Clessidra


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Danilo Kiš

Clessidra

ADELPHI

Clessidra è il più sconcertante, il più auda­ ce e il più complesso fra i romanzi di Da­ nilo Kiš. Quella realtà che in Giardino, cenere appariva ancora velata nei colori favolosi delfinfanzia qui si stravolge in una sorta di tranquillo delirio, divagante e laceran­ te. Lo stesso personaggio (il padre del nar­ ratore) che in Giardino, cenere si dedicava alla patetica e incongrua impresa di pre­ parare un orario ferroviario universale qui appare subito su uno sfondo nero e deso­ lato, quello della persecuzione degli ebrei - e di tanti altri massacri, semisommersi nell’oblio e coperti dalla neve della colpa (la neve compare più volte in queste pagi­ ne, con la stessa connotazione sinistra) negli anni della seconda guerra mondiale. Tutto procede come in un verbale di poli­ zia, che lascia emergere la verità scheggia per scheggia, finché tutte le schegge si ri­ compongono in una immagine unica, che però ha acquisito la profondità del tempo e delle sue ferite. Rare volte, in questi ulti­ mi decenni, la letteratura ha trovato un timbro così penetrante e così puro. «For­ se resteranno - se anche tutto ciò dovesse essere sommerso in un diluvio universa­ le -, sì, resteranno la mia follia e il mio so­ gno, come un’aurora boreale e un’eco lon­ tana. Forse, qualcuno scorgerà il chiarore di questa aurora, forse sentirà questa eco lontana, ombra del suono di un tempo, e comprenderà il senso di quel chiarore, di quello scintillio».

Di Danilo Kiš (1935-1989) Adelphi ha già puh blicato Giardino, cenere (1986) cd Enciclopedia dei morti (1988) e ha in preparazione Rani jadi («Dolori precoci», 1969). Clessidra e apparso pei la prima volta nel 1972.

L \_o In copertina: Lucien Lévy-Dhurmer,______ .o (il pa­ diglione di musica a Versailles), 1929. M__ du Petit Palais, Paris.

FABULA 43

DELLO STESSO AUTORE:

Enciclopedia dei morti Giardino, cenere

Danilo Kiš

CLESSIDRA Traduzione di Lionello Costantini

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ADELPHI EDIZIONI

TITOLO ORIGINALE

Peščanik

© 1989 BY HEIRS OF DANILO KIŠ © 1990 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO ISBN 88-459-0759-7

CLESSIDRA

Ex voto all’antica a Mirjana

Was it thus in the days of Noah? Ah no. Anonimo, sec. xvn



PROLOGO

I

Le ombre tremolanti dissolvono i contorni degli oggetti e spezzano la superficie dei volumi, allontanan­ do il soffitto e le pareti secondo l’umore della fiamma crestata, che ora cresce, ora vien meno, come sul punto di spegnersi. L’argilla giallastra del pavimento si sol­ leva come le tavole sul fondo di una barca che si inabissi, per immergersi poi anch’essa nell’oscurità, quasi investita da acqua torbida e sudicia. L’intero am­ biente tremola, ampliandosi o rimpicciolendo, oppure spostandosi appena di qualche centimetro da sinistra a destra o dall’alto in basso, conservando però immu­ tato il proprio volume complessivo. Le verticali e le orizzontali si intersecano così in vari punti, in modo assolutamente confuso, ma secondo una sorta di ordi­ ne superiore e in un equilibrio di forze che impedisce alle pareti di franare o al soffitto di inclinarsi o cedere del tutto e crollare. L’equilibrio è probabilmente rag­ giunto grazie allo spostamento uniforme delle travi longitudinali sotto la volta, che sembrano scivolare anch’esse da sinistra a destra e dall’alto in basso, assie­ me alle loro ombre, senza scricchiolìi o sforzi, con leg­ gerezza, come sull’acqua. Si sentono i marosi della not­ 13

te frangersi sui fianchi della barca-stanza: il vento getta contro la finestra, a ondate successive, ora fiocchi impalpabili ora aguzzi cristalli di neve. La finestra quadrata, simile a una feritoia, è tappata da un cu­ scino sfondato da cui spuntano stracci che oscillano come piante amorfe o rampicanti, e non è dato sapere con certezza se tremolino sotto i colpi del vento che penetra attraverso le fessure o se solo la loro ombra dondoli secondo l’umore della fiamma crestata. L’occhio si abitua lentamente alla semioscurità, all’ondeggiare dell’ambiente dai contorni indefiniti, al tremolio delle ombre. Attratto dalla fiamma, lo sguar­ do si dirige verso la lampada, solo punto luminoso nella grande oscurità della stanza, lanciandosi su di es­ sa come una mosca sperduta per arrestarsi su questa unica sorgente di luce, che tremola come una stella lontana, fortuita. Accecato per un istante e quasi stre­ gato da questa luce, l’occhio non vede null’altro all’infuori di essa, nulla, né le lunghe ombre, né le superfici ondeggianti, né gli stracci che oscillano; nulla. L’occhio vede solo questa luce, questa fiamma crestata, quasi fuori dello spazio, come sono fuori dello spazio le stelle, poi comincia pian piano a scomporla (questa luce), a rifrangerla attraverso il proprio prisma, a scoprire in essa tutti i colori dello spettro. E solo al­ lora, dopo averla scomposta, dopo averla sezionata, l’occhio scopre, nelle onde lente della luce sempre più pallida che si dilata intorno alla fiamma, tutto ciò che si può ancora scoprire tra le pieghe delle ombre e del vuoto: dapprima il cilindro, cristallino involu­ cro della fiamma, all’inizio impercettibile, astratto, quasi fosse solo l’eco della fiamma e del nucleo lumi­ noso, l’eco oltre cui comincia l’oscurità, di colpo, come se la luce fosse tagliata dal vetro, cacciata in una ca­ verna, sepolta nella tenebra, e tutt’intorno si stendesse non solo il buio più profondo ma un’altra materia, densa, con peso specifico del tutto diverso rispetto a quella da cui è avvolta la fiamma. Ma questo dura solo un istante: il tempo necessario all’occhio per 14

