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BI BLIOTH ECA DI VINA ~:~~anni Maria Filologia e storia dei testi cristiani
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Filologia Moltissimi testi cristiani ruotano attorno a una parola che si ritiene · ispirata da Dio, anzi da lui stesso pronunciata e incarnata in Gesù. Questa parola, presto messa per scritto, ha infatti dato origine nel trascorrere del tempo a innumerevoli scritture, nate dalla passione e dall'attenzione filologica per il testo sacro: una vera e propria raccolta di "libri di Dio" (bibliotheca divina, appunto), importanti per la fede cristiana ma anche per il trasformarsi delle culture, non soltanto in Occidente. Questo libro delinea per la prima volta una storia complessiva dei testi cristiani e del loro significato nella storia della cultura, dalle origini della Bibbia fino al Novecento, attraverso il confronto con il giudaismo e l'ellenismo, la nascita della filologia cristiana con Origene, Eusebio e Girolamo, il medioevo tra Oriente bizantino e Occidente latino, lo splendore dell'umanesimo, la grande erudizione tra Cinquecento e Settecento, il rapporto problematico della tradizione culturale cristiana con la modernità.
Giovanni Maria Vian insegna Filologia patristica nell'Università di Roma "La Sapienza". Ha studiato soprattutto l'interpretazione della Bibbia nel giudaismo e nel cristianesimo antichi e il papato in età contemporanea. Ha tra l'altro pubblicato nel 1978, in edizione critica, Testi inediti dal commento ai Salmi di Atanasio.
ISBN 88-430-1867-1
Lire 42.000 € 21,69
I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore via Sardegna 50, 00187 Roma, telefono 06 42 8 1 84 17,
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Giovanni Maria Vian
Bibliotheca divina Filologia e storia dei testi cristiani
Carocci editore
1• edizione, maggio 2001 © copyright 2001 by Carocci editore S.p.A., Roma
Finito di stampare nel maggio 2001 per i tipi delle Ani Grafiche Editoriali Sri, Urbino ISBN 88-430-1867-1
Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume
anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.
Indice
I.
2.
3.
Premessa
II
Prologo tra storia, ideologia e cultura
15
Filologia, anzi storia Una disciplina dai larghi confini Cultura cristiana? Un fenomeno plurale Lo specifico di una filologia
15 18 21
Alle origini Bibbia e libri Nascita di una Scrittura La Scrittura ebraica letta dai cristiani La Bibbia cristiana Aristea, la Settanta e le altre Manoscritti biblici e codici: il libro cristiano
44 47
Cristianesimo e culture
53
L'eredità del giudaismo ellenistico Il filosofo martire e la sapienza dei pagani L'orgoglio dei barbari La cultura asiatica Roma e i suoi vescovi
53
7
31 36 39
57
60 64 68
4·
La cultura alessandrina: Origene
73
I predecessori: da Filone a Clemente Intellettuali e cristiani Filologia e ideologia Gli Esapla e la loro storia Libri e biblioteche tra Alessandria e Cesarea 5.
L'eredità alessandrina: Eusebio Un filologo martire e il suo pupillo Il vescovo e la sua eredità La Bibbia tra diffusione e critica Novità: la storia ecclesiastica Libri, traduzioni, falsi
6.
7.
94 97 101
Tra Oriente e Occidente: Girolamo
109
L'incubo del cardinale eremita Tra filologia e polemiche Lettere, strumenti di lavoro, traduzioni La propaganda monastica e la letteratura dei cristiani L'uomo trilingue e la Volgata
109
Gli ultimi bagliori di un mondo
127
Monaci e libri Ambrogio e le sue fonti La parabola di Agostino Tra storie letterarie ed enciclopedie Storie, florilegi, catene 8.
91
Il medioevo, ovvero la leggenda dei secoli bui Tra greci e latini Il miracolo delle isole L'imbuto della traslitterazione Il patriarca recensore Da una rinascita ali' altra 8
112
116
120 123
127 131 1 35
140 1 44
1 49
9.
IO.
I I.
12.
Lo splendore dell'umanesimo
171
La passione della scoperta Il cardinale greco e la fine del mondo Contro Costantino Papi, traduttori, libri e biblioteche Si stampi, cominciando dalla Bibbia
171 176 181 185 190
I frutti della grande erudizione
197
Pubblicare tra controversie e censure Cattolici, protestanti, anglicani L'epopea maurina tra gesuiti e giansenisti Tutti i santi dei bollandisti All'attacco del Nuovo Testamento
197 204 211 218 224
La fine della continuità
231
Genio e libri d'un prete di campagna Si parla tedesco Ancora la Bibbia Il cardinale non sbaglia mai Deserti, biblioteche, informatica
231 2 37 242 247 253
Un epilogo tra testi e studi
261
Fonti, strumenti, problemi La Bibbia e la sua storia Antichità Medioevo e umanesimo Età moderna e contemporanea
261 265 270 275 278
Riferimenti bibliografici
283
Indice dei nomi e delle materie
3o5
9
Premessa L'attenzione è il solo cammino verso l'inesprimibile, la sola strada al mistero '
Questo libro vuole narrare una passione: non tanto quella dell'autore (che certo non la nega), quanto piuttosto degli uomini che sono stati protagonisti d'una ricerca incessante. È la storia, qui abbozzata in un primo tentativo, della ricerca intorno a una parola, presto scritta, che si ritiene ispirata da Dio e anzi da lui pronunciata. Una parola che già il primo cristianesimo crede divenuta carne in Gesù e che viene poi scritta, quasi incarnata anch'essa, come suggerisce in un testo quattrocentesco l'ardito paragone fra il libro tenuto tra le mani e il bambino Gesù tra le braccia del giusto Simeone 2 • Questa parola diviene la Scrittura per eccellenza e a sua volta è alla radice d'innumerevoli altre scritture, i libri di Dio e su Dio: bibliotheca divina, appunto, espressione che Girolamo usa, in una lettera e nelle notizie biografiche su Panfilo e su Eusebio ~, per riassumere l'oggetto di quella passione comune a entrambi e da lui stesso condivisa. Tutte queste scritture dunque, e la passione che esprimono e suscitano, sono al centro di questo profilo. Ecco perché la filologia qui tratteggiata è, nei suoi protagonisti anche minori e dimenticati, amore per la parola, nel senso più impegnato dal punto di vista ideologico (o, se si vuole, teologico), ma certo anche in quello più proprio e tecnico. Entrambi gli aspetti s'intrecciano poi nella trasmissione di questo patrimonio anche culturale, il cui apporto risulta fondamentale per la comprensione della storia di buona parte dell'umanità e dello stesso mondo contemporaneo. La vicenda qui narrata non è quindi soltanto in senso stretto una storia della filologia dei testi cristiani e La citazione è tratta dallo scritto di Cristina Campo intitolato Atteni.ione e poesia, edito per la prima volta nel 1962 in Fiaba e mistero e ripubblicato in Campo 1987, p. 167. 2. Il paragone - che allude a un episodio evangelico (Luca 2, 25-32) - è nel Doctrinale iuvenum di Tommaso da Kempis, forse autore dell'Imitatio Christi, ed è citato in Vian 1980, p. 33. 3. Cfr. Epistu!a 34, r e De viris inluJtribus 75 e Br.
BIBLIOTI IECA DIVINA
sui testi cristiani - espressione che considero sinonimo di filologia patristica - ma in un'ottica più larga anche una storia della trasmissione di questi testi, e in definitiva della stessa tradizione culturale cristiana. Abbozzata nell'autunno del 1992, l'idea di questo profilo è nata dalla constatazione della mancanza anche solo d'un semplice strumento d'avvicinamento alla storia della tradizione dei testi cristiani, analogo nell'intenzione a quello eccellente scritto per i testi classici da due studiosi inglesi 4 • Apre questo volume un primo capitolo di carattere generale che spiega l'accezione larga secondo la quale sono qui intesi il termine filologia e l'espressione filologia patristica. Segue l'esposizione vera e propria, dalle origini della Scrittura ebraica alla fine del Novecento, con un apparato di note che vuole essere soltanto un supporto leggero al -testo, in particolare nelle parti dedicate all' antichità e al medioevo, ma che invece più avanti, soprattutto a partire dal capitolo sull'umanesimo, diviene una forma di necessaria integrazione del testo stesso, reso più complesso e affollato dalla materia sovrabbondante. In omaggio poi al detto latino secondo il quale "nel sapere dove tu possa trovare qualcosa risiede gran parte dell'erudizione" (scire uhi aliquid possis invenire magna pars eruditionis est), conclude il profilo un capitolo che, senza alcuna pretesa d'esaustività, vuole offrire soprattutto spunti per ulteriori letture. Completano il volume un elenco dei riferimenti bibliografici citati nelle note in forma abbreviata e un dettagliato indice dei nomi e delle materie inteso a facilitare il riconoscimento degli innumerevoli fili che s'intrecciano nella tradizione dei testi cristiani. Le versioni dei pochi testi citati sono mie ove non sia indicato altrimenti, i titoli delle opere antiche in genere sono dati secondo la forma latina più usata e per la traslitterazione da alfabeti non latini sono seguite le norme internazionali, senza l'indicazione della quantità delle vocali. Nelle informazioni bibliografiche. sono state rispettate le forme originali, con lievi adattamenti soprattutto a un uso sobrio delle maiuscole, mentre per le edizioni critiche sono fornite, per non appesantire troppo il testo, soltanto le informazioni necessarie a reperirle. A diverse persone questo libro, scritto quasi tutto dal luglio 1999 all'ottobre 2000, deve molto e ad altri poi moltissimo - non certo gli errori e le manchevolezze, che risalgono infallibilmente nella loro totalità all'autore - ma mi è qui impossibile menzionare nomi e posso solo riconoscere debiti permanenti a mia madre Cesarina Ghioldi, 4. Si tratta di Reynolds e Wilson 1 987. Per la storia dei testi cristiani ricchissimo materiale offre comunque Ghellinck 1947.
