ultimo tratto del loro viaggio, e scorrono due fiumi, il Letè e l’Eunoè. Le loro acque servono a cancellare il ricordo del peccato e a risvegliare la memoria del bene di cui ogni uomo in vita è stato responsabile. Superato l’Eden, si giunge in Paradiso, alla cui pie­ nezza si arriva passando attraverso i nove cieli concèntri­ ci del cosmo descritto dall’antica astronomia geocentrica (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, Stelle fisse, Primo Mobile). I primi sette cieli si associa­ no a diversi tipi di inclinazione umana: l’inadempienza ai voti, il desiderio di gloria, l’amore, la sapienza, la mi­ litanza, la giustizia, la contemplazione. Negli ultimi due cieli Dante assiste al trionfo di Cristo e Maria (con un esame sulle tre virtù teologali cui il poeta è sottoposto al cospetto degli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni) e a quello degli angeli.

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Il percorso si chiude con la contemplazione del “ve­ ro” Paradiso, la Candida Rosa, dove dimorano i beati riuniti intorno alla Vergine Maria e, successivamente, con la visione di Dio. In questo lungo viaggio nell’aldilà il protagonista viene inizialmente affiancato dal più grande dei poeti latini, Virgilio, inviato a Dante da tre beate: Beatrice (la donna da lui amata in gioventù), Santa Lucia e la Madonna. La prima di queste sostituirà Virgilio come guida dall’Eden fino all’Empireo. Qui, l’ultimo tratto del viaggio dantesco sarà accompagnato da San Bernar­ do, celebre monaco e mistico del sec. XII. Tre guide, quindi, che conducono ii poeta per tratti differentemente estesi (quasi due can­ tiche Virgilio, una cantica circa Beatrice, tre canti San Bernardo) e che possono essere in­ terpretate come allegorie della ragione uma­ na (Virgilio), della scienza teologica (Bea­ trice), della pura contemplazione spirituale (Bernardo). Il viaggio si struttura per tappe, durante le quali Dante ha la possibilità di vedere le anime che abitano l’aldilà: si tratta di personaggi della storia antica, recente o addirit­ tura coeva (per questo Marco Santagata ha paragonato la Commedia a una sorta di instant hook nel suo Dante. Il romanzo della sua vita, Mondadori).

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Gli spiriti spesso sono semplicemente citati, a volte vengono chiamati a rendere conto esplicitamente della propria vicenda in un’ottica di esemplarità: le testimo­ nianze sui rispettivi peccati, sulle passioni individuali, oppure sulle singole beatitudini, nonché i loro giudizi sul mondo dovranno giovare all’edificazione morale de­ gli uomini. Tra questi personaggi hanno goduto di particolare attenzione da parte dei lettori alcune figure di rara in­ tensità poetica: Francesca da Rimini con il suo amore per Paolo Malatesta (I n f V), Farinata degli Uberti e il suo debole per la politica {Inf. X), il suicida Pier delle Vigne {Inf. XIII), Ulisse con il suo insaziabile deside­ rio di conoscenza {Inf XXVI), il conte Ugolino della Gherardesca e la sua drammatica morte per fame {Inf XXXII), l’amico di Dante, Forese Donati {Purg. XXIIIXXIV), la delicata Piccarda strappata al suo chiostro {Par. Ili), i Santi Francesco e Domenico, eroi della fede cristiana {Par. XI-XII). Da dove Dante trasse lo spunto per il suo poema? Nel Medioevo furono scritte diverse storie di viaggi nell’aldilà, ma i modelli cui l’Alighieri si rivolge sono prima di tutto quelli antichi: già Omero aveva narrato la cosiddetta “catàbasi” (la di­ scesa nell’oltretomba) di Ulisse nt\Y Odissea. Dante non

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la conobbe direttamente, ma aveva sotto mano una sua imitazione nel VI libro dell’Eneide, in cui è lo stesso Enea a percorrere l’aldilà per andare a trovare il padre Anchise. Un altro stimolo poteva arrivare dalla vicenda del mitico poeta Orfeo (nota a Dante attraverso Ovidio, Virgilio e Boezio), che, per riprendersi Euridice, scende nell’Ade. In ambito cristiano, come confermava l’antico Credo apostolico, Gesù in persona —dopo la morte e prima della risurrezione - era andato agli inferi, e San Paolo, nella sua seconda lettera ai Corinzi, testimonia­ va di essere stato in Paradiso, ma di non potere riferire nulla di quanto visto (rimedierà in parte l’apocrifa Visio Pauli, “Visione di Paolo”). Da qui già emerge quali siano i principali ba­ cini culturali dai quali attinge la scrittura del poema dantesco: la classicità latina e la Bibbia. La prima offriva immagini e citazioni ampiamente sfruttati soprattutto neWInferno: molte creature della prima cantica come Caronte, Minosse, Cerbero e i cen­ tauri appartengono all’immaginazione dei pagani. Dalla Bibbia, invece, l’Alighieri mutuava anche, oltre al già citato modello del sermo humilis, situazioni esemplari e paradigmi sostanziali, come il percorso di conversione e salvezza dalla schiavitù alla libertà (Esodo), la possibilità di scrivere poesia sacra (Salmi e Cantico dei cantici), la critica radicale verso il proprio tempo associata all’an-

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nuncio di salvezza (profeti), la tensione verso i tempi ultimi (Apocalisse). Consapevole di imitare la Scrittura, lo stesso Dante chiama la sua opera «poema sacro» {Par. XXIII 62 e X X V I). Sono molti i temi che la C o m m e d ia offre al lettore. I tre più importanti, reciprocamente connessi, sono quelli riguardanti la rigenera­ zione dell’umanità, la presentazione di sé co­ me il giusto perseguitato, la riflessione sulla propria poesia. In primo luogo, lo scopo del poema è «rimuovere i viven­ ti in questa vita da uno stato di miseria e condurli a uno stato di felicità» (Epistola XIII 39), attraverso un cam­ mino di conversione dal male al bene che Dante compie allegoricamente coinvolgendo con sé tutta l’umanità per un suo progresso morale, politico (in particolare verso una rifondazione della potestà imperiale e un ritorno della Chiesa alla povertà evangelica) e spirituale. Dante teme che il suo viaggio, che in pochi, prima di lui, hanno compiuto (Enea e San Paolo sono i diretti predecessori cui Dante si rivolge), possa trasformarsi in un’avventura azzardata, diventando «folle» e colpevole di superbia intellettuale - la greca hybris: l’incarnazione di questo pericolo sempre incombente è il personaggio di Ulisse, protagonista di Inferno XXVI, il cui desiderio illi­ mitato di conoscenza lo porta alla perdizione e al naufra-

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gio. È un pericolo che Dante, però, supera muovendosi per gradi, non in solitudine, ma facendosi accompagna­ re dalle sue guide e da una Grazia che gli viene dall’Alto. La seconda linea che innerva il poema è la presenta­ zione che FAlighieri fa di sé come il giusto perseguita­ to: durante il proprio viaggio pervengono a Dante una serie di annunci progressivamente sempre più espliciti sul suo destino di esule. Si tratta ovviamente di profezie post eventum: il racconto, ambientato nell’anno 1300, ma scritto in momenti successivi, può anticipare facil­ mente ciò che avverrà dopo. Diversi personaggi (Ciacco, Farinata degli Uberti, Brunetto Latini, Vanni Fucci nell’Inferno-, Corrado Malaspina, Oderisi da Gubbio, Forese Donati nel Purgato­ rio) accennano in modo oscuro al suo bando, lasciando Dante in un doloroso dubbio. Sarà l’avo dell’Alighieri, Cacciaguida, incontrato nei canti XV-XVII del Paradi­ so, a dare limpida chiarezza al futuro del suo discen­ dente e alle sue umilianti peripezie da ramingo in cerca di ospitalità, assimilando il proprio erede al profeta bi­ blico, colui che è osteggiato per la «parola brusca» ma foriera di verità e di «vital nodrimento» (con un riferi­ mento audace, forse, all’eucaristia). Quello del profeta è effettivamente uno dei ruoli che Dante interpreta più spesso nella terza fase della sua produzione ( C o m m e d ia , M o n a rc h ia , E p is to le ), non come il semplice

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veggente che anticipa il futuro, ma letteral­ mente come “chi parla in vece di altri”, cioè Dio, esortando, rimproverando, maledicen­ do, rivelando verità vicine e lontane, con una forte tensione escatologica. Il terzo filo rosso che percorre la Commedia è la riflessio­ ne di Dante sulla poesia, sul suo ruolo di strumento per vincere il tempo, sull’eccezionaiità della propria opera, erede delle tradizioni latino-classica e biblico-cristiana, alle quali aggiunge la novità del volgare. Per farsi con­ durre, il poeta Dante si affida proprio a un altro poeta, Virgilio, la cui guida, però, non può spingersi più in là dell’Eden perché pagano: la sua limitatezza sarà superata dal discepolo cristiano. Dante sfida anche altri autori classici condannati a vivere per l’eternità nel limbo, scontando la propria ignoranza della Rivelazione: nel XXV canto deli’Infer­ no, dopo aver descritto le mutazioni bestiali dei ladri, si sente in diritto di dichiarare la propria vittoria poetica su Lucano e Ovidio. Non è tutto: l’Alighieri, durante il suo viaggio, rilegge e oltrepassa simbolicamente le espe­ rienze della giovinezza, le rime dottrinali, la li­ rica italiana del secolo XIII e quella provenzale. Particolarmente importanti, a Purgatorio XI 97-99, il

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riconoscimento della propria eccellenza (ormai Dante detiene la «gloria de la lingua», il primato nella poesia volgare, strappato a Cavalcanti, che a sua volta lo tolse a Guinizzelli) e, a Purgatorio XXIV, l’incontro con Bonagiunta Orbicciani: il vecchio poeta lucchese chiede a Dante se si trovi davanti all’autore di Donne ch’avete in­ telletto d ’amore, testo che ha inaugurato le «nove rime». La risposta è positiva: sono proprio io il poeta che scrive sotto il dettato d’Amore. La replica di Bonagiunta ha segnato la nostra storia della letteratura (da qui nasce infatti la categoria del “Dolce stil novo”): «O frate, issa vegg’io [...] il nodo / che ’l Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo». Finalmente Bonagiunta intuisce il punto di discri­ mine («il nodo») tra la prima poesia italiana (quella dei siciliani e dei loro imitatori toscani) e quella dolce nello stile e nuova per contenuti inaugurata da Dante, cui ac­ costiamo altri rimatori: Guinizzelli, Cavalcanti, Cino da Pistoia, Lapo Gianni. Giunto in Paradiso, quasi a rimarcare l’unicità della sua impresa, Dante non incontrerà più nessun collega (fatta eccezione per Folchetto da Marsiglia, celebrato non per le sue virtù di rimatore, e per i poeti biblici Da­ vide e Salomone): l’Alighieri ha sopravanzato gli autori che lo hanno preceduto. Il suo massimo desiderio, dichiarato all’ini­ zio di P a ra d iso XXV, è quello di rientrare a

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Firenze con il più alto degli onori e ricevere, presso il battistero di San Giovanni, l’alloro poetico, alla maniera dei poeti antichi. Attraverso questi tre percorsi di lettura il viaggiatore Dante ci appare un personaggio davvero complesso. In lui si uniscono le figure di Enea e San Paolo (visitatori dell’aldilà e iniziatori delle istituzioni somme, Impero e Chiesa), di Orfeo (poeta viaggiatore nell’oltretomba), di Virgilio (poeta epico dell’Impero), di Ulisse (esploratore assetato di conoscenza), di Adamo (uomo in armonia con il creato), di Elia e Geremia (profeti osteggiati), di Davide e Salomone (poeti sacri), dell’apostolo Gio­ vanni (autore apocalittico che vede i tempi ultimi), di Sant’Agostino (filosofo che si converte), di Boezio (filo­ sofo perseguitato), di San Francesco (colui che invoca il ritorno della Chiesa alla povertà). La Commedia può ben dirsi l’equivalente letterario di una grande cattedrale medievale: il continuo richiamo all’ordine micro e macroscopico, l’amore per le simme­ trie e la raffigurazione esemplare producono un gran­ de edificio poetico, dove la straordinaria intensità dei singoli episodi viene raccolta da una continua tensione unitaria. Il poema si presenta quindi al lettore come un insieme articolato e meraviglioso, la cui piena compren­ sione forse ci sfugge ancora. Sarà allora interessante attuare percorsi del-

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l’opera non solo lineari (dall’inizio alla fine), ma pure trasversali: oltre agli schemi più noti (la chiusura di tutte e tre le cantiche con la parola «stelle», la dedica di tutti i VI canti a un tema politico), vi sono personaggi e conte­ nuti che si rispecchiano vicendevolmente. Il peccato di Francesca (Inf. V) richiama la virtù di Piccarda {Par. Ili); il suicida plenipotenziario di Federico II, Pier del­ le Vigne {Inf XIII), trova la sua antitesi nel filosofo e ministro Boezio, fatto giustiziare dal suo sovrano Teo­ dorico {Par. X); le parole con cui le anime rielaborano il Padre nostro a Purgatorio XI echeggiano il Cantico di frate Sole di San Francesco, personaggio al quale è dedicato Paradiso XI. Un prezioso cammeo fu individuato dal dantista americano Charles Singleton nell’articolo The Poet’s Number at thè Center (1965). Nei canti centrali della Commedia {Purg. XIV-XX) Singleton riscontrò una simmetria nel numero dei versi: il XIV è speculare al XX (151 w .), il XV al XIX (145 w .), il XVI al XVIII (ancora 145 w .), isolando il XVII. Si ottiene così una struttura di 7 canti, difficile da rinvenire prima delle edizioni (estranee al mondo di Dante) con la numera­ zione grafica dei versi, cifra che richiama i giorni della creazione e la creazione stessa, un lavoro di cesello da accostare a quelli più nascosti delle grandi chiese gotiche.

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LA MONARCHIA I ruoli di profeta {Commedia) e di scienziato {Convivio) tornano nella Monarchia, dal cui titolo andrà sicura­ mente espunta la preposizione de (assente nei mano­ scritti e aggiunta neìYeditio princeps), che ogni tanto affiora nella nostra tradizione scolastica. E un trattato di argomento politico in lingua latina, steso e completato (a differenza di Convivio e De vulgari) in anni difficili da identificare, anche per l’assen­ za di riferimenti storici interni. Per alcuni va collocato in prossimità del Convivio (di cui sviluppa le intui­ zioni relative all’istituzione imperiale), per altri negli anni della discesa dell’imperatore Enrico VII in Italia (1310-1313), per altri ancora nell’ultima fase della vita dell’autore. Una soluzione di compromesso potrebbe vedere la scrittura del testo avviata all’inizio degli anni Dieci del secolo, successivamente accresciuta e limata con altri interventi, come in questo caso proverebbe l’in­ ciso «sicut in Paradiso Comedie iam dixi» (“come ho già detto nel Paradiso della Commedia ’, I xii 6), sulla cui autenticità si discute però molto: potrebbe, in­ fatti, essere anche frutto della manomissione di un copista. La M o n a rc h ia è organizzata in tre libri desti­ nati ad argomentare e difendere, con un di-

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scorso serratamente sillogistico, quelle che per Dante costituiscono altrettante verità: la necessità dell’Impero per il buon governo del mondo e per il conseguimento della pace; l’acquisto dell’Impe­ ro secondo diritto (e quindi per provvidenziale volontà di Dio) da parte dei Romani; la derivazione diretta e distinta da Dio dei due poteri, quello temporale dell’im­ peratore e quello spirituale del pontefice, corrispondenti alle due nature umane (corpo e anima), nonché destina­ ti a due ruoli diversi e paralleli, rispettivamente la guida degli uomini verso la felicità in questo mondo e la pre­ parazione degli stessi alla beatitudine ultraterrena.