abituarsi, non all’oscurità, ma alla luce. L’occhio sco­ pre allora, lentamente, l’illusione e scorge tracce di fu­ liggine sulle pareti del cilindro, tracce che passano dal nerastro all’argenteo come su uno specchio scurito, e vede che l’involucro di cristallo non è il confine della luce, così come scopre, non senza meraviglia, che il ri­ flesso argenteo della fuliggine è anch’esso illusione e che il paragone con lo specchio scurito non è un gio­ co dello spirito ma un gioco della luce, chiaramente vi­ sibile nello specchio rotondo posto verticalmente die­ tro il cilindro e nel quale si scorge l’altra fiamma, la fiamma gemella, quasi irreale, ma pur sempre fiamma; e se l’occhio non l’ha notata fino a questo momento, era solo perché lo spirito resisteva a questa illusione, perché lo spirito non voleva ammettere l’apparenza (come sul disegno qui di seguito dove l’occhio vede un vaso bianco, un vaso o una clessidra, o un calice, finché lo spirito - la volontà? - non scopre che il vaso è un vuoto, un negativo, dunque una apparenza, e che posi­ tivi, e quindi reali, sono i due profili identici, i due vi­ si rivolti l’uno verso l’altro, Yen face simmetrico, come in uno specchio, uno specchio inesistente, il cui asse passerebbe per l’asse dell’ormai inesistente vaso-clessi­ dra, calice, coppa, in uno specchio in realtà doppio,

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perché i due visi siano entrambi reali, e non uno solo, giacché altrimenti il secondo sarebbe solo un ri­ flesso, l’eco del primo, e allora non sarebbero più sim­ metrici, non sarebbero più nemmeno reali; perché, dunque, tutti e due i visi siano uguali, entrambi arche­ tipi platonici e non uno solo, giacché altrimenti il se­ condo sarebbe necessariamente solo imitatio, riflesso di un riflesso, ombra; ed è per questo che i due visi, a guardarli a lungo, si avvicinano ugualmente l’uno al­ l’altro, quasi desiderassero di unirsi, per confermare la propria identità). Abituatosi ormai alla luce, come lo spirito si è abi­ tuato all’illusione, l’occhio comincia a frugare nell’o­ scurità e nella penombra, libero adesso dalla magica attrazione della fiamma, e vede infine la lampada a pe­ trolio, come vede l’ombra tremolante e riconosce i grandi volumi oscuri delle ombre. Nella parte nascosta dallo specchio l’oscurità è ancora totale (ma la fiamma viene proprio da questa oscurità, come se di essa si nutrisse), mentre a sinistra e a destra della lampada si muovono grandi superfici grigie, troppo luminose per essere ombre, troppo poco chiare per essere luce. Ma allora lo spirito viene in aiuto dell’occhio e scopre, come se la toccasse con la mano, la superficie compatta delle pareti grigiobianche, così come scopre, a separare nettamente l’ombra dalla luce, tre lunghe travi sul sof­ fitto, tre lunghe travi raddoppiate dalle loro ombre, spezzate, come un bastone immerso nell’acqua, da om­ bre trasversali di origine incerta. Situatosi nello spa­ zio, trovato un saldo sostegno, determinato il Nord, l’occhio individua la grande ombra della cucina eco­ nomica confusa con la cucina stessa, la doppia cucina economica di nera lamiera arrugginita e di ombra sot­ tile, la cucina economica a otto piedi che si dondola sulle sue lunghe zampe come un grosso cane gelato tremante nel vento. Dietro lo specchio della lampada, dietro la fiamma-riflesso, c’è l’oscurità, c’è la finestra cieca: di là viene il freddo, di là arrivano il suono acuto e le vibrazioni soffocate del vetro. Dall’altra 16

parte, di fronte alla finestra cieca, si trova una cassa di legno, di cui è visibile un solo lato, che si dondola, senza però cadere. Accanto alla cassa di legno, contro il suo fondo, l’ombra si rompe in modo ineguale, on­ deggiando: vi si scorge una sporgenza sul pavimento d'argilla, lunga un metro, un metro e mezzo, simile più a una cicatrice che a un tumulo. Più intuibile che visi­ bile, nell’angolo, proprio contro alla cassa, appoggiata al suo lato di oscurità, come emersa da acqua torbida, incastrata tra la parete corrosa e le tavole della cassa, si trova ciò che l’occhio cercava: una cartella dai fian­ chi arrotondati. Sorvolando la stanza come una farfalla notturna, scontrandosi con le ombre fluttuanti, urtando nelle pareti e nelle travi, lo sguardo ritorna verso la luce, dove giacciono come nascosti (perché lo sguardo li sco­ pre per ultimi, non cercandoli in prossimità della fiamma, non cercando nulla in prossimità della luce) alcuni oggetti disposti sul tavolo fino a questo mo­ mento invisibile, nell’ombra o alla luce, fino a questo momento. A sinistra, contro la lampada, blocchi di carta a quadretti; accanto a essi un giornale ripiegato in due, quasi nel mezzo del tavolo; all’estremità de­ stra, due o tre numeri di una rivista unta e un libro dalla copertina nera, le cui impressioni in oro sem­ brano della stessa materia della fiamma; nascosta dal­ l’ombra dello specchio, un poco al di sopra della su­ perficie del tavolo, quasi a librarsi in aria, una siga­ retta fumata a metà. Attraverso vie invisibili, il fumo arriva alla lampada e sfugge, azzurrognolo, attraverso il cilindro. Una mano che si avvicina alla fiamma.