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PREMESSA
scomparsa quando ancora non pensavo a questo volume, a mio padre Nello Vian e a mia moglie Margarita Rodriguez, che fino ai loro ultimi giorni nell'inverno e nella primavera dell'anno scorso m'hanno accompagnato nella sua scrittura, a Manlio Simonetti magistro e a Gianluca Mori, la cui intelligenza aperta ha subito creduto a quest'idea accogliendola nei programmi editoriali di Carocci. Alla memoria dei miei genitori e di mia moglie, cum sanctis in Deo, il libro è dedicato. Roma
2
aprile
2001
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I
Prologo tra storia, ideologia e cultura
Filologia, anzi storia Il termine "filologia" viene correntemente spiegato come studio di una lingua e di una letteratura, anche se l'uso comune lo restringe piuttosto all'approfondimento di un testo secondo un metodo che mira innanzi tutto a ricostituirne l'originale attraverso le fasi della sua trasmissione. Queste due definizioni riassumono di fatto modi diversi d'intendere la filologia: il primo, più largo, la considera in definitiva disciplina storica per eccellenza in quanto la vuole sinonimo di ogni tentativo di comprensione globale del passato (e questa operazione non può certo prescindere dalle fonti, che è indispensabile ricostruire ed esaminare criticamente appunto secondo il metodo filologico); il secondo invece appare più ristretto, volto com'è a privilegiare gli aspetti letterari dei testi e quelli più tecnici del metodo stesso, cioè la critica testuale e la tecnica dell'edizione, che rimangono in ogni caso passaggi obbligati. A rappresentare questi modi diversi d'intendere la filologia resta celebre la polemica che in uno dei suoi periodi più fecondi, quello della maturazione moderna (e quindi non per caso in ambito tedesco), oppose a Karl Otfried Miiller (1797-1840), allievo di August Boeck, il più anziano Gottfried Hermann (1772-1848) nel cosiddetto Eumenidenstreit ("discussione sulle Eumenidi") suscitato dalla prefazione (1833) di Miiller alla tragedia eschilea. Il dibattito tra i due grandi filologi - al di là dei suoi aspetti particolari (la reazione di Hermann alla più ampia concezione di Miiller non era del tutto immotivata in quanto criticava alcuni punti deboli proprio della ricostruzione filologica dell'avversario) - è emblematico di una dialettica non superata tra due visioni opposte della disciplina. Così le armonizzava nel 1950 Gino Funaioli: La filologia è una disciplina che vuole ridare storicamente l'unità spirituale di un popolo attraverso le manifestazioni dell'essere suo, la poesia, le lettere
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BIBLIOTI-IECA DIVINA
e l'arte in prima linea, ma poi il pensiero, la religione, l'etica, il mito, la vita pubblica e la privata e così via: vuol essere insomma, quale s'intende da più d'un secolo, ricostruzione critica e storica delle età culturali d'un popolo, più direttamente delle sue espressioni artistiche, delle rivelazioni del genio individuale. In senso più stretto filologia fu ed è investigazione del linguaggio soprattutto greco e romano, critica dei testi di poesia e di prosa, esegesi, valutazione letteraria ed estetica ' .
E già trent'anni prima, sulla scia di Boeck e Miiller, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff aveva presentato la visione emozionata ed emozionante di una disciplina totale e unitaria volta alla rievocazione della «civiltà greco-romana nella sua essenza e in tutte le espressioni della sua vita», civiltà anch'essa caratterizzata da una profonda unità: Il compito della filologia è di far rivivere con la forza della scienza quella vita scomparsa, il canto del poeta, il pensiero del filosofo e del legislatore, la santità del tempio e i sentimenti dei credenti e dei non credenti, le molteplici attività sul mercato e nel porto, in terra e sul mare, gli uomini intenti al lavoro e al gioco. Come in ogni scienza, o in ogni filosofia, per dirla alla greca, anche qui si comincia con lo stupore che suscita ciò che non si capisce; lo scopo è di arrivare alla pura e felice contemplazione di ciò che si è capito nella sua verità e bellezza. Poiché la vita che noi ci sforziamo di comprendere è un'unità, anche la nostra scienza è un'unità. L'esistenza di discipline distinte come la filologia, l'archeologia, la storia antica, l'epigrafia, la numismatica, ora anche la papirologia, è giustificata soltanto dai limiti delle capacità umane e non deve soffocare, neppure nello specialista, la coscienza dell'insieme'.
Disciplina rivolta ali' accostamento e ali' approfondimento delle fonti sopravvissute, la filologia appare quindi come storia in senso pieno (anche in quanto presa di coscienza della sua complessità), e innanzi tutto storia della cultura, certo intesa nel senso di cultura scritta - e in questo senso una storia inevitabilmente di gruppi ristretti, soprattutto fino all'epoca contemporanea - ma nella consapevolezza sia della rilevanza che, in particolare nell'età antica, ebbe la cultura orale sia dell'accezione più larga del termine cultura, come equivalente cioè di mentalità. Nata in ambito ellenistico e sviluppatasi storicamente soprattutto sui testi greci e latini, a partire dall'Ottocento la filologia s'è diversificata adattando il suo metodo, nella sostanza profondamente unitario, alle problematiche particolari dapprima delle letterature medievali 1.
2.
Funaioli 1950, col. 1337. Wilamowitz-Moellendorff 1967, p. 19.
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PROLOGO TRA STORIA, IDEOLOGIA E CULTURA
(germaniche, romanze, slave), poi di quelle greche e latine dei periodi bizantino, medievale e umanistico, e infine delle letterature nelle diverse lingue orientali e moderne. In questo sviluppo storico un ruolo di primo piano è stato svolto dalla Bibbia e dalle vicende del suo testo: addirittura nel contesto del giudaismo ellenistico affondano le più lontane radici della filologia biblica, maturata poi in ambito cristiano in continuo rapporto con i più diversi contesti culturali. E d'altra parte è fondamentale notare come a sua volta la critica sul testo biblico si sia di fatto sempre vitalmente nutrita degli sviluppi della scienza filologica nelle sue varie articolazioni. È in questo senso significativo che con l'età moderna il termine "sacro" - (hàgios, sacer, sanctus), di norma usato in ambito giudaico e poi cristiano per denominare la Scrittura considerata ispirata dalla divinità - venga applicato estensivamente a opere che intendono introdurre al suo studio, più o meno fondato su basi critiche e più o meno influenzato dalle diverse ortodossie che reggono ormai il mondo cristiano frantumato dopo la Riforma protestante: dai tre volumi dell'Apparatus sacer ad scriptores Veteris ac Navi Testamenti (1603-1606) del gesuita Antonio Possevino alla Philologia sacra (1623) di Salomon Glassius e alla Critica sacra (1650) di Louis Cappe!, opere entrambe caratteristiche della teologia protestante del Seicento, nel cui ambito anzi nasce una vera e propria disciplina denominata appunto critica sacra. Al luteranesimo seicentesco risale anche l'origine dell'aggettivo "patristico" - usato significativamente nell'espressione theologia patristica e con riferimento all'accezione, già diffusa nel cristianesimo antico, di "padre" nel senso di scrittore cristiano autorevole per dottrina - e così dall'aggettivo e dalla sua accezione teologica si passa al sostantivo "patristica" a significare in primo luogo il complesso di dottrine dei Padri della Chiesa. Nello stesso ambiente culturale viene coniato anche il termine "patrologia", che compare per la prima volta nella fortunata Patrologia sive de primitivae ecclesiae Christianae doctorum vita ac lucubrationibus opusculum posthumum (1653) del teologo luterano Johann Gerhard, che ebbe tre edizioni in vent'anni e sortì l'effetto di diffondere il vocabolo con il significato di studio soprattutto storico e letterario dei Padri. Ma i due termini, connotati da sfumature diverse (teologica nel primo e più storica nel secondo), presto si confusero, divenendo di fatto intercambiabili, con l'ovvia prevalenza dell'aggettivo patristico che estensivamente fu applicato a ogni autore cristiano antico e medievale (e anche più recente), prescindendo persino da valutazioni d'ordine dottrinale. Lo stesso Gerhard era arrivato nella Patrologia a trattare addirittura del suo concorrente cattolico, il gesuita Roberto Bellarmino (l'avversario di Gali-
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lei, poi santo e dottore della Chiesa), che nel suo diffusissimo De scriptoribus ecclesiasticis (1613) s'era già spinto fino al Cinquecento. In questo senso ampio il termine patristico è tuttora usato, anche se nel Novecento viene ristretto cronologicamente entro termini variabili, in genere fino agli autori vissuti più o meno entro la metà dell'ottavo secolo: convenzionalmente fino a Giovanni di Damasco per l'Oriente di lingua greca e fino a Beda per l'Occidente latino.
Una disciplina dai larghi confini Che intendere allora per filologia patristica? Il significato immediato è quello più limitato di filologia applicata ai testi dei Padri della Chiesa, e qui è importante sottolineare quanto già s'è accennato sulla sostanziale unitarietà del metodo filologico: questo è cioè lo stesso indipendentemente dai testi dei quali si occupa, siano essi per esempio classici o bizantini o umanistici, al di là degli adattamenti a problematiche particolari e specifiche. I testi patristici non sono separati dagli altri e come gli altri vanno quindi accostati. Apparentemente banale e pacifica, questa conclusione si basa in realtà su un importante connotato di fondo rilevato da un anonimo cristiano di lingua greca vissuto probabilmente verso la fine del secondo secolo: «I cristiani infatti non si distinguono dal resto degli uomini né per origine né per lingua né per costumi. Tant'è vero che non abitano città loro proprie né parlano una qualche strana lingua né vivono in modo particolare» 3 • Come quindi i cristiani non sono un corpo separato nelle diverse società umane dal punto di vista culturale, nemmeno i loro testi costituiscono un insieme a parte, né di conseguenza vanno letti diversamente da tutti gli altri. In questo senso dunque la filologia patristica non può essere confinata entro ambiti riservati - appellandosi per esempio all'elaborazione teologica alla quale si vorrebbe funzionale - né tanto meno il suo metodo dev'essere limitato da presupposti confessionali. In altre parole la disciplina non è una riserva di caccia per teologi, né può essere in alcun modo condizionata da esigenze di tipo ideologico e nemmeno reclamare statuti teologici. I testi patristici non sono quindi diversi dagli altri, ma al tempo stesso proprio per questa stessa ragione non sono meno importanti degli altri, come spesso sono stati e sono ancora talvolta di fatto considerati, per esempio in molti casi dai filologi classici, nelle storie •delle letterature e in definitiva nella stessa considerazione comune. 3. Ad Diognetum 5,
1-2.