LE EPISTOLE Il tenore militante della Monarchia e di alcuni canti del­ la Commedia si avverte in una parte importante delle 13 Epistole dantesche (scritte - com’era prassi - in latino, tutte posteriori all’esilio e inviate a personaggi impor­ tanti) che ci sono giunte: in particolare la V, la VI, la VII, l’XI, destinate rispettivamente «ai re, ai signori e ai popoli d’Italia» perché accolgano l’imperatore Enrico VII di Lussemburgo (1310); «agli scelleratissimi Fio­ rentini» perché cessino la loro resistenza al medesimo (31 marzo 1311); a Enrico VII, affinché muova riso­ lutamente contro toscani e fiorentini ribelli (17 aprile

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1311); ai cardinali italiani, perché eleggano un papa che riporti a Roma la sua sede, allora ad Avignone (1314). In questi quattro testi Dante indossa chiara­ mente i panni del profeta biblico che annun­ cia la verità: nelle sue parole le vicende italiane vengono trasfigurate in quelle antiche di Israele; addirittura Enrico VII nel­ le Epistole V-VII assume i tratti distintivi del Messia. A queste lettere se ne aggiungono altre, nelle quali Dante figura invece come il dictator, cioè il segretario che re­ dige il testo per altri: così l’Epistola I (stesa nel 1304 a nome dei bianchi e indirizzata al cardinale Niccolò da Prato, delegato del papa alla pacificazione dei fiorenti­ ni, per dimostrare disponibilità alla sua iniziativa) e le Epistole V ili, IX, X, tre biglietti di ringraziamento alla moglie di Enrico VII, Margherita di Brabante, scritti a nome della contessa di Battifolle (1311). Due lettere, poi, accompagnano altrettanti componimenti poetici: sono la III (1303-1306) e la IV (1307), rispettivamente a Cino da Pistoia e al marchese Moroello Malaspina. \1Epistola II, forse del 1303, è un messaggio di con­ doglianze ai conti Oberto e Guido da Romena per la morte dello zio Alessandro (verosimilmente per ingra­ ziarsi un aiuto). L’Epistola XII, il cui destinatario è un fiorentino, forse il nipote fra’ Bernardo Riccomanni (l’unico parente di Dante del quale - almeno fino a me-

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tà Trecento - abbiamo tracce autografe in codici fioren­ tini), manifesta lo sdegnoso rifiuto di Dante a rientrare a Firenze pagando una multa {post 19 maggio 1315). Tra le E p is to le , gode di particolare fama la XIII, indirizzata - e forse mai recapitata - a Cangrande della Scala, signore di Verona, per dedicargli il P a ra d iso (e ottenerne i favori). Difficile da datare: a partire dall’aggettivo «victorioso», riferito allo Scaligero, si può collocare la lettera fra il 1318, anno di suoi importanti successi militari, e l’ago­ sto 1320, quando lo stesso ricevette una grossa sconfitta dai padovani. Si tratta di una lettera tanto importante per le sue ricadute sull’interpretazione del poema, quan­ to discussa: non pochi, infatti, la considerano un falso, se non integralmente, almeno nella seconda metà. Dopo una prima sezione propriamente di dedica, la seconda parte - più sostanziosa e più sospetta di essere apocrifa - costituisce l’introduzione (accessus) al poema, il cui titolo è appunto Comedìa, di cui viene spiegato il genere. Questa tratta letteralmente dello «stato delle anime dopo la morte» e, allegoricamente, dell’uomo in vita, che, nell’esercizio della sua libertà, riceve premi e castighi secondo giustizia. Dante chiarisce che la strut­ tura del testo è organizzata in tre cantiche, divise in can­ ti, ripartiti a loro volta in versi. Il fine dell’opera ha chia­ re ricadute etiche, cioè condurre gli uomini alla felicità.

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Anche nel caso abbia raggiunto il suo destinatario, è possibile che Cangrande (celebrato anche a Par. XVII) non abbia apprezzato pienamente la dedica del poe­ ma, abituato com’era alla vita d’armi e ai divertimenti di corte: Petrarca riporta un aneddoto, con un fondo forse veritiero, secondo il quale Dante sarebbe stato ripreso dallo Scaligero perché non rideva di un giullare come gli altri convitati. Caustica la replica di Dante, che assimilava Cangrande al buffone stesso: 6 6 PER NULLA PROVERESTI MERAVIGLIA SE SAPESSI CHE L’UGUAGLIANZA DEI COSTUMI E LA SOMIGLIANZA DEGLI ANIMI SONO ALLA BASE DELLE AMICIZIE. 99 Purtroppo non ci sono giunte tutte le lettere di Dante: è lo stesso Alighieri a dirci nella Vita nova di aver scritto un’epistola «a li principi de la terra» per lamentare la scomparsa di Beatrice. I biografi antichi Giovanni Vil­ lani e Leonardo Bruni ci danno notizia di una lettera ai fiorentini per deplorare l’esilio immeritato. La missiva, che iniziava con le parole «Popule mee, quid feci tibi?» (“Popolo mio, che ti ho fatto?”), fu vista addirittura in autografo dal Bruni, che aveva a disposizione pure un’altra lettera, riguardante la battaglia di Campaldino tra fiorentini e aretini (1289), cui Dante partecipò. L’u­ manista Biondo Flavio ci dà testimonianza di un’altra lettera mandata a Cangrande intorno al 1310.

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LE OPERE MENO NOTE Giungiamo cosi alle opere meno note di Dante, quelle più tarde. La prima di queste (qualcuno nega però la sua au­ tenticità) è la Questio de aqua et terra, un testo scientifico letto a Verona, presso la Cappella di Sant’Elena, domenica 20 gennaio 1320, redatto per determinare, cioè risolvere, un problema di filosofia naturale sorto in una preceden­ te discussione (disputatìo) a Mantova: tenuto conto che il mondo sublunare è costituito dai quattro elementi ordina­ ti in sfere concentriche (dall’alto: fuoco, aria, acqua, terra), esistono luoghi in cui l’acqua è più alta della terra emersa? Dante, partendo da Aristotele, nega questa possibili­ tà e riconosce alla terra emersa una posizione più elevata rispetto all’acqua. Al di là del suo contenuto, di carat­ tere tecnico e distante dalla nostra sensibilità scientifica post-galileiana, la Questio ci conferma l’abilità dantesca nel muoversi in campi diversi del sapere e della scrittura e, allo stesso tempo, apre uno scorcio su quella che pote­ va essere la considerazione di cui poteva godere fra i suoi contemporanei l’intellettuale Alighieri, invitato a tenere una conferenza nelle vesti di esperto della materia. Che titoli aveva a tale riguardo? Non lo sappiamo con certezza: registriamo ugualmente, con il beneficio del dubbio, la testimonianza di Giovanni Boccaccio, per il quale Dante fu anche a Parigi - allora capitale degli studi teologici - dove potè sfoggiare le sue abilità nella disputazione filosofica.

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Arriviamo al termine del cammino terreno di Dante: lui, nuovo signore della poesia in volgare, spariglia le carte reinventandosi con due ecloghe latine grande autore bucolico di fronte a Giovanni del Virgilio, lettore di clas­ sici a Bologna. Tutto parte dal professore e grammatico, che, con una lettera in esametri (fine 1319-inizio 1320), loda Dante - già incontrato in precedenza a Ravenna —come poeta, ma al contempo ne critica l’uso del volgare. Di qui l’in­ vito a scrivere un poema in latino, lingua universale dei dotti, in modo da poter aspirare alla laurea poetica. La ri­ sposta di Dante (1320) supera le attese dell’interlocutore, attraverso una bucolica virgiliana (genere poetico quasi dimenticato dalla scrittura dei secoli precedenti), dimo­ strando di saper maneggiare con perfetta arte il latino. Com’è usanza nella poesia eclogistica, Dante scrive usando pseudonimi e un’ambientazione pastorale: Titiro (alter ego di Dante) riferisce a Melibeo (il fiorentino Dino Perini che risiedeva a Ravenna) del contenuto del­ la poesia di Mopso (Giovanni del Virgilio): Ti tiro, però, vuole accettare l’incoronazione solamente presso l’Arno, quando avrà finito il suo testo, anche se in volgare. Per far cambiare idea a Mopso, Titiro invierà dieci tazze di latte (dieci canti del ParadisoT) munto da una pecora «non unita ad alcun gregge» (forse la poesia dell’ultima cantica).

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Giovanni del Virgilio risponde ammirato (primave­ ra o estate 1320), mantenendo il gioco, con lo stesso codice bucolico: nelle vesti di Mopso celebra Titiro, gli augura di ricevere l’alloro poetico e lo prega di recar­ si alla sua grotta (a Bologna), dove sarà accolto anche da altri pastori-lettori, vincendo le resistenze di IollaGuido Novello da Polenta, che allora ospitava Titiro. In caso contrario dovrà dissetarsi presso il fiume veneto Musone (cioè rivolgersi ai versi di Albertino Mussato, poeta laureato a Padova nel 1315). La replica di Titiro-Dante (scritta nella primavera 1321, ma recapitata da un figlio di Dante dopo la sua morte) è riassumibile in un rifiuto a trasferirsi da MopsoGiovanni: troppa è la paura per un «Polifemo» (forse il podestà Fulcieri da Calboli) che abita vicino a lui, timore a cui si aggiunge la gelosia degli amici ravennati di Dan­ te, che non vogliono essere abbandonati dal loro poeta. A questo punto, però, si interrompeva la corrispondenza poetica assieme alla vita stessa di Dante, onorato in un dotto epitaffio proprio dal suo corrispondente.

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LA FORTUNA E GLI INFLUSSI

Se non avesse scritto la C o m m e d ia , Dante avrebbe comunque un ruolo di primo piano nella storia culturale italiana: primo grande lirico fino a Petrarca con R im e e Vita n o v a ; primo storico della nostra lingua e lettera­ tura nel D e v u lg a ri e lo q u e n tia ; primo autore che metta il volgare alla prova della filosofia con il C o n v iv io . Eppure queste opere hanno avuto un impatto tutto sommato ridotto: Dante, infatti, come diceva Michele Barbi, «è e resterà famoso per la Divina Commedia», alla cui fortuna è connessa anche quella delle altre opere. Costituisce una parziale eccezione la Monarchia, che, per le posizioni assunte nel libro III (diversità di compi­ ti per Impero e Chiesa), giocò subito dopo la morte del suo autore un ruolo importante nel dibattito pubblico.

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La impugnava contro il papa l’imperatore Ludovico il Bavaro per difendere la sua autorità; tra il 1328 e il 1329 il cardinale Bertrando del Poggetto la condannava al rogo «sì come cose eretiche contenente» (Boccaccio); grosso modo negli stessi anni, il teologo Guido Vernani la contestava duramente con il De reprobatione Monar­ chie composite a Dante (“Confutazione della Monarchia scritta da Dante”), asserendo che il trattato dantesco al­ tro non era che un bel recipiente pieno di veleno. Fra il 1326 e il 1328 il giudice Ubaldo di Bastiano da Gub­ bio, nel suo Teleutelogio (“Discorso della morte”), se la prendeva contro un anonimo «uomo di grande scienza» - ovviamente Dante - che contestava il papa. Ci confer­ ma che il trattato fosse un testo dalla materia scottante il manoscritto lat. folio 437 della Biblioteca di Stato di Berlino. Per tacere la vera identità dell’opera fu vergato il titolo fasullo Rectorica Dantis e un indovinello finale: «Explicit. Endivinalo sei voy sapere». La Monarchia mostra buona salute ancora nel Quat­ trocento: 8 dei 20 codici superstiti sono prodotto di quel secolo e nel giro di pochi anni viene tradotta ben due volte dal latino in italiano (la seconda volta dal filosofo Marsilio Ficino). Ancora nel Cinquecento la Monarchia è opera che riceve non poca ostilità dalla Chiesa. In com­ penso viene accolta con simpatia dai protestanti: non a caso l’editio princeps viene stampata lontano da Roma, a Basilea, nel 1559 e, immediatamente, il libro è inserito nell’Indice dei libri proibiti, da cui non fu mai espunto.

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Nell’Inghilterra del sec. XVI la Monarchia è citata dagli apologeti anglicani John Foxe e John Jewel, le cui opere, per volontà di Elisabetta I, devono essere leggibili in tutte le chiese protestanti. Ci vorranno due secoli per vedere un’edizione italiana della Monarchia (con le altre Opere di Dante: Venezia, Antonio Zatta, 1758), ma soprattutto bisognerà attendere il Nove­ cento per assistere a una riconciliazione uffi­ ciale della Chiesa cattolica con l’Alighieri, in particolare con gli omaggi formulati da Be­ nedetto XV e da Paolo VI in occasione dei due centenari danteschi del 1921 e dei 1965.

LA FORTUNA DI DANTE IN ITALIA Come già detto, la fama di Dante è però legata in mas­ sima parte alla Commedia. Di questa iniziò subito un intenso lavorìo di riproduzione: con più di 800 mano­ scritti (di cui circa 200 frammentari) oggi conservati, il poema trova un degno competitor solo nella Bibbia. Nessuno di questi codici, purtroppo, è autografo, cioè scritto dalla stessa mano di Dante: un cruccio per i cul­ tori di tesori del passato e un bel grattacapo per i filologi. Assieme all’originale della Commedia, abbiamo perso anche la primissima generazione delle sue copie: i co­ dici più antichi del poema risalgono a poco meno di

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quindici anni dalla morte del suo autore. Una parziale e affascinante eccezione sta nell’Aldina Martini, cioè un esemplare dell’edizione del poema stampata nel 1515 da Aldo Manuzio e posseduta dall’umanista Luca Martini, che riportò sul suo volume le lezioni di un codice del 1330-1331, oggi andato perduto. Il manoscritto più antico che abbiamo è invece del 1335: detto appunto l’«antichissimo», è l’Ashburnham 828 della biblioteca Laurenziana di Firenze, anche se, per alcuni studiosi, il frammento Conventi Soppressi H.VIII.1012 della Biblioteca Nazionale di Firenze risa­ lirebbe addirittura al primo quarto del Trecento. La varietà dei manoscritti della C o m m e d ia documenta la trasversalità dei suo pubblico: esistono codici per un pubblico colto, come il celebre Rb, del secondo quarto del Trecento, oggi smembrato in due volumi - uno a Firenze, l’altro a Milano - ma con­ cepito come un unico libro. E scritto in littera textualis (la grafia usata in ambito universitario), come un vero e proprio libro di studio, con il testo di Dante al centro incorniciato dal commento di Iacomo della Lana. Forse Dante lo pensava proprio così quando invitava il lettore a rimanere con il poema «sovra ’l suo banco» {Par. X 22). Esistono poi codici di destinazione, diciamo così, più borghese: belli da vedere, sfogliare e soprattutto possede­ re, come quelli che vengono classificati nella famiglia dei

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“Danti del Cento”. Sono un gruppo di più di 60 mano­ scritti omogenei per impaginazione, decorazione e scrit­ tura (la “bastarda di base cancelleresca”, simile a quella che usavano i notai dell’epoca), forse prodotti da un’unica bottega di area fiorentina, e chiamati così assecondando una curiosa notizia trasmessa nel Cinquecento dall’eru­ dito Vincenzo Borghini: «si conta d’uno che con cento Danti [cioè cento codici della Commedia] che gli scrisse maritò non so quante sue figliuole, et di questo se ne trova ancora qualcuno che si chiamano di que’ del cento». Famoso in questo gruppo il milanese Trivulziano 1080, di mano di Francesco di ser Nardo da Barberi­ no, da alcuni considerato fondamentale per ricostruire il testo della Commedia. Esistono, infine, codici di con­ fezione meno prestigiosa e senza decorazione, con grafie mercantesche e corsive, che testimoniano la lettura del poema anche da parte di persone con formazione che oggi definiremmo tecnico-professionale. Per leggere Dante, però, non bastava la nuda parola dell’autore. Ci volevano anche - ieri come oggi - note e commenti che spiegasse­ ro il testo: questi sono attestati subito dopo la morte del poeta. Già nel 1322, il terzogenito di Dante, Iacopo, scrisse un commento in volgare all 'Inferno (senza svelare pur­ troppo alcun segreto sulla vita privata del padre); nel

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1324 il cancelliere bolognese Graziolo Bambaglioli stese un’esposizione in latino alla stessa cantica; tra il 1324 e il 1328 arrivò il primo commento in volgare a tutto il poema a firma del già citato Iacomo della Lana. Per circa un secolo e mezzo l’esegesi della Commedia si ar­ ricchisce del lavoro di oltre quaranta interpreti, alcuni dei quali anonimi, che a volte riprendono quanto già detto in precedenza, ma che in ogni caso restano un riferimento ineludibile per noi moderni. E interessante anche qui notare la trasversalità sociale e culturale degli antichi esegeti di Dante: vi figurano funzionari comunali, giuristi, notai, professori, religio­ si. Meritano una menzione l’Ottimo commentatore (un anonimo così chiamato dagli Accademici della Crusca per la bontà della sua lingua) e Andrea Lancia, due fiorentini contemporanei del poeta; il secondogenito dell’Alighieri, Pietro; l’umanista Benvenuto da Imola, tra i più geniali lettori della Commedia; Giovanni Boc­ caccio, cultore appassionato dell’Alighieri: ne scrisse una vita (nota come Trattatello in laude), fu copista delle sue opere (sopravvivono ancora oggi almeno tre manoscritti frutto di questo impegno da amanuense) ed esegeta. Proprio al Boccaccio risale la nobile prassi della lectura Dantis: il Certaldese, su incarico del Comune di Fi­ renze, tra il 1373 e il 1374 spiegò in pubblico YInferno fino all’inizio del canto XVII presso la chiesa di Santo Stefano in Badia: oggi possiamo leggere le sue riflessioni nelle Esposizioni sopra la Comedia. Anche il suo amico

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Francesco Petrarca conobbe e imitò i testi dell’Alighieri, restando sempre, però, reticente sulle sue letture dante­ sche (probabilmente affrontate già a partire dalla gio­ vinezza). Nella Familiare XXI 15, destinata proprio al Boccaccio, che gli aveva regalato una copia del poema, ostenta un certo distacco dall’Alighieri (peraltro mai nominato), considerato certo poeta eccellente, ma dal cui studio - così dice, dissimulando - si tenne alla larga per timore di rimanere poeticamente influenzato. Nella sua lettera Petrarca cerca di allontanare le ac­ cuse di invidia, parlando di Dante come di un uomo appartenente a un’altra generazione, un autore che ha dato il meglio di sé soprattutto nell’ambito del volgare, che per Petrarca - impegnato allora nel suo ruolo di rinnovatore della letteratura latina - ha costituito «uno scherzo, un sollazzo, un’esercitazione dell’ingegno». Sempre nel secondo Trecento nasce la parola “dantista”, che designa appunto lo studioso della C o m m e d ia : molti dotti tra lo scadere del secolo e l’inizio del Quattrocento comin­ ciano a guardare a Dante come a un autore in cui si rinnovano la complessità e la grandez­ za dei classici antichi. Tra questi cultori va annoverato Leonardo Bruni, che dedica a Dante un’importante biografia (1436), fondata anche su documenti oggi non più disponibili, compre-