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SCENE DI VIAGGIO (I)

2 Il respiro trattenuto, la testa rivolta verso la por­ ta, l’uomo è in ascolto. Ha l’impressione che, nell’altra stanza, essi non dormano, ma siano svegli e facciano solo finta di dormire. Attende, quindi, che il sonno li vinca. Gli sembra che con il loro essere svegli, con la loro vicinanza (li separa solo una porta sconnessa con una grande fessura in basso), col flusso dei loro pen­ sieri, potrebbero influenzarlo. Perché il pensiero, spe­ cialmente in simili notti tranquille, prima del sonno, si condensa con tale forza da vibrare nell’aria come una scarica elettrica, quasi visibile, come il calore al di sopra di una stufa rovente. Dall’altro lato della porta, tuttavia, non si sente nes­ suna respirazione, non si sente nulla. Ovvero quello che si sente, questo silenzio fremente, è il loro respiro, il silenzio dei loro pensieri e del loro sonno. Ora volge le spalle al tavolo. La sua lunga ombra, indefinita e tremolante, taglia l’ambiente in diagona­ le, mentre l’ombra informe e distorta della testa si spezza contro il fianco della cassa di legno. Calpestan­ do la propria ombra, come un sonnambulo, l’uomo si dirige verso l’angolo. Con il corpo che la ripara dalla 18

luce, la mano scende alla cieca verso un oggetto invi­ sibile che lui ha intravisto quando si è diretto verso l'angolo o quando è entrato nella stanza. Sente sotto le dita i bordi arrotondati della cartella di cartone e la superficie fredda e liscia della cerniera di ottone. Ora tiene in mano lo zainetto da scolaro senza le cin­ ghie (queste devono essere state staccate perché sul dorso brillano ancora gli attacchi lucenti), con i fianchi di legno arrotondati e il risvolto di cartone che imita la pelle di cinghiale. Solleva il risvolto e lo tiene fermo col mento. Sotto alcuni quaderni sottili palpeggia una boccetta quadrata. La boccetta è fredda e liscia come un cubetto di ghiaccio. La stringe nel palmo della ma­ no, poi ne svita il tappo, sempre senza voltarsi verso la luce. Accosta il collo della boccetta al naso, stando attento a non toccarlo, e sente l’odore dell’inchiostro. Allora richiude la boccetta e la scuote leggermente, voltandola verso la luce. Sugli angoli levigati tremola la fiamma torbida della lampada, lambendo l’inchio­ stro viola scuro lungo le pareti interne del vetro. L’uo­ mo torna a frugare nella cartella, tenendo sempre il ri­ svolto col mento. Sotto i quaderni trova un sottile por­ tapenne a forma di fuso e lo stringe fra tre dita, trac­ ciando in aria un arabesco. Poi preme la punta della penna contro l’unghia del pollice: si sente un rumore simile al crepitio delle ali di un insetto. Ora è di nuovo al tavolo, momentaneamente immo­ bile. Ha preso dalla tasca interna del cappotto dei lun­ ghi fogli di carta a quadretti e li ha messi sul giornale. La carta è piegata per lungo, come un documento, ma non schiacciata. All’inizio, i piccoli quadretti sono an­ cora visibili, poi le linee lentamente si perdono, con­ fondendosi e scomparendo, seguite poco dopo anche dai margini illuminati dei fogli. Al loro posto resta solo la sorgente della luce, di un giallo smorto. Se non avesse in tasca, piegata in due, la minuta scritta negli ultimi giorni (in qualche ristorante anonimo, accanto a una stufa rovente, su una tavola coperta da una in­ cerata bisunta; in una stanzetta semibuia, nel retro di 19

un negozio di modelli per ricami a mezzopunto, su un vecchio tavolo da gioco, alla luce di una lampada a gas; nello scompartimento di un rapido, pure di notte, alla luce bianca dell’acetilene; ma anche, nel dormiveglia, in questa stessa stanza); se non avesse, quindi, impiega­ to tanta fatica per questa minuta, forse ora abbandone­ rebbe tutto. Ma la minuta lo attira, benché provi un forte desiderio di accostarla alla fiamma e andarsene a dormire. Però non se la sente proprio di buttare tutto nel fuoco, ora che ha fatto il primo passo e strappato al vuoto quelle pagine. Nonostante l’attimo di ab­ battimento e di dubbio, affiora in lui, al limite della coscienza, il presentimento che forse quel piccolo fram­ mento di storia familiare, quella breve cronaca, reca in sé la forza di quegli annali che, quando vedono la luce del giorno dopo una lunga serie di anni, o magari di millenni, diventano una testimonianza del loro tem­ po (e poco importa allora di chi si tratti), come quei frammenti di manoscritti scoperti nel Mar Morto o nelle rovine dei templi o sui muri delle prigioni. Prende quindi dalla tasca interna la minuta scritta a matita sulla stessa carta a quadretti e la scorre con lo sguardo. La minuta è vicinissima alla lampada. Lo stoppino arde ondeggiando, la fiamma sboccia dal suo nucleo violaceo, passando dal rosso al giallo pallido. Il cilin­ dro della lampada è annerito di fuliggine e attorno alla fuliggine si scorge una pellicola argentea come su uno specchio scurito. Nel silenzio, si sente sibilare, appena percettibile, la cresta ondeggiante della fiam­ ma. Il suono del tempo. Ha posato per un istante la penna. Giornale-carta assorbente. Su di esso, sopra il testo a stampa di un articolo sui piccioni viaggiatori,1 le prime parole della lettera, come in uno specchio, come in ebraico. 1. I piccioni non riescono a orientarsi subito quando sono lan­ ciati dall’aereo. Quelli che hanno già esperienza in materia si lasciano cadere come pietre e procedono cosi finché non si

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L’uomo guarda la fiamma aguzza, vibrante nella cor­ rente d’aria gelida che soffia dalla finestra invisibile posta di fronte a lui, poi il suo sguardo scivola in bas­ so, verso il serbatoio di vetro della lampada. Il serba­ toio si restringe nel mezzo, formando una profonda scanalatura fasciata da un anello di latta arrugginita. Questo anello non è saldato in un cerchio completo, ma è fatto di due semicerchi simmetrici che si riuni­ scono sul davanti a un centimetro o due di distanza. Dall’anello di lamiera si dipartono due asticciole me­ talliche parallele che si congiungono in alto formando un triangolo dai lati arrotondati che sostiene in una cornice di lamiera arrugginita uno specchio rotondo semiopaco e corroso lungo i bordi. Lo specchio crea due fiamme gemelle, due fiamme crestate, una di fron­ te all’altra, uguali, per quanto una, quella dello spec­ chio, che viene riflessa, viva solo in virtù dell’illusione e dell’apparenza, della grazia dell’altra. Il serbatoio al­ l’interno è di un colore verde scuro, simile a un acqua­ rio pieno di acqua putrida e come reso viscido da alghe e licheni appena visibili. L’uomo esamina il ser­ batoio, cercando la linea che deve indicare il livello del petrolio, la superficie del liquido, e che si è del tutto confusa col colore del vetro, esercitando su di esso la sua azione, dandogli la sua tinta: grigio spor­ co, verde scuro, rosso ruggine. La cerca dapprima con gli occhi sotto l’anello ondulato, penetrando con lo sguardo tra le minuscole sporgenze che ricoprono la semisfera del recipiente di vetro, tra le quali s’è stesa una grassa pellicola di petrolio misto a fuliggine e polvere. Non avendo trovato il livello del liquido sono liberati dell’azione delle correnti aeree. I principianti, in­ vece, cercano di volare subito. Di conseguenza, il vento li sbat­ te in ogni direzione come una barca nella tempesta ed essi devono girare in tondo per un certo tempo finché non tornano in sé e ritrovano la direzione da seguire per giungere alla loro meta.