18
PROLO(;O TRA STORIA, IDEOLOC;IA E CULTURA
Confini aperti dunque dal punto di vista ideologico, ma confini larghi anche nella concezione della disciplina. Innanzi tutto per quanto riguarda il rapporto con i testi scritturistici e quindi con quella che spesso si definisce filologia biblica, non senza una certa genericità (si pensi soltanto alle diverse lingue bibliche). Senza improprie estensioni di ambiti e competenze è comunque necessario considerare oggetto della filologia patristica anche quelli che sono senza ombra di dubbio i più antichi testi cristiani e che solo con gli anni si sono stabilizzati a costituire il Nuovo Testamento, e con questi la Scrittura ebraica tradotta in greco. Questa infatti durante i primi decenni del movimento awiato dai seguaci di Gesù è stata anche per loro l'unica raccolta di testi considerati ispirati divinamente. Già Girolamo aveva incluso nel suo De viris inlustribus gli apostoli e gli altri autori neotestamentari, che aprono così la prima storia letteraria cristiana, pubblicata nel 393, e in questo senso specifica anche nei confronti della sua fonte, l'Historia ecclesiastica di Eusebio, modello a sua volta di storia totale. Canonizzate e sacralizzate le Scritture e costituitasi attraverso processi complessi la tradizione ecclesiastica nelle diverse ortodossie, neWEuropa ormai uscita dalla Christianitas medievale e awiata verso la secolarizzazione, motivazioni d'ordine ideologico s'intrecciano a quelle derivanti dalla crescente autonomia critica delle singole discipline a separare gli scritti neotestamentari e biblici in generale da quelli patristici. Se infatti da una parte la critica biblica acquisisce una fisionomia propria espandendosi e richiedendo sempre più competenze specialistiche e di fatto esclusive (e un processo analogo si può osservare anche per gli studi patristici), dall'altra sono proprio le esigenze dottrinali delle diverse Chiese cristiane che portano a distinguere tra i testi cristiani antichi, ancor più di quanto non si fosse fino ad allora fatto, quelli considerati rivelati e i successivi ritenuti parte della tradizione. Questa distinzione, certo legittima e sostenibile non solo in un'ottica teologica cristiana ma anche in nome della specificità delle singole discipline, non ha però alcun fondamento storico e anzi il suo superamento almeno in prospettiva non può che essere fecondo proprio ai fini di una comprensione unitaria dei testi stessi. Questi allora saranno approfonditi sì da specialisti diversi ma nella consapevolezza di affrontare una realtà complessa e lontana, che proprio dalla messa a frutto di tutti gli elementi disponibili ha qualche possibilità d'essere maggiormente rischiarata. Si aggiunga che la letteratura biblica giudaica e cristiana non si esaurisce in quella poi divenuta canonica e si comprenderà ancora più facilmente come il complesso di queste fonti non possa che essere accostato se non in un quadro comprensivo. Come quindi la filologia patristica non può trascurare
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la letteratura biblica, allo stesso modo non può non tenere conto e non occuparsi (senza naturalmente intenzioni annessionistiche) di una letteratura strettamente contigua come quella giudaico-ellenistica della quale fanno parte sia libri biblici sia autori fondamentali per lo sviluppo e la comprensione del cristianesimo: basti pensare a come Eusebio considera Filone, presentato quasi fosse «dei nostri» 4 , e alla inclusione del giudeo alessandrino, insieme a Flavio Giuseppe e a Giusto di Tiberiade (i due storici ebrei tra loro avversari), nel De viris inlustribus di Girolamo. Anche dal punto di vista cronologico i confini della filologia patristica sono molto più larghi dei limiti che la vogliono ristretta al tardoantico o anche all'alto medioevo. Non si vuole certo qui assumere l'ottica corrente fino all'Ottocento che considerava testi patristici anche tutti quelli bizantini e i medievali latini fino agli inizi del Duecento (compresi, per somma fortuna degli innumerevoli lettori, nelle due incomparabili raccolte realizzate da Jacques-Paul Migne), ma piuttosto sottolineare che in una concezione larga della disciplina questa deve ovviamente includere anche la storia dei testi cristiani e delle loro vicende, senza certo volersi sobbarcare i compiti, per esempio, della filologia bizantina o medievale o umanistica, bensì allargando lo sguardo ad autori e a momenti di storia della cultura anche molto lontani dall'età patristica. Per restare agli ambiti appena elencati, come non considerare in quest'ottica perfettamente attinenti la filologia patristica Fazio o le vicende del testo biblico latino durante il medioevo, o ancora la storia delle edizioni e l'avvio della filologia critica in epoca moderna? Come sarebbe infine possibile trascurare l'influsso creativo esercitato dagli studi critici biblici e patristici sulla storia della filologia e della cultura in generale nonché il pieno affermarsi nel Novecento di questi stessi studi? Un ultimo importante aspetto che in una visione panoramica della storia dei testi cristiani non può essere omesso riguarda i caratteri culturali del cristianesimo. Nato sul tronco del giudaismo - a sua volta radicato originariamente nel contesto semitico ma poi coinvolto da un'ellenizzazione profonda e da influssi orientali d'origine diversa - il movimento avviato dai credenti in Gesù come Cristo 5 si propaga rapidamente dalla Giudea al bacino mediterraneo e verso Oriente, e in greco legge e fa proprie le Scritture ebraiche, come greca è la prima 4. Historia ecclesiastica II, 4, 2. 5. Il nome trae origine da christòs, cioè "unto" da Dio, traduzione greca dell'e-
braico mashiah, da cui il calco, già nel latino dei cristiani, "messia", denominazione di una figura di liberatore, re e salvatore d'Israele.
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PROLOGO TRA STORIA, IDEOLOGIA E CULTURA
produzione letteraria cristiana. Verso la fine del secondo secolo al greco s'affiancano il latino e il siriaco, e a queste tre lingue s'aggiungono in seguito diverse altre orientali (copto, poi armeno, arabo ed etiopico, per limitarsi alle principali e all'epoca più antica), fondamentali non solo per le proprie tradizioni ma anche perché spesso risultano gli unici tramiti per risalire a testi originalmente greci. Le competenze certo non possono estendersi alle diverse lingue e culture cristiane, ma anche da questo punto di vista è indubbio che i confini della filologia patristica sono molto più larghi di quelli del mondo ellenizzato e poi unificato dal dominio romano.
Cultura cristiana? L'estensione appena accennata dei confini molto larghi della filologia patristica deriva certo da una concezione ampia della disciplina - che dagli imprescindibili aspetti tecnici la dilata fino a farne tendenzialmente una storia della cultura - ma in buona parte anche dalla natura stessa del fenomeno cristiano esaminato proprio dal punto di vista di una storia della cultura. Senza addentrarsi nel ginepraio del dibattito sul concetto di cultura, basterà ricordare l'oscillazione tra un'accezione più limitata del termine che lo restringe a un complesso elaborato di conoscenze e un'altra che ne fa un sinonimo di mentalità, di modo di pensare e interpretare la realtà, e notare come queste due concezioni di cultura non siano poi così lontane e definite nei rispettivi confini. Premesso questo, il problema di fondo riguarda il rapporto tra cristianesimo e cultura, intesa piuttosto nel senso più ampio: è cioè possibile identificare il cristianesimo come cultura? E si può parlare di cultura cristiana? La questione è naturalmente molto complessa e di fatto attraversa l'intera storia del cristianesimo fin dalle sue origini nel cuore di un giudaismo che all'epoca della dominazione romana doveva essere molto più sfaccettato e variegato di quanto non sia possibile oggi non solo ricostr\iire ma anche immaginare: ellenizzato e attraversato da contrasti nella stessa Palestina, il giudaismo si presentava infatti diffuso e altrettanto diversificato in tutta l'ecumene mediterranea. In questa situazione anche culturalmente molto complicata i seguaci di Gesù, che prestissimo diventano propagandisti attivi ed efficaci, accentuano sia pure con toni tra loro diversi le aspirazioni universaliste già presenti in alcuni testi scritturistici giudaici, avviando di fatto una competizione senza quartiere all'interno del giudaismo. Anche se per la scarsità delle fonti non è facile ricostruire le tappe di questo pro21
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cesso, i cnsuani (che circa dagli anni Quaranta del primo secolo iniziano a essere così denominati ad Antiochia) 6 giungono a separarsi dal tronco originario nel giro di pochissimi decenni, più o meno entro gli inizi del secondo secolo. Il processo di separazione dal giudaismo procede insieme all'elaborazione della prima letteratura cristiana (quella che, radicata nelle Scritture sacre giudaiche, rispetto a queste presto viene denominata "nuovo testamento") e determina di fatto le caratteristiche culturali più profonde di questo giudaismo nuovo connotato dalla fede in Gesù come Cristo e da una spinta fortissima ali' universalismo. Si potrebbe naturalmente insistere lungamente su questa tendenza universale del cristianesimo e in pari tempo mostrare le innegabili radici giudaiche di questa stessa tendenza insieme alla nuova capacità propagandistica ed espansiva dei seguaci di Gesù, ma qui importa rilevare come il motivo dell'universalità sia ripreso costantemente già dai testi cristiani più antichi e divenga un elemento connotante quella che presto viene identificata anche dall'esterno come una nuova credenza. Nello sforzo d'acquisire un'identità ben definita rispetto soprattutto alla matrice giudaica 7 , la caratteristica della Chiesa cristiana all'aspirazione universale - katholikòs significa proprio "universale" ed è applicato in questo senso alla Chiesa almeno dagli inizi del secondo secolo 8 - viene spesso contrapposta al particolarismo nazionale giudaico. Così non è senza significato che l'anonimo autore del testo già citato scriva che i cristiani sono combattuti "come stranieri" (allòphyloi) 9 dai giudei, di fronte ai quali due secoli dopo Giovanni, il grande predicatore poi chiamato "bocca d'oro" (chrysòstomos), proclama con orgoglio: «E voi poi siete un solo popolo, noi invece tutta la terra» rn. Se storicamente è impossibile negare allo sviluppo del cristianesimo soprattutto durante il primo millennio questa vocazione ecumenica che connota con una progressiva continuità la sua espansione e gli
6. La notizia è in Atti degli apostoli rr, 26; cfr. Taylor 1994. 7. Questa «radice» (Romani rr, r6) per i cristiani ha sempre costituito un nodo
fondamentale, problematico quanto si vuole ma inevitabile e soprattutto irrinunciabile. 8. La prima occorrenza del termine è infatti nella lettera Ad Smyrnenses (8, 2) attribuita a Ignazio vescovo di Antiochia. Solo dopo la Riforma protestante "cattolico" ha assunto comunemente l'accezione che lo restringe alla Chiesa romana. 9. Ad Diognetum 5, 17. Nello stesso senso il vocabolo era stato messo in bocca a Pietro in Atti degli apostoli ro, 28 ed era usato nella versione greca delle Scritture giudaiche per denominare i filistei. ro. L'espressione è tratta dal commento al salmo 109 (PG 55, col. 267).