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si, come si diceva, alcuni autografi del poeta. Sappiamo proprio dal Bruni che «era la lettera sua [cioè la grafia di Dante] magra e lunga e molto corretta», probabilmente simile alle scritture dei notai dell’epoca. In tanto successo non mancano però i punti dolenti: oltre al distacco di Petrarca e alle contestazioni contro la Monarchia, andranno registrate anche quelle de L’Acer­ ba, poemetto in coppie di terzine ABACBC, che aspira a diventare una sorta di anti-Commedia. Il suo autore, l’astrologo Cecco d’Ascoli (arso vivo nel 1327), sarà poi fulminato dal quindicenne Carducci come «ciuco, bestia, coglione et ignorante». Più avanti, in piena età umanistica e latineggiarne, non pochi arricciano il naso davanti agli eccessi della lingua dantesca e alla sua piena libertà nel manipolare i modelli classici da cui attinge. Per diffondere, però, la Commedia anche in ambiti dove il volgare dell’Alighieri è meno com­ prensibile, in particolare fuori dall’Italia, è proprio il lati­ no a venire in soccorso, grazie alle traduzioni del monaco Matteo Ronto (fine Trecento) e del francescano Giovanni Bertoldi da Serravalle (1416). In pieno Quattrocento si co­ mincia a riflettere su quale italiano si debba usare in poesia e alla corte di Lorenzo il Magnifico si guarda al fiorentino arcaizzante e popolare (orientativamente quello di Dante) come a una soluzione anche in chiave sovraregionale. Il secolo XV è pure quello di Gutenberg: il poema ve­ de la sua prima edizione a stampa a Foligno nel 1472, passando poi sotto i torchi altre 15 volte entro la fine del

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secolo. Un’edizione molto importante - perché fonda­ mento della tradizione a stampa fino a metà Ottocento è quella del 1502: Le terze rime di Dante, stampate come un classico dal già nominato Aldo Manuzio in collabora­ zione con il filologo Pietro Bembo. A Bembo e alle sue P ro se d e lla v o lg a r lin g u a (1525) sono legate le sorti di Dante per i tre secoli successivi: riflettendo su dove potessero trovarsi gli esempi della lingua letteraria italiana, la risposta di Bembo cadde su Petrarca (per la poesia) e Boccaccio (per la prosa), non sullo sperimentalista Dante, del quale vengono rifiutati particolarismi e dialettalità locali. Ecco che le Prose della volgar lingua, unite alle impe­ ranti mode latino-umanistiche, cominciano sempre più a procurare a Dante la diffidenza di molti intellettuali (che pure lo leggono) su temi parecchio sofisticati: l’uso di cer­ te figure retoriche o del lessico, la difficoltà del contenuto, le prassi metriche. E ancora: in quale dei generi letterari contemplati dalla Poetica di Aristotele —di gran voga all’e­ poca - poteva essere inserita la Commediaì L’Alighieri, in tempi che amano classificare tutto, sfugge a ogni etichetta. Il picco del suo declino Dante lo trova nel Seicento, come dimostra il numero delle sue edizioni: la C o m m e d ia viene stampata 16 vol-

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te nel Quattrocento, 36 nel Cinquecento, so­ lo 3 nel Seicento (come la M o n a rc h ia , pubbli­ cata però all’estero), per poi riprendersi con le 32 del Settecento. Parallelamente possiamo osservare come le edizioni totali di Vita nova, Convivio e De vulgari eloquentia assommi­ no nel secolo XVII addirittura a zero! Qualche critico ha parlato paradossalmente del Seicento come «secolo senza Dante». Ovviamente non è affermazione del tutto vera (basterà citare l’amore per il poeta da parte di Galileo o di Campanella), ma di certo rende bene l’idea. Il Settecento prosegue un po’ sulla stessa linea, con accuse dirette a Dante sull’inclassificabilità della Com­ media e su una sua presunta rozzezza: così, per esem­ pio, in Saverio Bettinelli. Per Melchiorre Cesarotti la Commedia è perfino «un garbuglio grottesco». Qual­ cosa, però, comincia a muoversi in senso contrario: del poeta ora si apprezzano anche la ricchezza linguisticolessicale, la dottrina teologica, l’energia della parola poetica. Giambattista Vico scorge nell’Alighieri un nuovo Omero di cui andrà lodata la «fiera e feroce barbarie»; Gasparo Gozzi scrive una Difesa di Dante-, Vittorio Alfieri lo designa proprio modello e comincia a guardarlo come il poeta-eroe solitario celebrato poi dal Risorgimento. Erede ideale di Vico e Alfieri, nonché protagonista del nuovo culto dantesco italiano fra Sette e Ottocen-

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to, Ugo Foscolo fece dell’Alighieri punto di riferimento nella riflessione poetica, conforto durante l’esilio, ogget­ to di studi sistematici negli anni passati in Inghilterra. La convinzione ermeneutica del poeta di Zante è semplice, ma audace per i tempi: la comprensione dell’Alighieri non può prescindere dalla conoscenza del suo background storico-culturale e da quella dei com­ menti pregressi. Ma Foscolo non è tanto il motore, ma piuttosto un ingranaggio importante di quel complesso passaggio culturale fra i due secoli, durante i quali la letteratura italiana diventa «insegna di una religione ci­ vile e nazionale» (in particolare antifrancese), fase che trasformò «il quadrumvirato dei poeti maggiori [Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso] in un principato dantesco». Sono parole del critico Carlo Dionisotti, che vede­ va nei richiami all’Alighieri della Basvilliana di Monti il prepotente ritorno del poeta fiorentino sulla nostra scena letteraria nazionale: «Nel 1793 Dante riapparve d’un colpo a tutta Italia, non più come il remoto e venerando progenitore, ma come il maestro presente e vivo della nuova poesia e letteratura [...] la poesia di Dante, per il suo impegno morale e storico-politico e per la sua forza drammatica, restava e scavava nel fon­ do della crisi rivoluzionaria, e ivi cominciava a rivelar­ si, anche a lettori italiani, stranamente concorde con quella d’un altro moderno barbaro non privo d’inge­ gno, Shakespeare».* * C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 1967

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Si tratta letteralmente di un’esplosione del culto dantesco in Italia, dove nel solo Otto­ cento la C o m m e d ia viene stampata 410 volte. Il romanticismo elegge Dante tra i suoi autori prefe­ riti, del quale ama in particolare i luoghi di maggiore intensità lirica ed emotiva, come, per esempio, i canti di Paolo e Francesca o del conte Ugolino. Per gli stessi padri risorgimentali, bisognosi di una propria mitolo­ gia, Dante diventa un emblema della patria da costrui­ re: è Mazzini a proclamare che «la grande anima sua ha presentito l’Italia [...] angiolo di civiltà tra le nazioni, l’Italia come un giorno l’avremo». La nascita del Regno (1861) giunge quasi in con­ comitanza con il centenario dantesco del 1865, dive­ nuto - anche per spinta della politica - occasione per festeggiare insieme l’unità del Paese e il suo prestigioso simbolo: sono gli anni in cui importanti città italiane accolgono monumenti a lui dedicati (Firenze, Verona, Napoli, finanche Trento, allora sottoposta a Vienna). L’Ottocento è anche il secolo della nascita dei mo­ derni studi italiani sull’Alighieri, che, però, all’inizio, avranno molto da imparare dall’estero: nel 1888 nasce a Firenze la Società Dantesca Italiana, con lo scopo di pubblicare criticamente le opere di Dante. Il culto per il poeta, sviluppatosi ulteriormente tra fine Ottocento e inizio Novecento, degenerò, come rilevò Benedetto Croce nel 1920, in una sorta di acritica idolatria: era

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normale leggere «Dante grande al pari come uomo e come poeta» oppure «più che poeta». Bisognava ripren­ dere dunque uno studio serio dell’Alighieri. Croce da parte sua proponeva di distinguere la vera poesia della Commedia da quello che, invece, era solo struttura (sto­ ria, dottrina, scienza): un’opinione, oggi superata, che gravò a lungo sulla cultura italiana. Nel giro di pochi anni l’introduzione da parte del regime fascista di altri miti, come quello di Roma impe­ riale, ma soprattutto il concreto lavoro di studiosi lon­ tani dalla retorica e la riflessione di nuove generazioni di critici e scrittori produrranno un nuovo approccio verso l’opera dell’Alighieri. Sul versante filologico, nel 1921, arrivava finalmente l’edizione del testo critico di tutte le opere di Dante promossa dalla Società Dantesca, cui collaborarono diversi studiosi di vaglia, tra i quali spicca la personalità di Michele Barbi. Questi, nel 1938, con il suo volume La nuova filologia e l ’edizione dei nostri scrit­ tori da Dante al Manzoni, darà - a partire soprattutto dai suoi studi sull’Alighieri - i fondamenti per pubbli­ care criticamente i nostri autori. Il frutto più interessan­ te dell’albero piantato da Barbi, in ottica dantesca, sarà la Commedia secondo l ’antica vulgata, curata da Giorgio Petrocchi (1966-1967, ancora oggi la principale edizio­ ne di riferimento), che, oltre a ristabilire il titolo origi­ nario, discuteva ampiamente la tradizione manoscritta, selezionando solo quella considerata più antica (anterio­ re cioè alla metà del Trecento).

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Da parte sua anche la letteratura prendeva le distan­ ze dall’approccio romantico ottocentesco e da quello nazional-identitario di inizio secolo. Il Novecento, a partire dagli anni Venti, guar­ da all’Alighieri con occhi nuovi: come straordinaria risorsa per sviluppare la creatività linguistica, stilistica, espressiva (casi significativi possono essere Montale - le cui presenze femminili sovente assu­ mono anche tratti beatriciani - oppure, più tardi, San­ guineo e Caproni); come pietra di paragone per leggere gli inferni della nuova epoca (il lager, per esempio, all’in­ terno dei cui vissuti e descrizioni Primo Levi fa costan­ te memoria di Dante); per interpretare allegoricamente il proprio mondo, com’è nel caso dell’ultimo Pasolini, quello di Petrolio; come modello per raffinare la propria lingua verso una sua elevazione, come avviene in Luzi. E tra gli autori italiani della nostra contemporaneità (Be­ nedetti, Magrelli, Majorino, Moresco, Pressburger, Siti) il dialogo con Dante resta fecondo e ininterrotto.

LA FORTUNA DI DANTE ALL’ESTERO Dante, però, è stato ed è tuttora letto, amato e studia­ to (con risultati fondamentali per il dantismo moderno) anche nei Paesi dove il sì non suona, a partire soprattut-

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to dall’Europa, con una vicenda simile a quella italiana: prima conoscenza a fine Tre-inizio Quattrocento, buona o ottima diffusione fino al Cinquecento, declino tra Sei e Settecento, prepotente ritorno in auge nell’Ottocento. Qualche caso tra le nazioni più vicine all’Italia: in Francia, nel secolo XV, Christine de Pizan (di origini, però, italiane) giudicava superiore al Roman de la Rose proprio la Commedia, che nel Cinquecento riceveva ol­ tralpe ben due traduzioni prima di cadere nell’oblio dei secoli XVII e XVIII: per Voltaire Dante era barbaro e biz­ zarro. Ma a fine Settecento ecco riapparire una cospicua dantofilia: Luigi XVI chiede il Paradiso prima dell’esecu­ zione, Napoleone lamenta l’assenza di un Dante francese e Madame de Staél, come Vico, celebra nel poeta italiano il moderno Omero. Con il secolo romantico Dante è letto e apprezzato da Stendhal, Dumas, Balzac. Quest’ultimo, memore del poema, chiama la sua opera La Comédie Humaine e pro­ prio a partire dal presunto viaggio di Dante a Parigi scri­ ve Les Proscrìts (1831). Nel Novecento, se il surrealismo rifiuta l’Alighieri, questo continua a essere un riferimen­ to importante per diversi autori (Claudel, Valéry, Péguy). In Germania la conoscenza di Dante è, invece, piuttosto debole fino al Cinquecento, durante il quale si manifesta, come si è visto, un interesse marcato, da parte protestante, per la Monarchia (tradotta anche in tedesco da Johannes Herold). E sostanziale l’ignoranza del poema fino alla fine del Settecento, quando iniziò la

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robusta opera divulgativa da parte di uno dei padri del romanticismo tedesco, August Schlegel. Interessi dan­ teschi mostrarono poi altre personalità importanti della cultura germanica: il fratello di August, Friedrich (con qualche riserva nell’ultima parte della sua vita), e i mae­ stri dell’idealismo, Schelling e Hegel. Ondivago, a volte positivo, a volte no, il giudizio di Goethe. Un contributo decisivo per la filologia dante­ sca giunse proprio dalla Germania: andrà fatto in quest’ambito almeno il nome di Karl Witte, primo editore critico —che lavora cioè primaria­ mente attraverso il confronto dei codici manoscritti della Commedia (1862). Assieme al principe Giovanni di Sassonia e ad altri studiosi, il Witte fondò la Deutsche Dante-Gesellschaft, la società dei dantisti tedeschi. Nel XX secolo autori di area germanofona sensibili alla parola dantesca sono Karl Kraus, Thomas Mann, Hermann Broch e Peter Weiss, e tra gli studiosi spicca­ no i nomi di Ernst Robert Curtius (che dedicò a Dan­ te un capitolo del suo capolavoro, Letteratura europea e Medioevo latino, 1948) e di Erich Auerbach, esule per le leggi razziali in Turchia e poi negli Stati Uniti, teorizza­ tore dell’interpretazione figurale della Commedia (even­ ti e persone di questo mondo sono prefigurazione della loro completezza nell’aldilà, quella incontrata da Dante nel suo viaggio).

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Nel mondo anglo-sassone è Geoffrey Chaucer, con­ temporaneo di Boccaccio, a far conoscere Dante, citato per la prima volta in The House o f Fame (1378 circa). Dopo l’ormai nota fase di appannamento (Ben Jonson giudicava Dante duro da comprendere), è Milton a ri­ sollevare precocemente le sorti dantesche in Inghilterra. Il romanticismo insulare mostra ottima conoscenza di Dante (soprattutto deìYInferno) con tutti i suoi alfieri: Wordswoth, Coleridge, Byron, Shelley, Keats. Il XIX secolo è anche l’epoca dell’approdo di Dan­ te negli Stati Uniti, dove l’Alighieri, grazie anche alle conoscenze importate da alcuni italiani (Lorenzo Da Ponte, Pietro Bachi, Pietro D ’Alessandro) e all’impulso di un entusiasta gruppo di poeti e studiosi legati all’U­ niversità di Harvard (Henry Wadsworth Longfellow, James Russell Lowell, Charles Eliot Norton), diventerà un autore assai amato. Tornando alla letteratura e al Novecento, sono molti gli autori anglofoni, su entrambe le sponde dell’Atlanti­ co, che recuperano Dante nelle loro riflessioni, in parti­ colare gli irlandesi Yates, Joyce, Beckett, Heaney, nonché gli americani Pound e Eliot (che valorizzerà, in modo decisivo per la successiva storia letteraria, l’elemento vi­ sionario di Dante). Il mondo degli studi tra Gran Bretagna e Stati Uniti ha prodotto anche, oltre alle precoci Oxford Dante So­ ciety e Dante Society of America, personalità di assoluto valore nel campo degli studi danteschi. Varrà la pena di

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citare almeno il britannico Edward Moore e l’america­ no Charles Singleton. Il primo, rettore del collegio St. Edmund Hall di Oxford, fu idealmente il continuatore dell’impegno filologico del Witte e contribuì al progres­ so della critica testuale intorno alle opere dantesche. I suoi quattro volumi di Studies in Dante (1896-1917) so­ no ancora oggi un gioiello tra gli studi sull’Alighieri. Sin­ gleton, invece, professore alla Johns Hopkins University di Baltimora, ha elaborato, tra gli anni Quaranta e Ses­ santa del Novecento, importanti riflessioni sul percorso autoriale di Dante, in particolare sul ruolo di Beatrice. In Russia la Commedia (tradotta per la prima volta integralmente nel 1902) trova uno dei suoi maggiori interpreti novecenteschi in Osip Madel’stam, autore del celebre Discorso su Dante (1933). Vittima delle pur­ ghe staliniane, tradurrà versi dell’Alighieri per i compa­ gni del gulag. L’America latina può vantare il suo grande lettore della Commedia nell’argentino Jorge Luis Borges, che ha proposto di leggere il poema come un romanzo. Dante, insomma, che con falsa modestia temeva di «perder vi­ ver» tra i posteri, coloro che avrebbero chiamato antica la sua epoca {Par. XVII 119-20), si ritrova dopo sette se­ coli a essere un patrimonio della letteratura del mondo globalizzato: ancora ai giorni nostri, da culture agli anti­ podi, due premi Nobel come il caraibico Derek Walcott e il giapponese Kenzaburò Óe si sono confrontati atti­ vamente nella propria opera con quella dell’Alighieri.

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ARTI FIGURATIVE, CINEMA E MUSICA Qualche cenno merita anche la fortuna figurativa del poema, a partire dalle miniature che già dalla prima me­ tà del Trecento fioriscono sulle pagine di un buon nu­ mero di manoscritti della Commedia (circa un quarto di quelli giunti fino a noi). Ci rimangono pezzi eccezionali come il trecentesco Egerton 943 della British Library di Londra, oppure il quattrocentesco Yates Thompson 36 della stessa biblioteca, un codice degno di un re: fu infatti confezionato per il sovrano di Napoli, Alfonso il Magnanimo. La Commedia, però, influenzò la pittura anche al di fuori della decorazione dei libri: già nel Trecento, Nardo di Cione, in Santa Maria Novella a Firenze, e un anoni­ mo (forse Buonamico di Buffalmacco), nel Camposanto vecchio di Pisa, rappresentano l’aldilà recuperando l’immaginario del poema. Nel secolo XV Luca Signorelli af­ fresca scene del Purgatorio dantesco nel duomo di Orvie­ to e Botticelli dipinge una serie di pergamene con scene dalla Commedia per Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici: «cosa meravigliosa» per un anonimo del Cinquecento. In quest’ultimo secolo a nutrirsi della fantasia dante­ sca sono Michelangelo (per esempio nel Giudizio uni­ versale della Cappella Sistina) e Federico Zuccari per la cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze. Dello Zuccari ci rimane anche una cartella con 88 disegni, oggi agli Uffizi, che «istoriano» la vicenda della Commedia.