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(e troppo pigro per compiere il gesto, rischioso e com­ plicato, di agitare la lampada perché il livello si riveli da sé), sorvola con lo sguardo l’anello di lamiera arrug­ ginito alla strozzatura del serbatoio, esattamente nel mezzo, alla sua vita, e proprio mentre pensa che il li­ vello del liquido deve nascondersi in quel punto, sco­ pre alla base dello stoppino ben impregnato, bianco e inerte come un verme solitario rigonfio, un restringi­ mento appena visibile, una piccola deformazione, co­ me quando si immerge un bastone nell’acqua. Capisce, non senza inquietudine, che nel serbatoio c’è sì e no un dito di petrolio. Se lo succhierà tutto, se lo berrà tutto. E, come spaventato a questo pensiero (che la lampada sta per spegnersi), scuote di nuovo la penna e scarabocchia sulla carta per continuare quello che è cominciato, per prevenire l’oscurità.

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A gambe larghe, leggermente chino in avanti, l’uo­ mo sta alla finestra. Ha una coperta sulle spalle. La coperta odora di cavallo e di orina. L’uomo ha ai pie­ di un paio di calosce, sulle quali si scorge il riflesso del­ la luce che penetra dalla finestra bassa e quadrata. Da tale altezza, può vedere solo il turbinio dei fiocchi di neve davanti al vetro e, di tanto in tanto, i contorni di un albero avvolti dalla nebbia. La neve si deposita sul­ le sporgenze della finestra, formando una piccola mon­ tagnola ondulata che continua a salire. Sotto gli assalti del vento, la montagnola cambia l’angolo dei suoi ver­ santi, la curva dell’orizzonte. Ora sono due poggi dol­ cemente ondulati, quasi della stessa altezza, assolutamente schematici, ma ecco che il vento ne modifica di colpo il profilo, riunendo i due poggi in uno o for­ mando una cresta aguzza nel punto dove qualche istan­ te prima c’era una depressione. Quando la neve si fa 22

mi poco più rada, l’uomo ha l’impressione che dalla fi­ li cslra all’albero non ci siano più di una decina di me­ ni. ma quando il vento riprende a far turbinare grossi fiocchi di neve, l’albero si allontana dalla casa, come una barca che si stacchi dalla riva, impercettibilmen­ te. Questo spazio dai contorni ingannevoli è a sua volta coperto di neve, e la superficie ondulata, mute­ vole anch’essa, è segnata da tracce di passi, forse della sera avanti, forse della stessa giornata, forse di qualche ora prima. La finestra trema sotto l’urto del vento e si sente lo scricchiolio sottile e cristallino della neve sul vetro. L’uomo solleva la testa e ascolta. Per un al t imo ha l’impressione di sentire in lontananza il la­ trato di un cane. Ma questo suono si perde nell’urlio del vento, si confonde con esso, e l’uomo non sa più con certezza se era davvero un latrato o solo l’urlo della bufera. E da quanto tempo ormai è lì alla fine­ stra, avvolto in una coperta? Forse una giornata inte­ ra, forse un’ora, forse due, forse appena dieci minuti. Ora è appoggiato contro la finestra e in questo modo oscura tutta la stanza. Cerca di spingere lo sguardo, in quella luminosità opalescente, oltre l’albero, là dove si erge la recinzione di rete metallica, le cui maglie sono completamente ostruite dalla neve. D’un tratto, un tintinnio di sonagli, improvviso, limpido. Quasi in­ sieme con questo suono, chiaro e cristallino, l’uomo intravede nella nebbia i contorni di due teste di ca­ vallo e, subito dopo, le persone sedute sulla slitta: il cocchiere con un berretto di pelliccia bianco di neve e una donna che ora si appresta a scendere. Anche lei ha in testa un berretto di pelliccia, a meno che non si tratti dei suoi capelli raccolti in un’alta crocchia rico­ perta di neve. Ora la donna prende qualcosa sul sedile e tende la mano verso il cocchiere. Dalla finestra, l’uo­ mo vede la donna avvicinarsi, con una piccola valigia in mano, al cancello della recinzione di rete metalli­ ca che, scossa quando lei lo apre, lascia cadere la neve ammassata; la vede poi calpestare la neve profonda. La donna viene diritto verso di lui. L’uomo lascia di col­ 23

po la finestra e va rapidamente alla porta. Sente bus­ sare. Ora, attraverso la lunga fessura, vede agitarsi un’ombra, poi sente i passi che si allontanano, facendo scricchiolare la neve. L’uomo guarda attraverso la fes­ sura. Dapprima non vede nulla, poi solo il turbinio dei fiocchi di neve. Sente di nuovo avvicinarsi i passi sulla neve che scricchiola. Ora vede anche la donna, quella di poco prima. Ha scosso via la neve dalla testa e l’uomo distingue adesso chiaramente la sua capiglia­ tura abbondante e riccioluta, raccolta in un’alta croc­ chia su cui si posano cristalli di neve. La donna è av­ volta in un grande scialle nero da sotto il quale tira fuori una busta azzurra. L’uomo solleva brusco la testa e vede sopra la porta, dall’interno, l’estremità triango­ lare della busta con le impronte umide delle dita. Ac­ costa di nuovo l’occhio alla lunga fessura, ma la donna è già scomparsa. I passi non si sentono più. Scostandosi dalla porta, l’uomo osserva la busta, senza toccarla. Pro­ babilmente pensa che la donna che ha portato la lettera si è nascosta in un punto dal quale ora sorveglia la bu­ sta azzurra che si muove al vento e la cui parte più grande è fuori, infilata nella fessura sopra la porta.