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PROLOGO TRA STORIA, IDEOLOC;(A E CULTURA
stessi caratteri del suo adattamento a culture anche molto diverse - si pensi alla diffusione in Oriente e verso l'Etiopia e in Occidente ali' evangelizzazione delle popolazioni slave - è altrettanto indiscutibile che a partire dall'età moderna e fino al Novecento lo sviluppo delle missioni cristiane si caratterizza invece per il restringersi di questa espansione universale prevalentemente a un concetto geografico mentre s'attenua la sua portata culturale. Paradossalmente infatti proprio quando i missionari giungono davvero in tutto il mondo, secondo il mandato di Gesù risorto, la progressiva identificazione tra l' evangelizzazione e le culture prevalenti nelle Chiese protagoniste di questa espansione missionaria (che sono soprattutto quelle occidentali) riduce in misura consistente la capacità del cristianesimo di radicarsi in culture lontane e diverse dall'ambito europeo, anche se questo processo non è del tutto lineare e senza contrasti, come dimostra la secolare questione sulla legittimità dei riti cinesi, giapponesi e malabarici sorta nel cattolicesimo già alla fine del Cinquecento. Solo nel Novecento, in un contesto che da molti punti di vista (culturale, economico, politico) registra modificazioni sostanziali nelle relazioni tra l'Occidente eurocentrico e il resto del mondo, anche il problema del rapporto tra cristianesimo e cultura viene avvertito in termini che, soprattutto in ambito cattolico e già nel periodo tra le due guerre mondiali, permettono d'iniziare a distinguere tra evangelizzazione e civilizzazione (o, se si vuole, colonizzazione). Si arriva così al concilio Vaticano 11 (1962-1965), che nel suo documento sulla Chiesa nel mondo contemporaneo intitolato Gaudium et spes afferma come vi sia una sostanziale diversità tra il messaggio cristiano e le diverse culture nelle quali viene diffuso e alle quali non può essere legato in modo esclusivo. In questo senso quindi non è possibile considerare il cristianesimo come cultura - e tanto meno identificarlo con una cultura particolare, fosse anche quella occidentale ed europea che pure dal cristianesimo è stata profondamente segnata e modellata - né parlare di cultura cristiana in senso assoluto, sia perché si ridurrebbe il cristianesimo entro termini che in quanto religione universale esso riconosce non costitutivi né indispensabili, sia perché storicamente la definizione di cultura cristiana è incompleta (quando addirittura non assuma valenze ideologiche e tendenze all'assolutizzazione) e dev'essere. ulteriormente precisata per essere utilizzabile. Una discussione specifica, espressione anche di diverse sensibilità e posizioni nelle vicende ecclesiali contemporanee e sulla presenza dei cristiani nella società, si è tuttavia riaperta all'interno del cattolicesimo successivo al Vaticano II sulla possibilità di parlare di una cui23
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tura cristiana proprio in epoca patristica, ma anche da parte dei sostenitori di questa ipotesi la conclusione sembra in definitiva eludere il problema, riassumendosi nella proposta di considerare cultura cristiana quella fatta da cristiani. La questione è comunque molto complessa perché, riconoscendo da una parte l'impossibilità d'interpretare il cristianesimo come cultura, è necessario dall'altra avere coscienza dei tratti molteplici che iniziano a connotarlo fin dalle origini mediante il confronto con i mondi circostanti dei quali pure partecipa, permanendo aperto un dibattito che è un vero e proprio classico storiografico. All'interno infatti del diversificatissimo giudaismo coevo la competizione e la necessità d'identificazione spingono la nuova credenza a delineare la propria identità attraverso una contrapposizione decisa nei confronti sia del suo tronco originario sia del più vasto contesto ellenistico, rimanendo di entrambi culturalmente debitrice.
Un fenomeno plurale Se tanto complessi risultano il problema dell'identità cnsuana (ben diversa da un'ipotetica cultura cristiana) già alle sue origini e il successivo permanente rapporto della nuova religione con il giudaismo e l'ellenismo, più chiare sembrano le caratteristiche di quella che già si è definita la vocazione ecumenica, e per questo pluriculturale, del cristianesimo. S'è già accennato alla pluralità del contesto giudaico in cui si svolge la predicazione di Gesù e quindi quella dei suoi seguaci. Sempre più infatti la Palestina agli inizi dell'era cristiana viene riconosciuta come un paese estesamente ellenizzato (anche nelle fasce più ostili dal punto di vista religioso e da quello politico agli stranieri) e attraversato da divisioni, ben al di là delle semplificazioni che soprattutto in passato distinguevano in modo artificioso e secondo abusati stereotipi un giudaismo palestinese, rappresentato come omogeneamente impermeabile all'ellenismo, da un giudaismo che invece nelle comunità della diaspora (disseminate cioè nel bacino mediterraneo a occidente della Palestina e, a oriente, in Mesopotamia) sarebbe stato caratterizzato dall'apertura ali' ellenismo. In questo giudaismo plurale, che traspare bene dalla presentazione di Flavio Giuseppe, anche la corrente originata dai credenti in Gesù come messia s'espande rapidamente articolandosi in tendenze che rispecchiano più o meno quelle del contesto giudaico più ampio e traspaiono anche dalla ricostruzione idealizzata dell'autore degli Atti degli apostoli. Ed è proprio questo testo a indicare nel racconto della prodigiosa predicazione de-
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gli apostoli nel giorno di Pentecoste l'obiettivo universale e l'esito pluriculturale del loro annuncio: ripieni di spirito divino gli apostoli iniziano a parlare «in altre lingue» e i giudei presenti a Gerusalemme «da ogni nazione del mondo» li ascoltano «ciascuno nella propria lingua», espressione che l'autore ripete due volte, la seconda nel discorso diretto che vuole rappresentare idealmente il giudaismo di tutto il mondo attraverso un'enumerazione di popoli abitanti regioni diverse (dalla Mesopotamia alle coste mediterranee dell'Asia, dall'Egitto e dalla Libia cirenaica a Roma, fino a Creta e l'Arabia) forse tradizionale e ripresa dall'autore del testo Questi, presentando il prodigioso esordio degli apostoli - a cui segue il discorso di Pietro, importante per la ricostruzione dei contenuti della prima predicazione cristiana sembra voler dire che l' annundo apostolico è destinato a realizzare le aspirazioni universalistiche del giudaismo al di là di ogni differenza linguistica e culturale. Grazie anche alla diffusione geografica della diaspora giudaica, a partire grosso modo dalla metà del primo secolo l'espansione cristiana diviene rapida, articolandosi in una miriade di comunità di tendenze anche diverse e con tratti culturali non di rado molto differenziati tra loro, come già era avvenuto per il giudaismo. Volendo riassumere con un'immagine schematica si può dire che nei primi due o tre secoli dell'era cristiana a un pluralismo giudaico corrisponde un cristianesimo plurale o, più radicalmente, che ai diversi giudaismi tra i quali all'inizio è possibile iscrivere, come già s'è detto, anche la corrente originata dalla predicazione di Gesù - s'aggiungono anche tanti cristianesimi. Nel loro ambito, dal punto di vista linguistico (e quindi culturale), insieme all'aramaico e all'ebraico (che sono la lingua parlata e quella originaria della quasi totalità delle Scritture sacre del giudaismo), fin dalle origini s'impone sempre più il greco, la "lingua comune" (koinè diàlektos) dell'ecumene ellenizzata ormai da più di tre secoli e soggetta in gran parte al dominio di Roma. In greco tra l'altro sono tradotte (e in parte anche composte) le Scritture giudaiche, che spesso sono spiegate in aramaico dando origine a parafrasi (i targumim, plurale di targum, "traduzione") più tardi raccolte. In questo ambiente linguisticamente e culturalmente misto si collocano le origini delle Scritture cristiane, forse in piccola parte risalenti a originali aramaici ma tutte composte in greco tra la metà del primo secolo e gli inizi del secondo. Soltanto di lingua greca è per oltre un secolo 11
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11. La festa giudaica per la mietitura venne così denominata in greco per la sua ricorrenza cinquanta giorni dopo la Pasqua. 12. La descrizione del prodigio è in Atti degli apostoli 2, 1-13.