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Per rivedere grande arte dantesca bisogna aspettare la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento: le tavole del romantico Johann Heinrich Fiissli, del neoclassico John Flaxman e del visionario William Blake ci restituisco­ no il respiro internazionale del poema e la diversità di letture e linguaggi con cui ci si approccia a esso, come confermerà anche il lungo susseguirsi di personalità ar­ tistiche di rilievo che si dedicano a recuperare la parola dantesca nel sec. XIX (Koch, Bossi, Delacroix, Dorè, Scaramuzza, Ingres, Rossetti, Rodin - il cui celebre Pen­ satore era, nelle intenzioni dell’autore, riferito proprio a Dante) e nel XX con Dall, Zancanaro, Incerti, Manzù, Guttuso, Rauschenberg e molti altri. A partire dal Novecento suggestioni e contenuti della Commedia possono viaggiare anche sul grande e piccolo schermo: le prime prove risalgono all’inizio del secolo (ben due le produzioni dedicate XXInferno nel 1911); maggiore attenzione dalle cineprese arriva con gli anni Quaranta, con diverse pellicole sui personaggi danteschi più stimolanti per il grande pubblico (Pia de’ Tolomei, 1941; Il Conte Ugolino, 1949; Paolo e Francesca, 1950). Nel secondo Novecento, tra le molte produzioni si distinguono lo sceneggiato televisivo Vita di Dante (1965) di Vittorio Cottafavi e Giorgio Prosperi, con Giorgio Albertazzi nei panni di Dante, e la produzione inglese A Tv Dante: The Inferno Cantos I-VIII (1989) di Peter Greenaway, vera e propria interpretazione artistica dell’inizio della Commedia.

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Una costante del rapporto tra Dante e il cinema è, però, la persistente difficoltà da parte di registi e sceneg­ giatori nell’affrontare la visionarietà del poema. Più faci­ le, quindi, lavorare sottotraccia, sviluppando in maniera implicita temi cari all’Aligliieri, come testimonierebbero alcuni classici degli ultimi decenni: in Apocalypse Noia di Coppola (1979) e in Biade Runner di Scott (1982) appare una brutalità infernale degna di Dante; 2001: Odissea nelh spazio di Kubrick (1968) propone - simil­ mente all’Alighieri - una riflessione sui destini ultimi dell’uomo. Un cenno al teatro: un importante copione di tema dantesco è quello scritto da Sanguineti, Luzi e Giudici, autori rispettivamente di Commedia dell’Inferno. Un tra­ vestimento dantesco; Il Purgatorio. La notte lava la mente; Paradiso. Perché mi vìnse il lume d ’esta stella, diretti dalla regia di Federico Tiezzi (Prato, 1989-1991). Anche la musica ha subito il fascino della Commedia, che ha ispirato alcuni celebri maestri tra XIX e XX sec.: Donizetti (Pia de’ Tolomei, 1837), Rossini (Francesca da Rimini, 1848), Liszt (Dante-Symphonie, 1855-1856), Cajkovskij CFrancesca da Rimini, 1876), Rachmaninov (Francesca da Rimini, 1906). Passando dalla musica classica e operistica ai giorni nostri, troviamo ancora una volta il ricordo di Dante in diversi cantautori di oggi. A un sondaggio superficiale, tra gli italiani più noti si presentano espliciti ricordi di Dante in De André, Guccini, Vecchioni, Venditti, Che-

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rubini alias Jovanotti, Consoli. Nel 2000 Branduardi ha messo in musica Paradiso XI; Caparezza ha dato voce al personaggio di Inferno V ili, Filippo Argenti (2014); nell’estate 2017 è risuonato nelle spiagge il tormentone di Gabbani con la citazione di Inferno III 9. All’estero non possiamo dimenticare Bob Dylan che in Tangled Up in Blue (1975) si riferisce a un libro scritto da un «Italian poet / from thè thirteenth century», pieno di parole veritiere e splendenti come carboni accesi (remi­ niscenza di Caronte), oppure la luminosa cometa del grunge, Kurt Cobain, che ha elaborato non poche sug­ gestioni artistiche proprio dall'Inferno. Oggi la fama di Dante gode ancora, guardando soprat­ tutto all’Italia, di ottima salute. Per quello che può valere (ma i numeri sono pur indicativi), a luglio 2017, una grezza ricerca su Google della chiave «Dante Alighieri» ci restituisce 16.800.000 risultati. Nessuno dei suoi con­ temporanei riesce a eguagliarlo (Petrarca: 553.000; Boc­ caccio: 492.000), né alcuno degli altri autori della nostra letteratura (solo Manzoni gli resiste con 13.900.000). Oltre alla scuola (che purtroppo promuove una lettu­ ra frammentaria della Commedia), alle istituzioni scientifico-accademiche, all’editoria, alle performance teatrali e alle lecturae Dantis pubbliche, radiofoniche e televisive (si pensi in particolare, per gli ultimi trent’anni, a quelle pur diverse di Sermonti, Gassman e Benigni), anche la cultura di massa contribuisce a tenere alta la notorietà all’Alighieri.

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Attualmente Dante è protagonista di romanzi, fu­ metti e videogiochi, viene usato - e non da oggi - come strumento di marketing commerciale, denomina profi­ li di social network (una trentina, ad esempio, solo su Twitter), entra nei testi delle canzoni trasmesse alle ra­ dio. Forse siamo ancora distanti dalla direzione indicata da Gianfranco Contini nel 1989, quella di un Dante patrimonio culturale di tutti gli italiani («L’Italia si ar­ ricchirebbe moltissimo se, trascurando valori secondari, potesse vantare un Dante popolare»)**e l’impressione, al contrario, è che in molti percepiscano il poeta per lo più come il fustigatore dei nostri costumi e l’incarnazione di un obbligo scolastico. Qui la sfida, lanciata da Alberto Casadei: «forse ar­ riveremo adesso, nell’epoca di Internet, a scoprire che soprattutto la straordinaria capacità di coniugare realtà e visione, parole e immagini, e insomma di creare connes­ sioni inedite senza forzature [...] garantisce un’ulteriore vitalità al capolavoro di Dante».*’

* G. Contini, L. Ripa di Meana, Diligenza e voluttà, Mondadori, Milano 1989 ** A. Casadei, Dante oltre la ‘Commedia, il Mulino, Bologna 2013

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AMICI E NEMICI

on conosciamo granché della vita privata di Dan­ te e per raccogliere qualcosa del suo mondo affet­ tivo dobbiamo spigolare notizie soprattutto tra le sue opere, cercando di sfrondare la finzione letteraria dalla realtà biografica. Dovremo escludere preliminarmente pure quei rapporti, magari anche cordiali, ma caratte­ rizzati comunque da un certo grado di clientelarismo, che Dante ebbe con i vari signori che lo ospitarono du­ rante il suo esilio (ad esempio Bartolomeo e Cangrande della Scala, Moroello Malaspina, Guido Novello da Polenta). Riusciamo così a focalizzare alcuni nomi, di cui non sappiamo molto, che, però, ebbero l’onore di entrare in amicizia con il poeta.

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Famiglia Portinari. Se non conosciamo storicamente quale fosse la relazione deU’Alighieri con Beatrice, una persona sicuramente a lui cara fu un fratello della gio-

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vane Portinari, probabilmente Manetto. Dante lo di­ chiara «amico a me immediatamente dopo lo primo», cioè dopo Guido Cavalcanti, sodale pure lui di Manet­ to. L’Alighieri a Vita nova XXI 1 ci riporta l’episodio in cui questo fratello di Beatrice gli chiede una poesia «per una donna che s’era morta»: Dante accoglie volentieri la richiesta anche perché capisce in fretta che la defunta altri non è che la sorella dell’amico. Forese Donati, letterato (?-1296). Rapporti di amicizia furono poi quelli con Forese Donati, lontano parente della moglie di Dante, Gemma, e fratello del capo dei neri fiorentini, Corso. Con Forese Dante scambiò una vivace tenzone poetica infarcita da insulti degni della peggiore taverna: difficile dire quanto sia reale e quanto gioco retorico (vedi il capitolo “Le opere”, pag. 58). Siamo in grado, però, di definire meglio la bontà dei loro rapporti a partire dall’atmosfera di sincero affetto di cui sono intessuti i canti XXIII-XXIV del Purgato­ rio: Dante, emozionato al vedere l’amico, confessa di aver pianto la sua morte e rende omaggio alla moglie di Forese, Nella, che «con suoi prieghi devoti e con sospi­ ri» (XXIII 88) ha accelerato il percorso di purificazione del marito. A lui può confidare con trepidazione che rivedrà Beatrice in cima alla montagna e chiedere noti­ zie - come si fa normalmente con gli amici di vecchia data - della «bella e buona» sorella di Forese, Piccarda, pure lei cara all’Alighieri e successivamente incontrata

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tra i beati a Paradiso III. Il saluto tra Forese e Dante è commovente, con il primo che chiede quando potran­ no rivedersi. Casella (?-ante 1300), musico, fiorentino o senese; Belacqua (forse Duccio di Buonavia, ?-ante 1302). Alla cerchia delle amicizie fiorentine appartengono altre due persone incontrate ancora, non a caso, nel Purgatorio, regno oltremondano dove emergono con più schiet­ tezza i sentimenti della dimensione terrena: il musico Casella che, dopo un vano tentativo di abbraccio e la dichiarazione del proprio affetto per il poeta, intona con dolcezza la canzone dantesca Amor che ne la mente mi ragiona (Purg. II 76-114) e Belacqua (IV 106-35): l’uso del soprannome («non bevé mai vino», dice An­ drea Lancia) e la spigliatezza con cui gli si rivolge Dante documentano una solida confidenza. Brunetto Latini, letterato e politico (1220 ca.-1294 ca.). Ben più famoso è Brunetto Latini, l’intellettuale fiorentino più autorevole della generazione precedente quella deH’Alighieri: incontrato a Inferno XV, Brunetto chiama Dante «figliolo» ricevendo in cambio la ricono­ scente memoria della «cara e buona imagine paterna» (v. 83). Si discute molto in merito alla sua dannazione tra i violenti contro natura (Brunetto forse era un sodo­ mita?), ma le parole dantesche sono cariche di sincera familiarità.

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Nino (Ugolino) Visconti, politico (1265-1296) e Carlo Martello d’Angiò, re d’Ungheria (1271-1295). Forse frutto di millanteria - ma non abbiamo prove certe per dirlo - è la confidenza dimostrata nella Com­ media verso gli altolocati Nino Visconti e Carlo Mar­ tello. Al primo, nipote del conte Ugolino della Gherardesca e nei primi anni Novanta capo dei guelfi pisani fuoriusciti (probabilmente l’Alighieri lo conobbe in queste vesti nella sua Firenze), Dante confida a Pur­ gatorio V ili, contestualmente a uno scambio cordiale di saluti, il sollievo ricevuto nel non averlo trovato tra le anime infernali. Carlo Martello d’Angiò, forse non casualmente incontrato nel parallelo Paradiso V ili (il poeta spesso, per gusto della simmetria, pone in canti con la stessa numerazione temi e personaggi con de­ nominatori comuni o opposti), usa parole nitide per definire il suo rapporto con Dante: «Assai m’amasti, e avesti ben onde; / che s’io fossi giù stato [nella vita terrena], io ti mostrava / di mio amor più oltre che le fronde» (w. 55-57), cioè avrei portato a termine con più frutto il mio affetto. Parrebbe un’amicizia intensa e alimentata da affinità intellettuale (l’Angioino conosce e cita la canzone dantesca Voi che ’ntendendo il terzo del movete), interrotta però prematuramente: Carlo morì infatti nel 1295. Guido Cavalcanti, poeta (1255 ca.-1300). Nel firma­ mento delle relazioni di Dante brillano di luce partico-

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lare i nomi di due altri grandi poeti: Guido Cavalcanti e Cino da Pistoia, sotto le cui stelle nacquero rispettiva­ mente la Vita nova e il De vulgati eloquentia. Cavalcanti, «cortese e ardito ma sdegnoso e solitario e intento allo studio» (Dino Compagni), apparteneva a una delle famiglie più importanti e ricche di Firenze. La sua ben avviata carriera politica subirà una battuta d’arresto con gli Ordinamenti di Giustizia del 1293: da qui in poi gli è vietato l’accesso alle cariche pubbli­ che. Anche se appartenente alla parte magnatizia della città, si schiera con i guelfi bianchi, patrocinati dalla famiglia dei Cerchi (ricchi ma inferiori per lignaggio ai Cavalcanti), non tanto per simpatia verso questi, ma per odio nei confronti dei neri, tra i quali figuravano i detestati Buondelmonti e soprattutto Corso Donati. Proprio quest’ultimo tentò di far uccidere Guido in pellegrinaggio verso Santiago de Compostela. Guido, in un’altra occasione, lanciò contro il Donati un dardo, che, però, non andò a segno. Nel 1267 è fidanzato con Bice degli Uberti, figlia del capo ghibellino Farinata, che a Inferno X, forse con un briciolo di perfidia, Dante collocherà nella stessa tomba infuocata del consuocero Cavalcante. Temperamento - come si sarà capito - piuttosto ardimentoso, Guido rimane coinvolto nelle zuffe del 23 giugno 1300, i cui artefici sono puniti con l’esilio: non è un evento raro per l’epoca e Guido se ne va a Sarzana. Dante, allora priore, appare tra i firmatari del provvedimento, che

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costerà però, per le febbri malariche contratte fuori Fi­ renze, la vita al Cavalcanti. Guido ha avuto a lungo fama di libero e laico pen­ satore: secondo la novella VI 9 del Decameron «egli al­ quanto tenea della oppinione degli epicuri», cioè teneva in gran considerazione le dottrine di quanti oggi chia­ meremmo atei materialisti. La sua sepoltura in terra consacrata (dove oggi sorge Santa Maria del Fiore) pro­ verebbe tuttavia che sia rimasto, almeno ufficialmente, nell’ortodossia cattolica. E anche il più grande rimatore italiano prima di Dante, con un corpus attestato di 52 testi, dai quali - scrive la filoioga Maria Corti - emerge il profilo di «un sublime snob [...] dotto e insieme ca­ rico di pathos, [...] ermetico e ironico».’ La sua amicizia con l’Alighieri sbocciò negli anni Ottanta del Duecento: tra il poeta affermato e il gio­ vane astro nascente la stima e la sintonia dovettero es­ sere immediate. La loro conoscenza viene raccontata dalla Vita nova: Dante decide di inviare il sonetto A ciascunalma presa e gentil core, in cui racconta l’appari­ zione d’Amore che gli è accaduta, agli altri poeti della sua città, «pregandoli che giudicassero la sua visione» (I 20). Tra le risposte (ne sono attestate tre) solo quella di Cavalcanti è ricordata (II 1): «A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie, tra li quali fue risponditore quelli cu’ io chiamo primo delti miei ami­ ci, e disse allora un sonetto lo quale comincia Vedesti, * M. Corti, Lafelicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Einaudi, Torino 1983

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al mio parere, orine valore. E questo fue quasi lo princi­ pio dell’amistà tra lui e me, quando elli seppe ch’io era quelli che li avea ciò mandato». Dal sonetto in poi inizia il rapporto con quello che Dante chiama appunto «primo» fra gli amici. A lui è indirizzato anche il meraviglioso souhait («augurio» in provenzale) Guido, i ’ vorrei che tu e Lapo e io, nel quale il giovane Alighieri esprime il desiderio di una magica fuga sul mare, sotto le insegne dell’amicizia di Guido e Lapo (probabilmente Lapo Gianni) e dell’amore delle rispettive donne. Da questo sogno, però, Cavalcanti prende subito le distanze con il sonetto S ’io fosse quelli che d ’A mor fu degno: l’amore non fa più per lui. Come già detto, cominciarono presto a emergere tra Dante e Guido distanze intellettuali difficili da colmare, che la pubblicazione della Vita nova (di cui Guido è l’ideale destinatario) verosimilmente certi­ ficò: la visione del mondo, dell’amore e della poesia uscita da essa non poteva essere più diversa da quel­ la del maestro. Questi probabilmente rimase perso­ nalmente anche un po’ irritato almeno da un paio di passaggi del libello. Primo: secondo Dante nessuno (neanche Cavalcanti) era riuscito a spiegare la visione raccontata in A ciascunalma presa. Secondo: il para­ gone tra Giovanna - la donna di Guido - e Giovanni Battista (e, implicitamente, quello tra Beatrice e Cri­ sto) sminuiva il valore della giovane e della poesia a lei dedicata (XV 4).