5 L’uomo è disteso sul letto; più esattamente è seduto, appoggiato a un grosso cuscino. Ha steso su di sé una coperta grigia da cui spuntano solo la testa e le braccia. Ha in mano un libro sottile o una rivista. Sul frontespizio si vedono foto pubblicitarie di pneumatici di diversa grandezza solcati da diverse linee serpeggian­ ti con sopra grandi lettere stilizzate, senza dubbio la marca delle gomme. Il titolo è impresso a caratteri più grandi, di sbieco, nel terzo superiore del foglio, su fon­ do grigioverde. Le pagine sono unte e molte hanno gli angoli ripiegati, forse per caso, forse per segnare qual24

die particolare importante. L’uomo fa scorrere rapi­ damente le pagine col pollice, producendo un movi­ mento d’aria che piega la fiamma della lampada a peI rolio poggiata sul marmo del comodino. Con la fiam­ ma, cominciano a tremolare, quasi si mettessero in moto, le numerose slitte della tappezzeria, disposte sim­ metricamente, a intervalli di una decina di centimetri. (A causa di questa simmetria e anche della continua II petizione del disegno grigio, tutte le slitte si riducono a una sola e così pure i personaggi raffigurati, ma la scena rappresentata nel disegno, anziché sembrare staI ica, comincia ad animarsi, nonostante l’identicità delle ligure, o forse proprio per questo). È una slitta all’antica, con alti pattini ricurvi che le danno l’aspetto di una nave. Alla slitta sono attaccati due cavalli fermi o nell’atto di fermarsi. Un cocchiere dai grandi baffi e con in testa un berretto di pelliccia ricoperto di neve tira le redini. I cavalli hanno la testa sollevata, solleva­ ta e rivolta di lato, probabilmente per l’azione delle re­ dini. Dalla slitta scende una donna che regge con la si­ nistra un grande manicotto, o forse è una valigetta, mentre si appoggia con la destra alla barra rialzata a lato del sedile. Da sotto la pelliccia e il lungo vestito che le arriva fino alle caviglie spunta un piedino incre­ dibilmente piccolo infilato in una scarpetta a punta. Il piedino si è fermato in aria, a mezza strada tra il sedile della slitta e la superficie ondulata della neve. A de­ stra della slitta, all’altezza delle teste dei cavalli, si scor­ gono le imposte serrate delle finestre di un elegante edificio con un grande portone a volta. La donna evi­ dentemente arriva inattesa perché le imposte sono ser­ rate e il grande portone gotico è chiuso, sicuramente sprangato. La fiamma si è calmata e il piedino della donna si è fermato a mezz’aria, immobile. Irrigidite anche le teste dei cavalli. Le zampe anteriori, piegate ad angolo retto, si sono bloccate in aria anch’esse. Do­ po aver gettato uno sguardo sul libro appena chiuso, l’uomo lo posa sul ripiano di marmo del comodino. Oltre il libro che vi ha posto, sul marmo, accanto alla 25

lampada, si trovano un portacenere di latta e un pac­ chetto di sigarette cominciato. La lampada è di porcel­ lana bianca con un paralume di sottile vetro trasparen­ te su cui sono dipinti grossi giaggioli viola. Prima di soffiare sulla lampada, l’uomo abbassa lo stoppino. Ora nella stanza si intravede solo il ripiano di marmo, simile a una lastra di ghiaccio. Il cocchiere ha frustato i cavalli, la slitta è scivolata via nell’oscurità. Non si sentono più i sonagli, non si sente nulla. Solo l’ululato della bufera oltre la finestra e il buio. La donna con la pelliccia si è arrestata un attimo davanti al portone, che la inghiotte, per essere a sua volta inghiottito dal­ l’oscurità. A una finestra, dietro le imposte di legno semichiuse, si scorge una striscia di luce che trapela dalle commettiture. L’uomo osserva la striscia di luce che, di fronte a lui, trapela dalle commettiture della porta invisibile. Questa striscia di luce si muove, come se al di là della porta qualcuno stesse spostando la sorgente della luce, o regolando la fiamma della lam­ pada, o semplicemente riparandola con la mano dalla corrente d’aria. Non si sentono né passi né voci, non si sente nulla all’infuori dell’ululato del vento e della bufera oltre la finestra e il buio. La striscia di luce, intanto, si allarga sempre più, disegnando sul pavi­ mento il lato di un triangolo luminoso, e le lunghe ombre cominciano a muoversi, in semicerchio, intor­ no all’asse degli oggetti. Il ripiano di marmo del co­ modino emerge alla luce, insieme con la lampada, la rivista, il portacenere smaltato, il pacchetto di sigarette cominciato. Alla porta, nella fessura di luce sempre più larga, appare una lampada, più esattamente un paralume di porcellana illuminato dalla sua stessa luce. Lo stoppino deve essere stato abbassato, perché non si vedono né le altre parti della lampada né la mano che la regge. Solo si scorgono sul paralume di sottile vetro trasparente dei fiori viola, probabilmente giag­ gioli. Questo paralume luminoso con i suoi giaggioli si libra in aria un istante, oscillando appena, poi una mano invisibile rialza lo stoppino. Nello stesso tem­ 26

po, la lampada e la mano che la regge cominciano a spostarsi in avanti, e la fiamma danza nella corrente d'aria che spira dalla porta dischiusa e dalle imposte accostate. La donna attraversa la stanza senza fare alcun rumore, tenendo la lampada all’altezza della te­ sta e un poco discosto da sé. Il suo volto è del tutto privo di espressione, come fuso nella cera, gli occhi al­ l'apparenza chiusi. I capelli sono raccolti in un’alta crocchia, nera o forse grigia. Indossa una lunga cami­ cia da notte trasparente che sfiora il pavimento e le ri­ cade in pieghe profonde intorno alle caviglie invisibili o appena percepibili, dando l’impressione che si libri nell’aria, diafana e leggera come una sonnambula. Questa camicia da notte è rosa o color carne, ma forse alla luce della lampada questi due colori si confondo­ no e si compenetrano. A non più di un braccio di distanza, dietro di lei scivola senza rumore una secon­ da donna con la stessa camicia da notte che sfiora il pavimento. Anche lei ha i capelli raccolti in un’alta crocchia, il volto come fuso nella cera, gli occhi all’ap­ parenza chiusi. Questa seconda donna non porta una lampada, ma tende le braccia in avanti, quasi volesse afferrare la lampada che è nelle mani dell’altra per to­ gliergliela, sicché ora sembra più l’ombra che la gemel­ la della prima, la sua immagine riflessa in uno spec­ chio laterale, o nell’anta spalancata di un armadio, o nelle superimi brillanti dei mobili.