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la produzione letteraria cristiana e, solo nella seconda metà del secondo secolo, con le prime traduzioni bibliche, iniziano quelle in siriaco e in latino. Al terzo secolo poi vengono fatti risalire gli esordi della letteratura cristiana copta, anch'essa aperta dalle traduzioni bibliche. È naturalmente molto significativo che le traduzioni delle Scritture sacre segnino l'inizio delle diverse letterature cristiane, se non addirittura, in alcuni ambiti linguistici, della stessa produzione letteraria scritta: il caso più antico è quello della versione gotica, a metà del quarto secolo, e il più celebre quello della traduzione in slavo antico, iniziata nel nono secolo, per le quali vengono appunto creati i rispettivi alfabeti dal vescovo Ulfila, evangelizzatore dei goti, e dai due "apostoli degli slavi", i fratelli Costantino (poi chiamatosi da monaco Cirillo) e Metodio. Agli inizi del quinto secolo sono attribuite le traduzioni in armeno e in georgiano, mentre per le altre versioni bibliche, spesso frammentarie e soprattutto non indagate a sufficienza, restano incerte le origini, di frequente presentate in racconti leggendari, e quindi la collocazione cronologica: così si discute se quelle in etiopico siano da far risalire al quarto oppure al sesto secolo, se quelle nubiane al sesto secolo e le arabe al nono, mentre s'ignora quasi tutto per quelle realizzate nell'Asia centrale, come le traduzioni in sogdiano e in persiano. Per quanto riguarda l'Occidente medievale, forse intorno al Mille affondano le radici le traduzioni bibliche in anglosassone e in altotedesco, preannuncio delle versioni nelle lingue moderne, in genere poi promosse soprattutto in ambito protestante e di conseguenza guardate con sospetto nel cattolicesimo almeno fino a tutto l'Ottocento. In questo senso appare emblematico il fatto che nella seconda metà del Novecento una delle più diffuse edizioni critiche del Nuovo Testamento greco, destinata principalmente a servire di base alle nuove traduzioni e alle loro revisioni e nata in ambito protestante, sia stata presto allargata in senso ecumenico e posta sotto gli auspici e le cure di studiosi appartenenti a diverse Chiese cristiane 1 3 • La pluralità anche culturale del fenomeno cristiano è innegabile se si guarda all'evoluzione storica delle diverse confessioni cristiane alla cui separazione hanno certamente contribuito le diversità linguistiche e culturali, accentuatesi soprattutto tra Oriente e Occidente a partire dalla fine dell'età tardoantica - anche se la progressiva crescita d'importanza della sede romana e la centralizzazione da essa imposta alle Chiese latine insieme alle tendenze specularmente opposte delle 13. Si tratta di The Greek New Testament delle United Bible Societies, pubblicato per la prima volta nel r 966 e giunto nel r 99 3 alla quarta edizione rivista.
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Chiese d'Oriente hanno facilitato anche nella storiografia l'identificazione tra cristianesimo e cultura occidentale (europea e nordamericana), un'equivalenza in realtà più _postulata che dimostrata e quanto meno semplificatoria di una questione molto complessa. Del resto il rapporto tra cristianesimo e cultura è un nodo fondamentale e problematico per una religione basata essenzialmente sulla fede nell'incarnazione di Gesù figlio di Dio in un contesto culturale ben preciso e caratterizzata da evidenti aspirazioni universali, per la quale è quindi ineludibile la questione dell'annuncio e del radicamento del messaggio cristiano tra gli uomini d'ogni tempo e cultura. I problemi linguistici e d'identità culturale sono dunque strettamente connessi con la storia del cristianesimo e appaiono di primaria importanza per il suo sviluppo in un periodo di profonde trasformazioni come l'attuale, caratterizzato sotto questo aspetto dalla crescita progressiva delle Chiese cristiane ormai radicate al di fuori dell'emisfero settentrionale di cultura occidentale e destinate ad assumere una rilevanza sempre maggiore. Al di là di una moltitudine d'esempi storici, un simbolo suggestivo della pluralità culturale del cristianesimo dei primi secoli è il bizantino Kosmas, che uno scrittore contemporaneo colloca fantasticamente, ma con tratti verosimili, nella Siria del quinto secolo: Quando la rosa del cristianesimo schiudeva i suoi petali ai calori d'Oriente e l'aria profumava dell'odore di santità di tanti cenobiti e anacoreti del deserto, nacque Kosmas nella città d'Antiochia in seno a una nobile famiglia greca. Kosmas era un bambino docile, dai capelli biondi e dal sorriso aperto. Sua madre lo crebbe nell'amore a Cristo e Kosmas nei pomeriggi, dopo aver giocato, se ne stava incantato ad ascoltare dalla sua vecchia balia la vita e le imprese degli Apostoli, quegli uomini impetuosi ed ebbri di Dio. Kosmas era molto portato allo studio e presto imparò a leggere in copto e in siriaco. Quando s'alzava un poco l'aria, Kosmas si sedeva sotto un fico e leggeva le dolci parole della Didaché. Un corvo arrivava volando e si posava sulle sue spalle. Era un corvo molto colto perché gracchiava infuriato non appena vedeva un'interpolazione nel testo e sbatteva le ali. Kosmas non sapeva che pensare '4.
Nell'immaginazione un po' disinvolta dell'autore il protagonista del suo breve racconto legge Efrem e Teodoreto, la storia di Eusebio e le vite dei monaci scritte da Girolamo e Atanasio, assiste al sacco di Roma, conosce Egeria e scrive un poema latino poi attribuito a Sidonio, fino a conoscere Simeone lo Stilita in un percorso ideale che gli 14. Perucho 1963, p. 43.
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fa attraversare trasversalmente tutta la patristica: poi il suo ricordo, come tanti altri, si perde «nell'oscurità dei secoli». Viva resta però l'immagine sorprendente del corvo, quasi un'allegoria della filologia patristica.
Lo specifico di una filologia In questo ampio quadro introduttivo già sono emersi alcuni tratti particolari della storia dei testi cristiani e della filologia che li studia. S'è detto, ricordando la visione dell'Ad Diognetum, che di per sé come i cristiani non differiscono per nessun segno esteriore dagli altri uomini altrettanto accade ai loro testi, che non vanno quindi letti e studiati diversamente dagli altri scritti coevi non cristiani. È tuttavia indubbio che i testi cristiani presentano particolarità che, sia pure non esclusive, li caratterizzano bene rispetto ad altri. Innanzi tutto la tradizione manoscritta, costituita da tutti i testimoni superstiti di uno scritto, è per i testi cristiani antichi mediamente molto più abbondante e vicina agli originali che per altre opere dell'antichità. Per restare alla letteratura greca si pensi all'Iliade, attestata nella sua integralità da codici lontani circa quindici secoli dalla sua composizione, e al Nuovo Testamento, che si legge per intero in manoscritti copiati più o meno già tre secoli dopo il suo completamento, mentre il numero dei rispettivi esemplari, integri e frammentari, assomma a oltre trecento per l'Iliade e a quasi seimila per gli scritti neotestamentari, una cifra non superata da alcun altro testo. Per quanto poi riguarda la vicinanza tra un originale e la sua più antica attestazione manoscritta non sono eccezionali i testi patristici che si possono leggere in codici quasi coevi, come per esempio alcune opere di Agostino. La maggiore antichità e abbondanza della tradizione manoscritta degli scritti cristiani rispetto a gran parte della letteratura classica, dovuta ovviamente anche al fatto che rispetto a questa i primi sono più tardi, aumenta poi la possibilità di riscontrare casi di edizioni antiche che si potrebbero definire aperte, cioè di opere che lo stesso autore, una volta pubblicate, avrebbe poi rivisto e modificato e quindi ulteriormente diffuso, con il risultato di creare non tanto edizioni successive vere e proprie quanto appunto un testo aperto, quasi in evoluzione, fonte naturalmente d'imbarazzo per il filologo che debba stabilirne l'edizione critica. Un'ulteriore particolarità riguarda la lingua dei testi cristiani composti in greco e in latino in epoca ormai avanzata se si tengono presenti i rispettivi canoni linguistici ritenuti ideali, e per questo conside-
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rati prodotti imbarbariti e di frequente normalizzati nelle edizioni critiche. Si tratta invece da una parte del risultato dell'evoluzione complessiva delle due lingue, riscontrabile anche in altri testi coevi e da rispettare nella sua configurazione pur lontana dai supposti ideali classici, e dall'altra di vere e proprie lingue caratteristiche dei cristiani, studiate nel Novecento soprattutto per quanto riguarda il latino. Sul loro sfondo vi è naturalmente la lingua della Bibbia greca, costituita dalle traduzioni delle Scritture ebraiche e dal Nuovo Testamento, modello per gli autori cristiani di lingua greca e banco di prova dei traduttori in latino della Bibbia. Importante è poi il fenomeno culturale, già accennato, delle traduzioni dei testi cristiani, biblici e non, nelle diverse lingue orientali, che di frequente aprono le rispettive storie letterarie, fino alla nascita di nuovi alfabeti, come il gotico e lo slavo antico, creati proprio per tradurre la Bibbia. La presenza testuale e la permanente vitalità della Bibbia costituiscono un'altra particolarità dei testi cristiani, che anzi senza di essa nemmeno esisterebbero: interpretando le Scritture ebraiche nascono infatti quelle cristiane, e interpretando le une e le altre si sviluppano le letterature cristiane. Proprio i riferimenti biblici e soprattutto le citazioni delle Scritture si presentano come un fenomeno rilevante nella trasmissione dei testi cristiani e pongono non pochi problemi per ricostituire la forma originale di queste citazioni: ascoltato, letto, copiato, tradotto, conosciuto a memoria più di ogni altro, il testo biblico è stato infatti inevitabilmente esposto a variazioni e le sue diverse forme (e tra queste soprattutto le traduzioni) si sono influenzate l'una con l'altra, come mostra bene il caso delle antiche traduzioni latine che per buona parte del medioevo s'intrecciano con quella di Girolamo destinata a sostituirle. E accanto alla presenza delle citazioni bibliche è rilevante nelle letterature cristiane quella delle citazioni da altri scritti, giudaici, pagani e cristiani (ortodossi o eretici), non di rado perduti in tradizione diretta (che si ha cioè quando un testo è copiato) e conosciuti appunto grazie a questa tradizione indiretta (quando invece un testo è citato), il più delle volte solo parziale e frammentaria, anche se non mancano casi di testi ricostruibili quasi interamente. Un fenomeno assimilabile alla tradizione indiretta ma particolare al punto da costituire un genere letterario nuovo, dai tratti colti ed eruditi, è quello delle antologie esegetiche, dette catene. Sorte tra il quinto e il sesto secolo in ambito greco (ma con una certa diffusione più tarda anche in ambito orientale e latino) per raccogliere e sintetizzare l'ormai imponente massa di testi patristici che commentavano le Scritture, queste antologie sono rimaste vitali anche oltre il periodo
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bizantino in una successione sterminata di scritti, non semplicemente copiati ma spesso rinnovati e adattati a nuove esigenze, spesso attingendo a fonti diverse dalle precedenti. Riprodotte a stampa fin dal Cinquecento, le catene sono state successivamente molto studiate, con un metodo che s'è sempre più affinato, sia per l'importanza dei testi trasmessi (non di rado altrimenti perduti) sia per i difficili problemi critici connessi. Altrettanto accade per un altro ambito, quello della letteratura agiografica, di taglio ben diverso perché rivolta a narrare l'epopea dei martiri e dei santi, testimoni di Cristo e quasi nuovi eroi, ma che si può avvicinare alla letteratura catenaria per la sua permanente vitalità e per la prodigiosa awentura critica di cui è stata oggetto fin dagli inizi dell'età moderna. Un'ultima particolarità dei testi cristiani e un'ulteriore sfida alla filologia patristica sono costituite dall'abbondanza della letteratura pseudepigrafa (che corre cioè sotto falso nome) e dei falsi. Secondo un uso che è largamente presente nella letteratura giudaica, biblica e non, molti testi vengono attribuiti a figure simbolicamente rappresentative, se non addirittura mitiche, per rinforzarne la credibilità e aumentarne l'importanza, mentre i falsi (anch'essi molto frequenti nella letteratura giudaico-ellenistica) si moltiplicano in ambito cristiano durante le grandi controversie teologiche a partire dal quarto secolo, mettendo alla prova già i lettori e i filologi antichi.