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Si capisce quindi perché Guido (come ritengono molti studiosi) andasse a pungolare Dante con il sonet­ to I ’vegno 7giorno a te ’rifinite volte, nel quale il maestro - verosimilmente in persona di Amore - rimproverava l’allievo di perdere tempo in pensieri troppo vili. Ben altro impegno verrà profuso da Cavalcanti nella grande canzone filosofica Donna me prega, nella quale propone un’idea d’amore opposta alla Vita nova (arduo, però, capire se il componimento di Guido è cronologicamen­ te anteriore o posteriore al libello). Di li a qualche anno il dialogo si spezzerà da parte di Guido. Non certo da quella di Dante: è suggestivo pensare che già nel Convivio, accennando alla rottura, a causa delle loro idee, tra i due grandi filosofi dell’an­ tichità (uno il discepolo, l’altro il suo maestro), ci si stia riferendo sottovoce al legame tra i due rimatori fiorenti­ ni: «Aristotile, d’altro amico non curando, contra lo suo migliore amico [...] combatteo, sì come contra lo noma­ to Platone» (III xiv 8). Ma è soprattutto nel Poema che Dante continua a fare i conti con il fantasma di Guido. Come scriveva Contini, «Nella Commedia la presenza di Cavalcanti aleggia in modo tanto più inquietante quanto più in­ diretto: inquietante per i posteri, non per lo scrittore, i cui silenzi, le cui reticenze, le cui oscurità e ambiguità sono ferree quanto tutto il resto».* Ecco allora i riconoscimenti di discepolato poetico * G. Contini, Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Einaudi, Torino 1976

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rivolti ad altri: in primis, a Virgilio e ai poeti antichi, ma anche a Guido Guinizzelli, chiamato «padre» (Purg. XXVI 97) e, se vogliamo, anche al provenzale Arnaut Daniel, il «miglior fabbro del parlar materno» (v. 117), cioè il più eccellente poeta in lingua volgare. E come Cavalcanti sottrasse a Guinizzelli lo scettro della giova­ ne letteratura italiana, un altro ormai (cioè Dante) ha fatto altrettanto con lui: «Così ha tolto l’uno a l’altro Guido / la gloria de la lingua; e forse è nato / chi l’uno e l’altro caccerà del nido» {Purg. XI 97-99). Il momento più drammatico in cui l’Alighieri incon­ tra il suo passato avviene però a Inferno X, dove il padre di Cavalcanti chiede a Dante perché il figlio non attra­ versi l’aldilà con lui, dato che per «altezza d’ingegno» (v. 59) non gli è inferiore. La risposta di Dante non esige repliche: «[...] Da me stesso non vegno: / colui ch’attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno» (w. 61-63), da intendersi «Non vengo da solo: colui che attende là, cioè Virgilio, mi accom­ pagna nell’aldilà...», con tre opzioni di completamento per la critica (la terza meno apprezzata), a seconda di come si intenda il pronome «cui»: 1) «..., proprio lui [cioè Virgilio, emblema della razionalità umana] che Guido disprezzo»; 2) «... verso colei [cioè Beatrice con le sue simbologie salvifiche] che Guido disprezzo»; 3) «verso Colui [cioè Dio] che Guido disprezzo». Cambiando l’interpretazione della littera la sostanza non muta: tra l’Alighieri e il «primo amico» si era creato

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un abisso intellettuale, che tuttavia non impedì all’au­ tore della Commedia di continuare a ruminare, non sappiamo quanto consapevolmente, il suo esempio. In diversi passi del poema, infatti, cogliamo ancora in fili­ grana la parola di Guido: «l’omaggio in fatto di Dante a Cavalcanti non cessò mai», proprio perché quest’ulti­ mo al suo allievo «aveva salato il sangue».* Cino da Pistoia, giurista e poeta (1270 ca.- 1336). Si­ curamente più lineare, ma anche meno intrigante per lo studioso, è il sodalizio tra Dante e il pistoiese Guittoncino (detto Cino) de’ Sigibuldi (sono però attestate altre grafie per il cognome). Rampollo pure lui, come Cavalcanti, di famiglia magnatizia (ma di parte nera), frequentò studi di diritto a Bologna e in Francia. Come Dante subì l’esilio nel 1303 (ma rientrò a Pistoia nel 1306) e sperò, con ruoli di attiva responsabilità, nelle possibilità pacificatrici dell’imperatore Enrico VII. Do­ po il dottorato a Bologna (1314), lavorò come esperto di legge al servizio della politica a Siena e nella Mar­ ca di Ancona, prima di dedicarsi completamente, dal 1321, all’insegnamento universitario (Siena, Napoli, Perugia). Morì nel 1336, pianto anche dal Petrarca, e fu sepolto nel duomo di Pistoia, dove ancora oggi pos­ siamo ammirare la tomba del Sigibuldi che lo raffigura nelle sue vesti di magister. Non sappiamo bene quando Cino conobbe Guido e * G. Contini, Un’idea di Dante, cit.

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Dante, certamente cominciò a poetare negli anni No­ vanta nel segno di una devota e raffinata sequela dei due, in particolare dell’Alighieri, accogliendone istanze e stilemi, fatta eccezione per certe «ansie metafisiche» (Donato Pirovano). Testimoni della vicinanza di Cino a Dante sono la canzone per la morte di Beatrice Ave­ l i a ched el maggia più per tempo e la sua difesa a favore dell’Alighieri contro il rimatore Onesto da Bologna, in polemica proprio con l’autore della Vita nova («quei che sogna e fa spirti dolenti»). Cino fu accusato an­ che di plagio da Cavalcanti in un testo andato perduto (conserviamo, però, la risposta del Sigibuldi), la cui po­ sta in gioco forse era altra: l’eccessiva vicinanza di Cino alla poesia di Dante invece che alla sua. Nei primi anni dell’esilio l’amicizia con Cino rimase una delle poche certezze per Dante, che nel De vulga­ ti eloquentia ne premiò il legame alla sua stessa linea poetica e l’allontanamento dall’esempio cavalcantiano, proclamandolo autore esemplare nella poesia italiana d’amore; all’«amico di Cino» (così l’Alighieri ama defi­ nire sé stesso nel De vulgati) riserverà il ruolo di cantore della virtù. Il nero Sigibuldi probabilmente usò anche un favore prezioso all’ex-bianco Dante, ottenendo per lui un periodo di ospitalità in Lunigiana (1306-1307) presso il marchese Moroello Malaspina, capitano dei neri di Toscana, per il quale la Commedia riporta solo parole di ammirazione e gratitudine (Inf. XXIV 14550, Purg. V ili 118-39).

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L’esule Cino è anche destinatario, da parte dell’esule Dante, di un’epistola (la terza), dal «cordiale piglio di guida indulgente, quasi di fratello maggiore» (Mario Marti) in accompagnamento al sonetto Io sono stato con Amore insieme. Tanto per cambiare, si parla di temi ero­ tici dibattendo se sia possibile (la risposta è positiva), esaurito l’amore per una donna, cambiare la destina­ taria di questo senza mutare l’intensità potenziale. In un’altra occasione Dante rimbrotta bonariamente l’a­ mico per il «volgibile cor», cioè la volubilità in amore. La Commedia, tuttavia, cala improvvisamente un velo di silenzio su Cino, forse un segno di disapprovazione verso il persistere dell’amico nei vecchi modi di rimare, ormai archiviati dall’Alighieri. Cino, nonostante tutto, non rinuncerà alla sua lunga fedeltà dantesca e celebre­ rà la morte dell’amico con la canzone Su per la costa, Amor, de l ’alto monte. Una cerchia di sodali e cultori pare poi aver circonda­ to di stima e ammirazione l’Alighieri negli ultimi mesi ravennati della sua vita: il notaio Dino Perini, il medico e filosofo Fiduccio de’ Milotti (citati entrambi, assieme a Guido Novello alias lolla, nella corrispondenza eclogistica con Giovanni del Virgilio, sotto le mentite spoglie di Melibeo e Alfesibeo), il notaio e rimatore Menghino Mezzani, il notaio Pietro Giardini. Bonifacio V ili, pontefice (1235 ca.-1303). Dall’al­ tro lato della trincea biografica, quella dei nemici,

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bisognerà distinguere, a partire soprattutto dai suoi scritti, quanti furono realmente avversi all’Alighieri, da quelli che invece - guardando soprattutto alla Commedia - vennero giudicati negativamente per la condotta etica o magari per contingenze occasionali. Sappiamo che il poeta raccolse, verso la fine della sua vita, probabilmente in ambito letterario, invidie e an­ tipatie: è l’Alighieri in persona a parlare di «malevoli» nell 'Epistola XIII e di generiche «malvagità» a lui ri­ volte nella Questio. Le grandi inimicizie di Dante andranno però recu­ perate nell’ambito sociale dove i suoi umori più ribol­ lono, cioè la politica: bisognerà citare quindi, innanzi tutto e tutti, il nome di papa Bonifacio V ili (al secolo Benedetto Caetani), passato alla storia per essere l’ulti­ mo teocrate medievale, il primo pontefice a indire un giubileo (anno 1300) e, appunto, per la sua avversità nei confronti di Dante (almeno questo è quanto il poe­ ta parrebbe comunicarci). A fine Duecento si fecero pressanti le ingerenze pa­ pali sulla guelfa Firenze: i neri erano disposti ad acco­ glierle, i bianchi - tra cui Dante - assai meno. Nel 1301 il papa chiese aiuti per la sua campagna militare contro la famiglia degli Aldobrandeschi e i verbali degli organi governativi fiorentini ci riportano il secco no di Dante alla domanda del pontefice. Bonifacio V ili forse venne conosciuto di persona nella successiva ambasceria che Firenze inviò a Roma nell’ottobre 1301. Dino Com-

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pagni ci riporta la perentorietà del papa di fronte alla delegazione: «Perché siete voi così ostinati? Umiliatevi a me, e io vi dico in verità che io non ho altra intenzione che di vostra pace». Un mese dopo i neri entravano a Firenze guidati da Carlo di Valois e da Corso Donati, prendendosi la città e cacciando la classe dirigente bianca, tra la quale anche Dante, che il 27 gennaio 1302 veniva condannato, per reati di corruzione e peculato, a una multa salata e al bando da Firenze; successivamente, il 10 marzo dello stesso anno, alla morte sul rogo. Dalle parole di Cacciaguida, trisavolo del poeta, incontrato in Paradiso nel cielo di Marte, sembra di cogliere la convinzione dantesca riguardo a un diretto coinvolgimento del pontefice nella condanna al bando: «Questo [cioè l’esilio] si vuole e questo già si cerca, / e tosto verrà fatto a chi ciò pensa / là dove Cristo tutto dì si merca [cioè presso la sede papale]» {Par. XVII 4951). Dall’acrimonia insistita che l’Alighieri prova solo per papa Caetani pare di leggere un rancore più che politico, quasi personale: gli preannuncia la dannazione tra i simoniaci {Inf. XIX 52-57), lo chiama «principe d’i novi Farisei» {Inf. XXVII 85), lo accusa di usurpare il soglio di Pietro, trasformando in una «cloaca» la tomba del primo pontefice {Par. XXVII 22-27). Corso Donati, politico (1350 ca.-1308) e altri espo­ nenti dei neri. Passando oltre alla figura di Bonifacio,

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possiamo dire con buona probabilità che, lungo tutta la sua vicenda da esule, l’Alighieri guardò con un misto di odio e paura ai più duri esponenti di parte nera, come il podestà Cante de’ Gabrielli (mai citato dall’Alighieri), alla firma del quale Dante doveva concretamente la sua messa al bando da Firenze nel 1302 con una formu­ la accusatoria chiaramente partigiana, che descriveva l’Alighieri e i suoi compagni «come politici corrotti, torbidi intrallazzatori, criminali comuni».* Sulla stessa linea andrà considerato Fulcieri da Calboli (podestà a Firenze nel 1303), raffigurato a Pur­ gatorio XIV come una belva crudele a caccia di carne umana. Il timore nei suoi riguardi si estende fino agli ultimi giorni di Dante se è davvero lui il terribile Polifemo citato nella seconda ecloga a Giovanni del Virgilio (w. 75-76): a causa del gigante, «abituato a bagnarsi le fauci con sangue umano», l’Alighieri respinge il cortese invito a recarsi a Bologna. Più complessa la posizione di Dante verso il capo dei neri fiorentini, Corso Donati: anche se fu certamente fra gli artefici del suo esilio, il poeta non infierì su di lui da vivo, forse perché l’Alighieri sperava - contando anche sulla parentela di Corso con la moglie Gemma in un atto di clemenza nei propri confronti. Il potente Donati scomparve nel 1308, vittima di una congiura interna ai neri, e Dante lasciò al fratello Forese lineari* M. Campanelli, Le sentenze contro i Bianchifiorentini del 1302. Edizione critica, in Ballettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo, 108 (2008)

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co di ritrarne la cupa fine, con un cavallo imbizzarrito che trascina il corpo straziato di Corso verso l’inferno (era effettivamente morto buttandosi dalla sua cavalca­ tura, per poi essere finito da un colpo di lancia): «[...] quei che più n’ha colpa [cioè Corso] / vegg’i'o a coda d’una bestia tratto / inver’ la valle ove mai non si scolpa [cioè l’Inferno]. //L a bestia ad ogne passo va più ratto, / crescendo sempre, fin ch’ella il percuote, / e lascia il corpo vilmente disfatto» (Purg. XXIV 82-87). Cogliamo forse un altro accenno alla natura non irreprensibile di Corso dalle parole della sorella Piccarda, sottratta con la forza dal suo monastero proprio da «uomini [...] a mal più ch’a bene usi» (Par. Ili 106), tra i quali, già secondo il commento di Iacomo della Lana (1324-1328), figurerebbe proprio il suo congiunto. Filippo Argenti (de’ Cavicciuoli), politico (?-?). Uscia­ mo ora dalla politica con un’autentica antipatia perso­ nale. Questa emerge con plastica chiarezza dal canto V ili AqVl Inferno, dove avviene l’incontro con Filippo Argenti (della consorteria nera degli Adimari, “Argen­ ti” perché ferrava di metallo prezioso i suoi cavalli). Ri­ conosciutolo, Dante lo prende a male parole. Virgilio, che intanto non si è trattenuto dal rigettare l’Argenti nella palude stigia, si complimenta con il discepolo per la giusta severità dimostrata. L’episodio si conclude con piena soddisfazione di Dante che assiste al linciaggio di Filippo da parte degli altri dannati.

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L’aneddotica trecentesca ci riporta diverse notizie curiose sul rapporto tra l’Adimari e il poeta, proba­ bilmente non tutte vere. Prendiamo per buona quella delle antiche Chiose Selmi (così dette dal nome del loro primo editore), che pare ben intonata al clima dell’episodio infernale: «Una volta, avendo questio­ ne con Dante, [Filippo Argenti] diede uno schiaffo a Dante perché erano di diverse e contrarie parti. E sem­ pre fu inimicizia massima tra loro due».

Queste pagine hanno potuto giovarsi dei consigli di Simona Brambilla, Giu­ seppe Frasso, Luca Mazzoni, Paolo Pellegrini: a loro va la mia gratitudine.

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LA LODE PER LA GENTILISSIMA Il sonetto costituisce, insieme alla canzone D o n n e ch’avete in te lle tto d ’am o re, uno dei momenti più alti della lode dantesca per Beatrice. La

lingua è limpida nel significato anche per chi legge il componimento più di settecento anni dopo la sua scrittura: andranno chiariti solo «pare» (v. 1: “si manifesta", ripetuto a v v . 7 e 12) e «labbia» (v. 12: “volto"). Nel testo, come spiegò Contini, Dante «non si preoccupa di sensazioni, ma di metafisica amorosa e psicologia generale».' T a n to gen tile e ta n to o n e sta pare la d o n n a m ia q u a n d ’ella a ltru i saluta, ch’o g n e lin g u a d ev en , tre m a n d o , m u ta , e gli occhi n o l’a rd isc o n d i g uardare;

4

ella si va, se n te n d o si laudare, b e n ig n a m e n te e d ’u m iltà v estu ta, e p a r che sia u n a cosa v e n u ta d al cielo in te rra a m ira e o i m o strare.

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M o strasi si p ia c e n te a c h i la m ira, che d à p e r li o c c h i u n a dolcezza al core, che ’n te n d e r n o Ila p u ò ch i n o -Ila prova:

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e p a r che della su a lab b ia si m ova u n o sp irto s o a v e p ie n d ’am o re, che va d ic e n d o all’an im a: «Sospira».

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D. Alighieri “Vita nova”X V II5-7 a cura di S. Carrai, Rizzoli, Milano 2009

* G. Contini, Un’idea di Dante, cit.

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POESIA, AMORE E AMICIZIA Questo sonetto, che rientra nel genere provenzale del so u h a it (“augurio"), esprime, sottoforma di lettera poetica inviata a Guido Cavalcanti, il desi­ derio di un magico viaggio per mare su una barca («vasel», v. 3) sottratta alle intemperie, in compagnia di Guido stesso e di Lapo (Domenico De Robertis ha, però, proposto, nella stai edizione critica del2002, «Lippo» invece di «Lapo») e delle loro donne. Difficile dire chi sia «quella che sul numer de le trenta»: forse sarà da leggervi un riferimento a un testo che Dante scrisse sulle sessanta dame più belle di Firenze e di cui parla nella V ita nova. LI «buono incantatore» di v. 11, invece, è il mago Merlino, protagonista nella tradizione arturiana —anche in prima persona —di molte vicende amorose. G u id o , i’ v o rrei che tu e L apo e io fossim o presi p e r in c a n ta m e n to , e m essi in u n vasel eh’ ad o g n i v e n to p e r m are andasse al voler v o stro e m io ,

4

sì ch e fo r tu n a o d altro te m p o rio n o n ci p o tesse dare im p e d im e n to ; anzi, v iv e n d o sem p re in u n ta le n to , d i stare in sie m e crescesse ’l disio;

8

e m o n n a V a n n a e m o n n a L agia p o i c o n q u e lla ch ’è sul n u m e r d e le tre n ta c o n n o i ponesse il b u o n o in c a n ta to re ;

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e q u iv i ra g io n a r sem p re d ’am o re, e cia sc u n a d i lo r fosse c o n te n ta , si c o m e i’ cre d o ch e sa re m m o n o i.