6 La bufera si è momentaneamente placata, la neve volteggia in fiocchi piccoli e radi. L’uomo è in piedi davanti alla porta. In testa ha un cappello grigio, un cappotto logoro gli arriva alle caviglie, sfiorando le ghette color topo calzate su un paio di calosce brillan­ ti. Con una mano stringe al petto, all’altezza del cuore,

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una cartella di pelle di cinghiale tutta unta, nell’altra tiene un bastone. L’uomo si allontana. Alla sua sini­ stra, a due o tre metri dal sentiero aperto nella neve, sorge una veranda. Dietro la porta a vetri che conduce all’interno della casa si sentono risa soffocate e voci che non riesce a distinguere bene. Quando l’uomo si tro­ va al livello della porta, le risa si fanno d’un tratto più chiare. Qualcuno deve aver aperto di colpo la porta. L’uomo guarda in quella direzione. Al livello della porta si trova un tavolo, messo nel senso della lunghez­ za, sicché lui lo vede scorciato. Il posto a capotavola è vuoto (non era seduto qui un istante prima colui o colei che ha aperto la porta?); ma ci sono ugualmente un piatto di porcellana e un bicchiere di vino rosso bevuto a metà. All’altra estremità (non sarà questo il posto d’onore?) è seduta una donna con un’alta croc­ chia, vestita di nero. Ai due lati del tavolo, quasi alla stessa altezza, simmetricamente, due persone sedute di profilo: due donne, anch’esse vestite di nero, forse un po’ più giovani della prima; di fronte a loro, un uomo dal viso giallo e un’altra persona che non si vede be­ ne. Alla luce che giunge di fronte (attraverso le tende delle finestre tirate solo in parte penetrano minuti fioc­ chi di neve simili a coriandoli), si distinguono chia­ ramente, disposti in simmetria, i piatti di porcellana, il vasellame e i bicchieri. Sul tavolo è posto per lun­ go, leggermente rialzato, un vassoio con un maialino arrosto. L’uomo lo vede scorciato: orecchie corte e coda rivolta all’insù su un corpo rotondo color del bronzo. Il muso è rivolto verso di lui: tra i denti an­ neriti e i grandi canini, una mela verde. La mano del­ l’uomo dal viso giallo è rimasta bloccata, insieme col bicchiere, a mezza strada fra il tavolo e i suoi denti gialli. Esattamente nell’istante in cui ha scorto, attra­ verso la porta aperta, l’uomo con il bastone.

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7 L’uomo è seduto su un grosso sasso sul ciglio della strada. Il sasso è rotondo, rozzamente scolpito, e mo­ stra chiaramente l’effetto dell’erosione e del tempo, nella sua superficie spugnosa ricoperta di macchie di licheni, che sembrano piccole gocce di ruggine. Il sas­ so, chiaramente, non è capitato per caso lì, sull’orlo del precipizio, è stata una mano di uomo a metterce­ lo, dandogli la sua forma definitiva (se può chiamarsi definitiva). Sulla parte superiore del sasso c’è un pic­ colo incavo a forma di sella, costituito da uno stra­ to grigio più scuro, che è senza dubbio di età e di composizione geologica diverse da quelle della massa c alcarea principale. Dal margine esterno dell’incavo parte un canale largo un pollice e lungo una ventina di centimetri. Il canale corre in verticale rispetto al­ l'asse del blocco di pietra. Il percorso diritto dimostra che anch’esso è stato scavato dalla mano dell’uomo: gli archi a spirale sono senza dubbio dovuti a una trapa­ natrice pneumatica o a un cuneo di ferro con cui è stato fatto il foro per la dinamite (se il blocco non è stato staccato dalla massa principale con la sola forza meccanica). L’uomo si volta. Sulla parete rocciosa e piatta che s’innalza dall’altra parte della strada, co­ me un alto muro, scopre una fessura verticale che poirebbe corrispondere perfettamente, come sua metà simmetrica, al canale della superficie a sella, tanto più che anche su questa fessura si distinguono chiaramente due strati diversi: uno strato superiore, più scuro, e uno inferiore, più chiaro e friabile. Sotto il blocco di pietra, in direzione dell’orizzonte, si stende un massic­ cio roccioso percorso da rughe, fenditure e crepacci. Una ventina di metri più in basso del blocco su cui l’uomo è seduto, si distinguono ancora le macchie ros­ sastre dei licheni che in qualche punto diventano com­ pletamente bianche, come se le rocce a picco fossero spruzzate di calce o cosparse di escrementi di uccelli. Accanto al sasso su cui è seduto, da profondi crepacci 29

lungo la strada, spuntano foglie irsute e polverose di assenzio, già in parte sbiadite. L’uomo sente il loro profumo che si alza col calore emanato dalla pietra ro­ vente. Radi arbusti, sparsi qua e là sulle rocce e nelle cavità, risaltano nettamente con le loro foglie verde pallido sulla pietra grigiastra e sulle macchie chiare dei licheni simili a macchie di calce. Sul lontano ver­ sante grigio che si stende verso l’orizzonte, si scorge il nastro bianco della strada che scende in linee oblique e parallele intagliate nella roccia. La strada si restrin­ ge sempre più di versante in versante e, a poca distanza dalla cintura verde, dove è già stretta come un sentiero di capre, comincia a piegarsi in meandri, formando una grande M, come le tre linee nette della mano. Nella linea sinuosa e spezzata che congiunge terra e mare, si scorgono insenature e baie profonde, separate da pareti rocciose a strapiombo. Il sole, perfettamente rotondo e rosso, sfiora precisamente la vetta più aguz­ za. Le grandi ombre delle rocce tingono l’azzurro del mare di verde scuro, separando con una linea netta l’azzurro dal verde, come due colori che non si mesco­ lano, almeno non così facilmente e intimamente come si mescolano sulla lontana linea dell’orizzonte il tur­ chino del cielo e il turchino del mare. Lungo la linea spezzata dove terra e mare si congiun­ gono, si scorgono, in mezzo al verde, piccole case strette le une alle altre, anch’esse schematiche: muri bianchi e tetti rossi. A sinistra, un po’ più in là del gruppo di casette, sotto un camino da cui si leva diritto un filo di fumo nero, il riverbero rosso del sole sulla facciata a vetri di qualche fabbrica, simile al bagliore di un incendio. All’estremità di un piccolo molo s’in­ nalza la colonna di pietra di un faro. In cima al faro lampeggia una luce viva, e l’uomo non può capire se si tratti del riflesso del sole o della luce di una lampada a gas. Lungo i bordi del molo, da un’estre­ mità all’altra, c’è una fila di bitte di ormeggio in ferro. L’uomo è seduto su una di esse, in un pun­ to a metà del molo, col viso rivolto al mare. Al mo30