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Alle origini Bibbia e libri
Nascita di una Scrittura La Bibbia e la sua interpretazione rappresentano non solo da un punto di vista religioso ma anche da quello culturale l'apporto forse più rilevante del cristianesimo alla storia dell'umanità. Un'affermazione in apparenza così semplice nasconde in realtà una serie considerevole di questioni cruciali che proprio in quest'ottica introduttiva è indispensabile esplicitare, sia pure brevissimamente. Perché usare il termine "Bibbia" e non altre espressioni forse più vicine alla sua origine storica? Perché unire questo complesso di testi alla sua interpretazione? Perché tirare in ballo il punto di vista culturale? Perché infine parlare di apporto del cristianesimo e non dell'ebraismo? Si legge spesso che la Bibbia è il libro più diffuso nel mondo. Forse la notizia, accompagnata da minuziose statistiche e ripetuta con una certa enfasi apologetica, è vera, ma andrebbe completata e attenuata perché probabilmente lo stesso testo è anche il meno conosciuto e letto. Questa realtà contraddittoria dipende in buona misura dal prevalente uso confessionale della Bibbia e dalla sua conseguente immagine (solo in tempi recenti in via di evoluzione), che di fatto ne ha scoraggiato, soprattutto a partire dall'età moderna e in particolare in ambito cattolico, conoscenza e lettura. Lo stesso termine "Bibbia" nasconde nel suo singolare femminile italiano (e di molte altre lingue moderne) il plurale neutro latino Biblia, derivato a sua volta dal plurale neutro greco tà biblzà, che significa "i libri", cioè un complesso di testi, molto meno estesi di un libro inteso in senso moderno - a volte un libro biblico è costituito da qualche pagina o addirittura da poche frasi, come qualche testo profetico o alcune lettere neotestamentarie - e spesso diversissimi tra loro per origine e caratteristiche. Dovrebbe essere largamente noto che questo gruppo di testi ha avuto per la massima parte origine nel giudaismo e che il nucleo principale 31
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di questa "scrittura" ha poi ispirato una serie di altri testi redatti da alcuni giudei seguaci di Gesù, il predicatore di Nazaret considerato il messia (in greco, come s'è detto, "il Cristo"). Nel loro ambito - presto denominato cristiano e subito in una polemica, interna al giudaismo stesso, con la parte maggioritaria e prevalente - gli scritti giudaici, come si vedrà meglio più avanti, sono stati considerati espressione di una realtà "vecchia", anche se assunta e presupposta, nei confronti di quella "nuova" portata dal Cristo. Anzi, l'espressione usata per denominare entrambe le realtà ("testamento", cioè patto o alleanza, s'intende tra la divinità e l'umanità) passerà abbastanza rapidamente a indicare, con l'aggiunta dei due aggettivi, anche i due gruppi di libri ormai costitutivi della Scrittura cristiana 2 : vecchio (o antico) e nuovo testamento. A proposito di questa terminologia, non sarà inutile notare che, benché più vicino all'uso del cristianesimo dei primi secoli e quindi storicamente più adeguato, l'aggettivo "vecchio" è sempre più sostituito nell'uso attuale da "antico" per le comprensibili esigenze del dialogo tra cristiani ed ebrei - fondamentale soprattutto per i primi, alla ricerca di una relazione finalmente positiva ed equilibrata con le loro radici - quando addirittura non si preferisce l' espressione "primo testamento" che vorrebbe eliminare ogni sfumatura riduttiva nei confronti della Bibbia ebraica. Si tratta tuttavia di preoccupazioni estranee alla ricerca storica, che non deve essere piegata ad altre, pur condivisibili, esigenze (e tanto meno, si deve aggiungere per sgombrare il campo da equivoci, a un intento di perpetuare antiche polemiche tra ebraismo e cristianesimo). D'origine greca e cristiana 1, il termine Bibbia non è però una traduzione dall'ebraico, che per indicare più o meno lo stesso complesso di libri usa termini diversi: l'acronimo tanak, ricavato dalle iniziali di torah (la "legge", cioè il Pentateuco delle Bibbie greche e poi cristiane), nevim (i "profeti", con un'accezione più larga di quella ora abituale in ambito cristiano) e ketuvim (gli "scritti", detti anche "agio1
Il termine appare per la prima volta in questa accezione in un testo giudaicoellenistico del secondo secolo avanti l'era cristiana, la cosiddetta Lettera di Aristea a Filocrate (nei paragrafi 155 e 168). 2. Questa dinamica è accennata già in una delle lettere sicuramente autentiche di Paolo (2 Corinzi 3, 14), cioè poco dopo la metà del primo secolo, per affermarsi nel suo sviluppo definitivo pochi decenni dopo. 3. L'espressione "i libri" (tà biblìa) per denominare le Scritture sacre compare nella traduzione greca di 1 Maccabei (1, 56, dov'è usata per il Pentateuco, e 12, 9, in !,1erale), ma in questo senso nel giudaismo ellenistico è preferito il termine "scrittura (graphè o, al plurale, graphài), mentre l'uso cristiano di tà biblìa - denominazione attestata già alla fine del primo secolo in 2 Timoteo 4, 1 3 - si diffonde dal terzo secolo.
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ALLE ORIGINI lllBIIIA E LIBRI
grafi" in greco e comprendenti il resto dei libri, di carattere prevalentemente poetico), oppure il termine miqra ("lettura" o "insegnamento"). La scelta di usare l'espressione "Bibbia" nell'affermazione d'esordio significa quindi che s'intende qui appuntare l'attenzione su questo complesso di testi così come è stato fatto proprio, e di conseguenza anche interpretato, in ambito cristiano: ben diversa e certo molto più ridotta infatti sarebbe stata l'incidenza nella storia della cultura del tanak, se esso non fosse divenuto la Bibbia cristiana, come si avrà modo di mostrare più avanti. La chiara consapevolezza che si tratta di Scritture religiose (anzi considerate ispirate divinamente), necessaria per la loro comprensione, non significa però che qui interessi soprattutto l'aspetto ideologico (o teologico) della Bibbia, perché l'attenzione è innanzi tutto rivolta alla sua rilevanza ctÙturale, ineliminabile per la comprensione della storia, soprattutto occidentale, e dello stesso mondo contemporaneo. Questa consapevolezza e questa rivendicazione d'interesse per l'accostamento ctÙturale alla Bibbia e alla sua storia non esclude al tempo stesso l'altrettanto chiara coscienza della molteplicità e della legittimità dei più diversi modi d'avvicinarsi e di studiare la Bibbia: per esemplificare, da quello storico-critico (il metodo principe per la maturazione moderna delle scienze bibliche) alle diverse letture teologiche (incluse le più recenti, come quelle ispirate alla teologia della liberazione o a quelle femministe), dallo studio "canonico" - che intende cioè privilegiare come chiave di lettura la storia e il significato del "canone", o meglio dei diversi canoni, giudaici e cristiani, cioè degli elenchi di libri biblici considerati ispirati ai metodi che si potrebbero definire attenti ai diversi aspetti letterari dei testi e al loro significato dal punto di vista delle scienze umane (dalle discipline più tradizionali allo strutturalismo, fino per esempio all'antropologia). Comunque indispensabile appare, al di là delle credenze e delle scelte personali, l'avvicinamento alla Bibbia e alla sua storia nei limiti del possibile senza pregiudizi di tipo confessionale o ideologico. Chiarita così l'affermazione d'esordio, è ora necessario soffermarsi brevemente sull'origine e la storia di questa letteratura. Semplificando al massimo una somma di questioni dibattute da secoli e intricatissime, si può dire che la letteratura biblica ebraica viene composta, se si tiene conto dell'origine delle più antiche tradizioni orali, in un arco di tempo che occupa il millennio avanti l'era cristiana, quasi completamente in ebraico e in piccola parte in aramaico (la lingua semitica molto vicina all'ebraico che dal sesto secolo avanti l'era cristiana comincia a soppiantarlo nell'uso corrente) e in greco. 33
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Si discute moltissimo sull'età originaria di questo complesso di testi, e in particolare del loro nucleo fondante, la torah, cioè i cinque libri (ecco il significato del termine greco "pentateuco") attribuiti dalla tradizione ebraica e cristiana a Mosè, la figura fondamentale dell'ebraismo ma la cui epopea appare agli studiosi difficilmente collocabile in un preciso contesto storico. La stratificazione e la sovrapposizione delle tradizioni e dei testi progressivamente riconosciuti all'interno della torah sono tali che almeno dalla fine del Settecento la critica veterotestamentaria si cimenta con una vera e propria "questione del Pentateuco" che apre la letteratura ebraica così come la celeberrima "questione omerica" quella greca. Così se alcuni nuclei testuali trasmessi oralmente sembrano poter risalire a epoche piuttosto antiche (tra il decimo e il nono secolo), la fase in cui le diverse tradizioni 4 sono state combinate e pubblicate nell'attuale torah viene ormai datata dopo l'esilio babilonese del sesto secolo, l'epoca cosiddetta del Secondo Tempio (succeduto a quello di Salomone, risalente forse alla metà del decimo secolo e distrutto nel 587), edificato appunto in età postesilica, mentre alcuni studiosi abbassano ulteriormente questa datazione e l'avvicinano molto all'epoca ellenistica. Questi cenni sulla torah sono sufficienti a dare un'idea della problematica che si presenta a chi voglia accostare criticamente la letteratura biblica, perché analoghe questioni coinvolgono anche gli altri testi che la compongono. Il tanak è tradizionalmente tripartito, come s'è visto spiegando il termine, secondo una divisione che è attestata almeno dal secondo secolo avanti l'era cristiana e che si ritrova poi nei vangeli 5 : così alla torah fanno seguito i nevim e quindi i ketuvim. A questa tripartizione non corrisponde però una delimitazione chiara dei testi appartenenti alle tre categorie. Non si tratta comunque solo dell'appartenenza di un libro a uno piuttosto che a un altro gruppo per esempio, accanto o in alternativa al Pentateuco attuale alcuni studiosi hanno ipotizzato un Tetrateuco oppure un Esateuco - ma del1'esistenza di una letteratura biblica ben più ampia di quella poi compresa nel canone, o meglio nei successivi (o anche diversi) canoni ricostruiti dagli specialisti in ambito giudaico. Alcuni di questi libri infatti appaiono citati come fonti nell'attuale tanak (e di questo sono quindi più antichi) ma non sono stati conservati, mentre numerosi al4. Nella storia degli studi veterotestamentari, a opera soprattutto di Julius Wellhausen (1844-1918), sono state distinte quattro tradizioni principali (jahvista, elohista, sacerdotale, deuteronomista), benché non vi sia attualmente consenso né sulla loro esistenza né sull'eventuale loro origine e datazione. 5. La prima attestazione è nel prologo del traduttore greco del Siraade.