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“Rime”L II a cura di M. Grimaldi in D. Alighieri “Le opere” voi. I to. I, Salerno Editrice, Roma 2015

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L’AMORE PER IL VOLGARE Dante espone i motivi per cui vi è grande amicizia tra sé e il volgare: quest’ultimo ha permesso la comunicazione tra i genitori dell’autore (fa­ vorendone quindi la nascita), ha introdotto l ’Alighieri alla conoscenza, ha intrecciato la sua esigenza di stabilità grammaticale con gli interessi letterari danteschi, è stato strumento per le operazioni intellettuali pro­ prie della discussione politica e filosofica («diliberando, interpetrando e questionando»). Il brano termina con l ’esaltazione - dai toni neotesta­ mentari —del «pane» (rioè il commento in volgare alle canzoni pubblica­ te nel Convivio,), capace di portare luce dove l ’«usato sole», cioè il latino, lingua di pochi, non è riuscito. Q u e s to m io volgare fu c o n g iu n g ito re delli m iei g e n e ra n ti, ch e c o n esso p arlav an o , sì co m e ’l fu o co è d is p o n ito re del ferro al fab ro che fa lo coltello: p e r che m a n ifesto è lu i essere co ncorso alla m ia g en e­ razione, e così essere a lc u n a cagione del m io essere. A n co ra: q u e sto m io volgare fu in tro d u tto re di m e nella via di scienza, ch e è u ltim a p erfezio n e [nostra], in q u a n to c o n esso io e n tra i nello la tin o e c o n esso m i fu m o stra to : lo quale la tin o p o i m i fu via a p iù in an zi an d are. E così è palese, e p e r m e c o n o sc iu to , esso essere sta to a m e g ra n ­ dissim o b en e fa tto re . A n ch e, è sta to m eco d ’u n o m e d e sim o s tu d io , e ciò posso così m o strare. C ia sc u n a cosa stu d ia n a tu ra lm e n te alla sua conservazione: o n d e , se lo volgare p e r sé stu d ia re potesse, stu d ie re b b e a quella; e q u e lla sarebbe aconciare sé a p iù stab ilitate, e p iù stabilita te n o n p o tre b b e avere che [in] legar sé c o n n u m e ro e c o n rim e. E q u e sto m e d e sim o s tu d io è stato m io , sì co m e ta n to è palese che n o n d im a n d a te stim o n ia n z a . Per che u n o m e d e sim o stu d io è sta to lo suo e ’l m io: p e r che d i q u e sta c o n c o rd ia l ’am istà è c o n fe rm a ta e acresciuta. A n c h e c’è sta ta la ben iv o len za della c o n su e tu d in e , ché dal p rin c ip io

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PAGINE CELEBRI E PAGINE DIMENTIC ATE

della m ia v ita h o av u ta c o n esso b en ivolenza e conversazione, e usato q u ello d ilib e ra n d o , in te rp e tra n d o e q u e stio n a n d o . P er che, se l’am istà s’acresce p e r la c o n su e tu d in e , sì co m e sen sib ilem en te ap p are, m a n i­ festo è ch e essa in m e m a ssim a m e n te è cresciuta, che so n o c o n esso volgare tu tto m io te m p o u sato. E così si vede essere a q u e sta am istà co n co rse tu tte le cag io n i g enerative e acrescitive deU’am istade: p e r ch e si c o n c h iu d e che n o n so la m e n te am o re, m a p erfe ttissim o am ore sia q u e llo ch’io a lu i d e b b o avere ed h o e. C o sì, riv o lg en d o li occhi a d ie tro e racco g lien d o le ra g io n i p re n o ta te , p u o te si vedere q u e sto p a n e , co l q u a le si d e o n o m an g iare le in fra sc ritte ca n z o n i, essere suf­ fic ie n te m e n te p u rg a to dalle m acu le e d a ll’essere d i b iad o ; p e r che te m p o è d ’in te n d e re a m in istra re le vivande. Q u e sto sarà quello p an e o rz a to d el q u a le si sa to lle ra n n o m igliaia, e a m e n e so v erch ieran n o le sp o rte p ie n e . Q u e sto sarà lu ce n u o v a, sole n u o v o , lo q u ale su rg erà là dove l’u sa to tra m o n te rà , e d a rà lu m e a co lo ro ch e so n o in te n e b re ed in o sc u rita d e , p e r lo u sato sole ch e a lo ro n o n luce. D. Alighieri "Convivio”Ix iii 4-12 a cura di F. Brambilla Ageno, Le Lettere, Firenze 1995

IL FOLLE VOLO DI ULISSE Alla domanda di Virgilio su dove abbia realmente finito i suoi giorni, Ulisse —dannato tra i consiglieri fratidolenti —inizia un lungo discorso nel quale descrive il suo ultimo viaggio con pochi vecchi compagni. Spin­ to dalla sua sete di «divenir del mondo esperto», racconta di aver attra­ versato il Mediterraneo, superato le Colonne d ’Èrcole e di essersi inoltrato nelle acque oceaniche, mai esplorate da nessun uomo. Dopo circa cinque mesi di viaggio, ecco l ’avvistamento di un’isola sconosciuta: è il monte Purgatorio, precluso, però, a Ulisse. La speranza di poter approdare in

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terraferma è troncata sul nascere da un turbine - mandato da Dio che rovescia la nave di Ulisse: è la punizione per aver superato i limiti umani. Il cuore del testo è la notevole «orazion picciolo» (vv. 112-20) di Ulisse ai compagni: un altissimo elogio della conoscenza, discrimine tra l ’uomo e la bestia. [ ...] « Q u a n d o

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m i d ip a rti’ d a C irce, che sottrasse m e p iù d ’u n a n n o là presso a G aeta, p rim a che sì E n e a la n om asse,

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n é dolcezza d i figlio, n é la p ie tà del vecchio p a d re , n é ’1 d e b ito a m o re lo q u a l dovea P enelopè far lieta,

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v in c e r p o te rò d e n tro a m e l ’ard o re ch’i’ e b b i a d iv e n ir d el m o n d o e sp erto e d e li vizi u m a n i e del valore;

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m a m isi m e p e r l’a lto m are a p e rto sol c o n u n leg n o e c o n q u ella c o m p a g n a p icciola d a la q u a l n o n fui d iserto .

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“O frati,” dissi, “che p e r c e n to m ilia perigli siete g iu n ti a l’o ccid e n te, a q u e sta ta n to p iccio la vigilia

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d ’i n o stri sensi ch’è del rim a n e n te n o n vogliate n e g a r l’esperienza, d i re tro al sol, d el m o n d o sanza g en te.

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C o n sid e ra te la v o stra sem enza: fa tti n o n foste a viver c o m e b ru ti, m a p e r seguir v irtu te e canoscenza”. Li m ie i c o m p a g n i fec’io sì ag u ti,

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c o n q u e sta o razio n picciola, al c a m m in o , che a p e n a poscia li avrei rite n u ti;

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e v o lta n o stra p o p p a n el m a ttin o , d e’ rem i facem m o ali al folle volo, sem p re a c q u ista n d o d al lato m a n c in o .

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T u tte le stelle già d e l’altro p olo v ed ea la n o tte , e ’l n o stro ta n to basso, che n o n surgea fu o r del m a rin suolo.

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C in q u e v o lte racceso e ta n te casso lo lu m e era d i so tto d a la lu n a, p o i che ’n tra ti eravam n e l’alto passo,

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q u a n d o n ’ap p arv e u n a m o n ta g n a , b ru n a p e r la d istan za, e p arv en ti a lta ta n to q u a n to v e d u ta n o n avea a lcu n a .

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N o i ci a lleg ram m o , e to s to to r n ò in p ia n to ; ch é d e la n o v a terra u n tu rb o n acq u e e percosse del legno il p rim o can to .

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T re v o lte il fé girar c o n tu tte Tacque; a la q u a rta levar la p o p p a in suso e la p ro ra ire in giù, c o m a ltru i p iacq u e ,

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in fin ch e ’l m a r fu sovra n o i richiuso». D. Alighieri “Inferno”X X V I90-102, 112-142 a cura di G. Petrocchi, Le Lettere, Firenze 1994

AHI SERVA ITALIA... Quando, nell’aldilà, Virgilio e Sordello da Goito capiscono di essere con­ terranei, l ’abbraccio è immediato: l ’episodio suscita l ’indignazione di Dante per la sua Italia dilaniata dalle lotte di partito. Non esenti da

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colpe sono i vertici della Chiesa ( «gente che dovresti esser devota», v. 91), che ostacola l ’esercizio delpotere imperiale e l ’imperatore stesso (nell’anno 1300 era Alberto d ’Asburgo, v. 97), che trascura l ’Italia (il «giardin de lo ’mperio», v. 105), recando a sé solo disonore.

A h i serva Italia, d i d o lo re ostello, nave sanza n o cch ie re in g ra n tem p esta, n o n d o n n a di p ro v in cie, m a bordello!

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Q u e ll’a n im a g en til fu così presta, sol p e r lo dolce su o n d e la sua terra, d i fare al c itta d in suo quivi festa;

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e o ra in te n o n sta n n o sanza g u erra li vivi tu o i, e l’u n l’altro si rode d i q u e i ch ’u n m u ro e u n a fossa serra.

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C erca, m isera, in to rn o d a le p ro d e le tu e m a rin e , e p o i ti g u a rd a in seno, s’alc u n a p a rte in te d i pace gode.

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C h e vai p erch é ti racconciasse il freno Iustini'ano, se la sella è vota? Sanz’esso fo ra la v erg o g n a m e n o .

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A h i g e n te che dovresti esser devota, e lasciar seder C esare in la sella, se b en e in te n d i ciò ch e D io ti n o ta ,

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g u a rd a co m e està fiera è fa tta fella p e r n o n esser c o rre tta d a li sp ro n i, p o i che p o n e sti m a n o a la p red ella.

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O A lb e rto tedesco ch’a b b a n d o n i costei ch’è fa tta in d o m ita e selvaggia, e dovresti in fo rc a r li suoi arc io n i,

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g iu sto g iu d icio d a le stelle caggia sovra ’1 tu o sangue, e sia novo e a p e rto , tal che ’l tu o successor te m e n z a n ’aggia!

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C h ’avete tu e ’l tu o p a d re sofferto, p e r c u p id ig ia di co stà d istre tti, ch e ’l g ia rd in d e lo ’m p e rio sia d iserto .

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D. Alighieri "Purgatorio ” VI 76-105, a cura di G. Petrocchi, cit.

LA PREGHIERA ALLA VERGINE E l ’inizio della grande preghiera rivolta da San Bernardo alla Madonna affinché quest’ultima propizi l ’approdo conclusivo del viaggio dantesco, cioè la visione della Trinità. La poesia dantesca si unisce alla dottrina: in questi versi appaiono il dogma della maternità verginale di Maria, il suo rtiolo di corredentrice dell’umanità e quello di mediatrice tra il fedele e la Grazia divina. «V ergine M a d re , figlia del tu o figlio, u m ile e a lta p iù che creatu ra, te rm in e fisso d ’e tte rn o consiglio

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tu sè colei che l’u m a n a n a tu ra n o b ilita sti sì, che ’l suo fa tto re n o n d isd eg n ò di farsi su a fa ttu ra .

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N e l v e n tre tu o si raccese l’am o re, p e r lo c u i caldo n e l’e tte rn a pace così è g e rm in a to q u e sto fiore.

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Q u i sè a n o i m e rid ia n a face d i caritate, e giuso, in tra ’ m o rta li, sè d i sp eranza fo n ta n a vivace.

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D o n n a , sè ta n to g ra n d e e ta n to vali, che q u a l v u o l grazia e a te n o n ricorre, sua disianza v u o l volar sanz’ali.

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La tu a b e n ig n ità n o n p u r soccorre a ch i d o m a n d a , m a m o lte fiate lib e ra m e n te al d im a n d a r p recorre.

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In te m isericordia, in te p ietate, in te m agnificenza, in te s’a d u n a q u a n tu n q u e in c re a tu ra è di b o n ta te .

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[...]» D. Alighieri “Paradiso”X X X III1-21, a cura di G. Petrocchi, cit.

A CACCIA DEL VOLGARE ILLUSTRE: I ROVI DA ELIMINARE L’inizio della ricerca del volgare italiano perfetto inizia eliminando le parlate locali più rozze («i cespugli intricati e i rovi»): quelle dei romani, dei marchigiani, degli spoletini, dei milanesi, dei bergamaschi; quelle degli abitanti di Aquileia e delllstria; quelle montanare, con riferimento particolare all’Appennino tra il Casentino e Fratta (presso San Benedetto in Alpe, oggi in provincia di Forlì-Cesena), e della Sardegna. Partico­ larmente vivaci gli inserti dialettali nel contesto latino, (qui tradotto in italiano): il romanesco «Messure, quinto dici?» ( “Signore, che dici?’’) ; i marchigiani: «Chignamente state? Siate» (forse: “Come state? [Bene,] lo siate anche voi”) e «Una fermana scopai da Cascioli / cita cita se ’n già ’n grande aina», scritta con intento parodico da un fiorentino ( “Incon-

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trai una ragazza di Fermo vicino a Casciòli: svelta svelta se ne andava in gran fretta”); il settentrionale «Enter l ’ora del vesper, ciò fu del mes d ’ochiover» ( “All’ora del vespero, ciò avvenne nel mese d ’ottobre”); il friu­ lano «Ces-fa-tu?» ( “Che fai?”). L’esempio finale, oggetto di dibattito tra gli studiosi per quanto riguarda la lezione tramandata dai manoscritti, vorrà semplicemente rappresentare la (presunta) maldestra imitazione del latino nei sardi. Anche se il tema trattato è scientifico, i toni (tipici di certa schiettezza medievale) sono quanto mai distanti dal nostro “p o­ liticamente corretto”. D a to ch e il volgare ita lia n o è ta lm e n te fra m m e n ta to nelle sue ta n to n u m e ro se varietà, m e ttia m o c i in caccia della lin g u a p a rla ta italian a p iù bella e illustre, e p e r re n d e re la stra d a p e rc o rrib ile alla caccia c o m in c ia m o c o n fe lim in a re d al bo sco i cespugli in tric a ti e i rovi. P o ich é i R o m a n i c re d o n o ch e li si d e b b a m e tte re av an ti a tu tti, li co n sid e ro g iu s ta m e n te p e r p rim i in q u e st’o p e ra d i sra d ic a m e n to o estirp az io n e, d ic h ia ra n d o ch e v a n n o esclusi d a qualsiasi tra tta z io n e sul volgare. A fferm o in fa tti che q u e llo d ei R o m a n i n o n è u n volgare m a p iu tto s to u n a sq u allid a p a rla ta , la peggiore delle italiane. N ie n te d i stra n o , del resto, dal m o m e n to che a n c h e p e r le lo ro usanze e i lo ro c o stu m i a p p a io n o i p iù fe tid i d i tu tti. In fa tti d ic o n o : Messure,

quinto dici? D o p o d i lo ro e stirp ia m o q u e lli d ella M a rc a A n c o n ita n a , ch e d ic o n o : Chignamente state? Siate, e in siem e a d essi cacciam o via a n c h e gli S p o letin i. N é va d im e n tic a to ch e so n o state in v e n ta te sva­ ria te c a n z o n i p e r sch ern ire q u e ste tre p o p o lazio n i: tra esse n e h o visto u n a , p e rfe tta m e n te c o n g e g n a ta se c o n d o le regole, c o m p o s ta d a u n fio re n tin o d i n o m e C astra, che co m in ciav a così: Una fermana scopai

da Casciòli, / cita cita se ’n già ’n grande aina. D o p o q u e sti srad ich ia­ m o i M ilan esi, i B ergam aschi e i lo ro v icin i, c o n tro i q u ali rico rd o ch e q u a lc u n o co m p o se u n c a n to d i sch ern o : Enter l ’ora del vesper,

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ciò fu del mes d ’ochiover. S etacciam o via, p o i, A quileiesi e Istrian i, che c o n il lo ro a ccen to bestiale e ru tta n o : Ces-fa-tu? E in siem e a lo ro e lim in ia m o tu tte le p a rla te m o n ta n a re e c o n ta d in e che, co m e gli a b i­ ta n ti del C a se n tin o e di F ra tta , c o n i lo ro accen ti a b e rra n ti so n o in s trid e n te c o n tra sto c o n la lin g u a d i ch i sta in c ittà. In fin e, e lim in ia m o p u re i Sardi, ch e n o n so n o Italian i m a agli Italian i v a n n o associati, p erc h é so n o gli u n ic i ch e n o n h a n n o u n volgare p ro p rio e im ita n o la g ra m m a tic a così co m e le scim m ie im ita n o gli u o m in i. D ic o n o in fa tti:

dominus nova e domus meus. “De vulgari eloquentia”1 xi 1-7 traci, e cura di E. Fenzi in D. Alighieri “Le opere”voi. Ili, Salerno Editrice, Roma 2012

L'ESULE IN CERCA DI PROTEZIONE La lettera è un documento singolare per comprendere le condizioni in cui versa Dante nei prim i anni dell’esilio, costretto a bussare più porte per elemosinare protezione. In condizioni di indigenza, l ’Alighieri invia un garbato biglietto di condoglianze (forse del 1303) a Uberto e Guido da Romena, figli del conte Aghinolfo, in occasione della morte dello zio Alessandro, autorevole punto di riferimento dei bianchifuoriusciti da Fi­ renze. Il testo è interessante soprattutto nella parte finale: Dante si scusa per l ’assenza ai funerali di Alessandro perché povero e privo di «cavalli e armi», da intendereforse come il corredo degno di un cavaliere. Implicita è la domanda di aiuto, che verosimilmente non arrivò. Andranno allora letti come un gesto di ripicca i versi di In fe rn o XXX, nei quali maestro Adamo, che lavorò da falsario presso il castello di Romena, auspica, al cospetto di Dante, di poter avere come compagni di dannazione proprio i conti Guido, Alessandro e Aghinolfo.