10 è ormeggiata un’unica barca, un trabaccolo da pesca a un albero. Sulla piccola imbarcazione non c’è nessuno. Una fune, arrotolata come un serpente, è poggiata su un pianale verso prua. Questo pianale è fatto di assi un tempo dipinte di verde; la vernice è ora completamente sbiadita e si è ricoperta di squame oppure è solo piena di screpolature come una vecchia tela di quadro. Lo scafo dell’imbarcazione è pure fatto di assi, ricurve come doghe di grandi botti. La parte esterna è dipinta di nero, e fra le assi, nelle commetti­ ture, brilla il catrame fresco e molle che sboccia lenta­ mente come sangue rappreso. I bordi delle fiancate, fatti di assi più spesse, sono dipinti anch’essi di verde, e cosi la prua, la cui chiglia è rinforzata da una lastra di metallo. Alla fiancata del trabaccolo sono appesi due copertoni, completamente lisci, tanto che non vi si possono più distinguere i rilievi ondulati o gli intagli a zigzag, ma solo alcune lettere sul fianco, sicuramente la marca. Tra i copertoni attaccati alla fiancata del­ l’imbarcazione e il molo di pietra si stende una striscia d’acqua verde, arcuata. La barca è rivolta con la prua verso il mare, leggermente di sbieco rispetto al molo. 11 mare intorno al trabaccolo è assolutamente calmo, verde scuro e trasparente, tanto da lasciar vedere di­ stintamente tutto lo scafo dell’imbarcazione, il timone inclinato e la piccola elica in forma di otto. Più in basso, a una profondità indeterminata, si scorge l’om­ bra dello scafo bucherellata dallo sfavillio di un raggio di sole riflesso da un pesce morto, da un pezzetto di specchio, da una conchiglia vuota o da una latta di conserva. A un tratto, l’ombra dello scafo comincia a vibrare, a sciogliersi, a scomparire. Lo sfavillio si spegne e la superfìcie verde scintilla e ondeggia. Si sente lo scia­ bordio dell’acqua contro il molo e i fianchi della bar­ ca. Lo stridio della fune legata alla bitta. Lo strusciarsi lieve delle imbarcazioni nella baia. Una barca si av­ vicina al molo tracciando un leggero arco. Lo sbuffare sommesso del motore si sente in ritardo, solo quando 31

il motore è già spento, perché il rumore si è introdotto nel silenzio in modo impercettibile. L’acqua si cor­ ruga in onde che scoprono sulle pareti del molo di pietra il verde velluto delle alghe e le macchie ne­ re delle conchiglie. L’erba marina e i rifiuti, prima fer­ mi sul pelo dell’acqua, si mettono di colpo in movi­ mento, cullati e gettati da sinistra a destra e da destra a sinistra : bucce di cocomero, un pomodoro, un torso­ lo di mela color ruggine, cicche rigonfie, un pacchet­ to di sigarette, un pesciolino morto, una crosta di pa­ ne, un ratto morto, una scatola di fiammiferi, mezzo limone spremuto, un ramo marcio, una noce di gal­ la, stuzzicadenti, fuscelli di paglia, squame di pesce, un’arancia imputridita, una bottiglia verde di birra, un pezzo di tavola, una busta azzurra strappata, un portapenne di legno corroso, piume di uccello, un tu­ tolo di granturco, un tappo di sughero, un cappello di paglia sfondato, un biglietto ferroviario forato, due mozziconi di matita senza grafite, pezzetti di giornale, un foglio di carta a quadretti con lettere che si sciol­ gono, una scatola di conserva, una noce, un barattolo di latta un tempo contenente vernice verde, un fram­ mento di vaglia, l’etichetta gialloverde di una bottiglia di birra, un vetro di lampada sbreccato, un pezzo de­ gli scacchi (un pedone bianco che ha fuori dell’acqua solo la testa), un re di quadri dai bordi sfilacciati pie­ gato in due ma non schiacciato, tanto che i personaggi simmetrici e schematici si distinguono chiaramente, una cartolina illustrata che mostra in primo piano il mare azzurro, un molo con un faro e accanto al molo una barca da pesca ormeggiata a una bitta di pietra, mentre una seconda barca si avvicina al molo e fende l’acqua disegnando un leggero arco. In secondo pia­ no, dietro una fila di palme verdi, bianche casette dai tetti rossi. In lontananza, alte montagne lungo i cui fianchi serpeggia una strada stretta, e sopra un cielo azzurro e due o tre nubi rossastre. In un punto a metà del molo, su una delle bitte, è seduto un uomo. È leg­ germente curvo e piegato in avanti. In testa ha un 32