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ALLE ORf(;fNI llllllllA I•: I.IIIRI
tri (in genere piuttosto recenti, risalenti cioè a poco prima dell'inizio dell'era cristiana o addirittura anche a dopo) sono sopravvissuti. Per quanto infine riguarda il problema del canone - o piuttosto dei canoni che sembrano essersi succeduti tra l'epoca più antica e il primo secolo dell'era cristiana - le fonti permettono di formulare soltanto ipotesi e anzi la stessa opinione comune della fissazione di un canone giudaico alla fine del primo secolo dell'era cristiana a molti appare improbabile. Insomma, ha scritto efficacemente un eccellente biblista spagnolo riassumendo la fluidità di questa situazione testuale e letteraria, la Scrittura come appare oggi nella ricostruzione della Biblia Hebraica Stuttgartensia (cioè secondo la sua più accreditata edizione critica) «non è mai esistita» 6 • Scritta prevalentemente in ebraico, in età ellenistica la letteratura biblica giudaica viene ampliata dalla composizione di alcuni libri in greco e soprattutto in questa lingua viene progressivamente tradotta. Sono anzi esemplari manoscritti della traduzione greca i più antichi codici completi della Bibbia giudaica, che sono d'origine cristiana e risalgono al quarto secolo, mentre il più antico manoscritto sopravvissuto di tutto il testo originale ebraico - il Petropolitano B 19 A, conservato a San Pietroburgo - è stato trascritto nell'anno 1008, cioè quasi sette secoli dopo i grandi codici greci cristiani. Soltanto un manoscritto, scoperto nel 1947 a Qumran nei pressi del Mar Morto, il celeberrimo rotolo di Isaia, che contiene quasi tutto il testo profetico in ebraico ed è databile tra il terzo e il secondo secolo avanti l'era cristiana, ha permesso di risalire di circa tredici secoli verso l'originale e di colmare in gran parte un vuoto nella tradizione manoscritta che per questo libro assommava a quasi diciotto secoli. Il problema della trasmissione del testo ebraico, frutto d'un processo che portò durante il primo millennio cristiano alla progressiva stabilizzazione e vocalizzazione da parte di diverse scuole di masoreti 7 di quello che è perciò detto testo masoretico, è particolarmente complesso e controverso. Discussa ormai da secoli (e complicata negli ultimi decenni del Novecento dalle scoperte dei manoscritti del Mar Morto) è soprattutto la questione della sua fedeltà agli originali in relazione con le versioni greche e latine, molto più antiche del testo masoretico, e proprio in questa discussione, che è insieme filologica e ideologica, appare netta la divaricazione d'atteggiamento
6. Treholle Barrera 1993, p. 25. 7- Il termine deriva dall'ebraico
masorah ("tradizione").
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BIBLIOTIIECA DIVINA
tra le due tradizioni ebraica e cristiana, quest'ultima in genere decisamente più sensibile della prima alle esigenze della critica 8 •
La Scrittura ebraica letta dai cristiani Non si ripeterà mai abbastanza un'ovvietà spesso inosservata o trascurata, che cioè Gesù e i suoi seguaci immediati non erano e non sono mai diventati cristiani: erano giudei e tali di fatto rimasero quanti nei primi decenni seguenti si richiamarono alla predicazione del maestro nazareno da loro considerato il Cristo, cioè il messia, anche se già dal decennio successivo agli eventi che lo videro protagonista questi giudei cominciarono a essere distinti e chiamati appunto cristiani. Il loro testo sacro era quindi il tanak non ancora del tutto fissato da un canone e su questo Gesù imparò a leggere. La lingua parlata era l'aramaico, e certo familiari erano l'ebraico della Scrittura e il greco, frutto principale di un'ellenizzazione estesa e profonda che da almeno tre secoli aveva interessato tutta la Palestina e soprattutto la sua regione settentrionale, la Galilea patria di Gesù e dei suoi primi seguaci. Le stesse Scritture sacre erano state tradotte in greco a partire dal terzo secolo avanti l'era cristiana, per la maggior parte in Egitto dov'era stabilita una popolosa e importante comunità giudaica ma anche nella stessa Palestina, dove comunque circolavano. Tutti questi testi, non ancora definitivamente canonizzati, oltre a essere considerati ispirati da Dio avevano un'altra caratteristica, quella di costituire una sorta di universo dove le varie parti si ripetevano variando e si richiamavano l'una con l'altra commentandosi, in definitiva generando continuamente nuove Scritture, magari poi non comprese nel canone vincente: si pensi soltanto, oltre ai testi ripetuti (addirittura quello della creazione), al racconto fondante della liberazione dalla schiavitù d'Egitto nel secondo libro della torah (intitolato dai traduttori greci Esodo, cioè "uscita") e alle sue incessanti riletture negli altri libri, dai nevim ai ketuvim fino a quella greca della Sapienza, scritta intorno agli inizi dell'era cristiana ma attribuita tradizionalmente a Salomone. La predicazione di Gesù, così com'è possibile ricostruirla dai vangeli scritti qualche decennio dopo (più o meno nella seconda metà del primo secolo) e divenuti canonici nella seconda metà del secondo secolo, sarebbe incomprensibile senza il tanak perché a questo si rife8. Nel cristianesimo bisogna comunque in genere distinguere tra le tradizioni orientali, molto più conservatrici, e le altre d'origine protestante e poi cattolica.
ALLE ORIGINI BIHBIA E LlllRI
risce continuamente interpretandolo con i metodi dei maestri giudei del suo tempo. Lo stesso si può dire di quella di Paolo, che con il nome di Saulo era stato allievo di Gamaliele, uno di questi grandi maestri, e che da persecutore dei cristiani era divenuto il loro più attivo propagandista e anzi il loro primo autore: suoi sono infatti i più antichi testi cristiani, un gruppo di lettere cl' occasione scritte tra gli anni Cinquanta e Sessanta. E altrettanto vale per gli altri testi biblici cristiani, in misura minore (come gli Atti degli apostoli) o maggiore (come l'Apocalisse). Continuità totale quindi da parte di Gesù e dei suoi seguaci nei confronti del giudaismo del loro tempo? A questa come ad altre domande sul "Gesù della storia" non è facile rispondere perché quasi tutte le fonti utili per una risposta, pur storicamente attendibili, sono più interessate al "Cristo della fede", per riprendere le fortunate formule di Rudolf Bultmann (1884-1976), uno degli studiosi contemporanei che più ha indagato le origini cristiane anche attraverso l'analisi delle fonti. Tenendo presente questo ineludibile aspetto della questione, bisogna però aggiungere che lo scetticismo bultmanniano è stato in buona parte attenuato anche dai suoi stessi allievi e che oggi vi è maggiore ottimismo sulla possibilità di risalire dal Cristo com'è rappresentato nei primi testi cristiani al Gesù storico. Detto questo, appare chiaro che l'interpretazione della Scrittura ebraica da parte di Gesù e dei suoi è contrassegnata da un'evidente continuità con quella del giudaismo del loro tempo, e in particolare con quella dei farisei (uno dei gruppi religiosi giudaici che più curavano la spiegazione e il commento dei testi sacri), ma con una differenza fondamentale e caratterizzante: l'identificazione di Gesù come il messia atteso dai giudei. A illustrare questa identificazione basterà qui ricordare due celebri brani del vangelo di Luca, scritto probabilmente negli anni Settanta da un cristiano continuatore di Paolo. Nel quarto capitolo l'evangelista sceneggia l'inizio della predicazione di Gesù nella sinagoga 9 di Nazaret: ricevuto il rotolo contenente il libro di Isaia, Gesù lo svolge, vi legge il brano messianico della liberazione del popolo in una forma leggermente diversa e altrimenti sconosciuta (sia nel greco citato sia in ebraico) che potrebbe risalire a lui stesso («Lo spirito del Signore è su di me perché mi ha unto. Mi ha mandato ad annunciare la buona notizia ai poveri, ad annunciare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, ad annunciare un anno gradito al Signore») e lo applica, grazie a un procedimento ahi9. Il termine significa in greco "raccolta" e indica il luogo dove i giudei si riunivano soprattutto per leggere e commentare la Scrittura.