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V ostro zio A lessandro, c o n te illustre, che n e i g io rn i scorsi è rito rn a to in sp irito a q u ella celeste p a tria d a cu i era v e n u to , era m io sig n o re e il ric o rd o d i lu i m i d o m in e rà fin o a q u a n d o vivrò, d al m o m e n to che la su a m agnificenza, ch e o ra è a b b o n d a n te m e n te ric o m p e n sa ta c o n d e g n i p re m i n e i cieli, d i su a v o lo n tà m i h a reso suo su d d ito d a m o lto te m p o . Q u e s ta d u n q u e , a c c o m p a g n a n d o si in lu i a tu tte le altre v irtù , faceva risp len d ere il suo n o m e , b ro n zeo risp e tto a tito li d ’o n o re dei sig n o ri italian i. E che cosa d ’altro le sue ero ich e in seg n e afferm avano se n o n « m o striam o la fru sta che m e tte in fuga i vizi»? E in fa tti egli esibiva in c a m p o rosso a rg en tee fru ste e ste rio rm e n te e all’in te rn o u n a m e n te ostile ai vizi n e ll’a m o re delle v irtù . Si d o lg a d u n q u e , si d o lg a la p iù g ra n d e stirp e d ei T oscani ch e rifulgeva di ta n t’u o m o e si d o lg an o tu t ti i su o i am ici e i su d d iti, la c u i sp eranza la m o rte c ru d e lm e n te fustigò; tr a i q u ali u ltim i c o n v ie n e che m i d o lg a a n c h e io m isero , che cacciato dalla p a tria ed esule im m eritev o le, c o m p e n s a n d o d i c o n ti­ n u o le m ie disgrazie c o n u n a cara speranza, m i consolavo in lui. M a b e n c h é in c o m b a l’am arezza del d o lo re v e n u ta m e n o la presenza fisica, se si considera il lascito sp iritu ale davvero sorge p e r gli occhi della m e n te u n a dolce luce d i consolazione. In fa tti lu i ch e on o rav a la v irtù in terra, o ra in cielo è o n o ra to dalle V irtù e lu i che era in T oscana c o n te p a la tin o dell’au la ro m a n a , o ra nella G eru salem m e celeste eletto c o rtig ia n o della reggia se m p ite rn a si gloria c o n i p rin c ip i dei beati. Per­ ciò, m iei signori carissim i, vi preg o c o n supplichevole esortazione di m o d e ra re il d o lo re e di p o rre in seco n d o p ia n o q u a n to si coglie tra m ite i sensi, se n o n nella m isu ra in cu i vi possa essere d ’esem pio; e co m e lui giustissim o vi h a istitu iti eredi d ei suoi b e n i m ateriali, così voi stessi, p a re n ti a lu i p iù prossim i, preg o vi rivestiate d ei su o i egregi costum i. Io p o i, o ltre a ciò, in q u a n to v o stro m i scuso d i fro n te alla v o stra d i­ screzione della m ia assenza dalle tristi esequie, p o ic h é n é la negligenza n é l’in g ra titu d in e m i tra tte n n e ro , m a l’im p ro w is a p o v e rtà causata

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d a ll’esilio. Q u e s ta o ltre tu tto , co m e cru d e le persecu trice, o rm a i m i h a p re c ip ita to n ell’a n tro della sua p rig io n ia , p riv o di cavalli e a rm i, e sp ie ta ta s’in g e g n a a m e tte rm i in d iffico ltà m e n tre cerco c o n tu tte le forze d i rialzarm i, fin q u i p revalendo. “Epistole” II trad. e cura di M. Baglio in D. Alighieri “Le opere’' voi. V, Salerno Editrice, Roma 2016

PSICOLOGIA DI PIETRO Uno degli argomenti usati dalla pubblicistica papale per sostenere la pre­ sunta superiorità del pontefice sull'imperatore si fondava sull’affermazio­ ne degli apostoli a Cristo: «Ecco qui due spade» (Luca 22,38). Secondo ì teologi curialisti, che leggevano allegoricamente la Scrittura, le due spade possedute dagli apostoli simboleggiavano i poteri temporale e spirituale custoditi dalla Chiesa. Dante, che attribuisce le parole al solo Pietro, nega —usando un’analisi che anticipa la psicologia —che possa esserci un qualsiasi messaggio recondito in questa citazione: il primo papa, infatti, era uomo troppo impulsivo (spesso in opposizione a Cristo), ingenuo e sincero per nascondere sovrasensi nelle sue parole. E che P ie tro n o n fosse u n o ch e p arlav a s o ttin te n d e n d o sig n ificati nasco sti lo d im o s tra la sp o n ta n e a im p u ls iv ità a c u i lo sp in g ev a n o n solo la sin c e rità della su a fede, m a —a q u a n to cre d o —a n c h e la p u ra in g e n u ità del suo ca ra tte re . T u tti gli evangelisti te s tim o n ia n o q u e sta su a im p u lsiv ità . M a tte o scrive ch e q u a n d o G e sù chiese ai d isc e p o ­ li: « C h i c re d e te ch e io sia?», P ie tro risp o se p rim a d i tu t ti gli altri: «Tu sei il C ris to , il Figlio del D io vivo!». Scrive a n c h e ch e q u a n d o C ris to a n n u n c iò ai d iscep o li che doveva recarsi a G e ru sa le m m e e su b ire m o lti to rm e n ti, P ie tro lo prese d a p a rte e p ro te stò d ic e n d o :

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«L ungi d a te, Signore: n o n ti succederà!», ta n to ch e C ris to gli v o ltò le spalle e lo re d a rg u ì c o n le paro le: « M e ttiti d ie tro d i m e, Satana!». Scrive p o i che su l m o n te d ella trasfig u razio n e, al c o sp e tto d i C ris to , d i M o sé e d i E lia e d ei d u e figli d i Z e b e d e o , P ie tro disse: «Signore, è b ello stare q u i; se v u o i c o stru ia m o tre te n d e , u n a p e r te, u n a p e r M o sé e u n a p e r Elia». Scrive a n c h e che, la n o tte in c u i i discep o li e ra n o in b a rc a e C ris to c a m m in ò sulle acq u e, P ie tro disse: «Signore, se sei davvero tu , o rd in a m i d i v e n ire d a te su ll’acqua!»; e ch e q u a n d o C ris to p re a n n u n c io ai su o i d iscep o li che egli sarebbe sta to scan d alo p e r lo ro , P ie tro rispose: «A nche se tu tti re s te ra n n o scan d alizzati a causa tu a , io n o n m i scandalizzerò mai!», e poi: « N o n ti rin n e g h e rò , n e a n c h e se fosse necessario m o rire c o n te». Q u e s to a tte s ta an ch e M a rc o . L u ca scrive, d al c a n to su o , ch e P ie tro disse a C ris to , p o co p rim a d ella fam o sa frase sulle spade: «Signore, so n o p ro n to ad a n ­ d a re in carcere e a m o rire c o n te». E G io v a n n i ra c c o n ta ch e q u a n d o C ris to volle lavare i p ie d i a P ie tro q u e sti gli disse: «Signore, tu lavi a m e i piedi?», e poi: «Tu n o n m e li laverai m ai!». G io v a n n i dice a n c h e d i P ie tro ch e ferì c o n la sp a d a il servo d el sacerd o te (u n e p iso d io n a rra to d a tu t ti e q u a ttro gli evangelisti); ch e q u a n d o si recò al se­ p o lc ro egli e n trò d i slan cio , v e d e n d o l’a ltro d isc e p o lo che asp ettav a su lla soglia; ch e q u a n d o G e sù , d o p o la resu rrezio n e, si fe rm ò sulla riva d el m are, « sen ten d o ch e era il S ig n o re, P ie tro si legò ai fian ch i la tu n ic a , p e rc h é era n u d o , e si g e ttò in acqua»; e in fin e ch e q u a n d o v id e G io v a n n i disse a G esù : «Signore, e lui?». H o v o lu to riferire q u e ­ sto lu n g o elen c o d i passi c h e rig u a rd a n o il n o s tro a rc h im a n d rita a lo d e d e lla su a s p o n ta n e ità . D a q u e sti e p iso d i si capisce c h ia ra m e n te ch e q u a n d o egli p arlav a delle d u e sp ad e risp o n d e v a a C ris to senza in te n z io n i nascoste. “Monarchia" III ix 9-17 trad. e cura di P. Chiesa e A. Tabarroni in D. Alighieri “Le opere" voi. IV, Salerno Editrice, Roma 2013

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UNA VISIONE AUTENTICA? Lungi dal rappresentare la scrittura del P arad iso al pari di una finzio­ ne letteraria (come ci aspetteremmo), Dante, rivolgendosi a Cangrande della Scala, parla in terza persona di sé come di un uomo che ha autenti­ camente visto l ’aldilà e paragona la sua esperienza a quelle di San Paolo, degli Apostoli, di Ezechiele. Per i malevoli, che non credono alla sua parola come testimonianza di un vissuto autentico, l ’Alighieri allega una “bibliografia” mistico-teologica (Riccardo di San Vittore, San Bernardo, Sant’Agostino), che conferma la possibilità di una reale esperienza di Dio da vivi, e il precedente di Nabucodonosor, un peccatore a l quale è stata concessa la grazia di una visione. E d o p o che h a d e tto attraverso la sua perifrasi che fu in qu el luogo del paradiso, prosegue d icen d o d i aver visto alcune cose che n o n p u ò riferire colui che n e è disceso. E ren d e ragione d icen d o che F intelletto in ta n to si sp ro fo n d a nel suo stesso desiderio, che è D io , che la m e m o ­ ria n o n p u ò seguirlo. Per c o m p ren d ere queste cose bisogna sapere che l’in telletto u m a n o in q u esta vita, p e r la c o n n a tu ra lità e l’affinità che h a c o n la sostanza intellettuale separata, q u a n d o si eleva, si eleva a tal p u n ­ to che la m em o ria, d o p o il rito rn o , viene m e n o , p e r aver esso trasceso la m isu ra u m an a. E q u esto ci è suggerito p e r bocca dell’A postolo che parla ai C o rin zi, dove dice: «So che u n u o m o , o c o n il co rp o o fuori del co rp o n o n so, lo sa D io , fu. rap ito fino al terzo cielo e vide gli arcani d i D io , che n o n è lecito all’u o m o p ro nunciare». Ecco, d o p o che l’in ­ telletto aveva trasceso ascen d en d o l’u m a n a ragione, n o n ricordava che cosa fosse accaduto fuori d a sé. Q u e sto ci è suggerito anch e in M atte o , dove tre discepoli «caddero c o n la faccia a terra», successivam ente n o n riferendo nulla, quasi im m em o ri. E in Ezechiele è scritto: «Vidi, e cad­ di c o n la faccia a terra». E dove questi esem pi n o n bastin o ai m alevoli,

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leggano R iccardo d i San V itto re n el libro Della contemplazione, leggano B ernardo nel libro Della considerazione, leggano A gostino nel libro Del­

la quantità dell’anima, e n o n p o tra n n o negare. Se invece latrassero c o n ­ tro la disposizione a ta n ta elevazione a causa del p eccato di colui che parla, leggano D aniele, dove tro v eran n o che an ch e N a b u c o d o n o so r vide p e r in terv en to d iv in o alcune cose c o n tro i peccatori, e le d im e n ­ ticò. In fa tti «colui che fa sorgere il suo sole sui b u o n i e sui m alvagi e fa piovere so p ra i giusti e gli ingiusti», talvolta m isericordiosam ente per convertire, talvolta severam ente p e r p u n ire, p iù e m en o , co m e vuole, m an ifesta la sua gloria ai viventi, p e r q u a n to m ale essi vivano.“Epistole”X I I I 77-82 trad. e cura di L. Azzetta in D. Alighieri “Le opere” voi V, Salerno Editrice, Roma 2016

IL RISPETTO DEI LIMITI UMANI A l termine di una prolungata trattazione tecnica di quali siano la causa finale e quella efficiente dell’emersione terrestre, improvvisamente Dante, con un repentino cambio di registro per lui non insolito, passa dal ruolo di scienziato a quello di profeta, esortando con vigore gli uomini a rispet­ tare quei limiti conoscitivi che non possono essere varcati dalla limitatez­ za della creatura. Lo stesso tema si presenta da un punto di vista diverso (quello di chi appunto vuole conoscere tutto) a In fe rn o XXVI con la grandefigura di Ulisse. Tipica della trattatistica dell’epoca è la ricchezza delle citazioni, in questo caso dall’Antico e dal Nuovo Testamento, utili a rendere più autorevole il testo. E d u n q u e basta! La s m e tta n o gli u o m in i d i v o ler sapere ciò che è al d i so p ra d i loro! E si a c c o n te n tin o d i sp in g ersi fin dove po sso n o , sì

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PAGINE CELEBRI

E PAGINE DIM ENTIC ATE

d a rag giungere - p e r q u a n to possibile - la c o n te m p la z io n e d i ciò che è e te rn o e div in o ; e lascino stare ciò che è p iù g ra n d e d i loro! D ia n o ascolto all’a m ico d i G io b b e ch e dice: «riuscirai forse a c o m p re n d e re i segni d i D io e conoscerai l’O n n ip o te n te fino alla perfezione?»; d ia n o ascolto al S alm ista che dice: «m eravigliosa è la tu a sapienza p e r m e: è su b lim e, e n o n p o trò raggiungerla»; asco ltin o le p aro le d i Isaia che d i­ ce: « q u an to i cieli d is ta n o dalla te rra a ltre tta n to d ista n o le m ie strade dalle vostre» - parlava, in fa tti, all’u o m o in n o m e d i D io ; asco ltin o le p aro le d ell’A p o sto lo Paolo ai R o m a n i: «O p ro fo n d ità delle ricchezze della scienza e della sapienza di D io , q u a n to so n o im p e rsc ru ta b ili i su o i giu d izi e in c o n o sc ib ili le sue strade!»; ed in fin e asco ltin o la voce stessa d el C re a to re che dice: «dove vado io voi n o n p o te te venire»: e q u e sto basti p e r l’in d iv id u a z io n e della v e rità ch e si è in teso a p p u ra re . “Questio de aqua et terra”X X II77-78 trad. e cura di M, Rinaldi in D. Alighieri “Le opere” voi. V, Salerno Editrice, Roma 2016

GLI ULTIMI VERSI Siamo forse davanti all’ultima composizione poetica di Dante (qui tra­ dotta in prosa): la seconda ecloga mandata dall’Alighieri a Giovanni del Virgilio, quarto testo della corrispondenza. Nella finzione pastorale, Alfesibeo (il toscano Fiduccio de’Milotti, che abita a Ravenna) prega Titiro (Dante) di non andare (a Bologna) a far visita a Mopso (Giovanni del Virgilio), altrimenti dovrebbe sottoporsi al pericolo del terribile Polifemo (forse il podestà Fulcieri da Calboli) e abbandonerebbe l ’alloro poetico che il potatore (Apollo stesso, protettore della poesia) ha scelto per lui dall’«alta vergine», cioè Dafne (trasformata appunto in lauro), per pre­ miare la sua opera in versi: ormai Dante non tiene più in nessun conto

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le onorificenze umane per un’opera che considera divina. Alle parole di Alfesibeo seguono la descrizione del tramonto e un colpo di scena narrati­ vo: il testimone di tutto il dialogo altri non è che lolla (Guido Novello da Polenta, ospite ravennate di Dante), che ha raccontato la scena a Dante, il quale l ’ha riportata a sua volta a Giovanni del Virgilio. Dante assume così un doppio ruolo: personaggio interno all’ecloga e narratore poetico dell'episodio di cui non è testimone diretto. «C hi n o n avrebbe o rro re di Polifem o», disse A lfesibeo, « ab itu ato a b ag n arsi le fauci c o n san g u e u m a n o fin d al te m p o in cui G alate a — a h im è — lo vide straziare le viscere d el m isero A ci a b b a n d o n a to ? A s te n to ella si m ise in salvo: o forse sarebbe valsa la forza d e ll’am o re fin ch é la feroce ra b b ia ardeva d i ta n ta ira? C h e d ire del fa tto che A c h e m e n id e , so lta n to a scorgerlo sa n g u in a n te d ella strage d ei suoi c o m p a g n i, p o tè a ste n to n o n esalare l’anim a? A h , v ita m ia, ti prego, m ai u n così in fau sto d esid erio ti p re n d a , ch e il R e n o e q u ella n aiad e tra tte n g a n o c o n sé q u e sto tu o illu stre capo c u i già il p o ta to re s’affretta a scegliere le fro n d e se m p ite rn e su ll’a lta vergine». T itiro , so rrid e n d o e p ie n a m e n te d ’acco rd o , accolse in silenzio le p a ro le d el cu sto d e del g ra n d e gregge. M a p o ic h é i cavalli solcavano il cielo ta n to bassi che la p ro p ria o m b ra vinceva o rm a i d i m o lto c iascu n a cosa, i p asto ri c o n i lo ro v in castri, a b b a n d o n a te le selve c o n la fresca valle, rito rn a ro n o al seg u ito del p ro p rio gregge, e le irsu te c ap rette, co m e ria c c o m p a g n a n ­ d o li d a q u e l lu o g o , li p reced ev an o verso te n e ri p ra ti. F ra tta n to se n e stava n asco sto nei pressi l’a cco rto lolla, che tu tto intese, ch e tu tto ci riferì: egli p e r n o i e n o i p e r te, M o p so , lo m e ttia m o in versi. “Ecloge”I V 76-97 trad. e cura di M. Petoletti in D. Alighieri "Le opere" voi. V, Salerno Editrice, Roma 2016