< appello di paglia gettato sulla nuca e tra le gambe divaricate un bastone, forse una canna da pesca. A una decina di metri da lui, appoggiata con i gomiti al para­ petto di pietra, c’è una donna, e con lei un ragazzino di cinque o sei anni e una ragazzina un po’ più grande. I (itti guardano verso l’orizzonte, forse contemplano i I tramonto. Si trovano proprio su una curva, nel punto dove la strada si allarga formando una specie di terì azza o di altana. Un poco oltre, proprio contro il palapetto fatto di blocchi di pietra appena sgrossati, c’è un’automobile. La vernice nera della carrozzeria è coperta da un sottile strato di polvere. I vetri qua­ drati dei finestrini sono completamente abbassati, le portiere spalancate. I grandi fari rotondi sono illumi­ nati dai rossi bagliori del tramonto. Al di sopra del radiatore, simile a un alveare, un tappo metallico nichelato intagliato a dentelli da cui esce vapore. Tutta la parte anteriore dell’automobile vibra nel ca­ lore, visibile come quello che si osserva su una stufa rovente. Sotto i larghi parafanghi, simili a quelli di un fiacre, sulle gomme ormai lisce, si distinguono ap­ pena i rilievi ondulati o gli intagli a zigzag. Di lato, sui fianchi dei copertoni, si intravedono alcune lettere pie­ ne di polvere: la marca delle gomme. Con le braccia incrociate sul petto, un uomo con un casco a quadretti e occhialoni da pilota in celluloide è appoggiato al parafango. È rivolto verso coloro che ha portato lì, verso l’uomo seduto sul masso, una decina di metri più in basso rispetto alla curva, e verso il gruppo appoggiato al parapetto di pietra non lontano da lui. Poi si volge a guardare l’orizzonte; forse ammira il tra­ monto. Adesso anche la donna guarda verso l’uomo seduto un po’ più in giù sul masso. Ma lui sembra non notarli nemmeno. Fissa un punto in lontananza; forse ammira il tramonto. Ora guarda verso la curva, da dove giunge un ru­ more di passi con un rotolio di pietrisco. Un attimo dopo, da dietro la curva spunta un asino, carico di fascine. A testa bassa, le orecchie penzoloni, la bestia 33

vien giù per la china. Il carico di fascine, assicurato con delle funi a un basto invisibile, pende sui fianchi polverosi. Sugli sterpi nodosi si vedono incisioni obli­ que fatte di recente. Infilata tra le fascine, sporge la lama ricurva di una roncola fissata a un sottile manico quadrato. Al di sopra del carico, in otri scuri e flosci, sbatte un liquido: vino, latte o acqua. Due o tre passi dietro l’asino avanza una donna con un vestito nero sbiadito e un fazzoletto anch’esso sbiadito legato sotto il mento, curva sotto un carico di fascine non minore di quello legato al basto. L’uomo li segue con lo sguar­ do fino a che scompaiono dietro una stretta curva. Po­ co dopo li scorge di nuovo, sul versante successivo, una ventina di metri più in basso. Poi li perde di vista per un certo tempo finché non li rivede alla svolta seguen­ te. Non si sentono più lo sciacquio del liquido negli otri né lo scricchiolio del pietrisco sotto i loro passi. L’uomo si alza e risale la strada appoggiandosi al ba­ stone, poi si siede nell’automobile accanto all’autista.

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APPUNTI DI UN FOLLE (I)

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È diffìcile innalzare a vette eccelse la propria sventa­ ta. Essere contemporaneamente osservatore e osserva­ to. Quello che è in alto e quello che è in basso. Quello in basso è una macchia, un’ombra... Considerare il pro­ prio essere dal punto di vista dell’eternità (leggi: dal punto di vista della morte). Slanciarsi in alto! Il mon­ do guardato dalla visuale di un uccello. La mia idea di un congegno per volare è antica (pianto l’umanità. Non è altro che la prosecuzione del proposito di Icaro. Perché anche il mio congegno è nato osservando il volo degli uccelli. Non ha bisogno nemmeno della forza di un rematore. Del resto io non sono uno sportivo. E nemmeno un uomo di forza ecce­ zionale: X miei bicipiti sembrano quasi quelli di una donna. Potete figurarvi la scena: in alta tenuta, con cravatta a pallini annodata a farfalla, infilo le braccia nelle cinghie e mi alzo in volo come un piccione, lan­ ciandomi giù dal decimo piano come una pietra, per uscire poi dal looping con un solo colpo d’ala e trac­ ciare un alto arco sopra la folla. Mi lascio andare al capriccio delle correnti e atterro in un prato nei pressi 35

del mio paese natale (« natio borgo selvaggio »).' Poi ripongo le mie ali nella cartella ed entro in paese del tutto inosservato, anonimo, se volete. Dal vostro punto di vista, vi trovaste pure sulla ter­ razza di un grattacielo, somiglierò a una gru, poi a una rondine, poi a un pipistrello, poi a una farfalla (o a una cravatta a farfalla), poi a un moscone, poi a un’ape, poi a una mosca e, infine, a una caccola di mosca. Sono scomparso dal vostro orizzonte, compietamente scomparso. Mi sono innalzato in cielo, miei cari signori. Sì, nel cielo della pura astrazione.

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Appoggiando la testa sul terreno, al momento adat­ to, un uomo dotato di un udito canino potrebbe senti­ re un debole rumore, appena percettibile, come quan­ do si travasa l’acqua da un recipiente in un altro o come lo scorrere della sabbia nella clessidra - qualcosa del genere si potrebbe sentire, qualcosa del genere si sente quando si appoggia la testa sul terreno, con l’orecchio attaccato al suolo, con i pensieri che penetra­ no nella profondità della terra attraversando gli strati geologici, fino al mesozoico, fino al paleozoico, gli stra­ ti di sabbia e di spessa argilla, che penetrano come le radici di un albero gigantesco, negli strati di fango e di roccia, negli strati di quarzo e di gesso, negli strati di conchiglie e di gusci di chiocciola, negli strati torbosi di scaglie e di lische di pesci, di carcasse di tartarughe e di stelle di mare, di ippocampi e di mostri marini, negli strati di ambra e di sabbia sottile, negli strati di erbe marine e di humus, negli strati spessi di alghe e di conchiglie madreperlacee, negli strati di calcare, ne­ gli strati di carbone, negli strati di sale e di lignite, di 1. In italiano nel testo [ΛΓ.ίΖ.Γ.].

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stagno e di rame, negli strati di scheletri umani e ani­ mali, negli strati di crani e di scapole, negli strati d’ar­ gento e d’oro, di zinco e di pirite; perché là in qual­ che punto, a qualche centinaio di metri di profondi­ tà, si trova l’enorme cadavere del Mare Pannonico, non ancora del tutto morto, ma solo soffocato, schiac< iato da sempre nuovi strati di terra e di pietra, di sabbia, di creta e di colofonia, di cadaveri di ani­ mali e di cadaveri di uomini, di cadaveri di uomini

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