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tuale nel giudaismo coevo - il cosiddetto pesher, che consisteva in un'interpretazione attualizzante della Scrittura e si ritrova per esempio nei testi di Qumran - a se stesso: «Oggi s'è compiuta questa Scrittura che avete sentito con le vostre orecchie» Dopo la morte, secondo lo stesso evangelista, di nuovo Gesù, accompagnatosi sulla strada per Emmaus a due dei suoi che non lo riconoscono, sconvolti dalla catastrofe e dalle notizie sulla tomba vuota, «cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture quanto si riferiva a lui»; e dopo il riconoscimento i due commentano emozionati: «Non ci ardeva forse il cuore quando parlava con noi lungo la strada, quando ci apriva le Scritture?» Al di là dell'episodio evangelico, traspare dal racconto l'esperienza dei seguaci di Gesù, che ripensarono alla luce della sua morte e resurrezione - il cui problema storico non interessa qui se non in quanto essa viene ritenuta, come scrive Paolo, fondante della fede cristiana tutta la sua predicazione, certo basata sulla Scrittura, e rilessero quest'ultima come un annuncio del Cristo. In questo senso le lettere di Paolo, i vangeli (da euangèlion, che in greco significa "buona notizia") e gli altri scritti biblici cristiani sono una rilettura e al tempo stesso in qualche modo una continuazione delle Scritture ebraiche, conosciute con ogni probabilità in versione greca e illuminate dall'identificazione di Gesù come messia. Anzi la Scrittura, che è sempre il tanak, acquista il suo vero senso alla luce del Cristo e di fronte a lui la stessa legislazione mosaica, cuore del giudaismo, diventa espressione di un'alleanza «vecchia», come scrive Paolo I l. Così persino il racconto della passione e morte di Gesù, che occupa larghissimo spazio nei quattro vangeli poi divenuti canonici e che a ragione molti specialisti considerano il loro nucleo primitivo, è presentato dal punto di vista scritturistico e intessuto di citazioni ricavate dal tanak, più di una volta messe in bocca allo stesso protagonista. E questo avviene anche per il resto dei vangeli e delle altre Scritture cristiane, al punto che a metà del secondo secolo Marciane, un cristiano nettamente awerso al giudaismo (in questo senso un paolino radicale), volendo costituire una raccolta di scritti sacri purgati di ogni traccia giudaica rigettò per intero il vangelo di Matteo che appunto vuole mostrare il compimento della Scrittura in Gesù IO.
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ro. Si tratta di Luca 4, 16-30 (sono citati i versetti 18-19 e 21). Cfr. Trebolle Barrera 1993, pp. 533-4. 11. Il brano è Luca 24, 13-35 (sono citati i versetti 27 e 32). 12. «Se Cristo non è risorto, vano è il nostro annuncio e vana è la vostra fede» (r Corinzi 15, 14). 13. Il brano è in 2 Corinzi 3, 14.
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attraverso un susseguirsi di citazioni veterotestamentarie - e modificò in questo senso gli altri libri, causando per reazione un'accelerazione nel processo formativo del canone ortodosso. Basta del resto prendere in mano una qualsiasi edizione della Bibbia che indichi per ogni testo i riferimenti agli altri libri biblici per rendersi conto di quanto quelli cristiani siano profondamente intessuti delle precedenti Scritture giudaiche.
La Bibbia cristiana Per delineare ora l'origine della Bibbia cristiana, converrà richiamarne dapprima le coordinate cronologiche e linguistiche. Mentre, come s'è accennato, la Scrittura ebraica si forma e viene composta pressappoco nel corso di un millennio - in linea di massima quello precedente l'inizio dell'era cristiana, anche se per alcuni libri, in prevalenza poi esclusi da qualsiasi canone, sono state proposte credibilmente datazioni successive - quasi per intero in ebraico (e per alcuni parti in aramaico e in greco), per quella cristiana si può restringere il periodo di composizione a poco meno di un secolo (cioè tra la metà del primo e i primi decenni del secondo), se si tiene conto dei testi poi divenuti canonici, tutti redatti in greco (ma forse il vangelo di Matteo fu originalmente composto in aramaico). Se invece si vogliono comprendere anche le Scritture, dette apocrife 14 , che non furono mai incluse nel canone cristiano, il periodo va esteso di alcuni secoli, fino al medioevo, e al greco s'affiancano svariate altre lingue, dall'aramaico al paleoslavo, segno della vitalità dei generi letterari che possono a questo punto essere definiti biblici, e grazie evidentemente anche alle traduzioni delle Scritture (canoniche e non), che si moltiplicano generando fenomeni letterari e culturali rilevanti. Fissata questa cornice, non sarà inutile ricordare di nuovo che l'unica Scrittura, non solo di Gesù e dei suoi ma, per qualche decennio ancora, anche di quelli che dagli anni Quaranta cominciano a essere chiamati cristiani, è la raccolta di libri costituita più o meno dal tanak. Questo viene letto e ascoltato in ebraico ma è anche spiegato in aramaico (la lingua allora usata in Palestina) secondo il metodo del targum, una sorta di .traduzione parafrastica, ampliata cioè da integrazioni e spiegazioni che rendono i diversi targumim - stabilizzatisi con il tempo e trascritti in forme che sembrano risalire al secondo o terzo secolo ma riprendono tradizioni più antiche - testimonianze im14. Dal greco apòkryphos, "nascosto", ma qui, in senso traslato, falso.
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portanti dell'esegesi scritturistica giudaica. E ancora, sulla scena (anche palestinese) agisce da tempo un altro protagonista, destinato a un ruolo di primo attore, la traduzione greca del tanak, già menzionata e su cui si tornerà più avanti, e sullo sfondo un'ellenizzazione profonda. Entrambe influenzano in modo decisivo la nascita di quelli che diventeranno i primi scritti cristiani e che costituiranno la parte "nuova" della loro Scrittura: alla traduzione greca sembrano infatti risalire le citazioni cristiane del tanak e a generi letterari ellenistici si riallacciano quelli delle Scritture cristiane, eccetto l'Apocalisse. L'insegnamento del predicatore di Nazaret, che non lasciò scritti, fu trasmesso oralmente ma presto anche attraverso raccolte di lògia (parola greca che significa "detti") e brevi testi diversi: parabole, dibattiti con altri esperti della Scrittura, racconti di miracoli e altre "forme" di testo (forse in greco, forse in aramaico, forse in entrambe le lingue), riconosciute e indagate da Bultmann, tra i maggiori esponenti della /ormgeschichtliche Schule (letteralmente "scuola storicomorfologica") intenta alla ricostruzione appunto di questa ipotizzata "storia delle forme" ' 5 • La discussione su questa preistoria dei vangeli, che s'intreccia naturalmente con W1a "ricerca sulla vita di Gesù" (Lebens-Jesu-Forschung) ormai bisecolare e svolta soprattutto in ambito tedesco, ha prodotto intere biblioteche ma pochi risultati inoppugnabili. Questa discussione è percorsa non di rado da interferenze di natura ideologica e confessionale, come ha mostrato in anni recenti l'insensata e ormai anacronistica polemica sulla cosiddetta storicità dei vangeli, che nessuno in realtà mette più seriamente in discussione, ma che viene legata alla controversa datazione di alcuni frammenti papiracei e dalla quale si vorrebbe addirittura far dipendere, da parte di correnti oltranziste e culturalmente non troppo equipaggiate, l'attendibilità dei testi evangelici e in definitiva la stessa fede cristiana. Gli stessi vangeli del resto, come mostra la semplice scorsa del prologo di Luca e delle due conclusioni di Giovanni 6, dichiarano con molta nettezza la loro natura: sono testi (per lo meno i due appena citati) scritti non da testimoni oculari dei fatti narrati, ma da autori che appunto da questi testimoni li hanno appresi e che non hanno ammassato indiscriminatamente tutto quello che di Gesù si sapeva non basterebbero tutti i libri del mondo, dice con enfasi l'epilogo giovanneo - con un banale intento cronachistico, ma hanno scelto quanto ritenevano utile per testimoniare e rafforzare la fede in lui 1
15. Il metodo fu applicato per la prima volta da Hermann Gunkel (1862-1932) nel suo commento (1901) alla Genesi e più tardi ai Salmi. 16. I ~esti sono Luca 1, 1-4 e Giovanni 20, 30-31 e 21, 24-25.
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come Cristo. In questa operazione ognuno degli autori dei vangeli poi divenuti canonici mira a un intento ben preciso: così, per esempio, l'autore del testo di Matteo (articolato in cinque parti proprio come la torah, il Pentateuco greco) è preoccupato di mostrare con sistematicità l'adempimento delle profezie del tanak in ogni aspetto importante della vicenda di Gesù. Alla bultmanniana "storia delle forme" - che sezionando i vangeli per ricercarne le fonti rischiava paradossalmente di trascurare il testo finale - ha infatti reagito l'indirizzo della scuola rivolta a ricostruire la "storia della redazione" (redaktionsgeschichtliche Schule) dei singoli vangeli, con un'attenzione particolare rivolta appunto ai testi nella loro redazione definitiva e all'intenzionalità indubbia che sta dietro questa operazione. Tra la preistoria dei vangeli e la loro composizione si colloca cronologicamente il primo scrittore cristiano, Saulo, il giudeo di Tarso (una cittadina situata nell'attuale Turchia meridionale) che non conobbe Gesù ma che come Paolo divenne una delle figure decisive per lo sviluppo del cristianesimo. Straordinario propagandista, percorse in poco meno di un trentennio buona parte del bacino mediterraneo orientale predicando ai giudei e ai pagani un messaggio (da lui definito «vangelo» ' 7 ) profondamente innovatore rispetto al giudaismo, fondando decine di comunità e lasciando un gruppo di lettere d' occasione, indirizzate a comunità (o a persone) ben precise ma che venivano lette anche da altre ' 11 • Oltre a essere i più antichi scritti cristiani conosciuti (1 Tessalonicesi, la lettera più antica, è del 50 o 51), questi testi furono anche i primi a essere raccolti, forse già negli anni Ottanta, assumendo così una sorta di statuto scritturistico, come mostra un testo di qualche decennio più tardi 19 • Attualmente costituito