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LEGGERE, VEDERE, VISITARE

BIBLIOGRAFIA OPERE DI DANTE EDIZIONE NAZIONALE DELLA SOCIETÀ DANTESCA ITALIANA

Vita nuova a cura di M. Barbi, Bemporad, Firenze 1932

La Commedia secondo l’antica vulgata a cura di G. Petrocchi, Le Lettere, Firenze 1 96 6 -6 7 (terza ristampa: 2003)

Fiore. Detto d'amore a cura di G. Contini, Mondadori, Milano 1984

Convivio a cura di F. Brambilla, Le Lettere, Firenze 1995

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Rime a cura di D. De Robertis, Le Lettere, Firenze 2002

Monarchia a cura di P. Shaw, Le Lettere, Firenze 2009

PRINCIPALI EDIZIONI COMMENTATE

La Divina Commedia a cura di N. Sapegno, Ricciardi, Milano-Napoli 1957

Opere minori 1/1 a cura di 0. De Robertis ("Vita nuova") e G. Contini ("Rime", "Fiore" e “Detto d'amore"), Ricciardi, M itano-Napoli 1984

Opere minori 1/2 a cura di C. Vasoli e D. De Robertis ("Convivio"), Ricciardi, M itano-Napoli 1988

Opere minori II a cura di P.V. M engaldo (“De vulgari eloquentia”), B. Nardi ("Monarchia"), A. Frugoni e G. Brugnoli ("Epistole"), E. Cecchini ("Egloghe") e F. Mazzoni ("Questio de aqua et terra"), Ricciardi, M ilano-Napoli 1979

Commedia con il com m en to di A.M. Chiavacci Leonardi, Mondadori, Milano 1 991-1997

De vulgari eloquentia (L’eloquenza in volgare) a cura di G, Inglese, Rizzoli, Milano 1998

156

Convivio a cura di G. Inglese, Rizzoli, Milano 1999

Vita nova a cura di G. Gorni, Einaudi, Torino 1996

Commedia revisione del testo e com m en to di G. Inglese, Carocci, Roma 200 7 -2 01 6

Vita nova a cura di S. Carrai, Rizzoli, Milano 2009

Commedia a cura di R. Hollander, Otschki, Firenze 2011

Opere I edizione diretta da M. Santagata, a cura di C. Giunta (“Rime”), G. Gorni ("Vita n ova”), M. Tavoni ("De vulgari eloquentia"), Mondadori, Milano 2011

De vulgari eloquentia a cura di E. Fenzi, in D. Alighieri, "Le opere", voi. Ili, Salerno Editrice, Roma 2012

Il Fiore e il Detto d’amore a cura di L. Formisano, in D. Alighieri, "Le opere", voi. VII tom o I, Salerno Editrice, Roma 2012

Inferno a cura di S. Bellomo, Einaudi, Torino 2013

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Monarchia a cura di E. Chiesa e A. Tabarroni, con la collaborazione di D, Ellero, in 0. Alighieri, “Le opere", voi. IV, Salerno Editrice, Roma 2013

Opere II edizione diretta da M. Santagata, a cura di G. Fioravanti (“Convivio"), D. Quaglioni (“Monarchia”), C. Villa ("Epistole") e G. Albanese ("Egloghe"), Mondadori, Milano 2 0 U

Vita nuova, Rime a cura di D. Pirovano e M. Grimaldi, in D. Alighieri, "Opere" voi. I tomo I, Salerno Editrice, Roma 2015

Epistole, Egloge, Questio de acqua et terra a cura di M. Baglio, L. Azzetta, M. Petoletti, M. Rinaldi, introduzione di A. M azzucchi, in D. Alighieri, "Le opere", voi. V, Salerno Editrice, Roma 2016

TESTI SU DANTE PROFILI INTRODUTTIVI

La vita, i tempi e le opere di Dante di N.Zingarelli, 2 voli., Vallarti, Milano 1931

Dante e il suo tempo di G. Petrocchi, ERI, Torino 1963

Enciclopedia Dantesca dir. da U. Bosco, 6 voli., Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1970-1978

158

Introduzione a Dante di G. Padoan, Sansoni, Firenze 1975

Vita di Dante di G. Petrocchi, Laterza, Roma-Bari 1983

Vita di Dante di M. Barbi, Sansoni, Le Lettere, Firenze 1996

Dante di E. Malato, Salerno Editrice, Roma 1999

Dante Alighieri di R. Hollander, Marzorati-Editalia, M ilano-R om a 2000

Vita di Dante. I giorni e le opere di E. Pasquini, Rizzoli, Milano 2006

Ritratto di Dante di N. Borsellino, Laterza, Rom a-Bari 2007

Dante. Storia di un visionario di G. Gorni, Laterza, Roma-Bari 2007

Dante di G. Ledda, il Mulino, Bologna 2008

Le autobiografie di Dante di G. Sasso, Bibliopolis, Napoli 2008

159

Perché Dante? di J. Scott, Aracne-Società Dantesca Italiana, Rom a-Firenze 2010

Dante. Il romanzo della sua vita di M. Santagata, Mondadori, Milano 2012

Vita di Dante. Una biografia possibile di G. Inglese, con un saggio di G. Milani, Carocci, Roma 2015

LA FORTUNA

Dante nei secoli. Momenti ed esempi di ricezione a cura di D. Cofano, M.l. Giabakgi, R. Palmieri, M. Ricci, Edizioni del Rosone, Foggia 2006

La fortuna di Dante fra Trecento e Quattrocento di M. Petoletti, in "La Divina Com m edia di Alfonso d'Aragona Re di Napoli. Manoscritto Yates T h o m p s o n 36, Londra, British Library. Commentario", a cura di M. Bollati, Franco Cosimo Panini, voi. I, Modena 2006

La tradizione iconografica della Commedia’ di L. Battaglia Ricci, in "Dante e la fabbrica della 'Commedia'" Atti del Convegno internazionale di studi (Ravenna, 14-16 settembre 2006), a cura di A. Cottignoli, D. Domini, G. Gruppioni, Congo, Ravenna 2008

Dante, oggi in "Critica del testo", XIV, 2 -3 ,20 1 1

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LA CRITICA

La poesia di Dante di B. Croce, Laterza, Bari 1922

Lezioni e saggi su Dante di F. De Sanctis, a cura di S. Romagnoli, Einaudi, Torino 1955

Studi su Dante di E, Auerbach, Feltrinelli, Milano 1963

Saggi di filosofia dantesca di B. Nardi, La Nuova Italia, Firenze 1967 (prima edizione: 1930)

Itinerari danteschi di G. Petrocchi, Adriatica, Bari 1969

Studi e problemi di critica dantesca I.

Prima serie (1 89 3 -1 91 8 ): IL Seconda serie (1 920-1937)

di M. Barbi, Sansoni, Firenze 1975 (prima edizione: 1942)

Un'idea di Dante. Saggi danteschi di G. Contini, Einaudi, Torino 1976

La poesia della Divina Commedia di Ch. Singleton, il Mulino, Bologna 1978

Dante e la filosofia di É. Gilson, Jaca Book, Milano 1983 (edizione originale: 1939)

161

Dante e la cultura medievale. Nuovi saggi di filosofia dantesca di fi. Nardi, a cura di P. Mazzantini, Laterza, R om a-Bari 1985 (prima edizione: 1942)

Dante e le tradizioni latine medievali di P. Dronke, il Mulino, Bologna 1990 (edizione originale: 1986)

Studi danteschi di G. Brugnoli, 3 voli., ETS, Pisa 1998 (prima edizione: 1981)

La poesia italiana nell'età di Dante. La linea Bonagiunta-Guinizzelli di C. Giunta, il Mulino, Bologna 1998

Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia di E. Pasquini, Bruno Mondadori, Milano 2001

Dante, l'imperatore e Aristotele di G. Sasso, Istituto storico italiano per il Medio Evo, Roma 2002

L’uomo aristotelico alle origini della letteratura italiana di S. Gentili, Carocci, Roma 2005

Dante: un sogno di armonia terrena di N. Mineo, Stamperia, Torino 2005

Desiderio della scienza e desiderio di Dio nel Convivio di Dante di P. Falzone, il Mulino, Bologna 2010

Firenze e il profeta. Dante fra teologia e politica di E. Brilli, Carocci, Roma 2012

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Introduzione alla Divina Commedia di C. Ossola, Marsilio, Venezia 2012

La Bibbia di Dante di G. Ledda, C laudiana-Em i, Torino-Bologna 2015

LE RIVISTE

Studi danteschi a cura delia Società Dantesca Italiana, Le Lettere, Firenze

LAIighieri Lo ngo,R avenna

Rivista di studi danteschi Salerno Editrice, Roma

Dante. Rivista internazionale di Studi su Dante Alighieri Serra, Pisa-Rom a

WEB www.danteonline.it http://dantesca.ntc.it http://dante.dartmouth.edu http://dantesca.org/cms/ http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/dantesources/

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index.html http://www.bibliotecaitaliana.it www.danteeilcinema.com FILM La mirabile visione, di Luigi Sapelli, Italia 1921 Dante nella vita dei tempi suoi, D om enico Gaido, Italia 1922 Il Conte Ugolino, di Riccardo Freda, Italia 1949 Paolo e Francesca, di Raffaele Matarazzo, Italia 1949 Pia de’ Tolomei, di Sergio Grieco, Italia 1958 Vita di Dante, di Vittorio Cottafavi, Italia 1965 Skarseld (Purgatorio), Michael Meschke, Orhan Oguz, Svezia 1975 The Comoedia, di Bruno Pischiutta, Italia 1980 Francesca Da Rimini, di Brian Lange, Opera Lirica, Italia 1984 A Tv Dante: The Inferno Cantos l-VIII, di Peter Greenaway, Uk 1989 The Purgatory (Il Purgatorio), cortometraggio di Leonardo Corbucci Zanobi, Italia, Usa 2006

Dante de l’Enfer au Paradis, docum entario di Thierry T hom as , Francia 2007 Dante’s Inferno Animated, di Boris Acosta, animazione, Usa 2010 Dante, di Luca Lussoso, Italia 2014

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LUOGHI DI INTERESSE Firenze U n p rim o lu o g o d a n te sc o ci accoglie n o n a p p e n a g iu n g ia m o a F i­ renze, la su a c ittà . Q u i, a Santa Maria Maggiore, è in fa tti se p o lto B ru n e tto L a tin i, a u to re d i Li livres dou Tresor e m a e s tro d el n o stro p o e ta . Q u i u n a la p id e ci ric o rd a l’in c o n tro u ltra te rre n o tr a i d u e , p e r c o m e lo si ra c c o n ta in Inferno XV. S o tto u n a p io g g ia d i fu o c o , nel g iro n e d ei so d o m iti. A l Battistero di San Giovanni D a n te v e n n e b a tte z z a to . D u e la p id i ric o rd a n o l’ev en to . Su v ia d e ’ C a lzaiu o li, u n te m p o C o rso degli A d im a ri, tr a O rs a m m ichele e P iazza d ella S ignoria, p o ssia m o in d iv id u a re fa c ilm e n te u n bel palazzo, u n te m p o residenza della famiglia di Guido Calvacanti, ch e d i D a n te fu a m ico e sodale, o ltre ch e im p o rta n te p u n to d i riferi­ m e n to d a l p u n to d i v ista le tte ra rio , p e r q u a n to , c o m e p rio re , l’a u to re d ella Commedia si tro v ò p o i n e lla p o siz io n e d i esiliarlo. A farci m e ­ m o ria d ella fam ig lia re sta n o u n o s te m m a in c a s to n a to su u n o spigolo d e lla c o stru z io n e e u n a la p id e in m e m o ria d e l leg am e tra i d u e. A l n u m e ro u n o d i V ia S a n ta M a rg h e rita tro v ia m o in fa tti il Museo

Casa di Dante, ch e spesso ci v ie n e d e tto essere p o s to d ove sorgeva la casa degli A lig h ieri, m a in rea ltà n o n esiste u n ’a tte sta z io n e certa. Il p o e ta scrisse, in fa tti, d i essere n a to a ll’o m b ra d e lla B ad ia F io re n tin a s o tto la p a rro c c h ia d i San Martino al Vescovo, m a q u e sto n o n ci b a sta p e r l’id e n tificazio n e. C h ie sa c h e , fo n d a ta c o n tu t ta p ro b a b ilità n e l co rso d el d e c im o secolo e p a tro c in a ta dalle im p o rta n ti fam iglie d e lla z o n a c o m e i D o n a ti e gli A lig h ieri, p o tre b b e essere il lu o g o dove D a n te si u n ì in m a trim o n io a G e m m a D o n a ti. U n ’altra chiesa, la v ic in issim a chiesa di Santa Margherita de’ Cerchi, sareb b e in -

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vece te a tro d e ll’in c o n tro - e d e l c o n se g u e n te in n a m o ra m e n to - c o n B eatrice P o rtin a ri. D a u ltim o F irenze in piazza S a n ta C ro c e o sp ita a n ch e il Monumento

a Dante Alighieri che la c ittà volle erigere in o ccasione delle celebra­ zio n i av v en u te in occasione d el secen ten ario della nascita, n e l 1865.

Ravenna La tomba di D ante è sta ta e re tta presso la basilica d i S an F rancesco a R a v e n n a , dove egli visse gli u ltim i a n n i della p ro p ria esistenza, m o re n d o v i n el 1 3 2 1 . Si tr a tta d i m o n u m e n to nazio n a le: a tto rn o è sta ta is titu ita u n a z o n a d i risp e tto e d i silenzio c h ia m a ta “z o n a d a n te ­ sca”. A lF in te rn o d e ll’area so n o c o m p re si la to m b a d el p o e ta , il g iar­ d in o c o n il Q u a d ra rc o e i c h io s tri fran cescan i, ch e o sp ita n o il M u seo D a n te sc o .

Verona «Lo p rim o tu o refu g io e ’l p rim o o stello / sarà la co rte sia d el g ra n L o m b a rd o / ch e ’n su la scala p o rta il sa n to uccello». A C a n g ra n d e della Scala, il «gran L o m b a rd o » ch e offrì il p rim o rifu g io a D a n te , q u e sti d e d ic ò il Paradiso a c u i lavorò p ro b a b ilm e n te presso la Biblio­

teca Capitolare. Il p o e ta rim ase n e lla c ittà sette a n n i e q u i si sta b ili­ ro n o i su o i ered i, ch e a n c o ra oggi a b ita n o in V alpolicella su l te rre n o c o m p ra to d a P ie tro A lig h ieri. In piazza d e i S ig n o ri sullo s fo n d o della C asa d ella P ie tà si erge la statua di D ante d i U g o Z a n n o n i, in a u ­ g u ra ta n el 1 8 6 5 . U n a ta rg a su lla c h ie se tta d i Sant’Elena ric o rd a la p ro lu sio n e , la Questio, te n u ta d a D a n te n el 1320 in q u e sto luogo. U n a fo rm e lla in b ro n z o lo ritra e c o n C a n g ra n d e .

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Finito di stampare nel mese di novembre 2017 a cura di RCS MediaGroup S.p.A. presso

Grafica Veneta, Trebaseleghe (PD) Printed in Italy

In pressappoco sette giorni di viaggio narrati nella Divina Commedia, l’anima umana, sotto forma del corpo di Dante, compie i più diversi, sterminati itinerari: dalla storia lontanis­ sima al presente, dagli abissi nefandi dell’esistenza alla gloria dell’Empireo, dall’ignoranza bruta alla conoscenza teologica, politica, etica e filosofica della civiltà umana. La Commedia è tutto questo: un’enciclopedia dell’anima, sia dal punto di vista immanente sia da quello trascendente, che non ha pa­ ragoni in tutto l’Occidente. Per la prima volta Dante usa la poesia non per rappresentare il mondo nella sua astrattezza ma per riformarlo, e colloca al centro della scena non solo Dio, ma anche l’agire dell’uomo nell’esistenza terrena. E, tanto nella Commedia quanto in altre sue opere, Dante conduce a maturità, e a dignità, la lingua italiana, reinven­ tandola e portandola integra fino a noi. «Sotto ’l velame de li versi strani», come i suoi possono apparire, c’è quasi tutto l’italiano del XXI secolo. Emiliano Bertin è dottore di ricerca presso l’Università Cattolica di Milano, dove svolge attività didattica e scientifica. Si occupa prevalentemente di Dante (tradi­ zione, esegesi, fortuna), di volgarizzamenti trecenteschi dell’Eneide, dell’epistolario del latinista Concetto Marchesi. Insieme a Stefano Motta, ha approfondito anche lo studio e l’insegnamento della letteratura italiana antica con Poesia italiana delle origini (Loescher, Torino 2013). Dal 2007 è coordinatore didattico della Scuola estiva internazionale in Studi danteschi.

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